lunedì 28 settembre 2020

Silence - Martin Scorsese (2016)

(Id.)

Visto su Netflix.

Se lo Scorsese degli ultimi anni pè diventato sempre più ipertrofico nella durata dei suoi film, nelle sue due ultime opere si abbandona anche a un ritmo lento che può renderne più difficile la digestione (beh non per me, ma immagino che possa). Il livello per fortuna rimane altissimo.
In questo film (organizzato e pensato per quasi 30anni, non a a caso vicino a "L'ultima tentazione di Cristo") Scorsese torna con una potenza incredibile sul rapporto con la fede, azzera tutti gli altri suoi topos classici e si concentra su quello.
La lunga epopea di questi due preti nel temibile Giappone di fine '600 alla ricerca di un altro prete cattolico (religione messa al bando e pesantemente punita) è un apocalypse now della fede, un lento immergersi nei rischi supportati solo da una sicurezza che non può cedere o tutto è perduto.
E Scorsese gestisce benissimo la materia, utilizzando la natura (pervasiva almeno per la prima metà), gli alberi, l'acqua, come forze sferzanti, come prima ordalia da affrontare, ma che non nega la presenza di un dio; mostrando la paura attraverso il coraggio altrui. Si concede poi un lungo showdown incastrato negli edifici tradizionali giapponesi, il passaggio è netto, la perfezione geometrica dei palazzi, la pulizia estrema, sono una gabbia in cui rinchiudere i cristiani, ma in cui è anche impedito al loro dio di entrare. Nel lungo finale è tangibile l'assenza di dio, trattenuto dalla forza (morale) dei giapponesi (che sembrano i vincitori della vicenda) e l'ultima inquadratura è la crepa nell'edificio perfetto, la falla che permette il fluire della divinità in quel mondo asettico.

Il film è largamente imperfetto, eccessivo e lunghissimo; ma è formalmente impeccabile (come sempre), di un perfezione che definisce anche il contenuto.
L'eccessiva lunghezza e ripetitività non possono farlo considerare un ottimo film, ma se si trattasse di un fallimento (che non è) sarebbe un dei più belli e intensi di sempre.
Personalmente non credo che lo vorrò rivedere a breve, ma è uno Scorsese in grandissimo spolvero e, nel suo continuo interrogarsi sulla fede, probabilmente uno dei migliori.

PS: non ho riconosciuto Tsukamoto nella parte dle fedele del primo villaggio!!!!

giovedì 24 settembre 2020

Michael - Markus Schleinzer, Kathrin Resetarits (2011)

(Id.)

Visto su Mubi, in lingua originale sottotitolato.

Un uomo piuttosto grigio vive da solo, isolato da tutti gli affetti; ma in compenso tiene prigioniero in uno scantinato un  bambino di 10 anni come schiavo sessuale.
Incredibile quanto siano evidenti le fonti di ispirazione di questo film, da una parte la cronaca austriaca del recente passato, dall'altra il cinema di Haneke.
Un giorno qualcuno dovrà denunciare il fatto che Haneke si sia fagocitato il cinema austriaco (almeno quello di genere che esce dai confini nazionali) appiattendolo sul suo linguaggio anche quando non si è in grado di gestirlo. Se Seidl tutto sommato si è affrancato con una certa personalità, è evidente la presenza hanekiana in "Lourdes" e, meno grezza, in "Goodnight mommy". Tra questo film ci si può infilare anche quest'opera di Schleinzer.
Fra tutti Schleinzer è quello che ha più diritti su Hankee avendo collaborato con lui per anni, ma qui non si fa mancare molto. Una situazione verosimile, ma estrema per contenuti, un ritmo rallentato, pochi dialoghi, una regia (e dei personaggi) gelidi, l'inizio della storia in media res, ecc..
Schleinzer costruisce il suo film sul distacco e l'accanimento sui personaggi, ma lo fa in maniera meccanica. Ha un'idea (quella della trama e della volontà di come mostrarla), ma poi si attacca a stilemi senza riuscire a gestirli del tutto. Se il gelo di Haneke funziona è grazie all'umanità dei suoi personaggi, per lo più tartassati da un'entità incombente (e spesso non chiara), ma sempre ricchi di emozioni.
Qui invece il gelo è ovunque e l'incombente non c'è; quindi l'empatia finisce subito e il film prosegue lento verso un finale aperto (ma indubbiamente positivo).

lunedì 21 settembre 2020

Un sogno chiamato Florida - Sean Baker (2017)

(The Florida project)

Visto su Netflix.

