giovedì 30 gennaio 2020

Jojo rabbit - Taika Waititi (2019)

(Id.)

Visto al cinema.

Un regazzino della gioventù hitleriana ha come amico immaginario (sul modello di Calvin e Hobbes, una sorta di espressione esteriore dei suoi ragionamenti) Hitler stesso (in versione infantile e buffa). Attorno a lui si muove un mondo in cui l'apprezzare la svastica e riuscire a odiare sono status symbol da portare anche se non si è portati (e ovviamente lui e il suo amico sono troppo sensibili per essere naturalmente portati ad odiare) e dovrà cavarsela tra bulli in divisa, ritardati in divisa, il padre scomparso, la madre con molti coni d'ombra e la guerra che volge al termine.

Un film comico sulla seconda guerra mondiale ormai non dovrebbe più fare notizia, non è comune, ma non è più un'innovazione da almeno 20 anni o più. Il fatto che riesca a metterci comico e dramma insieme è un valore aggiunto, ma anche questo non particolarmente nuovo.
Le vere doti di questo (ottimo) film sono altre.
L'impostazione contraria all'usuale per la messa in scena con una fotografia luminosissima e personaggio solari; una galleria di tedeschi che (nonostante il difetto dell'essere della nazione sbagliata) sono i buoni della vicenda (addirittura si arriva ad avere un nazista umano!), anche s eper lo più sono ebrei o della resistenza. C'è l'atmosfera da fine del mondo stemperata con una positività o una sorta di distacco invidiabili.
Infine c'è l'utilizzo dei topos dei nazisti cinematografici e non (la guerra, il superuomo, la violenza, l'odio per gli ebrei) utilizzata per le gag più che per realizzare l'atmosfera, trasformando un genere usurato da decenni di ripetitività in qualcosa di nuovo.

Infine c'è un giovanissimo protagonista che è una delle scelte di casting migliori dell'anno, una faccia, una recitazione (molto bravo) e un fisico che sprigionano tenerezza estrema (vero sentimento del film) in mezzo a un mondo che si vorrebbe crudele.

PS: C'è Bowie e i Beatles in versione tedesca!

lunedì 27 gennaio 2020

Verónica - Paco Plaza (2017)

(Id.)

Visto su Netflix.

Da metà degli autori dell'ottimo "REC" viene il nuovo horror spagnolo che ha fatto dire a  Wikipedia che si trattava de "L'horror più spaventoso di sempre". Ecco non è così, a amala pena è spaventoso.

Tratto dall'inevitabile storia vera è una ragazza che viene perseguitata dal maligno perché ha usato la tavola ouija durante un eclissi.
Niente di nuovo, la trama non aggiunge nulla e, anzi, si appoggia solo a quanto già visto decine di volte in passato. Poco male, finora.
Lo script soffre anche del solito problema dei film con il maligno, la necessità di dare un background delle possibilità di salvezza, dei riti, dei simboli, delle storie. Tutto questo in amni poco competenti si tramuta in un accozzaglia di luoghi comuni e buchi di trama che fanno spavento. Ecco qui si che "Veronica" sembra davvero il film horror più spaventoso di sempre.
Si può aggiungere una scelta della fotografia degna di una telenovela sudamericana anni '90 e un gruppo di bambino incapaci a recitare a cui vengono affidati primi piani e azioni importanti.
Su tutto però il vero dramma è la totale incapacità di sfruttare anche solo mezza idea (rubata ad altri) per creare tensione. I tentavi sono continui, per lo più fatti malissimo (ila ouja che cade, la suora cieca), ma in un paio di sequenza sembra essere sulla strada giusta (la sagoma che si muove dietro ai vetri del soggiorno), ma riesce a far finire in nulla lo sforzo.

Un film incredibilmente mal fatto che sembra opera di un esordiente incapace mentre invece è fatto da metà degli autori di "REC"... il che spiega a chi dare i meriti di quel film...

giovedì 23 gennaio 2020

madre! - Darren Aronofsky (2017)

(mother!)

Visto in tv.

Una coppia (con una buona differenza d'età) abita nella ristrutturata casa di lui (ma è stata lei ha rimetterla a nuovo dopo un incendio). Lui è uno scrittore e viene visitato da un uomo che si insedia a casa loro rivelandosi un fan, dopo di lui arriverà la moglie  i due figli fino a un'invasione di amici e parenti che si concluderà con uno scontro e del sesso riparatore. Lei rimane incinta.
Lui scriverà una nuova opera che porterà nuova fortuna e una nuova home invasion da parte di centinaia di fan proprio verso il nono mese di gravidanza.

