domenica 4 aprile 2021

Father and son - Hirokazu Kore'eda (2013)

 (Soshite chichi ni naru)

Visto su Mubi, in lingua originale sottotitolato.

Una coppia upper class giapponese riceve la notizia che il loro figlio di 4-5 anni è stato scambiato alla nascita. Incontreranno la coppia con l'altro figlio e dovranno decidere se tenere la situazione attuale o scambiarsi di nuovo il figlio. 

A fronte di un problema emotivamente devastante, ma pragmaticamente piuttosto semplice da risolvere (credo), con personaggi che fanno scelte o compiono gesti solo parzialmente comprensibili (differenza culturale?), Koreeda imbastisce un film di sentimenti esplosivi che vengono trattenuti.

Perché l'idea di fondo del film è tutto sul cercare parte di sé negli altri; e viene tutto giocato sullo sguardo (metaforico, ma anche quelli letterali) del padre protagonista verso suo figlio putativo e quello naturale nella continua ricerca di parte di sé stesso; il suo sguardo sull'altra famiglia per cercare la propria superiorità all'inizio e i punti di incontro nel finale.

Niente di nuovo, niente di realmente dirompente, ma l'intera trama è gestita con stile ed empatia. Una visione dei protagonisti che li affianca e sembra volerli supportare; una vicinanza che commuove in sé indipendetemente dalla trama già toccante. Qualche minuto in meno e sarebbe stato potentissimo.

mercoledì 31 marzo 2021

Ride - Jacopo Rondinelli (2018)

 (Id.)

Visto su Netflix.


Due amici, youtuber "estremi" cominciano ad avere vite distinte, uno ha messo su famiglia, l'altro ha problemi di gioco. Uno dei due iscrive entrambi a un gara misteriosa dove, presto si scopre, si può morire davvero.

Diciamoci la verità; qualunque giudizio su questo film sarà influenzato dal fatto che sia italiano.

Un piccolo film a basso budget con un'idea (iniziale) molto facile e uno svolgimento ancora più semplice che però riesce ad essere efficace.

Inizia a metà strada tra il colpo di fucile e il fastidio. Sfrutta a piene mani l'estetica dei videogiochi (le tappe con le ricompense, l'intera schermata del "gioco", gli spiegoni iniziali e nel mezzo.... vabbè tutto, dalla struttura al comparto visivo) per portare avanti una trama minimale che guadagna tutto dal ritmo (anche se vorrebbe funzionare con le evoluzioni sulla bicletta... che però presto divengono ripetitive e perdono mordente) e sfrutta l'altro idea della soggettiva costante. Anche la soggettiva viene dal videogioco e viene integrata con videocamere esterne e droni; un'idea un pò patetica che risulta fastidiosa nel POV continuo, ma che a lungo andare viene messa da parte in favore di un montaggio più articolato e normalizzante.

Non starò qui a fare la morale alla trama di un film action, ma il vero tallone d'Achille è tutto lì; una serie di plot twist non completamente efficaci con un finale (che non ho capito del tutto) che prende a piene mani dall'horror inglese e americano egli ultimi anni, ma con meno cognizione di causa. Lo sviluppo tesso dei personaggi e della storia è irrisorio e con uno forzo minimale poteva essere la svolta per avere un pò già di carne al fuoco, perché quel poco che c'è è cotto molto bene.

domenica 28 marzo 2021

La ragazza senza nome - Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne (2016)

 (La fille inconnue)

Visto su Mubi, in lingua originale sottotitolato.

Una dottoressa di base, dopo una giornata di lavoro decide di non aprire a uno squillo del citofono fuori orario. Il giorno dopo scoprirà che nei pressi dell'ambulatorio è stata uccisa una donna e che era lei ad averla chiamata per cercare di salvarsi. La dottoressa cercherà di scoprire cos'è successo e il nome della vittima sconosciuta come mezzo per zittire il senso di colpa.

I Dardenne hanno fatto un marchio di fabbrica del loro distacco verso i protagonisti e il girovagare con pervicace verso uno scopo difficile da ottenere è quasi sempre la trama principale. Questo film non si esime, ma aggiunge una nota di fatalismo e di colpa che sono una piccola novità... comunque poco sfruttata, buttata all'inizio e alla fine, ma senza un valore nello svolgimento della trama. Ma almeno il finale ne guadagna.

A questo si lega una freddezza generale (come detto nota stilistica) anche nella recitazione (anche qui, molte volte richiesta, ma qui troppo calcata) Che rende il tutto di un'anempatia incredibile.

Rimane la fluidità e la capacità di coinvolgere di un racconto ripetitivo e senza spunti d'interesse particolare, la capacità dei registi di aggrapparsi a un personaggio e di fartene partecipare che tu lo voglia o meno. Lontano dall'essere il migliore, riesce comunque ad essere un buon film.

mercoledì 24 marzo 2021

Don Jon - Joseph Gordon-Levitt (2013)

 (Id.)

Visto su Raiplay.


Un dipendente dal porno parla della sua vita, la famiglia, gli amici, i rapporti occasionali (frequenti) e il continuo rivolgersi alla pornografia in maniera ossessiva. Ne parla con pragmatismo, convinzione divertimento, nessun discorso morale. Quando consocerà la sua fidanzata, nonostante si tratti di Scarlett Johansson, le abitudini non cambieranno.

Opera prima di Gordon-Levitt alla regia è un film sorprendentemente buono venendo da un attore. Sarò razzista, ma gli attori prestati alla regia hanno al tendenza a fare un film in funzione di sé stessi, assecondando la recitazione e non tendendo la macchina da presa indipendente a narrare la storia mentre gli attori recitano. Qui Gordon-Levitt invece sorprende; decide il ritmo del racconto con la regia, mostra un sunto della vita del suo personaggio (e di riflesso la sua storia e la sua psicologia) giocando tutto sul montaggio frenetico e inquadrature che si rimandano a vicenda. 

Gestita da dio la vicenda riesce a coinvolgere e divertire per tutta la sua durata; senza pretese arriva al finale consolatorio (fino a un certo punto, e puritano solo in minima parte) con il giusto piglio e lo rende meno indigesto di quanto avrebbe rischiato d'essere.

