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domenica 28 febbraio 2021

le idi di marzo - George Clooney (2011)

 (The ides of march)

Visto su Netflix.


Alla sua quarta regia Clooney decide di entrare a piedi pari nel cinema politico classico americano. La vicenda della corsa alla candidatura democratica (quindi qui tutti sono i "buoni" della politica americana) vengono sondati gli intrighi di palazzo della politica, fatta di spin doctor e scrittori di discorsi, di forma che deve mostrare la sostanza ostentata e, come sempre in questo genere alla Redford, dello scontro morale del protagonista fra ideali e realpolitik.

Di fatto non si inventa niente, ma si costruisce un film solido che viene girato in maniera formalmente ineccepibile e in maniera ottimale senza un manierismo imbalsamato, azzeccando momenti che solo gli americani riescono a darci (il dialogo con la bandiera a stelle e strisce sul fondo).

Il vero pregio è aver virato l'attenzione dai protagonisti della campagna elettorale ai burattinai dietro di loro, di aver affidato queste parti ad alcuni degli attori migliori in circolazione all'epoca (Clooney si ritaglia la parte, perfetta per lui, ma defilata, del candidato alla Obama) e lasciare che siano loro gestire la questione morale di compromessi e minacce.

L'effetto finale è un film dal tono estremamente basso, ma ricco di livore e di energie contenuto, gestito bene, pur nella sua totale mancanza di innovazione. Ma diciamocelo, se i prodotti medi fossero tutti così il cinema sarebbe tutto su un altro livello.

domenica 24 gennaio 2021

Arirang - Kim Ki Duk (2011)

 (Id.)

Visto qui, in lingua originale sottotitolato in inglese (con sottotitoli spesso fuori sincro).


Durante le riprese di "Dream" un incidente fa rischiare la vita alla protagonista; Kim Ki Duk ne rimane sconvolto si isola dal mondo e (lui che scrive e dirige quasi un film all'anno) smette di produrre per 3 anni, nel 2011 se ne esce con questo documentario/mockumentary per poi ricominciare con la solita frenesia produttiva.

A un mese circa dalla morte ho voluto recuperare questo film perché è proprio qui che io e il regista coreano ci siamo lasciati. A fronte di opere enormi con il picco che pongo personalmente con il suo "Ferro 3", Ki Duk ha via via sbragato, andando a perdere prima il mordente, poi l'asciuttezza in favore di un sentimentalismo ai limiti del sopportabile. Personalmente ho visto tutti i suoi film dal 2000 al 2008 (tornando al cinema per l'arrivo improvviso de "Il prigioniero coreano") partendo come giannizzero del regista per arrivare in fondo a quel decennio stanco di un uomo con più idee che talento per realizzarle. 

Vedendo questo film l'idea non cambia, ma sarà il distacco o la recente scomparsa non mi sento di fustigarlo in eccesso.

Il documentario mostra la vita quotidiana di Kim Ki Duk nel suo eremo, la sua quotidianità fatta di cibi cotti nella stufa, notti passate in una tenda e l'assenza di un bagno, oltre che la costruzione di una macchina per farsi l'espresso. In mezzo a tutto questo Ki Duk si confessa realizzando un documentario in cui si mette a dialogare con sé stesso, con la sua ombra, sente un continuo bussare alla porta e nel finale aumenta l'irrealtà con una serie di gesti estremi. Siamo di fronte a una sorta di "Real fiction". Anche le confessioni fatte sono lunghe geremiadi a metà fra l'autocompiacimento e il tentativo di farsi del male da solo, un pò onestà e un pò vittimismo che danno l'impressione di essere messe lì apposta (Ki Duk stesso dice che piange per aumentare la drammaticità). 

L'effetto finale è piuttosto deludente per il ritmo assente, anche i dialoghi non lo sono mai davvero, ma sono lunghi soliloqui ripetitivi, ma l'idea di fondo è affascinante. Tanto più affascinante per l'impossibilità di capire dove sia il limite fra il reale e l'artificiale e, in questo unico senso, è uno dei suoi film più efficaci. Consigliato solo per completisti.

giovedì 24 settembre 2020

Michael - Markus Schleinzer, Kathrin Resetarits (2011)

(Id.)

Visto su Mubi, in lingua originale sottotitolato.

Un uomo piuttosto grigio vive da solo, isolato da tutti gli affetti; ma in compenso tiene prigioniero in uno scantinato un  bambino di 10 anni come schiavo sessuale.
Incredibile quanto siano evidenti le fonti di ispirazione di questo film, da una parte la cronaca austriaca del recente passato, dall'altra il cinema di Haneke.
Un giorno qualcuno dovrà denunciare il fatto che Haneke si sia fagocitato il cinema austriaco (almeno quello di genere che esce dai confini nazionali) appiattendolo sul suo linguaggio anche quando non si è in grado di gestirlo. Se Seidl tutto sommato si è affrancato con una certa personalità, è evidente la presenza hanekiana in "Lourdes" e, meno grezza, in "Goodnight mommy". Tra questo film ci si può infilare anche quest'opera di Schleinzer.
Fra tutti Schleinzer è quello che ha più diritti su Hankee avendo collaborato con lui per anni, ma qui non si fa mancare molto. Una situazione verosimile, ma estrema per contenuti, un ritmo rallentato, pochi dialoghi, una regia (e dei personaggi) gelidi, l'inizio della storia in media res, ecc..
Schleinzer costruisce il suo film sul distacco e l'accanimento sui personaggi, ma lo fa in maniera meccanica. Ha un'idea (quella della trama e della volontà di come mostrarla), ma poi si attacca a stilemi senza riuscire a gestirli del tutto. Se il gelo di Haneke funziona è grazie all'umanità dei suoi personaggi, per lo più tartassati da un'entità incombente (e spesso non chiara), ma sempre ricchi di emozioni.
Qui invece il gelo è ovunque e l'incombente non c'è; quindi l'empatia finisce subito e il film prosegue lento verso un finale aperto (ma indubbiamente positivo).

lunedì 10 agosto 2020

Hanna - Joe Wright (2011)

(Id.)

