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domenica 4 aprile 2021

Father and son - Hirokazu Kore'eda (2013)

 (Soshite chichi ni naru)

Visto su Mubi, in lingua originale sottotitolato.

Una coppia upper class giapponese riceve la notizia che il loro figlio di 4-5 anni è stato scambiato alla nascita. Incontreranno la coppia con l'altro figlio e dovranno decidere se tenere la situazione attuale o scambiarsi di nuovo il figlio. 

A fronte di un problema emotivamente devastante, ma pragmaticamente piuttosto semplice da risolvere (credo), con personaggi che fanno scelte o compiono gesti solo parzialmente comprensibili (differenza culturale?), Koreeda imbastisce un film di sentimenti esplosivi che vengono trattenuti.

Perché l'idea di fondo del film è tutto sul cercare parte di sé negli altri; e viene tutto giocato sullo sguardo (metaforico, ma anche quelli letterali) del padre protagonista verso suo figlio putativo e quello naturale nella continua ricerca di parte di sé stesso; il suo sguardo sull'altra famiglia per cercare la propria superiorità all'inizio e i punti di incontro nel finale.

Niente di nuovo, niente di realmente dirompente, ma l'intera trama è gestita con stile ed empatia. Una visione dei protagonisti che li affianca e sembra volerli supportare; una vicinanza che commuove in sé indipendetemente dalla trama già toccante. Qualche minuto in meno e sarebbe stato potentissimo.

domenica 28 marzo 2021

La ragazza senza nome - Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne (2016)

 (La fille inconnue)

Visto su Mubi, in lingua originale sottotitolato.

Una dottoressa di base, dopo una giornata di lavoro decide di non aprire a uno squillo del citofono fuori orario. Il giorno dopo scoprirà che nei pressi dell'ambulatorio è stata uccisa una donna e che era lei ad averla chiamata per cercare di salvarsi. La dottoressa cercherà di scoprire cos'è successo e il nome della vittima sconosciuta come mezzo per zittire il senso di colpa.

I Dardenne hanno fatto un marchio di fabbrica del loro distacco verso i protagonisti e il girovagare con pervicace verso uno scopo difficile da ottenere è quasi sempre la trama principale. Questo film non si esime, ma aggiunge una nota di fatalismo e di colpa che sono una piccola novità... comunque poco sfruttata, buttata all'inizio e alla fine, ma senza un valore nello svolgimento della trama. Ma almeno il finale ne guadagna.

A questo si lega una freddezza generale (come detto nota stilistica) anche nella recitazione (anche qui, molte volte richiesta, ma qui troppo calcata) Che rende il tutto di un'anempatia incredibile.

Rimane la fluidità e la capacità di coinvolgere di un racconto ripetitivo e senza spunti d'interesse particolare, la capacità dei registi di aggrapparsi a un personaggio e di fartene partecipare che tu lo voglia o meno. Lontano dall'essere il migliore, riesce comunque ad essere un buon film.

domenica 21 marzo 2021

The forty-years-old version - Radha Blank (2020)

 (Id.)

Visto su Netflix.


Una ex scrittrice prodigio (una delle migliori sotto i 30 anni) si trova alla vigilia dei 40 anni a insegnare in una scuola sgarruppata, in perenne procinto di scrivere l'opera teatrale politica definitiva, ma sempre alla ricerca di un produttore e pronta ad adattarsi ad ogni richiesta fatto poi salvo pentirsene. Troverà una via di fuga (e un sostegno) nel rap.

Detto così sembra un film cretino, in realtà è, nella prima metà, un film comico magnifico che a fronte di un divertimento continuo e un ritmo perfetto porta avanti un'istanza politica efficace. L'istanza politica non ha molto di nuovo, ma i tentativi di un ex enfant prodige che lotta per rimanere a galla e per tenere in equilibrio le leggi di mercato con l'integrità morale rovinando continuamente ogni passo avanti.

Fotografato in un bianco e nero da applausi e tenuto in piedi con il giusto tono (con un mestiere che è sorprendete in un esordiente) è godibilissimo e interessante per tutta la prima parte... nella seconda parte si spegne.