Gli attori fanno il loro, curiosamente Gordon-Levitt ha forse la parte meno interessante dal punto di vista della recitazione; la Moore si tiene un paio di scene madri (secondarie... se esistono) per sé portando a casa il solito buon risultato; la Johansson si mangia la scena con la sua versione di working class bitch.

domenica 21 marzo 2021

The forty-years-old version - Radha Blank (2020)

 (Id.)

Visto su Netflix.


Una ex scrittrice prodigio (una delle migliori sotto i 30 anni) si trova alla vigilia dei 40 anni a insegnare in una scuola sgarruppata, in perenne procinto di scrivere l'opera teatrale politica definitiva, ma sempre alla ricerca di un produttore e pronta ad adattarsi ad ogni richiesta fatto poi salvo pentirsene. Troverà una via di fuga (e un sostegno) nel rap.

Detto così sembra un film cretino, in realtà è, nella prima metà, un film comico magnifico che a fronte di un divertimento continuo e un ritmo perfetto porta avanti un'istanza politica efficace. L'istanza politica non ha molto di nuovo, ma i tentativi di un ex enfant prodige che lotta per rimanere a galla e per tenere in equilibrio le leggi di mercato con l'integrità morale rovinando continuamente ogni passo avanti.

Fotografato in un bianco e nero da applausi e tenuto in piedi con il giusto tono (con un mestiere che è sorprendete in un esordiente) è godibilissimo e interessante per tutta la prima parte... nella seconda parte si spegne.

Nella seconda parte il comico lascia il posto alla commedia scaldacuore, alla vittoria morale della vittima del sistema che riesce, nello stesso tempo, a mantenere in piedi tutti i rapporti umani che sarebbero stati a rischio con quella scelta. Insomma, parte come una commedia donchisciottesca con un personaggio obiettivamente perdente, finisce (all'americana) con il successo dell'arte con la A maiuscola contro un mondo conquista... terribile. Se si considera che tutto il divertimento è lasciato all'inizio la delusione è totale.

PS: le parti rap costringono a vederlo (almeno quelle parti) in lingua originale, la versione italiana è imbarazzante e farebbe spegnere dopo la prima mezzora. 

mercoledì 17 marzo 2021

Scene da un matrimonio - Ingmar Bergman (1974)

 (Scener ur ett äktenskap)

Visto su Mubi, in lingua originale sottotitolato.

Un decennio nella vita di una coppia, l'amore fra i due, l'apparente benessere, lo sviluppo dle rapporto, il distacco, il disprezzo, la violenza, il divorzio, il riavvicinamento.

Un film fiume che da solo rappresenta alcuni dei tratti fondamentali di Bergman:

Come sempre Bergman mette in scena un'esposizione di anime (perse); e come spesso il tardo Bergman mette in scena uno scontro, un gioco al massacro fra anime.

Continua anche ola ricerca della demistificaizone delle peculiarità borghesi e ci gode a mettere in scena la rete di sentimenti che aggroviglia e complica la vita di una coppia normale, addirittura felice (!), ama ravanare nella palude di frasi trattenute e sentimenti inconfessati e lavora di fino sui dialoghi lunghissimi.

La struttura del film è tutta concentrata sui suoi due co-protagonisti. Salvo l'incipit (con una coppia dia mici) tutto il minutaggio e organizzato come una serie di showdown fra i due coniugi in ambienti chiusi e familiari, da soli, senza l'intromissione di nessuno.

L'effetto finale raggiungi grandi momenti quando segue il climax classico, all'aumento dell'emotività dei personaggi aumenta il godimento dello spettatore, ma nell'insieme il film soffre del difetto principale di Bergman: la verbosità. Da sempre il regista svedese si concentra sui dialoghi per dire tutto, ma la regia glaciale è sempre stata all'altezza del compito di snellire il flusso di coscienza, di non impaludare il ritmo in conversazioni da camera; qui, complice la scarnificazione della messa in scena o il minutaggio, l'effetto snellente è diminuito, quasi assente. A fronte di un incipit ottimo e un finale "a sorpresa" nel mezzo c'è di tutto di buono, ma molto di noioso.

domenica 14 marzo 2021

La truffa dei Logan - Steven Soderbergh (2017)

 (Logan lucky)

Visto su Raiplay.


Soderbergh ha la fissa dei film indipendenti, ogni tanto si sveglia la mattina e prova ribrezzo per sé stesso per aver accettato di fare, di nuovo, il seguito di "Ocean's elven" e decide che deve essere più indie, più libero, più autoriale.

All'ennesima prova produttiva indipendente che fa Soderbergh? Rifà "Ocean's eleven", ma con i redneck... vabbè a quel punto chiedi i soldi alla Warner no? (ok, a onor del vero la Warner fu solo distributore della saga di Ocean).

Comunque sia, Soderbergh sa di essere sempre sul pezzo negli hesit movie ironici, vagamente adrenalinici e inutilmente complicati; è il suo mondo, ci sguazza, porta sempre a casa il risultato e si allontana sempre di più dall'idea di autor classico per cui poi va espiare con un biopic sul "Che".

Al di là degli aspetti morali e i miei pregiudizi sul regista il film è più camp del suo predecessore; ha un gusto per l'intrico che è una posa chiramente voluta più che il tenjtativo di trovare una soluzione originale a un problema complesso e ha pure un finale scalda cuore che ci saremmo risparmiati. 

Si, insomma, è un film molto più banale, manierista e scontato rispetto a "Ocean's eleven", ma il ritmo regge, il divertimento rimane (e i pregiudizi sul suo regista pure).

mercoledì 10 marzo 2021

Il castello di Vogelod - F. W. Murnau (1921)

 (Schloß Vogelöd)

Visto su Mubi.


Durante una fine settimana di caccia della buona società locale viene invitata anche la vedevo d(appena risposata) di un (ormai ex) notabile; purtroppo si autoinvita pure l'ex cognato della donna, accusato dell'omicidio del fratello, ma scagionato per mancanza di prove. Inevitabile ,lo show down dovuto alla presenza del secondo fratello del morto, un monaco appena tornato da Roma.

Questo film di Murnau è decisamente un minore, la trama è meno granitica dei rispetto ai suoi capolavori, il mood meno penetrante e la decisione di mettere il comic relief in uno dei personaggi secondari della vicenda stempera la tensione accumulabile.