Visto su Netflix.

Una ragazzina vive nel profondo nord con il padre. La vita è duramente scandita fra caccia grossa al cervo, esercizi di lotta libera, a lettura dell'enciclopedia. Tutto questo è necessario per una questione di spionaggio con americani cattivi che, prima o poi, verranno a riprendere tutti e due.

Il primo film action di Joe Wright è una creatura strana. Dopo l'incipit dove deve necessariamente spiegare molto in poche scene (e tutto sommato ce la fa né più né meno di qualunque altro regista... il che è un problema perché Wright vale di più), viaggia rapido senza stancare, si diletta di incastonare i suoi personaggi in scenari sempre diversi e si ferma a creare un film circolare ricco di riferimenti alle favole dei Grimm.
Un'operazione strana, perché le scene action sono molte, spesso anche buone che vanno da estremi estetizzanti videoclippari (se questo termine avesse ancora un senso) al limite dell'arte visuale (la prima fuga dalla base dei cattivi) alla citazione in piano sequenza di Pinkaew (quella con Bana in metropolitana). La necessità dell'immagina particolare si mischia alla voglia sempre più preponderante di infilare un simbolismo fiabesco che risulta digeribile solo quando è leggero, ma nel finale diventa insopportabile.
In tutto ciò però l'azione non riesce mai ad essere così spettacolare da sostenere il film da sola, mentre i personaggi sono gestiti molto peggio e non riescono neppure loro a sostenere una trama di fatto inesistente (sintomatico che le battute migliori le abbia un personaggio che scompare nella prima metà) che si ripiega sui cliché peggiori e sulle scorciatoie più becere (lo spiegone finale lasciato all'internet).

L'unica nota completamente positiva è (come sempre nei film di Wright) l'utilizzo del suono e delle musiche. In questo caso con la collaborazione perfetta dei The chemical brothers, le musiche vengono usate, in dissonanza o in risonanza, per fare da controcampo alle scene d'azione, mentre rumori disturbanti sottolineano uno o due passaggi d'ambientazione fondamentali e le poche musiche diegetiche sono lasciate a definire i momenti di calma iniziali.

lunedì 16 dicembre 2019

Zindagi na milegi dobara - Zoya Akhtar (2011)

(Id.)

Visto su Netflix.

Tre amici di lunga data (ormai divisi dalle rispettive vite) si ritrovano in Spagna per l'addio al celibato di uno di loro. Neanche da dire che questo diventerà il viaggio di una vita, che darà loro un senso nuovo per andare avanti e la forza di affrontare i loro scheletri negli armadi (una vita sacrificata al lavoro, l'abbandono di un padre e un matrimonio per sbaglio).

Filmetto indiano piuttosto distante dallo stile barocco di Bollywood, pur tenendone una parte, con un piglio (e una location) più internazionali per potersi vendere meglio in Europa.
Diciamolo subito, è un film con molti difetti e pretese assurde per quello che offre; c'è agnizione all'acqua di rose, prove da affrontare ridicolmente gonfiate, un'eccesso di poesia messa a forza e non integrata (al solito, le poesie vengono recitate e non traspaiono dalla trama) e un product placement bestiale (e il prodotto è la Spagna).
Al netto di tutto questo il film dura oltre le due ore e mezzo (con una trama già vista centinaia di volte) e riesce comunque a mantenere sveglia l'attenzione, gli irritantissimi protagonisti (uno più insopportabile dell'altro) diventano, pian piano, sempre più tollerabili (anche se rimangono tutti macchiettistici), le incursioni musicali che ci si aspetterebbe sono poche e molto modernizzate (sequenze con canzoni complete, ma senza balli, solo giochi di montaggio che mandano avanti la trama; solo due sono i momenti più canonici, ma nel primo c'è un crossover indio-spagnolo e il secondo è dopo i titoli di coda e conclude la vicenda lasciata in sospeso nel finale).
Il tutto viene veicolato dal classico pacchetto ben fatto del cinema indiano, con una fotografia ben curata (e, come già detto, con particolare attenzione per le location), degne di Bollywood.

Di fatto ci si trova davanti a un film scontato ben realizzato ed efficace a colpire il gusto e l'occhio di un occidentale senza mai sviare troppo l'attenzione dall'origine indiana del prodotto.

PS: il titolo si traduce con qualcosa come "Non avrai una seconda possibilità", "Si vive una volta sola".

venerdì 6 settembre 2019

La chispa de la vida - Alex de la Iglesia (2011)

(Id. AKA As luck would have it)

Visto in Dvx.

Un uomo appena licenziato in profonda crisi personale ed economica è vittima di un incidente, all'interno di un'arena romana appena aperta al pubblico scivola rimane immobilizzato con il collo conficcato in un chiodo. Incedibilmente vivo è però in una situazione complicata, estrargli il pezzo di metallo potrebbe causargli un'emorragia mortale, tagliarlo sembra complciato, distruggere un pezzo dell'arena improponibile. Attorno a lui si scatena una selva di interessi incrociati (l'archeologa del museo, il politico locale, i media) che lui decide di cavalcare per guadagnare il più possibile.

Per l'ennesima volta De la Iglesia torna sul seminato e ci mostra una situazione paradossale in cui il marcio si nasconde in chiunque, qui (come in quasi tutti i film dle regista) l'inferno non sono gli altri: tutti siamo l'inferno. Mette in scena una situazione grottesca in cui il protagonista è sferzato dal destino e sfruttatyo da ogni persona presente decide di sfruttare lui stesso in un gioco al ricatto reciproco che non potrà finire per il meglio. Di contorno, De la Iglesia, monta la vicenda con contrapposizioni e assonanze, il luogo della cultura (il museo), svilito dalla mercificazione della tragedia, l'arena romana che ospita un ultimo spettacolo di sangue. Tutto questo riesce a dare vita alla versione più cinica possibile del già oscuro "L'asso nella manica".
A fronte di tanti sentimenti negativi risulta addirittura fuori posto il colpo di coda finale che rende positivo (o meglio, conferma come positivo) un solo personaggio; questo momento di rettitudine morale non splende, anzi risulta addirittura forzato.

