venerdì 13 dicembre 2013

Onibaba, Le assassine - Kaneto Shindo (1964) Jitsuko Yoshimura

(Onibaba)

Visto in DVD, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Giappone medievale. Durante una guerra che decima gli uomini, in mezzo alla campagna vivono una suocera e la nuora. In una terra dove manca il cibo, i mezzi e le persone, vivono uccidendo e derubando i passanti. Un giorno torna l’amico del figlio dell’anziana (quindi marito della giovane) che le avverte della morte del loro parente; la figlia inizia una relazione sessuale con l’uomo. La suocera non riesce a sopportarlo e, derubato un nobile della sua maschera da demone, si finge un diavolo per spaventare la giovane; ma la maschera rimarrà attaccata al volto.
Mi era stato venduto anche come un film horror; in realtà è un dramma, al massimo un dramma allegorico. In ogni caso è un gran dramma. Tratto da una fiaba giapponese se ci si fermasse alla sinossi nessuno avrebbe voglia di guardarlo; ma la messa in scena vince su tutto.
Un bianco e nero che alla (poca) luce del sole risulta chiaro e pulito proprio come nel precedente “L’isola nuda” (per fortuna con quel film ha in comune solo questo e una certa attitudine ai silenzi). La regia costruisce un dramma da camera essendo tutto girato in interni… beh spieghiamola meglio, almeno metà film è girato all’interno delle capanne (o nel buco nel terreno), ma anche gli esterni sono di fatto chiusi da palpabili muri di tenebre o dagli onnipresenti giunchi, tanto da rendere claustrofobica ogni inquadratura e costruendo ogni scena su più piani per poter mostrare anche lo sfondo pieno di canne e le foglie in primissimo piano. Poi c’è tutto un lavoro sui volti; il cast azzeccatissimo viene esaltato da un serie di primissimi piani e dettagli degli occhi che definirei alla Leone se questo film e la prima opera del regista italiano non fossero contemporanei; inoltre sui visi è costante la presenza di ombre espressioniste che rendono ogni smorfia un ghigno terribile. C’è altro? Beh direi una certa mobilità di camera e un uso della profondità che permettono diversi giochi di prospettiva e un finale estetizzante che inanella una serie di sequenze impressionanti.
Non fa paura, non è questo lo scopo, mostra invece un’umanità animalizzata che si muove per istinti primari utilizzandosi a vicenda per il proprio benessere.

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