Sia chiaro il film è ottimo, la regia chiara nella tecnica e negli intenti, la struttura narrativa con tutto l'armamentario del perturbante (una sorta di doppio, l'incubo con la mano che ghermisce), ma soprattutto tutta la storia che si rivela sempre più torbida e cinica a mano a mano che vengono svelati i dettagli è sicuramente efficace. Con il distacco del tempo, l'idea del camuffamento risulta stucchevole e affossa un poco la durezza del finale.

Vero neo della vicenda (a parte il comic relief che avrei evitato), un ritmo rallentato che immerge di più nel mood, ma stanca molto. Ottime invece le luci e la fotografia pulita.

domenica 7 marzo 2021

Irréversible - gaspar Noé (2002)

 (Id.)

Visto su Amzon Prime.

L'intera trama è uno SPOILER. Una coppia innamorata e felice si separa durante una festa, ledi vuole tornare a casa prima; nel rientrare verrà aggredita e violentata, il compagno (assieme all'ex di lei) si metterà all'inseguimento del colpevole. Fine SPOILER.

Arrivo a vedere questo film di Noé (che lo fece esplodere a Cannes) recuperando la sua filmografia a ritroso; quindi al di là dell'ovvio e cretino parallelo con il film stesso, posso dire di trovare in questo film il solito Noé, ma mettendolo in prospettiva posso dire che già nel 2002 c'era in nuce tutto quello che sarebbe venuto dopo, almeno finora.

Noé è un ottimo regista, ama gestire ogni scena con una mano pesantissima e ogni film con un'idea chiara di quello che l'occhio dello spettatore dovrà vedere e di come vederlo. Per farlo fa un utilizzo estremo dei piani sequenza, macchina da presa a mano e sfrutta un andamento cronologico dei fatti ritagliato sulla trama (pedissequo in "Enter the void" e "Climax", completamente casuale in "Love").

Qui c'è tutto questo. Il film è suddiviso in sequenze realizzate in piano sequenza con macchina amano che segue i protagonisti. Le sequenze sono inanellate con un andamento a ritroso; si comincia con la caotica fine della vicenda, si procede a ritrovo fino alla scena centrale (la nota scena dello stupro della Bellucci, unica scena con molti minuti di immobilità della mdp) e retrocede per mostrare com'era la vita della coppia prima di quell'evento devastante.

La realizzazione è buona, molto, ma, come spesso in Noé, più compiaciuta di sé stessa che utile alla trama. Le sequenze sono male organizzate in termini di minutaggio, utili solo a dare sfogo a saggi di bravura che a veicolare messaggi. La struttura a ritroso della storia ha i suoi vantaggi (la lenta scoperta di quanto avvenuto) che però finiscono la scena centrale, nella seconda metà prendo il sopravvento gli svantaggi, che sono l'anticlimax per eccellenza (nel finale ci sono idee che avrebbero reso ancora più pesante la già atroce scena centrale, ma che non vengono sfruttati a dovere venendo dopo i fatti salienti). Infine i dialoghi, l'eterno problema di Noé che non si rassegna ad essere solo regista e vuole metter emano anche alla sceneggiatura, qui per fortuna sono solo inutili o troppo lunghi, non imbarazzanti come in "Climax".

In poche parole, un concentrato di tutto quello che si ama e che si odia del regista, supportato da una Bellucci sul pezzo e da un Cassel credibilissimo.

mercoledì 3 marzo 2021

Scalciando e strillando - Noah Baumbach (1995)

 (Kicking and screaming)

Visto su Netflix.


Un gruppo di amici si trova a riconsiderare le loro vite i loro rapporti e la loro idea di sé stessi arrivati al traguardo della laurea.

Un classico coming of age per neo adulti che non sanno che fare delle loro vite, al giro di boa fra adolescenza e doveri passano il tempo a frustrare le proprie aspettative e parlottare.

Essendo un'opera prima la sceneggiatura è pure troppo ben fatta, ma in maniera obiettiva è ben realizzata, ma fastidiosamente declamatoria; nessuno chiacchiera davvero tutti inveiscono contro il destino avverso che li fa uscire dalla comfort zone... 

Delicato, tranquillo, costruito bene... piuttosto insipido, inutile.

In Italia saremmo arrivati a qualcosa del genere qualche anno dopo con Muccino e un'altra età (ma si sa che da noi si diventa adulti dopo rispetto agli USA), ma negli Stati Uniti questo è un sottogeneri estremamente utilizzato (e rappresentante) del cinema indipendente anni '90; per fortuna abbandonato quasi del tutto. Anche quando realizzato bene, non è un genere che possa mancare.

domenica 28 febbraio 2021

le idi di marzo - George Clooney (2011)

 (The ides of march)

Visto su Netflix.


Alla sua quarta regia Clooney decide di entrare a piedi pari nel cinema politico classico americano. La vicenda della corsa alla candidatura democratica (quindi qui tutti sono i "buoni" della politica americana) vengono sondati gli intrighi di palazzo della politica, fatta di spin doctor e scrittori di discorsi, di forma che deve mostrare la sostanza ostentata e, come sempre in questo genere alla Redford, dello scontro morale del protagonista fra ideali e realpolitik.

Di fatto non si inventa niente, ma si costruisce un film solido che viene girato in maniera formalmente ineccepibile e in maniera ottimale senza un manierismo imbalsamato, azzeccando momenti che solo gli americani riescono a darci (il dialogo con la bandiera a stelle e strisce sul fondo).

Il vero pregio è aver virato l'attenzione dai protagonisti della campagna elettorale ai burattinai dietro di loro, di aver affidato queste parti ad alcuni degli attori migliori in circolazione all'epoca (Clooney si ritaglia la parte, perfetta per lui, ma defilata, del candidato alla Obama) e lasciare che siano loro gestire la questione morale di compromessi e minacce.

L'effetto finale è un film dal tono estremamente basso, ma ricco di livore e di energie contenuto, gestito bene, pur nella sua totale mancanza di innovazione. Ma diciamocelo, se i prodotti medi fossero tutti così il cinema sarebbe tutto su un altro livello.

mercoledì 24 febbraio 2021

Va' e vedi - Elem Klimov (1985)

 (Idi i smotri) 

Visto qui.