A livello tecnico De la Iglesia se la spassa a giocare con la sua unità di luogo che gli permette virtuosismi tecnici anche in assenza delle scene d'azione a lui così congeniali; il tema, però gli permette qualche picco, anche intellettuale (come non pensare a Satyajiat Ray nella scena attorno alla tenda da campo?!).

A fronte, quindi, di un film decisamente più statico e drammatico del solito, il regista spagnolo può però farsi forza di una sceneggiatura meno claudicante e di un finale che (seppure non completamente in linea) regge il confronto col resto del film dando un'opera più coesa con meno crolli. Un ottimo De la Iglesia.

lunedì 2 settembre 2019

Boris, Il film - Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre, Luca Verduscolo (2011)

(Id.)

Visto in Dvx.

La naturale prosecuzione della serie televisiva sfociò nella realizzazione di un film in cui si racconta la volontà di Ferretti di realizzare un film di denuncia ("La casta") con i mezzi migliori, progetto che andrà a deteriorasi aumentando la presenza dei soliti noti della serie per arrivare a stravolgere il film in realizzazione e farlo diventare un cinepanettone (piuttosto retrò, tra l'altro).

Il film che ne viene fuori non sembra, quindi, una forzatura commerciale, ma una continuazione logica delle 3 stagioni precedenti e il prodotto confezionato si muove pochissimo da quanto visto fino a quel momento.
Se la realizzazione è la stessa, il film però ha qualche evidente problema di bilanciamento (c'è una carrellata di molti personaggi della serie anche scomparsi in passato) che porta tutta l'attenzione su Ferretti e una complessiva minor tenuta della trama dovuta al minutaggio elevatissimo per gli standard (dimostrando quanto, invece, riusciva da dio la serie con i suoi tempi stretti).

Quello che invece è, ancora una volta, la parte migliore è il senso di farsa che circonda tutto il mondo delle produzioni audiovisive. Volendo scomodare precedenti illustri, per i francesi (leggasi Truffaut) il fare cinema è arte e passione, per i tedeschi (leggasi Fassbinder) sofferenza e va oltre anche alla visione dissacrante e ironica americana del cinema come comunità di uomini piccoli piccoli (o proprio scemi); "boris" mostra la propria visione del cinema (che quindi diventa per ora la versione italiana) di mondo perduto in cui c'è l'impossibilità strutturale di fare bene, come si diceva, una farsa.

A conti fatti il film è intelligente e godibile (anche per chi non conosce gli originali), ma zoppica nella realizzazione e non può competere con una puntata media della serie (penalizzato da una regia che non riesce ad adattarsi al nuovo mezzo).

lunedì 6 maggio 2019

Chillerama - Registi vari (2011)

(Id.)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Nato da un'idea di Rifkin e Sullivan di creare un film a episodi dedicato ai mostri classici del cinema (a spanne quelli Universal con in più gli zombie alla Romero) con segmenti dedicati a 4 epoche diverse del cinema. All'idea si aggiunsero in un secondo momento Green e Lynch. Ecco a fronte di un'idea apparentemente accettabile (anzi, auspicabile) il progetto nasce fin dal primo istante come un'idea cazzara avuta da due amici che si sentono troppo fighi per questa industria cinematografica che non capisce niente di cinema, il tutto in una serata alcolica; a tutto questo poi si aggiungono altri due giuggioloni.

Perché l'apertura in bianco e nero col tipo che sotterra sua moglie che, sfortunatamente si sveglia e gli strappa il pene a morsi (e comincia a secernere un curioso liquido azzurro), con tutta la buona volontà può sembrare una citazione amorevole di un certo cinema fatta da un regazzino che ha più passione che capacità, ma poi in sequenza c'è una citazione di "Godzilla" (che in realtà lo cita nel senso che c'è un mostrone gigante che distrugge una città e nessun altro collegamento) assolutamente idiota, poi arriva l'apice dell'ironia linguistica con una storia di licantropi gay che sono degli orsi mannari (tutta l'idea dello spezzone sta nel doppio senso di werebears!), si continua con un crossover fra Anna Frank e un Frankenstein ebreo (con Hitler come protagonista) si conclude con una sequenza di merde merde che fanno cose; poi si finisce con il quadro entro cui tutto è inserito, cioè una apocalisse zombie-sessuale in un drive in.

Inutile ulteriormente sottolineare la pochezza delle trame che non provano neppure a fare omaggi o citazioni, ma si accontentano di citare un nome e creare giochi di parole e sequenze ironiche per motivi tra il demenziale e il coglione. Non si tratta di parodie, ma di sfruttamento di nomi che, forse, neppure si conoscono davvero. Non si tratta di omaggi perché bisognerebbe sapere cos'è il materiale di partenza.
A livello estetico, ancora una volta, lo sforzo è minimo virando solo i colori in maniera totalmente pretestuoso (in "Wadzilla" che significato hanno quei colori?).

Dunque una parodia che sembra non sapere su cosa si basa e realizzata con l'idea che se è camp allora andrà bene per forza (una delle idee peggiori nate, involontariamente, da Tarantino), il tutto con l'idea continua di parlare di horror senza neppure provarci a fare degli horror.
Al di là del titillamento dell'ego dei registi non si capisce molto il motivo di questo film.

lunedì 26 novembre 2018

Bed time - Jaume Balagueró (2011)

(Mientras duermas)

Visto in DVD.