Film allegorico di Aronofsky, così ricco di rimandi, situazioni paradossali, un finale estremo e riferimenti biblici da renderne la comprensione al di là delle umane capacità. Col senno di poi, leggendone, il significato appare lampante, ma durante la visione si viene catturati da altro.

La prima parte è un thriller surreale perfetto, un home invasion atipico e particolarissimo che, con una degna conclusione, potrebbe resistere come film a parte. forte di un gusto per il perturbante che è la vera dote del regista (mettere i personaggi in situazioni insopportabili e far provare lo stesso fastidio allo spettatore) e un cast ottimo che si avvale della migliore Pfeiffer che abbia visto da anni.

La seconda parte invece è una folle cavalcata nel caso. Partendo sempre da una situazione paradossale, ma quasi realistica diventa una carrellata di atrocità vagamente collegate fra loro, fino al picco del post partum. Ecco qui il film si perde maggiormente, volendo mostrare moltissimo in poco tempo il film non riesce a stare dietro alle sue stesse intenzioni e depotenzia scena dal possibile effetto esplosivo (nulla paragonabile a quella finale che riesce quasi alla perfezione... quasi); se lo si prende solo come il tentativo di rendere per immagine il caso il risultato è vincente.
Chiaro però che non è quello l'intento di Aronofsky.

Le due parti del film poi dialogano solo nell'idea allegorica complessiva che, se sfugge, rende il film un collage mal realizzato.
Il film non può dirsi completamente riuscito, troppo pretenzioso e arrogante (in senso quasi positivo), ma se fallisce (e direi di si), fallisce in maniera meravigliosa e disturbante.

lunedì 20 gennaio 2020

Tusk - Kevin Smith (2014)

(Id.)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato.

Due tizi vagamente irritanti (un Justin Long che non vedevo da almeno un decennio e un Joel Osment che... beh non vedevo esattamente dal 1999) hanno un podcast dove commentano le cose stupide dell'interne t e poi vanno a trovare i protagonisti. Andando alla ricerca di un regazzino che si taglia la gamba con la katana Justin Long scopre che è morto (curiosamente non per le ferite riportate); incappa però in un vecchio che ha visto tutto, conosciuto tutti e fatto di tutto che ospita gratis se si è disposti ad ascoltare il suo costante chicchiericcio (un ottimo Parks che gioca a fare il solito Parks). E qui comincia la storia vera fatta di matti, ispettori di polizia buffi, chirurgia sperimentale e trichechi.

Che dire... la storia è una storia poco alla Kevin Smith (grazie a Dio), si ci sono giovani che chiacchierano da giovani in maniera sboccata e autoreferenziale, ma poco, per lo più all'inizio e poi vira verso il grottesco.
La storia però è incredibilmente alla Smith; se pensate che nasce dal podcast che Smith intrattiene realmente commentando le notizie che legge in giro... e se pensate che ha ricamato una storia sulla notizia di uno che ospita gratis se si è disposti a vestirsi da tricheco (era chiaramente una presa in giro) la trama assume connotati talmente autoreferenziali da essere fastidiosa anziché divertente con quel retrogusto di "storia inventata quando si è ubriachi che fa riderissimo però già il giorno dopo non fa più ridere nessuno".

Il risultato finale è un film che vorrebbe essere horror (genere che Smith non padroneggia, ma  titilla da "Red state" che non ho visto) cercando la tensione e il twist plot... almeno fino a metà film, poi saltano i pochi freni messi al grottesco (che pure c'era e tendeva più a portare fuori mood che ha caricarlo), mette in mezzo il tricheco vessato e l'ispettore macchiettistico (obiettivamente divertente e con un Johnny Depp libero di fare faccette che sembra finalmente in parte dopo molto tempo) e sbraga nella commedia demenziale.
Un film che intrattiene senza colpo ferire, ma segue due strade divergenti alternandole non riuscendo a ottenere nulla e rimanendo nell'insignificanza (o al massimo al piccolo cult da vedere con gli amici facendosi uno shot per ogni fuck che viene detto).
Postilla finale Smith, nei titoli di coda Smith commenta le scene più emotive prendendole per il culo... perché Smith?

giovedì 16 gennaio 2020

Non aprite quel cancello - Tibor Takács (1987)

(The gate)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato.