Un ragazzo di un villaggio russo durante la seconda guerra mondiale freme all'idea di arruolarsi nella resistenza contro i nazisti. Il suo entrare nella guerra attiva sarà diverso da quanto si aspetta, sarà totalmente senza gloria.

Ebert, in questa sua splendida recensione di questo film, sosteneva che ogni film di guerra, per quanto antimilitarista esalta comunque lo scontro, perché la guerra e di per se eccitante. Tutti i film di guerra tranne questo... e devo dargli ragione.

Questo film sfrutta la seconda guerra mondiale per parlare di un ambiente (fisico e mentale) trasformato dalla guerra, pur senza mostrarla mai direttamente. I personaggi si spostano in un mondo post apocalittico vittima di giochi del destino e della volontà di pochi di fare il male per il male, un ambiente e una situazione che trasforma tutti, anche i buoni, sia livello morali (uccidendoli dentro) sia esteticamente (l'invecchiamento fisico del ragazzo è un'idea così semplice, quasi naif, ma così efficace che ci si chiede perché sia stata usata così poco).

Per farlo Klimov abbandona completamente il registro di guerra classico (che ci sarà, un pò e con un pò di enfasi, nel finale) in favore di una gestione più vicina all'horror. C'è una sensazione di perturbante che è creata solo indirettamente duale pallottole dalle armi da fuoco; l'utilizzo dell'aereo come elemento alieno che porta più avvertimenti di sventura che bombe, le morti dei parenti nella prima parte raccontate con la loro scomparsa improvvisa (e mostrate solo ad estrema distanza di sfuggita), tutta le sequenza nella palude  (che riesce ad essere dolorosissima pur senza far succedere quasi nulla) sono elementi d'orrore che mostrano meglio di qualunque altro genere lo scivolare nella follia e il gioco del destino (il caos) che governa gli affari del mondo.

La seconda parte, con l'arrivo dei nazisti è un festival del dolore provocato che ottiene l'effetto voluto non con l'ostentazione gore, ma mettendo i cattivi in un mondo già incattivito, già morto e sconfitto dove basta un gesto per ottenere sofferenze psicologiche indicibili come nel miglior Croneneberg (si pensi all'atrocità delle persone ammassate nella casa dove viene offerto del cibo ai nazisti ridanciani comparato con l'incendio del magazzino, pur essendo molto diversi i presupposti, l'effetto è estremamente simile).

L'effetto angosciante è anche raggiunto con la luce crepuscolare e i colori terrei che fanno da padroni, oltre ad alcune idee di regia molto chiare come l'insistenza sui primissimi piani spesso con i personaggi sofferenti che guardano lo spettatore contrapposti a nazisti folli quasi caricaturali; una serie di idee che messe in un contesto diverso avrebbero potuto banalizzare o trasformare tutto in farsa, ma che qui rendono la visione estremamente empatica e dura.

Solo nel finale c'è un cedimento all'enfasi patriottica con le scene in cui il ragazzo spara all'immagine di Hitler, ma è poca cosa di fronte a un'opera altrimenti perfetta.

domenica 21 febbraio 2021

The commitments - Alan Parker (1991)

 (Id.)

Visto su Mubi, in lingua originale sottotitolato.


Un gruppo di amici del proletariato di Dublino mettono su una band, decidono di fare cover di canzoni soul; prenderanno amici e conoscenti e riusciranno ad avere un piccolo seguito locale cercando di fare il grande salto...

Alan Parker è un regista versatile, che si concentra sui personaggi più che sul contorno indipendentemente dal genere. Qui non si fa eccezione; la storia di una band con molte buone intenzioni, ma realizzazione minore è tutta un gioco di relazioni; è l'insieme di desideri, di velleità e di intenzioni a partire da un substrato sociale ben definito con molti limiti e che vede in un progetto campano per aria un modo per prendere ossigeno.

Ma non c'è vittimismo o delusione nel finale, il tutto è toccato da una vena ironica che trasforma un potenziale dramma in una commedia musicale godibilissima e in cui l'incredibile ottimismo e vitalità del protagonista trasforma il finale agrodolce in una vittoria morale.

La macchina da presa non fa scelte estetiche devastanti, ma riesce a gestire in maniera chiara un cast corale e permette di realizzare molti numeri musicali (ci sono diverse canzoni mostrate per intero durante i concerti) sono suonate benissimo e gestite in maniera impeccabile tanto da risultare parte fondamentale del film e non una pausa nel ritmo complessivo.


mercoledì 17 febbraio 2021

Train to Busan - Yeon Sang-ho (2016)

 (Busanhaeng)

Visto qui.


Un'epidemia zombie irrompe in Corea (del sud). Un uomo e sua figlia (con problemi relazionali) si ritrovano in un treno mentre il morbo si diffonde. Dovranno vedersela con gli zombie dentro al mezzo e con l'incognita della destinazione sicura. Ma più di tutti dovranno vedersela con il più classico degli homo homini lupus.

Senza inventare nulla, le basi di questo film sono estremamente interessanti. Il morbo degli zombie come pretesto per realizzare un dramma horror in un ambiente chiuso con molte persone che devono riuscire a relazionarsi per sopravvivere , con l'aggiunta dell'incognita sul loro destino. Lo zombismo dunque è solo il perturbante che fa scatenarla guerra fra sani più che un espediente horror vero e proprio; fatta salva una o due buone scene thrilling (su tutte il superamento del vagone pieno di mostri durante la galleria) il resto è un (tentativo di) dramma dure e sanguigno.

Di tutta questa operazione non c'è proprio nulla da eccepire (l'horror viene sfruttato come arredamento più che come genere per idee decisamente meno interessanti, dunque ben venga), ma è lo sviluppo che latita. A fronte di un cinismo non indifferente nel mettere a morte tuti quelli che non ti spetteresti dovrebbero morire (si, esatto, come in "Game of thrones") il film si perde nella parte più raffinata di caratterizzazione dei personaggi. Gli uomini che popolano quel vagone sono macchiette bidimensionali costruite su un sentimentalismo melenso fastidiosissimo: c'è l'anziano uomo d'affari egoista e cattivissimo, il buon padre di famiglia simpatico e disposto al sacrificio, la coppia di vecchie (truccate da vecchia malissimo) che si vogliono tantissimo bene anche al di là dello zombismo, e poi c'è il protagonista un padre di famiglia distante e freddo che vorrebbe avere relazioni diverse con la figlia, ma non ci riesce (e poi lavora nella finanza, quindi per principio è distante e freddo). Ogni complessità è apparente, ogni gestione dei rapporti fra personaggi telefonata, ogni elemento emotivo descritto a parole più che con i fatti, a livello di sceneggiatura questa è una débâcle.