Un portiere di condominio servizievole e gentile (e depresso), ama, in realtà, vedere la gente soffrire; mantenendo una facciata pulita si impegna quotidianamente per peggiorare la vita dei condomini.
Detto così è cosa di poco conto, ma dire di più sarebbe spoiler; anche se in quasi tutte le immagini si capisce uno dei punti fondamentali...

Thriller malatissimo di grande stile ed efficacia. Comincia con una calma olimpica giocando con le percezioni dello spettatore e smontandole tutte senza dare nessun elemento per capire le motivazioni, ma ancora di più, fin dove si spingerà.
La sceneggiatura è semplice, ma congegnata alla perfezione e da la possibilità di creare senquenze incredibile; possibilità che Balagueró coglie al volo, come nella scena in cui il portiere rimane bloccato dentro l'appartamento della ragazza (perfetta per la tensione continua e per la capacità di far parteggiare per il protagonista che già si è imparato ad odiare).

Finalmente dismessi i panni del regista di found footage, Balagueró, può finalmente dimostrare di saper essere elegante e deciso e capace di creare un film dal pacchetto estetico adatto alla storia raccontata e semplicemente preciso.

Ottimo anche il cast che sembra totalmente in parte con una menzione d'onore per Luis Tosar che recita per sottrazione (non per moda, ma perchè richiesto da un personaggio che si nasconde dietro un falso sorriso) riuscendo a far trasparire i suoi reali sentimenti con un solo sguardo trattenuto.

Il film regge benissimo per tutta la sua durata con momenti apertamente weird e altri di pura tensione; con l'aggiunta di rendere sempre credibile una storia che di credibile ha ben poco e di far empatizzare con vitteme realmente innocenti. Il finale è un anti climax forse un pò troppo spinto, ma assolutamente non tranquillizzante o consolatorio, anzi.
Inoltre il film presenta uno degli omicidi più efficaci (per effetto disturbante sullo spettatore).

lunedì 8 ottobre 2018

You're next - Adam Wingard (2011)

(Id.)

Visto in Dvx.

In un cottage in mezzo al nulla, una ricca famiglia si riunisce per festeggiare l'anniversario di matrimonio dei genitori, i quattro figli verranno ognuno con il partner. Durante la cena in cui tutti gli odi repressi verranno esposti in maniera esaustiva arrivano dei tizi che cercano di ammazzare tutti con balestre e spranghe come nel migliore home invasion. Come nel migliore home invasion il film non finisce dopo tre minuti per il grande numero di vittime e per l'organizzazione che la ragazza di uno dei fratelli riesce a mettere in piedi.

Sono anni che ho i primi film di Wingard e che avrei voluto vedere in ordine cronologico, ora che non trovo più "Pop skull" e che alla fine mi sono rotto di aspettare ho deciso di vedere questo "You're next". Il film è magnifico, ma bisogna fare dei distinguo.

A livello puramente tecnico ci sono poche pecche; la fotografia è ottima, c'è un uso degli spazi notevole (la villa è enorme, ma sembra una gabbia minuscola, il vasto mondo esterno sembra totalmente precluso) e un'estetica perfetta (le maschere degli aggressori sono magnifiche) e Wingard sembra divertirsi ad avere a disposizione così tanti attori e così tante possibilità. Il cast non è impeccabile (ci sono gli amici, registi, di Wingard, non ottimali come attori, che però tendono a morire abbastanza velocemente), ma è decisamente buono nel suo complesso. Dal punto di vista horror la lunga introduzione si fa perdonare da un incipit splatter, una serie di inquietudini efficaci e da un inizio vero e proprio notevole; il body count finale è alto e i metodi di omicidio sono fantasiosi e variegati e utilizzano in maniera drammatica la location domestica. In poche parole il pacchetto è di livello più che egregio.
Quello che può far storcere il naso è la non purezza della vicenda. Quello che nasce come uno splendido e terribile home invasion rapidamente si ribalta e i cacciatori diventano prede a loro volta aumentando le potenzialità del film, ma ammazzandone completamente l'effetto emotivo. Se in un home invasion gli invasori, hanno un volto e non sembrano più creature indistruttibile e insondabili, diventa solo un duello, magari ben realizzato, ma l'inquietudine assimilabile a una punizione divina viene buttata.
Personalmente, nonostante il calo drammatico, rimano un grande film.

mercoledì 22 agosto 2018

The strange thing about the Johnsons - Ari Aster (2011)

(Id.)

Visto qui.

Il furbo cortometraggio (il primo) di Aster è un thriller che parte da presupposti shockanti (SPOILER: l'amore incestuoso del figlio per il padre che diventa ossessione) per colpire il pubblico e far parlare di sé, ma anche per un'idea di famiglia come centro delle problematiche e della agnizioni sociali (l'inferno, non sono gli altri, è la famiglia). Il video, ovviamente, divenne virale.

Aster però utilizza il corto per una prova muscolare di regia. Gestisce le scene con libertà di movimento (piani sequenza interni), costruendo scene classicheggianti (luci e ombre lunghe come nei film anni '40), interni e abbigliamenti perfetti che stridono enormemente con quanto succede dentro di loro (ma seriosi e verosimili, lontani dai pastelli di Tim Burton) che diventano parte della vicenda.

Il vero problema del film non è la pretestuosità dell'assunto iniziale o di alcune scene specifiche (quello che viene visto dalla madre durante il matrimonio), ma nella scrittura, claudicante, improvvisa nei picchi, scarsa nel creare tensione dove pretende che debba essercene, ma sopratutto inverosimile nei sentimenti estremi che muovono i personaggi. Tutto è possibile al cinema, anche un omicidio interno a una famiglia da parte di una persona equilibrata a causa del dolore e dello "stress", ma bisogna arrivarci bene e non farlo cadere addosso.