Vaghi ricordi dell'infanzia mi riportavano un film terrorizzante, fatto di una porta per l'inferno in giardino, un cane morto e un regazzino che si tagliava, tutte cose che accidentalmente portavano alla fuoriuscita di demoni. Nient'altro.
Un quarto di secolo dopo recupero questo "The gate" dalla triste rititotlazione italiana e, ancora una volta, si conferma che il ricordo migliora le cose.
Per un adulto di oggi è un filmetto senza pretese con protagonisti dei regazzini che aprono per sbaglio il cancello da non aprire e trovano tutte le indicazioni su come aprire o chiudere il tutto in un album metal (!) norvegese... Ecco un minuto per considerare i salti mortali che dovevano fare gli sceneggiatori in epoca pre-internet e un applauso per l'idea più fuori di testa, ma originale, che abbia mai trovato.

Il film però, si inserisce nel filone horror per giovanissimi di cui gli anni '80 ci hanno fatto dono (e che oggi ci sogniamo). Dal punto di vista di un minore (fatta salva la pochezza della costruzione tecnica del film e gli effetti speciali in stop motion che invece adoro) la trama potrebbe ancora rendere bene, spingendo su diversi punti (la cattura della sorella e dell'amico, la morte del cane, il ritorno della madre morta, ecc...) che nel 2019 nessuna casa di produzione si sognerebbe di accettare (far morire un cane in un film per giovanissimi?!) e che invece rappresentano l'arredamento horror che riesce ancora a reggere il colpo (molto più dei piccoli demonietti o dello zombie nel muro).

lunedì 13 gennaio 2020

Il terrore del silenzio - Mike Flanagan (2016)

(Hush)

Visto in tv.

Gli home invasion vivono di problemi degli assaliti (non hanno armi, minor numero, il trauma) e del capovolgimento nel corso della trama (gli assaliti si organizzano). Il gioco di Flanagan è tanto semplice quanto potenzialmente idiota: assalita e assalitore sono uno a uno, lui ha una balestra e qualche coltello... lei è sorda (e all'assalitore attizza l'idea di giocare con la vittima).

Potenzialmente un'idea che può ottima come una vaccata. Flanagan inventa pochissimo, preferendo prendere a piene mani dai capisaldi del genere (di fatto prende i topos di Bertino), ma li gestisce bene.
Utilizza la caratteristica della protagonista in maniera sensata e drammatica (amplificando o aannulando i suoni per aumentare la tensione), crea un personaggio articolato che non si limita alla fuga, ma ha un background e delle peculiarità, riesce a tenere la tensione e l'attenzione per tutto il tempo con solo un paio di momenti pretestuosi (come spesso succede in questo genere).
L'effetto finale è decisamente buono, senza picchi fulminanti, ma il prodotto è solido e ben costruito; c'è un (pallido) tentativo di sdoganarsi da Bertino con fughe, possibilità di intervento esterno, un finale alla "You're next" (ok, sto esagerando, diciamo che c'è dell'enpowerment, ma non a quei livelli) e addirittura l'antagonista che si toglie la maschera (ammazzando metà dell'effetto thrilling).

giovedì 9 gennaio 2020

Whiplash - Damien Chazelle (2014)

(Id.)

Visto in tv.

Un giovane neoiscritto alla scuola di musica più importante degli USA viene notato dal direttore di un'orchestra jazz. Entrando a far parte del suo entourage entrerà in un mondo di violenza psicologica, autolesionismo e paranoia che lo porterà... alla perfezione.

Un film sull'arte che, finalmente, presenta il successo in ambito musicale, come figlio dell'impegno e non delle doti innate. Per la prima volta l'atto artistico è fatto da sudore e sangue (letteralmente) che portano al genio e, incidentalmente alla follia.
Più che dalle parti de "Il cigno nero" (altro film sull'arte come sforzo fisico e mentale, ma incentrato per lo più sulla psicopatologia) qui siamo più nei pressi di "Rocky" con l'obiettivo a tratti (apparentemente) impossibile che sta davanti a un uomo che, senza l'impegno costante, si troverebbe a sguazzare nella mediocrità e che deve essere disposto a giocarsi tutto (e perdere tutto) per vincere.

La fotografia elegantissima affianca il tema jazzistico oscuro più che lo swing che viene presentato e la regia (un poco impostata nella prima parte) riesce a dare il ritmo necessario e, nel lungo showdown finale piuttosto statico (il protagonista è un batterista), da un dinamismo che rende digeribile tutto ed esalta la musica e lo sforzo fisico.