La vita di una bambina che vive con la madre single in un motel (riconvertito in appartamenti di case popolari) nel quartiere che Walt Disney aveva pensato come residenziale per i lavoratori (e turisti) di Disneyworld. Di questo esperimento sociale architettonico è rimasto un quartiere fieramente kitsch, tutto colori pastello, nomi buffi ed edifici a forma di maghi o gelati, dove i turisti hanno paura d'andare e dove la povertà è endemica.
In questo contesto la bambina vive le sue giornate con gli amici del posto e aiuta la madre nelle piccole truffe che danno loro da vivere.

Un piccolo film europeo nella realizzazione, girato con i ritmi, le location e il tono americano. Un connubio che immerge il cinema documentaristico dei Dardenne dentro la classica epopea degli outsiders americani.
Il film è realizzato benissimo con alcuni picchi di regia (per lo più concentrati nel finale) che si fanno ricordare (l'ultimo vaffanculo della madre ho letto in giro sia stato paragonato a Spike Lee prima maniera, paragone perfetto) e con una piccola protagonista che sembra non recitare, ma vivere quella vita (un pò tutti gli attori bambini del film sono bravissimi).
Il film è appesantito dal suo stesso registro con un didascalismo esagerato che porta le singole scene a essere slegate le une dalle altre e ad assumere senso per accumulo, le cui fila vengono tirate nel finale. Più che una scelta coraggiosa, è proprio il limite dal documentarismo utilizzato in questo modo.
Ottima la prestazione di Dafoe (che è incredibilmente composto e preciso) che si avvale dell'unico personaggio tridimensionale del film, l'unico con un animo complesso che viene descritto dalle sue azioni e non dalle dichiarazioni.
Su tutto però il vero valore aggiunto di un film comunque buono è il tono complessivo. Questo film di diseredati immersi in un mondo grottesco è virato nell'ottica della sua piccola protagonista; questo è un film realizzato con lo sguardo di una bambina, senza sentimentalismi o sconti, ma con tutta la leggerezza del caso.

giovedì 17 settembre 2020

Un sogno lungo un giorno - Francis Ford Coppola (1981)

(One from the heart)

Visto su Mubi, in lingua originale sottotitolato.

Dopo la lavorazione ai limiti della follia di "Apocalypse now" e il suo gigantesco e insperato successo Coppola ha in mano un pacco di soldi e sa come usarli. Vuole far tornare l'epoca d'oro di Hollywood sia come tecniche per fare i film sia nei valori produttivi.
Ri-immette denaro nella boccheggiante Zoetrope (era già stata fondata una decina d'anni prima con il pacco di soldi dei due Padrini, ma aveva rischiato il collasso proprio con Apocalypse) mette sotto contratto perenne una serie di attori, acquisisce teatri di posa giganteschi e si butta anima e corpo nella realizzazione di questo film.

La trama è riassumibile con una coppia si ama, ma litigano, ognuno si separa per un giorno coltivando il sogno di andarsene con un altro, nessuno dei due ce la farà, si renderanno conto di amarsi ancora e torneranno insieme.
La storia non è solo banale, ma estremamente semplicistica, per gran parte del film quasi assente, perché Coppola vuol fare altro, vuole fare un film totalmente figlio della regia e, nello stesso tempo, mostrare i muscoli con una capacità produttiva enorme. Tutto il film è ambientato in una Las Vegas ricostruita in studio (anche la scena finale dell'aeroporto), scelta che permette al regista di gestire le luci in maniera totale e sbizzarrirsi con fondali dai colori espressionisti e con la costruzioni di location "outdoor" arredate come dei musei in decadimento. Su tutto aleggia la mano di Storaro, evidente su gran parte delle scelte di messa in scena, ma che risalta nell'uso delle luci nella serie di sequenze in interni dell'inizio (dove il cambio di un colore o una luce che si spegne e una che si accende seguono il cambio di mood della scena). Da applausi anche alcune soluzioni prettamente teatrali portate davanti alla macchina da presa come l'affiancamento delle scene ambientate in case diverse utilizzando dei finti muri che mostrano i personaggi che vi si trovano dietro in base all'illuminazione, questa soluzione originale (al cinema) unita al dinamismo della regia rende la canonica sequenza di separazione della coppia più ritmata e visivamente magnifica.
Ma a fronte di un'idea di tornare al passato per raccontare storie con un taglio moderno e picchi di formalismo mai tentati il film non regge così bene. La rarefazione della storia è totale, fino all'eccesso, ingigantita da sequenze musicali (alcune di ballo vero e proprio, altre degni di un videoclip artistico), il film si trasforma nell'epopea arty di un regista tracotante. Bellissimo, ma difficile goderne appieno.