In ogni caso un'opera prima buona che  mostra quello che avverrà in futuro.

mercoledì 3 gennaio 2018

Kill list - Ben Wheatley (2011)

(Id.)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Nel breve riassunto ci sarà uno spoiler, lo spoiler minore dei due twist di trama.
Crisi familiare a causa dei soldi che cominciano a scarseggiare dopo otto mesi di inattività del padre. Il padre di lavoro fa il killer. A cena con l'amico di sempre, l'amico gli propone un lavoro fresco fresco; dovrebbero uccidere solo 3 persone. Lavoro facile, ma quando finalmente cominciano le cose non sembrano andare come dovrebbero; lui si fa prendere la mano da un coacervo di pedofili, mentre le vittime dei loro assassini sembra che sperassero di fare quella fine.

Film atipico che inizia come un dramma familiare fatto di sfuriate e riappacificazioni, con una tensione latente in ogni scena e che si conclude con una cena fra amici.
Poi comincia il secondo film; un thriller su una coppia di killer che si fanno prendere la mano. Secondo film duro, violento, che non fa sconti allo spettatore, ma neppure grufola nello splatter.
Poi inizia il terzo; non c'è niente di soprannaturale, ma la gestione dei personaggi, dei luoghi e delle emozioni è quella di un horror perfetto, passa dal genere attacco degli zombi alla home invasion in un crescendo di ansia che esplode nel potente finale.

Un film fatto di tre film, dove l'inquietudine è sempre presente, ma il ritmo è lentissimo all'inizio, per farsi pi sostenuto nella seconda parte, per poi diventare frenetico nel finale.

Un film che può essere facile odiare (il ritmo latitante e i continui cambi di registro), ma che in realtà è un'intelligenti commistione con un piano ben preciso portato avanti sottotraccia fin dalle prime inquadrature.

venerdì 22 dicembre 2017

Life's too short - Ricky Gervais, Stephen Merchant (2011)

(Id.)

Vista in Dvx, in lingua originale sottotitolata in inglese.

Serie televisiva britannica del solito Gervais incentrata sulla vita di Warwick Davis, attore ormai in declino, ma ancora tronfio e arrogante. La scusa è quella di un documentario sulla sua vita (che vorrebbe sfruttare per rilanciare la carriera), ma mentre viene seguito dalle telecamere deve subire il divorzio dalla moglie, enormi multe da parte del fisco, tentativi di lavoro che saranno sempre più disastrosi e un'umiliante questua di lavoro, prima, e di soldi, dopo.

Per chi conosce lo stile di regia e lo stile comico di Gervais qui si troverà a casa.
Con la scusa del documentario viene motivata la classica macchina da presa asettica, i frequenti montaggi o i passaggi rapidi da un volto all'altro; il tutto con i classici colori insipidi che sono ormai una firma.
La comicità poi è sempre quella (la serie è scritta assieme al fido Merchant), inglese, spesso fatta più di situazioni improbabili, spesso pesante, che prende di petto il politicamente scorretto.
Inutile dire che il telefilm funziona. Funziona perché la comicità già nota può concentrarsi sul distruggere il personaggio di una star morta da anni che si crede ancora famoso, e per di più questa star è un nano; questo dettaglio poi è usato benissimo, Davis si muove in un mondo in cui il suo nanismo non sembra destare alcuna reazione, ma in cui il concetto di nanismo è continuamente preso in giro, con solo un paio di scene in cui lo sfottò è rivolto all'inadeguatezza fisica più che a quella morale.
Come sempre in ogni puntata c'è una guest star, la presenza di Liam Neeson è il valore aggiunto e la svolta della prima puntata, le altre si limitano al loro compito senza infamia e senza lode.

Su tutto però troneggia Warwick Davis. Da applausi l'autoironia che gli ha fatto accettare il personaggio di un sé stesso stupido e tronfio in un telefilm dove deve anche cadere da una macchina perché troppo alta o arrampicarsi si una libreria. Un applauso ulteriore perché dimostra anche una capacità attoriale che, sinceramente, non gli conoscevo, dimostrando di essere un attore capace, di classe e dotato di autoironia.

mercoledì 20 dicembre 2017

Corman's World: Exploits of a Hollywood Rebel - Alex Stapleton (2011)

(Id.)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Nel 2010 viene assegnato a Roger Corman un oscar alla carriera tanto doveroso quanto ambiguo. Doveroso per aver creato un modello di produzione simile in molte cose a quello delle major degli anni d'oro di Hollywood, solo con pochi soldi e con tuta la libertà e la fretta di fare tanto della nuova Hollywood (le liste con Corman tendono a diventare un testo a sé, comunque, citerei solo Scorsese, Coppola, Hopper e Demme tra i registi); doveroso per aver dato la possibilità a dei giovani di farsi le ossa e poter poi diventare gli autori più importanti del decennio successivo ed essere oggi considerati dei classici; doveroso per la sua continua dedizione alla distribuzione che affiancava ai drive-in movies anche opere europee intellettuali che, altrimenti, non sarebbero state proiettate nei cinema USA; doveroso, infine, per la continuità e la serietà del suo lavoro come regista e produttore, nel mettere in scena ciò che al pubblico poteva piacere, ma non era realizzato dalle major.
Dall'altra parte, l'Oscar, è stato un premio ambiguo, dato a un uomo di cinema che ha sempre lavorato in contrapposizione a Hollywood e che nello spreco di denaro per i film delle major vede un'oscenità morale.
L'Oscar ha dato un colpo di grancassa al nome ormai nel dimenticatoio di questo autore e produttore ancora attivo e a parte una cerimonia a lui dedicata con la presenza di tutti quelli che gli dovevano qualcosa, qualche intervista, una serie di uscite in DVD dei sui classici più famosi, l'anno successivo venne realizzato questo documentario.
Non è il primo documentario su Corman (sicuramente ne uscì uno nel 2006, ma immagino ce ne siano in giro altri), ma, in questo caso, la sommaria descrizione della carriera registica e produttiva del protagonista viene lasciata  alle parole di familiari (il fratello, produttore anch'esso), collaboratori ed epigoni (termine che vorrei senza l'accezione negativa).
Al di là del piacere di vedere Scorsese che ne sottolinea la qualità artistica, Nicholson prima lo sfotte e poi si commuove, Tarantino che introduce la consegna dell'Oscar, Platt che ne sottolinea la parte più umana; al di là, insomma, del puro piacere provinciale di vedere un proprio eroe osannato da personaggi importanti, al di là del fattore emotivo fine a sé stesso; qui si vede un'orazione eroistica di un modo di fare cinema fatto da chi quel cinema l'ha vissuto e goduto ed ora ha scelto di fare altro. Qui c'è la Hollywood ormai considerata classica che esalta l'uomo che negli ultimi 60 anni è stato ostinatamente un outsiders descrivendolo come l'uomo più importante dell'allora nuova Hollywood.