Nella seconda parte il comico lascia il posto alla commedia scaldacuore, alla vittoria morale della vittima del sistema che riesce, nello stesso tempo, a mantenere in piedi tutti i rapporti umani che sarebbero stati a rischio con quella scelta. Insomma, parte come una commedia donchisciottesca con un personaggio obiettivamente perdente, finisce (all'americana) con il successo dell'arte con la A maiuscola contro un mondo conquista... terribile. Se si considera che tutto il divertimento è lasciato all'inizio la delusione è totale.

PS: le parti rap costringono a vederlo (almeno quelle parti) in lingua originale, la versione italiana è imbarazzante e farebbe spegnere dopo la prima mezzora. 

mercoledì 17 marzo 2021

Scene da un matrimonio - Ingmar Bergman (1974)

 (Scener ur ett äktenskap)

Visto su Mubi, in lingua originale sottotitolato.

Un decennio nella vita di una coppia, l'amore fra i due, l'apparente benessere, lo sviluppo dle rapporto, il distacco, il disprezzo, la violenza, il divorzio, il riavvicinamento.

Un film fiume che da solo rappresenta alcuni dei tratti fondamentali di Bergman:

Come sempre Bergman mette in scena un'esposizione di anime (perse); e come spesso il tardo Bergman mette in scena uno scontro, un gioco al massacro fra anime.

Continua anche ola ricerca della demistificaizone delle peculiarità borghesi e ci gode a mettere in scena la rete di sentimenti che aggroviglia e complica la vita di una coppia normale, addirittura felice (!), ama ravanare nella palude di frasi trattenute e sentimenti inconfessati e lavora di fino sui dialoghi lunghissimi.

La struttura del film è tutta concentrata sui suoi due co-protagonisti. Salvo l'incipit (con una coppia dia mici) tutto il minutaggio e organizzato come una serie di showdown fra i due coniugi in ambienti chiusi e familiari, da soli, senza l'intromissione di nessuno.

L'effetto finale raggiungi grandi momenti quando segue il climax classico, all'aumento dell'emotività dei personaggi aumenta il godimento dello spettatore, ma nell'insieme il film soffre del difetto principale di Bergman: la verbosità. Da sempre il regista svedese si concentra sui dialoghi per dire tutto, ma la regia glaciale è sempre stata all'altezza del compito di snellire il flusso di coscienza, di non impaludare il ritmo in conversazioni da camera; qui, complice la scarnificazione della messa in scena o il minutaggio, l'effetto snellente è diminuito, quasi assente. A fronte di un incipit ottimo e un finale "a sorpresa" nel mezzo c'è di tutto di buono, ma molto di noioso.

mercoledì 10 marzo 2021

Il castello di Vogelod - F. W. Murnau (1921)

 (Schloß Vogelöd)

Visto su Mubi.


Durante una fine settimana di caccia della buona società locale viene invitata anche la vedevo d(appena risposata) di un (ormai ex) notabile; purtroppo si autoinvita pure l'ex cognato della donna, accusato dell'omicidio del fratello, ma scagionato per mancanza di prove. Inevitabile ,lo show down dovuto alla presenza del secondo fratello del morto, un monaco appena tornato da Roma.

Questo film di Murnau è decisamente un minore, la trama è meno granitica dei rispetto ai suoi capolavori, il mood meno penetrante e la decisione di mettere il comic relief in uno dei personaggi secondari della vicenda stempera la tensione accumulabile.

Sia chiaro il film è ottimo, la regia chiara nella tecnica e negli intenti, la struttura narrativa con tutto l'armamentario del perturbante (una sorta di doppio, l'incubo con la mano che ghermisce), ma soprattutto tutta la storia che si rivela sempre più torbida e cinica a mano a mano che vengono svelati i dettagli è sicuramente efficace. Con il distacco del tempo, l'idea del camuffamento risulta stucchevole e affossa un poco la durezza del finale.

Vero neo della vicenda (a parte il comic relief che avrei evitato), un ritmo rallentato che immerge di più nel mood, ma stanca molto. Ottime invece le luci e la fotografia pulita.

domenica 7 marzo 2021

Irréversible - gaspar Noé (2002)

 (Id.)

Visto su Amzon Prime.