Il film sarà un insuccesso clamoroso che, da una parte, lo costringerà in futuro ad accettare di tutto per ripianare i debiti, ma dall'altra non lo fermerà dal continuare con i suoi film revival del cinema anni '40-'50, migliorandone di volta in volta, se non la qualità già alta, almeno l'efficacia.

PS: il film è impreziosito dalle musiche del Tom Waits prima maniera, assolutamente perfette; il cast ha per protagonisti due antidivi, ma ha di contorno alcuni semidivi (Julia e la Kinski) oltre a uno Stanton 50enne che si comporta come un ragazzino, fantastico.

domenica 13 settembre 2020

Sto pensando di finirla qui - Charlie Kaufman (2020)

 (I'm thinking of ending things)

Visto su netflix.

parte con un lungo viaggio in macchina dove si parla tantissimo, si fa sfoggio di cultura e si assiste a una neocoppia con diverse idee sul loro futuro. Inizia come un film molto parlato, mai noioso, ma semplicemente non codificabile, con molti dettagli perturbanti. Si arriva alla casa dei genitori di lui (l'obiettivo del viaggio è una cena di presentazione) e il mood si codifica sulle coordinate dell'horror, parte con calma, introduce dettagli weird, marcescenza e morte per poi arrivare a dei glitch nel sistema; ma quando le linee temporali si confonderanno sembrerà di essere di fronte alla migliore rappresentazione di un sogno mai vista al cinema. Poi ci sarà il viaggio di ritorno con due pause e il tono cambierà di nuovo.

Il nuovo film di Kaufman è, come sempre, un regalo che andrebbe scartato senza sapere nulla del contenuto, più se ne sente parlare più l'effetto sorpresa emotivo viene diminuito.

Il nuovo film di Kaufman è, come sempre, un rimestare nella testa di qualcuno, lo fa da sempre, ma è dall'epoca di "Synecdoche" che sembra essersi creato gli strumenti ultimi con cui parlare. Questo film infatti fa il paio con il precedente, ma riesce a cambiare luce anche su quello. Se "Synecdoche" mi era piaciuto, ma non mi aveva entusiasmato la regia e il ritmo, qui non posso contestare quasi nulla; la gestione delle inquadrature è perfetta con un uso claustrofobico degli interni (nella casa i personaggi sono sempre incastrati dentro a linee rette, in macchina sono le inquadrature, sfocate dalla neve, da fuori i finestrini ecc...), tanto quanto degli esterni (perturbati dalla tempesta e con un buio che denso come una parete), la fotografia incredibile (affidata a Zal) rende gustosa ogni scena. La regia insomma è perfetta per rendere il senso e il mood dello script.

Il nuovo film di Kaufman, come sempre, è un capolavoro. Si rimane spiazzati dalla mancanza di linearità della trama, dalla mancanza di senso o di un protagonista chiaro, dai riferimenti inintelligibili e dai continui cambi dei personaggi (d'abito, d'interprete o di carattere); ma anche non capendolo le sensazioni vengono rese perfettamente e la trama nonsense rimane godibile fino al finale (forse, la parte comunque più debole). Ovviamente riuscendo a collegare i puntini quello che viene fuori è poesia sulla mente umana i cui dettagli e easter eggs sparpagliati in giro possono essere trovati tranquillamente sull'internet.