PS: Come aggiunta ci saranno importanti insegnamenti base, come il fatto che se una moto compare in una scena dovrà, per forza di cose, andarsi a sfracellare e poi esplodere, o come il climax ideale degli omicidi del mostro in un film di mostri.

venerdì 13 ottobre 2017

The maker - Christopher Kezelos (2011)

(Id.)

Visto qui.

Un coniglio di pezza deve realizzare un lavoro importante entro un tempo limite, dato da una clessidra (e scandito da dei violini), oltre quel tempo tutto finirà...

Tecnicamente appare leggermente inferiore al precedente "Zero", tuttavia è possibile che ciò sia dovuto alla creatura utilizzata come protagonista, realizzata in maniera più incongrua (ma con buoni motivi).
Quello che rimane inalterato è lo stile timburtiano, di cui viene aumentato molto l'effetto perturbante rispetto al precedente, ma permane una fortissima componente emotiva (e l'idea di fondo è di una tenerezza che spezza il cuore); tuttavia il lato oscuro è altrettanto rappresentato, anzi, è più rappresentato che nel precedente mentre viene eliminata gran parte della componente consolatoria.

Cambia, invece, la tipologia del cortometraggio; nel precedente c'era una storia completa, qui ci si inserisce in una serie di eventi già cominciati (chissà da quanto tempo) e si arriva in fondo senza ottenere una vera e propria fine (ma solo perché un finale vero e proprio è impossibile). Qui il corto vive solo dell'idea iniziale e nient'altro, dura la metà di "Zero", ma l'effetto è potente il doppio, senza bisogno (finalmente) di stampellarsi con una voce fuori campo.

Davvero un corto quasi perfetto. ambientazione impeccabile, estetica azzeccata, sentimenti al posto giusto, creazioni magnifiche, ritmo perfetto e un accompagnamento musicale (diegetico ed extradiegetico in base al momento) da applausi.

lunedì 2 ottobre 2017

Himizu - Sion Sono (2011)

(Id.)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Mentre sullo sfondo arrivano le notizie di una Fukushima distrutta dallo tsunami, un ragazzo che affitta barche su un lago e vive con la madre disadattata viene insidiato da una compagna di classe innamorata di lui (e anche lei con grossi problemi di socialità). Il ragazzo sarà perseguitato anche dal padre alcolizzato sempre alla ricerca di soldi e uno yakuza a cui il padre (che si da alla macchia) deve 6 milioni di yen.

Da "Cold fish" in poi (o forse prima, ma mi manca qualche pezzo) lo stile di Sono è cambiato; dal baraccone kitsch precedente lo stile si è fatto più raffinato, le storie più lineari, meno assurde e, forse, più dure, la fotografia diventa parte fondamentale del racconto, curata, ma non carica e sempre uguale. Qui poi c'è u interesse particolare per le luci, splendide quelle in notturna (soprattutto quelle fluo o le candele di alcuni interni e le lampadine degli esterni). Personalmente preferisco questa seconda vita di Sono.
A questo si aggiunge la regia affascinante di cui è spesso capace; splendidi carrelli (frontali o laterali) piuttosto lunghi, semplici, ma ben realizzati e almeno un dolly da urlo (quello della scena dell'omicidio con la pietra) lineare, ma enorme.
Cast eccezionale.

Anche la tram aè in linea con quella di "Cold fish" con una famiglia allo sbando come parafrasi del Giappone (e anche il disastro di Fukushima diventa una continua metafora). La storia regge molto bene nella prima parte, ma da almeno metà in poi ci si rende conto che Sono soffre dello stesso problema di sempre, non sa quando fermarsi. Il film diventa lungo, pesante e dispersivo, sembra non sapere dove andare a parare (c'è anche la sottotrama dei 6 milioni di yen recuperati dall'ex manager che è uno splendido inserto alla Fritz Lang, ma che è totalmente inutile ai fini della storia). Peccato.

venerdì 17 febbraio 2017

Alpeis - Yorgos Lanthimos (2011)

(Id.)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Un gruppo di persone si fa pagare per sostituirsi ai famigliari morti improvvisamente e rendere il distacco più accettabile; fingono di essere la persona deceduta, fingono una vita uguale alla precedente e poi creano un momento di rottura, un litigio, un tradimento, qualcosa che costringa i famigliari a disprezzarsi e allontanarsi. Tra i quattro che lavorano come sostituti si creano però dinamiche particolari e attriti.

Lathimos rimane fedele al suo stile gelido, una sorta di manierismo che lavora per sottrazione, con un cast obbligato all'inespressività (come già de Oliveira o Bresson) e con una fotografia dai colori desaturati. Oltre allo stile, come in "Kynodontas", il regista porta avanti una precisa volontà di menzogna come versione edulcorata della realtà, che però risulta essere più malata, più psicotica e, come in "Kinetta" (che non ho ancora visto, ma di cui ho letto in giro), c'è la sostituzione, la creazione di una realtà non immaginaria, ma semmai mai conosciuta direttamente.
Questo per dire che, in linea di massima, chi ha apprezzato i lavori rpecedenti del regista apprezzerà anche questo film, chi li ha odiati odierà anche questo film.