Il film poi non offre molto altro a cui aggrapparsi per farsi ricordare (un paio di scene buone, ma non memorabili) e proprio quando sembra pronto a premere sul nichilismo più spinto si lascia andare a un happy ending fuori luogo, ma molto in linea con la parabola di banalità intrapresa...

domenica 14 febbraio 2021

Cimitero vivente 2 - Mary Lambert (1992)

 (Pet Sematary II)

Visto su Netflix.


Contro ogni pronostico (che avrei fatto io), il primo "Cimitero vivente" non fu un fiasco tale da fargli meritare l'oblio, ma venne premiato con un sequel.

La sceneggiatura venne affidata a tale Outten, medio mestierante che su imdb ha circa 5-6 credit, ma pare ne abbia diversi mai prodotti (un seguito de "I Goonies" che periodicamente viene riproposto) e alcuni non accreditati ("Gremlins 2"). Se si vede cosa ha realzizato e cosa avrebbe realizzato è ecvidente il cambio di rotta impostato, da un horror duro e puro (almeno nelle intenzionj) scritto da King, si preferisce il più vendibile prodotto d'orrore per regazzini (genere fiorito negli '80s).

Il cambio di marcia è evidentissimo; il protagonista è un teenager medio con i problemi connessi (bulli, difficoltà di inserimento, accettazione da parte di altri outsiders) Viene eliminata la parte più dura (il bambino assassino) e quella più macabra (il fantasma del morto che torna), rimane l'idea di fondo 8ci  mancherebbe), ma viene declinata con una vena ironica con punte demenziali (il redivivo patrigno dell'amico è caricaturale sia prima che post mortem).

Se personalmente ho sempre apprezzato l'idea di dedicare a bambini e ragazzi film di ogni genere, horror compreso (che sono, d'altra parte, spina dorsale dei racconti americani anche televisivi), bisogna anche accettare il fatto che farlo male è una colpa più grande che non farlo proprio.

Fastidioso nello svolgimento, con punte di idiozia, sorretto da un cast non all'altezza e gestito nella cabina di regia dalla stessa Lambert del primo film, se la gioca per decidere chi sia il peggiore. Forse, data la minor serietà, il target diminuito e i nomi in gioco meno altisonanti questo numero due potrebbe vincere ai punti contro il predecessore.

mercoledì 10 febbraio 2021

Laurence anyways e il desiderio di una donna - Xavier Dolan (2012)

 (Laurence anyways)

Visto su Mubi, in lingua originale sottotitolato.


Al terzo film Dolan torna al dramma, ma lo fa gettando il cuore oltre l'ostacolo affronta una tematica più adulta, senza rifugiarsi nei rapporti fmadre figlio che torneranno più avanti.

Questo film mostra una decina d'anni di vita di una coppia (uomo/donna, eterosessuali) più o meno dal momento in cui l'uomo si rende conto di sentirsi donna e comincia a muovere i primi passi per il cambio di sesso. L'intero film si gioca sul campo della relazione fra i due, la complicità, lo shock, gli allontanamenti, i riavvicinamenti, l'amore sempre presente, il rancore i tentativi impossibili.

Il film è enorme per densità emotiva ed encomiabile per la serietà con cui tratta un tema poco raccontato. A fronte di un impegno del genere, Dolan da fondo a tutte le sue attenzioni maniacali per la costruzione delle inquadrature (come sempre perfette), utilizza in maniera più controllata i suoi ralenty e le sequenze oniriche (che comunque ci sono e sono bellissime, si pensi alla cascata sul divano o la pioggia di foulard); rimane però più dimessa la palette di colori utilizzati, cercando di rimanere più sobria possibile per non sbracare nel kitsch.

L'effetto finale è, visivamente ottimo, ma le solite lungaggini di racconto e rallentamenti del ritmo tipici del regista fanno pagare uno scotto notevole, soprattutto se si considera il minutaggio complessivo. La storia si prende il suo tempo per esplorare ogni passaggio emotivo, ma molte scene sono tenute troppo a lungo o proprio inutili e affossano un film già lento come questo.

Il fascino però sta tutto nella ricerca di sé di una persona che finisce con la rottura di una coppia che rimane però indissolubilmente legata. Un ritratto a due magistrale.

domenica 7 febbraio 2021

The gentlemen - Guy Ritchie, (2020)

 (Id.)

Visto su Amazon prime.


Dopo diversi tentativi più o meno riusciti di buddy movie (wannebe) d'azione e qualche lavoro d'alto profilo (economico) Ritchie decide di tornare nel suo mondo.

Scrive quindi l'ennesimo film corale, un noir ironico e intricato ambientato nel sottobosco malavitoso inglese.

Stessa frenesia nel portare avanti il racconto (ma con un montaggio più rilassato), stessa abilità nel gestire un cast ampio e variegato, stesso amore per le inutili complicazioni.

Per chi apprezza il primo Ritchie qui si ritroverà a casa, niente di nuovo, ma tutto ben condotto, con il problema di una trama che vorrebbe essere  più circonvoluta di quello che è, ma con il piacere di una produzione finalmente all'altezza con il ritmo sostenuto dall'intera vicenda e non solo con il montaggio.

Encomio particolare per la costruzione di un paio di personaggi (su tutti il detective) e applausi a scena aperta a un Hugh Grant che gigioneggia come mai prima riuscendo perfettamente a dare carattere senza infastidire; bravo McConaughey che però è incastrato in una parte estremamente controllata in film sopra le righe, fa il suo con grande professionalità, porta a casa il risultato, ma non si fa notare nonostante la centralità del personaggio.


mercoledì 3 febbraio 2021

The believer - Henry Bean (2001)

 (Id.)