Il film però è anche uno scontro di personalità e su tutto e tutti si erge un Simmons titanico che fa il bello e il cattivo tempo, che riempie ogni inquadratura a cui prende parte ed è una gioia per gli occhi. Finalmente, per lui, un film da (quasi) protagonista.

lunedì 6 gennaio 2020

Mug. Un'altra vita - Malgorzata Szumowska (2018)

(Twarz)

Visto al cinema.

In un paesino polacco che vuole battere Rio de Janeiro costruendo la statua di Gesù più grande al mondo, un operaio vive la sua vita lievemente fuori dal tracciato (va in chiesa, ma ha uno sguardo scettico). Lavorando alla statua subisce un incidente e rimane sfigurato. Lo stato lo abbandona (subisce un intervento innovativo di cui l'ospedale si bulla, ma non gli forniscono i farmaci), la comunità lo accoglie, ma a lungo andare il suo atteggiamento scostante, il suo volto difficile da guardare e la piccolezza insita in una comunità bigotta lo portano ad essere scaricato da tutti.

Una commedia nera che non inventa nulla e che risulta decisamente a tesi, ma con un'idea semplice, tenuta bene a fuoco e gestita senza acrimonia. L'ipocrisia della piccola comunità religiosa (anche Gesù, nel finale si volterà dall'altra parte) che si mostra accomodante solo con chi lo è a sua volta e che pretende di dimenticarsi di chi non rientra nei propri canoni è semplice, scontata (Tim Burton ci campa da 30 anni), ma diretta con la cura dovuta.
Forse il maggior pregio del film sta nell'avere un pesante comparto simbolico, ma riuscire a tenerlo in piedi senza esserne zavorrato, senza farlo scontare tutto allo spettatore.
Il difetto invece sta in una delle doti, il distacco, la mancanza di rabbia nei confronti di un tema evidentemente fastidioso. Questo distacco però diventa estremo e condiziona il film in toto che rimane lontano anche dallo spettatore.

giovedì 2 gennaio 2020

Death Note. Il quaderno della morte - Adam Wingard (2017)

(Death note)

Visto in tv.

Adattare un manga giapponese che prende spunto dalla mitologia locale declinata per la passione (sempre locale) dello scontro fra menti (anziché l'horror all'occidentale come avrebbe potuto essere) con personaggio dagli atteggiamenti o movenze fumettistiche è difficile. Pretendere di mettere tutte queste caratteristiche e condensare 12 fumetti in una storia e portare tutto negli USA è impresa titanica.
Alla regia viene scelto Adam Wingard, autore competente ed intelligenti che si è distinto nel genere horror puro... la scelta potrebbe non essere la migliore.

Il film si rivela irritante fin dalle prime immagini. Una galleria di personaggi che nel manga erano cartooneschi, ma ben caratterizzati, qui sono archetipi standard piuttosto stupidi e caratterizzati da dettagli patetici e senza fantasia che non torneranno più nel resto della storia (Light è un genio perché fa i compiti di matematica per gli altri?!!!).
Uno script che trasuda volontà di pubblico adolescenziale e semplificazione ad ogni passo. Ma la cosa più grave è la sostanziale eliminazione di ogni peculiarità dell'opera originale.
Mantenendo le caratteristiche estetiche base (il death note stesso, un Ryuk bello ma sempre in una fastidiosa penombra) la vicenda viene però svolta in maniera grossolana, eliminando lo scontro fra menti a una sorta di fiacco thriller canonico, dove le trappole intellettuali del manga vengono derubricate a colpi di culo o risoluzioni magiche (il "piano" finale viene risolto scrivendo sul diario anche quello che devono fare le pagine del diario stesso!) che tolgono completamente il senso e depotenziano la carica innovativa.

L'estetica fluorescente e giovanile non solo non può rimpiere il vuoto dato dal maltrattamento della storia o dalla banalità della trama, ma è anche una delle soluzione più banali del regista.
Aggiungiamoci che Light è interpretato da un attore assolutamente fastidioso e che la Mia è utilizzata in maniere diversa, ma che aumenta la banalizzazione e che l'unico personaggio quasi identico è L, l'unico che avrebbe meritato di essere smussato (perché le pose folli da manga si addicono a quel contesto , non a un film americano).