In definitiva è un capolavoro di complessità (ma questo ce lo si poteva aspettare) e di realizzazione (meno ovvio) che sembra un poco claudicante (soprattutto nel finale) e pretenzioso, ma che ti cresce dentro (chiedo scusa per l'abusato cliché, ma è davvero calzante) nei giorni seguenti; subito dopo averlo visto non avrei usato toni troppo entusiastici, ma ora, a quasi una settimana dalla prima visione ho la necessità di una seconda visione.

giovedì 10 settembre 2020

Julieta - Pedro Almodóvar (2016)

(Id.)

Visto su Netflix.

Una donna di mezza età sta per trasferirsi con il nuovo compagno all'estero (dalla Spagna si sposterà in Portogallo), tutto è pronto e lei è decisa, ma l'incontro con una vecchia amica della figlia (che le parla di lei) la riporterà indietro. Mollerà tutto quello che sta facendo, si trasferirà nel suo vecchio condominio e scriverà una lunga lettera in cui ripercorre la sua vita.

Sostenere che ci si trova di fronte a un film originale sarebbe mentire, ma siamo di fronte all'ultimo regista che sembra riuscire a sfornare melò efficacie e attuali senza alcuno sforzo.
Se il melò si basa su un amore contrastato dalla società o dal destino ed è un genere invecchiato tantissimo (per le regole sociali attuali più libere, così come per un generale disfacimento delle storie con sentimenti monolitici), Almodovar trova la via per inserirlo in un contesto nuovo (non ho idea di quale possa essere l'ultimo film con un uomo che muore in un mare in tempesta), che è un continuazione degli anni '30- '40, ma qui più che l'amore in una coppia è il rapporto madre-figlia.
Muovendosi sottotono rispetto al solito, non rinuncia però a tutto ciò che determina la qualità del suo cinema; un colpo d'occhio notevole (i colori sgargianti ci sono anche qui, anche se meno shocking, e sono utilizzati per identificare i personaggi anche nelle loro mutazioni nel tempo) con immagini costruite in maniera geometrica per inserire il personaggio nello sfondo; personaggi mossi dai loro sentimenti e da come questi li legano agli altri (che ne siano consapevoli o meno) e come l'apparenza anche eccessiva sia la superficie su cui si riflettono i mondi interiori.

Siamo di fronte a un Almodovar minore, sicuramente, e la lettera racconto è un espediente meno efficace del solito per raccontare la storia; ma l'intero film si muove sulle dinamiche umane e sui rapporti di forza sentimentali e su questo il regista non sbaglia un colpo e il loro riflesso sull'estetica del film ne da la cifra, anch'essa sottotono, ma sempre riconoscibile.

mercoledì 9 settembre 2020

Tenet - Christopher Nolan (2020)

 (Id.)

Visto al cinema.

per la seconda volta (in tempi recenti) Christopehrer Nolan si scrive il film tutto da solo, ma stavolta non è un film "semplice" a livello di trama come "Dunkirk" (la cui complessità dei piani temporali era tutta fatta dal montaggio), il risultato è decisamente al di sotto del livello usuale.

Come spesso siamo davanti a un film piuttosto semplice nella trama (è una versione di James Bond con i viaggi nel tempo, e in quest'ottica Washington è credibile nella parte, lo lancio come suggerimento), ma che viene reso complesso dalla messa in scena e dalla maniera di raccontarlo, con incongruenze (apparenti o reali), salti temporali e i temibili spiegoni che qui diventano più pervasivi del solito.

Nonostante questi difetti e qualche stridio di troppo, però, siamo davanti a un film meraviglioso. Nolan sfrutta trame complesse, concetti enormi e soluzione sci-fi solo per portare sullo schermo quello che nessuno ha mai fatto prima. La lunga scena della battaglia in due tempi è qualcosa di mastodontico per complessità e accuratezza e decisamente qualcosa che difficilmente verrà mai riproposto. Ed è proprio in scene come queste che salta fuori la vera dote di Nolan, rendere chiari concetti e scene confuse e difficili. A questo si può associare la sempre interessante componente filosofica (semplice, ma mai indagata troppo quella della "bomba inesplosa") e soprattutto che Nolan è uno dei migliori registi action in circolazione.