Visto su Mubi, in lingua originale sottotitolato.

Un naziskin americano preso dalla strada (ma con il dono della retorica) diventa portavoce di una versione ripulita del neonazismo politico che cerca di trovare finanziatori. Il ragazzo nasconde però il fatto di essere ebreo...

Film che all'epoca dell'uscita mi aveva incuriosito per l'ossimoro di nazi skin ebreo, all'epoca non lo recuperai (era una curiosità più che vero interesse), lo ritrovo incidentalmente su MUBI e dopo averlo visto non posso che non rammaricarmi per averlo perso all'epoca... non è un buon film.

Alla regia per la prima volta Bean, di professione sceneggiatore e si vede. Il film ha la propria ossatura sui lunghi monologhi del protagonista, le sue dissertazioni su antisemitismo e suprematismo bianco sono l'epicentro della vicenda e sono effettivamente la cosa più riuscita. Curioso come al di là delle singole scene l'intera vicenda sia scontata (il giovane ebreo che per problemi di relaizone e istinti autodistruttivi diventa naziskin... davvero c'è ancora bisogno di psicanalisi all'acqua di rose?), caotica (se l'intento del protagonista è quasi chiaro, il modo per arrivarci, nonché tutte le sue scelte sul finale sono francamente poco ragionevoli), al di là di ogni logica (la conversione della Phoenix è una delle decisioni più pretestuose della storia del cinema) e con picchi che oggi noi giovani definiremmo cringe (il bacio dopo il vomito...). 

Curioso, dicevo, come al di là di alcuni acuti, il film sembri girare a vuoto riempiendo di azione la mancanza di idee chiare negli snodi chiave; la regia decisa da uno sceneggiatore poi non supporta nè scelte estetiche particolari, né un ritmo già azzoppato.

C'è però un Ryan Gosling giovanissimo e già bravo e una Summer Phoenix che si fa ricordare.



domenica 31 gennaio 2021

La lunga strada verso casa - Richard Pearce (1990)

 (The long walk home)

Visto su Mubi, in lingua orignale sottotitolato.


A montgomery, nel 1955 la vita di una domestica di colore verrà stravolta dal boicottaggio dei mezzi pubblici (dopo l'episodio di Rosa Parks). Aderirà anche lei a quello sciopero, con gravi ripercussioni personali, ma il suo gesto (pacato e dimesso) farà maturare una coscienza anche nella padrona di casa bianca.

Film sui diritti civile, buono e buonista come molti che arriva dove arrivano un pò tutti i film di questo genere (scene madri con prese di posizione morali che fanno stringere i rapporti umani e scaldano il cuore dello spettatore).

Condotto con una regia pacata quanto la sua protagonista è un filmetto che non aggiunge e non toglie nulla, ma ha la dote di mostrare il solito genere (1quello dei diritti civile ha alcuni stilemi a sé negli USA) da punti di vista lievemente differenti.

Il pregio maggiore è il presentare dei fatti storici epocali dall'esterno, mostrando gli effetti sulle ultime ruote del carro anziché sui protagonisti più eroici. 

Ha l'intelligenza di evitare alcune delle scene madri che potrebbe avere (purtroppo se inanella alcune evitabilissime) e si appoggia su un tono pacato e sussurrato che è un piacere. Non si legga questo come un rallentamento del ritmo, ma si tratta proprio di un portare avanti la trama in punta di piedi che rassicura e appaga molto.

Rimane nei fatti un film ovvio, ma che si lascia guardare con tranquillità.

PS: le due protagoniste sono splendide, la Spacek completamente in parte, la Goldberg ancora esperta della recitazione dimessa da il meglio di sè.

mercoledì 27 gennaio 2021

Aspettando il re - Tom Tykwer (2016)

 (A hologram for the king)

Visto su Netflix.


Uomo in crisi di mezza età viene mandato in Arabia Saudita (una arabia felix senza contraddizioni sociali o scontri di civiltà) per guadagnarsi l'appalto per forniture informatiche in una new town avveniristica.

Dopo il successo di "Cloud Atlas" Tykwer sembra diventare più appetibile e una coproduzione internazionale (compresi gli USA) gli mette in mano un soggetto di Eggers con Hanks come protagonista. Non si può parlare di grande occasione (il regista tedesco ha già portato in scena "Profumo" con uno sforzo produttivo europeo non da poco e lo stesso "Cloud Atlas" era si un film indipendente, ma delle Wachowski con standard elevatissimi), ma sicuramente l'ennesimo tentativo di rilancio internazionale; non si capisce altrimenti che cosa può aver visto in un progetto del genere un regista dinamico e dai personaggi difficoltosi come Tykwer.

Il film è una gradevole commedia leggera di un uomo in crisi che, messo in un contesto per lui alieno lo porta a ritrovarsi e ritrovare un senso nella vita... gradevole, ma piuttosto piatta, senza guizzi, con i soliti inserti di personaggi buffi (il tassita) situazioni paradossali e l'anima gemella che porta il protagonista sulla via della guarigione spirituale.

Tykwer ci prova a sfruttare gli ampi spazi, a costruire immagini sul tema buzzatiano di spaesamento, ma lo fa con poca convinzione e con colori pastello, si spinge a qualche buona costruzione di montaggi nella prima parte del film, ma presto si spegne tutto per diluirsi ulteriormente in un happy ending tanto perfetto e pulito, quanto posticcio. Film evitabile.

domenica 24 gennaio 2021

Arirang - Kim Ki Duk (2011)

 (Id.)

Visto qui, in lingua originale sottotitolato in inglese (con sottotitoli spesso fuori sincro).


Durante le riprese di "Dream" un incidente fa rischiare la vita alla protagonista; Kim Ki Duk ne rimane sconvolto si isola dal mondo e (lui che scrive e dirige quasi un film all'anno) smette di produrre per 3 anni, nel 2011 se ne esce con questo documentario/mockumentary per poi ricominciare con la solita frenesia produttiva.