L'intera trama è uno SPOILER. Una coppia innamorata e felice si separa durante una festa, ledi vuole tornare a casa prima; nel rientrare verrà aggredita e violentata, il compagno (assieme all'ex di lei) si metterà all'inseguimento del colpevole. Fine SPOILER.

Arrivo a vedere questo film di Noé (che lo fece esplodere a Cannes) recuperando la sua filmografia a ritroso; quindi al di là dell'ovvio e cretino parallelo con il film stesso, posso dire di trovare in questo film il solito Noé, ma mettendolo in prospettiva posso dire che già nel 2002 c'era in nuce tutto quello che sarebbe venuto dopo, almeno finora.

Noé è un ottimo regista, ama gestire ogni scena con una mano pesantissima e ogni film con un'idea chiara di quello che l'occhio dello spettatore dovrà vedere e di come vederlo. Per farlo fa un utilizzo estremo dei piani sequenza, macchina da presa a mano e sfrutta un andamento cronologico dei fatti ritagliato sulla trama (pedissequo in "Enter the void" e "Climax", completamente casuale in "Love").

Qui c'è tutto questo. Il film è suddiviso in sequenze realizzate in piano sequenza con macchina amano che segue i protagonisti. Le sequenze sono inanellate con un andamento a ritroso; si comincia con la caotica fine della vicenda, si procede a ritrovo fino alla scena centrale (la nota scena dello stupro della Bellucci, unica scena con molti minuti di immobilità della mdp) e retrocede per mostrare com'era la vita della coppia prima di quell'evento devastante.

La realizzazione è buona, molto, ma, come spesso in Noé, più compiaciuta di sé stessa che utile alla trama. Le sequenze sono male organizzate in termini di minutaggio, utili solo a dare sfogo a saggi di bravura che a veicolare messaggi. La struttura a ritroso della storia ha i suoi vantaggi (la lenta scoperta di quanto avvenuto) che però finiscono la scena centrale, nella seconda metà prendo il sopravvento gli svantaggi, che sono l'anticlimax per eccellenza (nel finale ci sono idee che avrebbero reso ancora più pesante la già atroce scena centrale, ma che non vengono sfruttati a dovere venendo dopo i fatti salienti). Infine i dialoghi, l'eterno problema di Noé che non si rassegna ad essere solo regista e vuole metter emano anche alla sceneggiatura, qui per fortuna sono solo inutili o troppo lunghi, non imbarazzanti come in "Climax".

In poche parole, un concentrato di tutto quello che si ama e che si odia del regista, supportato da una Bellucci sul pezzo e da un Cassel credibilissimo.

mercoledì 3 marzo 2021

Scalciando e strillando - Noah Baumbach (1995)

 (Kicking and screaming)

Visto su Netflix.


Un gruppo di amici si trova a riconsiderare le loro vite i loro rapporti e la loro idea di sé stessi arrivati al traguardo della laurea.

Un classico coming of age per neo adulti che non sanno che fare delle loro vite, al giro di boa fra adolescenza e doveri passano il tempo a frustrare le proprie aspettative e parlottare.

Essendo un'opera prima la sceneggiatura è pure troppo ben fatta, ma in maniera obiettiva è ben realizzata, ma fastidiosamente declamatoria; nessuno chiacchiera davvero tutti inveiscono contro il destino avverso che li fa uscire dalla comfort zone... 

Delicato, tranquillo, costruito bene... piuttosto insipido, inutile.

In Italia saremmo arrivati a qualcosa del genere qualche anno dopo con Muccino e un'altra età (ma si sa che da noi si diventa adulti dopo rispetto agli USA), ma negli Stati Uniti questo è un sottogeneri estremamente utilizzato (e rappresentante) del cinema indipendente anni '90; per fortuna abbandonato quasi del tutto. Anche quando realizzato bene, non è un genere che possa mancare.

mercoledì 24 febbraio 2021

Va' e vedi - Elem Klimov (1985)

 (Idi i smotri) 

Visto qui.

Un ragazzo di un villaggio russo durante la seconda guerra mondiale freme all'idea di arruolarsi nella resistenza contro i nazisti. Il suo entrare nella guerra attiva sarà diverso da quanto si aspetta, sarà totalmente senza gloria.