Personalmente trovo lo stile del regista incredibilmente respingente e ho tollerato poco "Kynodontas" (anche se mi pare di esserne l'unico detrattore) perché mi è sembrata solo una dimostrazione d'intenti senza contenuto, una sorta di versione intellettuale di "Hostel" (mi si passi il paragone estremo), la volontà di shockare con un'idea intelligenti, ma declinata senza nessuno scopo, solo un allungare l'idea per tutto il minutaggio del film.
Qui però Lathimos fa un passo avanti. L'idea di fondo rimane fondamentale ed è il volano di una vicenda altrimenti inesistente, ma non rimane in maniera masturbatoria a raccontare quell'idea e basta, qui i personaggi sono tridimensionali e devono gestire una tensione fra loro anche collegata alla loro professione, ma in parte indipendente da essa. Gli obiettivi sono alti (altissimi) e pertanto non vengono raggiunti appieno, il ritmo è debilitante (credo anche per gli appassionati del regista greco), e un cast maschile imbarazzante (non recitano epr sottrazione, i due coprotagonisti maschili recitano male e basta), ma questo è un film decisamente migliore. Meglio gestito, malato quanto il precedente (ma in maniera più fine), con una voglia di grottesco maggiore (anche se si condensa in un minor numero di scene efficaci in questo senso; ma meglio utilizzato).

mercoledì 25 gennaio 2017

Melancholia - Lars von Trier (2011)

(Id.)

Visto in Dvx.

Una donna affetta da depressione si sposa, il giorno del suo matrimonio sembra che tutto vada per il meglio, ma all'improvviso viene, nuovamente, colta dall'angoscia; tutto andrà a catafascio. Il giorno dopo rimane dalla sorella dove assiste all'avvicinamento di un pianeta, Melancholia, che dovrebbe sfiorare la terra senza causare danni, ma quando i calcoli degli astrofisici sembrano sbagliare e la tragedia sembra totale e inevitabile è proprio lei che riesce a mantenere il controllo.

Sarà da una vita che non vedo un film di von Trier e stavo cominciando a dimenticarmi di quanto è bravo. Al di là della sua voglia di shockare, al di là delle sue trame cupe e respingenti, al di là delle sue assurde fisse stilistiche degli anni '90, al di là di tutto von Trier rimane uno dei migliori costruttori di immagini che il cinema abbia al momento. L'incipit del film dove viene mostrato lo scontro fra pianeti accompagnato da una serie di immagini tra il reale e il simbolico dura almeno sette minuti, tutti di rallenty, tutti quasi senza azione, tutti dal significato criptico, eppure è uno dei momenti più belli che abbia visto in un film ultimamente; costruisce non delle sequenze, ma dei quadri simbolisti, delle immagini dalla fotografia impeccabile, dal significato oscuro, ma dal mood perfetto e pervasivo. Questo è un film sull'angoscia e il messaggio ci viene completamente veicolato con ogni singolo fotogramma, anche preso singolarmente.
Poi si passa alla prima metà del film, la parte della festa di matrimonio, che da momento di gioia diventa sempre più cupo. Anche qui l'angoscia è perfetta, il senso di claustrofobia, di imprigionamento (nonostante sia un matrimonio voluto e, forse, desiderato) è totale; mai nel cinema di von Trier si è percepita una tale negatività senza scampo (neppure nei suoi capolavori passati). Con niente in mano il regista veicola un intero mondo di sensazioni. Lo stile è un simil-Dogma, pur concedendosi tutte le cure del caso.
La seconda parte del film ritorna a essere una sequela di quadri. La fotografia torna curatissima, la costruzione delle inquadrature diventa predominante con punte di lirismo assurde e bellissime (la Dunst nuda [a proposito, grazie Lars] o la bellissima scena finale con il gigantesco pianeta in secondo piano e la famigliette in campo lungo). Qui l'argomento diventa più pesante (non si discute più di un matrimonio, ma del rischio che la Terra venga distrutta), tuttavia il mood si alleggerisce (fino a un certo punto), le vie di fuga scompaiono, ma la gigantesca angoscia di vivere della protagonista, sembra darle lucidità nel momento di maggior stress per un essere umano. Di fatto von Trier fa provare al suo pubblico le stesse sensazioni che prova la protagonista e in questo lavoro riesce totalmente. Ancora una volta c'è la totale assenza di speranza, ma vista con un'ottica lievemente diversa.

Un cast stellare, tutto, completamente, in parte; a cui si può imputare, al massimo, il difetto di essere sottoutilizzato. La Dunst è decisamente al suo meglio.


lunedì 17 ottobre 2016

Una separazioni - Asghar Farhadi (2011)

(Jodaeiye Nader az Simin)

Visto in  tv.

Una coppia sposata chiede la separazione; la moglie ha ottenuto i permessi per andare all'estero (cosa non facile in Iran), ma il marito non vuole lasciare il paese (il padre, affetto da demenza rimarrebbe da solo). La donna vorrebbe solo forzare la mano al marito che però non cede e lei lascia la casa. L'uomo deve cercare qualcuno che tenga d'occhio il padre per poter andare al lavoro e trova una donna, fervente mussulmana, disposta. I rapporti con la "badante" non sono semplici, lei tentenna molto (non se la sente di lavare l'anziano per motivi religiosi) e a causa di alcuni mancamenti vorrebbe che il lavoro lo facesse il di lei marito (che non sa nulla della vicenda, visto che non accetterebbe che la moglie andasse a casa di un uomo separato). Durante l'ultimo giorno di lavoro della donna, lei deve assentarsi e lega l'anziano al letto; ritornato in anticipo il protagonista scoprirà la cosa e litigherà con la donna, spingendola fuori di casa. Riceverà una denuncia in quanto, a causa della spinta ricevuta la donna ha perso il bambino di cui era incinta.
In realtà neppure qui è finita la vicenda, ma spoilererei troppo.