A un mese circa dalla morte ho voluto recuperare questo film perché è proprio qui che io e il regista coreano ci siamo lasciati. A fronte di opere enormi con il picco che pongo personalmente con il suo "Ferro 3", Ki Duk ha via via sbragato, andando a perdere prima il mordente, poi l'asciuttezza in favore di un sentimentalismo ai limiti del sopportabile. Personalmente ho visto tutti i suoi film dal 2000 al 2008 (tornando al cinema per l'arrivo improvviso de "Il prigioniero coreano") partendo come giannizzero del regista per arrivare in fondo a quel decennio stanco di un uomo con più idee che talento per realizzarle. 

Vedendo questo film l'idea non cambia, ma sarà il distacco o la recente scomparsa non mi sento di fustigarlo in eccesso.

Il documentario mostra la vita quotidiana di Kim Ki Duk nel suo eremo, la sua quotidianità fatta di cibi cotti nella stufa, notti passate in una tenda e l'assenza di un bagno, oltre che la costruzione di una macchina per farsi l'espresso. In mezzo a tutto questo Ki Duk si confessa realizzando un documentario in cui si mette a dialogare con sé stesso, con la sua ombra, sente un continuo bussare alla porta e nel finale aumenta l'irrealtà con una serie di gesti estremi. Siamo di fronte a una sorta di "Real fiction". Anche le confessioni fatte sono lunghe geremiadi a metà fra l'autocompiacimento e il tentativo di farsi del male da solo, un pò onestà e un pò vittimismo che danno l'impressione di essere messe lì apposta (Ki Duk stesso dice che piange per aumentare la drammaticità). 

L'effetto finale è piuttosto deludente per il ritmo assente, anche i dialoghi non lo sono mai davvero, ma sono lunghi soliloqui ripetitivi, ma l'idea di fondo è affascinante. Tanto più affascinante per l'impossibilità di capire dove sia il limite fra il reale e l'artificiale e, in questo unico senso, è uno dei suoi film più efficaci. Consigliato solo per completisti.

mercoledì 20 gennaio 2021

Il caso Spotlight - Tom McCarthy (2015)

 (Spotlight)

Visto su Netflix.


la ricostruzione dello scoop giornalistico sul caso della pedofilia coperta dalla curia di Boston è inserita nel sottogenere (tutto made in USA) del journalist movie drammatico.

Pur se ben accolto, l'ho avvicinato con molti dubbi.

Ovviamente si tratta di una produzione splendidamente limata fin dalla sceneggiatura, costruita con esperienza che sorprende per la grazia e la compostezza. Un film su un tema delicatissimo (e su cui non fa sconti) che decide di evitare ogni scena madre (c'è giusto uno scontro con Ruffalo nel suo momento sopra le righe), pur avendone molte possibilità, e lasciare il cuore emotivo del racconto al racconto stesso. Sarà il dipanarsi degli eventi, i fili che collegano tutti e che faranno cadere ad uno ad uno i vari notabili della città a costituire il cliffhanger; è lo svolgersi stesso degli eventi a mantenere l'interesse. Una scelta molto elegante, ma non scontata, che può esitare in una freddezza superficiale, ma che guadagna molto in rispetto per i fatti reali e per lo spettatore.

Ovviamente per mettere in piedi un progetto del genere ci vuole una sceneggiatura a prova di bomba. Molti eventi condensati in un minutaggio limitato, ma mostrati con estrema chiarezza sostenuti da una regia che si mette in secondo piano per favorire il flow. ottima anche il world building (utile per chiarire la vicenda, ma formalmente non necessario) in cui si mostra la società bostoniana come un blocco unitario in cui la chiesa è presenza pervasiva e in cui tutti sono condizionati, anche inconsapevolmente, tutti, pure i buoni (sarà quindi un estraneo a dover dare l'abbrivio).

Ottimo il cast che gioca una sfida all'autocontrollo in una serie di performance perfette quanto trattenute (erano anni che non si vedeva un Keaton così composto).

domenica 17 gennaio 2021

L'incredibile storia dell'isola delle rose - Sidney Sibilia (2020)

 (Id.)

Visto su Netflix.


La storia dell'isola delle Rose (incredibile sia il primo film che si basi su quegli eventi) è lo spunto per raccontare gli ideali del '68 con il giusto distacco.

Non so se fosse quello l'intento di Sibilia, ma l'effetto è proprio quello. Distaccandosi completamente dal filone ideologico oriundo degli anni '70, questo film riesce a rendere l'afflato libertario senza costruire un'opera a tesi (ed è già molto), ma pure senza ideologia, né drammi; anzi sfruttando la commedia e utilizzando le migliori dinamiche di contrapposizione con un antagonista immergendolo nel senso italiano per la farsa.

Alla sua seconda prova quindi (se prendiamo in un blocco solo "Smetto quando voglio"), Sibilia si trova a dirigere una commedia efficace, rimescolare il genere ideologico, costruire una mitopoiesi dello stato italiano come antagonista che è nuova (nella nostra filmografia), ma assolutamente immersa nel punto di vista storico di prendere nulla sul serio.

Ci sono dei momenti intensi, alcuni emotivi piuttosto scontati, ma glieli si passa per come riesce a gestire tutto il resto del minutaggio.

Solito encomio per la gestione degli attori tutti utilizzati al meglio e per la cura della fotografia (non più aspra come nei film precedenti del regista, ma a colori pastello patinati).

mercoledì 13 gennaio 2021

Devil - John Erick Dowdle (2010)

 (Id.)

Visto su Netflix.


Quattro persone si trovano intrappolate in un ascensore, ci sarebbe solo da aspettare i soccorsi se non ci fosse... il diavolo (lo spoiler alert erad aisnerire nel titolo).

Scritto da Shyamalan, ma diretto da un semi parvenu fattosi notare per il remake identico all'originale di REC. Ecco qui è subito partito il mio razzismo. Shyamalan è, a mio avviso, un ottimo regista, ma uno sceneggiatore mediocre a tratti insopportabile. La sua scrittura è stata parte fondamentale del suo oblio negli ultimi anni prima della quasi rinascita con la Blumhose.

Considerando il mio pregiudizio è un film che scorre bene, intrattiene bene e incuriosisce abbastanza da far arrivare alla fine pur rimanendo all'interno di un ascensore per almeno metà del minutaggio. Operazione comunque rischiosa.