Siamo di fronte a un autore a tutto tondo che scava nelle psicologie, nei drammi e nei concetti complessi, ma alla fine è l'unico che riesce a rendere fenomenale un aereo che si schianta senza neanche alzarsi da terra (la mia scena preferita del film). Lo ripeto, Nolan è uno dei più grandi registi action in circolazione.


PS: sono io che non l'ho mai notato o questo è il primo film di Nolan con dell'ironia?

lunedì 7 settembre 2020

A quiet place. Un posto tranquillo - John Krasinski (2016)

(A quiet place)

Visto su Netflix.

Dei mostri ciechi sono arrivati sulla terra e stanno estinguendo l'uomo, sono ciechi come si diceva quindi l'unico modo che hanno per cacciare è l'udito, qualunque suono troppo alto li attira e, una volta arrivati, sono predatori efficaci e rapidissimi.

Film dall'idea di fondo potente, ma estremamente versatile nel bene e nel male, con una scrittura poco fantasiosa potrebbe venire fuori un compitino semplice, un film di serie b o un film noiosissimo.
Per fortuna questo è un film di scrittura, di idee e di una regia al servizio della storia (che non avendo parole deve vivere di immagini).
Un incipit lento che introduce nel mondo post apocalittico, alcune scene di raccordo e poi si entra nel vivo. Per entrare nel vivo intendo che, nel momento in cui le cose si mettono male è una lotta costante per la sopravvivenza con mostri che sembrano essere sempre dappertutto e non danno tregua a nessun personaggio fino allo scioglimento finale; un action casalingo che tiene attaccati allo schermo fino alla fine.
Le idee si moltiplicano e sono tutte giocate su come l'uomo (o meglio, questa famiglia in particolare) si siano organizzati e adattati per sopravvivere, con una serie infinita di trucchi, trappole e sistemi di difesa che saranno di volta in volta utilizzati; la gran parte della scrittura è stata dedicata a questo, al rinforzare le mura di Fort Alamo e a renderlo interessante al pubblico senza doverlo mai spiegare.
la regia si concentra invece sui fucili di Checov, una serie di oggetti o situazioni che sono potenziali bombe a orologeria che vengono mostrate (spesso in maniera chiara e non di sfuggita) e che lo spettatore sa che scoppieranno (il chiodo, la gravidanza); accettando il gioco si può ovviare al fatto che nel lungo periodo si tratta di telefonate dirette della regia e godersi la suspense che la nuova inquadratura può creare.
Se il cast è tutto all'altezza, la prova enorme da ricordare è quella della Blunt, perfetta.

Lontano dall'essere il capolavoro che ho letto in giro, è un horror action tutto giocato di rimessa, ma solidissimo, intelligente e originale.

giovedì 3 settembre 2020

My son, my son what have ye done - Werner Herzog (2009)

(Id.)

Visto su Amzon prime.

Un uomo con una madre fagocitante e buona capacità attoriali (sta portando in scena l'orestea che parla di parricidio), sprofonda lentamente nella follia e si sente sempre più chiamato a uccidere la genitrici. La polizia accorsa dopo l'accaduto lo troverà asserragliato in casa.

Il film di Herzog prodotto da Lynch (all'uscita se ne parlò in questi termini e tutt'ora lo conosco per questo motivo) è insieme un viaggio nella follia quotidiana, nel deragliamento dalla normalità al lato oscuro della mente e nello stesso momento, la missione più alta di un uomo disposto a tutto per il bene superiore in cui crede. In definitiva sembra davvero un mix fra gli archetipi dei due registi.

Girato con cura e fotografato benissimo è la ricostruzione a più voci (2 più una terza nel finale) di un uomo, la cui storia verrà spiegata da altri e di cui non sapremo mai niente direttamente.
Lontano anni luce dal thriller che avrebbe potuto essere è il dramma di uomo visto con occhi altrui.

Se l'effetto finale è magnifico per estetica (con qualche mania personale del regista come la presenza pervasiva degli animali o del produttore come il sobborgo borghese dove striscia la weirdness), il ritmo, sempre rilassato, sembra rallentare ulteriormente vicino al finale a mano a mano che il delitto si approssima rendono la visione via via meno empatica anziché aumentare d'efficacia.

Ottimo Shannon che sembra crederci fino in fondo, un plauso a Kier finalmente utilizzato per una parte dove deve davvero recitare per più di 5 minuti.