Stile realistico senza sforare nell'autorialità alla Dardenne, con un occhio sempre alla qualità dell'immagine e, quando può, alla costruzione equilibrata dell'inquadratura (anche se è evidente che non è una priorità).
La trama articolata non inficia la scorrevolezza che rimane sempre alta e l'interesse è mantenuto attivo dai vari canoni che si sovrappongono. Ovviamente questo è un family drama con un'intensa emotività esposta, ma ha le peculiarità di un thriller (o di un poliziesco televisivo) per l'insistenza nel trovare la verità durante il processo (non è il processo in sé a essere centrale, ma la ricerca della verità su quanto successo da parte dei personaggi coinvolti) il tutto inserito in una ricostruzione della quotidianità iraniana interessantissimo (e maggiore che non nei capofila del neorealismo iraniano che hanno invece prodotto delle fiabe) e uno svolgimento complessivo che è intricato quanto un noir (ma voglio sottolineare che non è un poliziesco o un film di genere).

Ma quello che determina il salto di qualità dal bel film al capolavoro è l'obiettivo. Questo non vuole essere un film accomodante, anzi, vuole mostrare l'impossibilità di stabilire la verità. Tutto in questo film è in bilico, tutto è impossibile da dimostrare; le ricostruzioni dei fatti divergono, i personaggi ometto o mentono candidamente, anche quando si giunge allo scioglimento finale si arriva con il dubbio rimasto intatto (in quanto nessuno può essere sicuro di quanto affermato dagli altri); addirittura nell'ultima scena, dove deve essere presa una decisione da parte della figlia della coppia, la risposta a quella semplice domanda non ci viene rivelata (ma è altrettanto interessante l'episodio dei soldi rubati, dove il protagonista dice di sapere che non è stata la donna accusata ad averli presi, ma non arriveranno mai a esplicitare la soluzione).
Impossibile quindi arrivare a una soluzione; risulta quindi difficile parteggiare del tutto per qualcuno, anche perché in presenza del primo personaggio apparentemente negativo, nel finale si rivelerà essere la vittima di tutta la vicenda.
L'ambivalenza della trama riesce anche ad avere un (evidente) risvolto politico. Tutte le situazioni passibili di censura non possono essere tagliate perché il film non permette di capire se sono reali o meno (la mancanza di religiosità del protagonista, gli atti di violenza, ecc...). Quando invece sono esplicitati vengono apertamente avversati dagli altri personaggi senza che per questo vengano sminuiti; sono quindi messi a tacere con una contro tesi (e quindi sono accettabili per la censura) pur senza esserne indeboliti (basti il bellissimo incipit con i due coniugi che parlano in macchina da presa e la donna spiega che vuole andarsene dall'Iran per cercare una vita migliore, interrogata sulla questione dal giudice viene zittita con la fedeltà alla patria del suo stesso marito, ma la sua idea non cambia e le due tesi vengono solo rese esplicite, ma non sostenute da fatti o motivazioni, dunque tutte e due restano valide).

PS: in tutto questo non sono neanche riuscito a dire quanto sia appropriato il cast e quanto siano capaci i protagonisti e gran parte dei comprimari; una recitazione complessiva da applauso.

lunedì 1 agosto 2016

Weekend - Andrew Haigh (2011)

(Id.)

Visto a un cineforum, in lingua originale sottotitolato in spagnolo.

Nella provincia inglese un ragazzo gay si porta a letto un altro ragazzo. La mattina dopo il distacco sarà più difficile del previsto; si rivedranno nel giro di pochissimo tempo, anche perché il ragazzo appena conosciuto alla fine di quel weekend dovrà partire per gli USA per due anni.

Togliamo subito tutti i dubbi: questo è un film romantico, molto chiacchierato, girato con una macchina da presa a mano. Mi pare che abbia solo caratteristiche negative...
Invece, la netto di qualche lentezza di troppo (davvero, i film quasi interamente chiacchierati mi sono difficili da portare a termine) si dimostra incredibilmente digeribile ed estremamente interessante in maniera molto simile, all'altrettanto chiacchierato, ("Prima dell'alba").
La macchina a mano molto mobile non è mai lasciata a sé stessa, ben controllata rende il film estremamente verosimile senza essere disturbante; intercalata com'è con intermezzi statici degli ambienti (per lo più case popolari) dove si muovono i personaggi in maniera incredibilmente affine ai lavori di Rosi.

Al di là della regia utilitaristica e non fastidiosa, il film vince per la semplicità (apparente) dell'argomento; una storia d'amore rapidissima messa in mano a due protagonisti combattuti. Combattuti dal desiderio di una relazione nonostante la conoscenza di una notte, il desiderio di frequentarsi senza sentirsi il giogo di una relazione (da parte del coprotagonista), il desiderio di una storia continuativa scevra dalle ipocrisie borghesi (forse il punto più debole e patetico del film messo in bocca al protagonista che ha velleità artistiche... luogo comune ormai inaccettabile, ma tuttavia toccato in maniera superficiale) infine il desiderio di una storia continuativa nonostante l'impossibilità di poterla avere.
Film tenero e dal sentimento privato che diviene universale girato bene e messo sulle spalle di due attori fantastici (perfetti per la parte, soprattutto Cullen che è un maestro nel mostrare sentimenti trattenuti).

La questione dell'omosessualità è decisamente sullo sfondo, ovviamente affrontata (l'outing, l'accettazione da parte della famiglia o degli amici, i rumori di fondo dei commenti omofobi), ma non diventa mai preponderante rendendo, quello che poteva essere un film più di nicchia, un film sull'amore (e del tipo migliore, per giunta).