Il problema è che a parte una godibili superficiale non c'è nient'altro. Potrebbe essere un horror (vorrebbe esserlo), ma non inquieta mai, potrebbe essere un thriller (forse vorrebbe esserlo), ma non da mai suspense. Se entrambi questi difetti sono sicuramente da imputare (anche) alla regia insipida, la sceneggiatura non è una buona base; non graffia mai con la cattiveria che sbandiera (i cattivi tutti chiusi insieme non sono mai davvero cattivi), chiude con un finale buonista, ma soprattutto raggiunge vette di ridicolo che smorzerebbero qualunque film (lo spiegane fatto dal personaggio esotico che scopre e dimostra la presenza del maligno con il fatto che il pane cade sempre dalla parte imburrata!!!).

Come si diceva un film che incuriosisce e che si fa finire volentieri, ma niente di più.

domenica 10 gennaio 2021

El bar - Alex de la Iglesia (2017)

 (Id.)

Visto su Netflix.


Un gruppo di persona si trova ostaggio in un bar, fuori un cecchino sembra sparare a chiunque si muova. All'arrivo dell'esercito la situazione degenererà.

LA quasi ultima fatica di De la Iglesia è un ritorno in grande stile alla sua idea di commedia nera action (se ne era mai allontanato veramente?). Il film inizia con il passo del thriller (un nemico invisibile sconosciuto dalle intenzioni ignote) che diventa a tinte quasi horror quando la situazione interna al bar scadrà in un tutti contro tutti, nel lungo finale nella fogne l'atmosfera horror non verrà mai eliminata, ma si passerà all'azione vera e propria. E come sempre nei film del regista spagnolo il thriller e l'azione sono parte integrante della trama, portano avanti o sviluppano i personaggi e i rapporti fra di loro quanto i dialoghi, senza mai perdere l'afflato ironico che in questo film si fa fra i più neri e grotteschi di sempre.

Di fatto niente di nuovo, ma qui De la Iglesia da sfogo all'altra sua grande passione, il volto e i corpi. I cast è tutto i aficionados del regista, tute facce già viste per chi lo conosce, tutte da freak (borghesi o meno) fatto salvo per la coppia di giovani bellissimi; ma tutti verranno tormentati fisicamente, martoriati, portato allo stremo sul paino più epidermico possibile. Perché alla fine De la Iglesia è un regista che maltratta i suoi personaggi quanto Haneke (letteralmente in ogni suo film) e ne vive la fisicità (da plasmare e formare) quanto un Cronenberg (si veda la trasformazione dei protagonisti di "Balada triste"), solo che è più divertente. Ecco allora che la coppia bellissima dovrà gettarsi nei liquami, cospargersi di olio, strizzarsi per passare in pertugi minuscoli, lottare, prendere botte e sanguinare quanto tutti gli altri. Perché per De la Iglesias tutti sono orribili (e lo mostra nei dialoghi) e tutti meritano il martirio a cui li sottopone.

mercoledì 6 gennaio 2021

Lazzaro felice - Alice Rohrwacher (2018)

 (Id.)

Visto su Netflix.


Un gruppo di mezzadri d'altri tempi lavora per una nobildonna che va a trovarli periodicamente. La fuga del figlio della signora porterà la modernità nel microcosmo e si scoprirà che i contandini erano sfruttati ai limiti della schiavitù. tornati alla "modernità" dovranno ricominciare da capo, ma non saranno aiutati.

Intriso di un realismo magico di campagna con il protagonista un "semplice" dostoevskiano il film sembra prendere a piene mani dal naturalismo norditaliano alla Olmi. Il tono lieve nonostante tutto ciò che di abietto succede, la dolcezza dei rapporti umani e un passo continuo seppure senza una meta chiara riesce a rendere il film scorrevole e interessante fino alla fine.

Non vengono risparmiate allegorie urlate o ingenuità dimenticabili (su tutte, la musica che esce di chiesa... un poco didascalico direi) e non è chiaro neppure il concetto di fondo (se c'è), ma forse è solo un muovere i personaggi ai limiti di ogni società e farli mantenere in piedi grazie ai rapporti umani. Semplice, ma non semplicistico,l ben condotto e con un cast all'altezza (c'è pure una irriconoscibile Nicoletta Braschi che rimane incapace di recitare, ma è l'unico neo ed è quasi voluto per la parte più inutilmente enfatica).

Buona prova imperfetta che lascia sul fuoco molto materiale che potrebbe essere sviluppato, ma che gioca con le aspettative in maniera vincente (se non si conosce la storia si rimane interdetti nella prima parte) e che con un ritmo lento non annoia mai.

domenica 3 gennaio 2021

Nel paese delle creature selvagge - Spike Jonze (2009)

(Where the wild things are)

Visto su Netflix.

Un bambino ha crisi in famiglia, fugge di sera e approda in un mondo di fantasia con creature inquietanti e buffe che lo incoronano loro re.
Inutile dire che in quel gruppo di creature troverà rispecchiati gli stessi sentimenti di rabbia e frustrazione del suo menage familiare, scenderà a patti e sarà pronto a tornare a casa.
Tratto da un libro illustrato di pochissime pagine senza una trama specifica, il film si prende ogni libertà possibile e affidato a Jonze riesce a rendere perfettamente il realismo delle scene iniziali (magnifiche ed essenziali per rendere il tono crepuscolare e la dignità delle piccole lotte e difficoltà dell'infanzia), tanto quanto la gestione fiabesca del corpo centrale. Tutte le sequenze del paese delle creature sono in ampissimi esterni in una perenne luce crepuscolare che danno un senso di sospensione onirica perfetta; aiutata dalla fotografia, le reazioni dei personaggi e il loro aspetto, Jonze gioca tantissimo con un vago senso di inquietudine e di instabilità nel mondo fantastico che è estremamente adulto (e che rappresenta l'unico pregio effettivo del lungo e noioso film).
Il tono del film ha però rappresentano il motivo della sfiducia nei confronti del regista stesso e ampi problemi di produzione che ne hanno ritardato l'uscita e rimaneggiato momenti. Che sia da incolpare questa incostanza o una sceneggiatura già claudicante è difficile dirlo, ma il film non funzione. A fronte dei pregi l storia è lenta, noiosa, svogliata e ridondante; dopo le prime scene realistiche piuttosto dinamiche e il fantastico arrivo nella terre selvagge il film muore in una palude di noia.