Ebert, in questa sua splendida recensione di questo film, sosteneva che ogni film di guerra, per quanto antimilitarista esalta comunque lo scontro, perché la guerra e di per se eccitante. Tutti i film di guerra tranne questo... e devo dargli ragione.

Questo film sfrutta la seconda guerra mondiale per parlare di un ambiente (fisico e mentale) trasformato dalla guerra, pur senza mostrarla mai direttamente. I personaggi si spostano in un mondo post apocalittico vittima di giochi del destino e della volontà di pochi di fare il male per il male, un ambiente e una situazione che trasforma tutti, anche i buoni, sia livello morali (uccidendoli dentro) sia esteticamente (l'invecchiamento fisico del ragazzo è un'idea così semplice, quasi naif, ma così efficace che ci si chiede perché sia stata usata così poco).

Per farlo Klimov abbandona completamente il registro di guerra classico (che ci sarà, un pò e con un pò di enfasi, nel finale) in favore di una gestione più vicina all'horror. C'è una sensazione di perturbante che è creata solo indirettamente duale pallottole dalle armi da fuoco; l'utilizzo dell'aereo come elemento alieno che porta più avvertimenti di sventura che bombe, le morti dei parenti nella prima parte raccontate con la loro scomparsa improvvisa (e mostrate solo ad estrema distanza di sfuggita), tutta le sequenza nella palude  (che riesce ad essere dolorosissima pur senza far succedere quasi nulla) sono elementi d'orrore che mostrano meglio di qualunque altro genere lo scivolare nella follia e il gioco del destino (il caos) che governa gli affari del mondo.

La seconda parte, con l'arrivo dei nazisti è un festival del dolore provocato che ottiene l'effetto voluto non con l'ostentazione gore, ma mettendo i cattivi in un mondo già incattivito, già morto e sconfitto dove basta un gesto per ottenere sofferenze psicologiche indicibili come nel miglior Croneneberg (si pensi all'atrocità delle persone ammassate nella casa dove viene offerto del cibo ai nazisti ridanciani comparato con l'incendio del magazzino, pur essendo molto diversi i presupposti, l'effetto è estremamente simile).

L'effetto angosciante è anche raggiunto con la luce crepuscolare e i colori terrei che fanno da padroni, oltre ad alcune idee di regia molto chiare come l'insistenza sui primissimi piani spesso con i personaggi sofferenti che guardano lo spettatore contrapposti a nazisti folli quasi caricaturali; una serie di idee che messe in un contesto diverso avrebbero potuto banalizzare o trasformare tutto in farsa, ma che qui rendono la visione estremamente empatica e dura.

Solo nel finale c'è un cedimento all'enfasi patriottica con le scene in cui il ragazzo spara all'immagine di Hitler, ma è poca cosa di fronte a un'opera altrimenti perfetta.

mercoledì 17 febbraio 2021

Train to Busan - Yeon Sang-ho (2016)

 (Busanhaeng)

Visto qui.


Un'epidemia zombie irrompe in Corea (del sud). Un uomo e sua figlia (con problemi relazionali) si ritrovano in un treno mentre il morbo si diffonde. Dovranno vedersela con gli zombie dentro al mezzo e con l'incognita della destinazione sicura. Ma più di tutti dovranno vedersela con il più classico degli homo homini lupus.

Senza inventare nulla, le basi di questo film sono estremamente interessanti. Il morbo degli zombie come pretesto per realizzare un dramma horror in un ambiente chiuso con molte persone che devono riuscire a relazionarsi per sopravvivere , con l'aggiunta dell'incognita sul loro destino. Lo zombismo dunque è solo il perturbante che fa scatenarla guerra fra sani più che un espediente horror vero e proprio; fatta salva una o due buone scene thrilling (su tutte il superamento del vagone pieno di mostri durante la galleria) il resto è un (tentativo di) dramma dure e sanguigno.

Di tutta questa operazione non c'è proprio nulla da eccepire (l'horror viene sfruttato come arredamento più che come genere per idee decisamente meno interessanti, dunque ben venga), ma è lo sviluppo che latita. A fronte di un cinismo non indifferente nel mettere a morte tuti quelli che non ti spetteresti dovrebbero morire (si, esatto, come in "Game of thrones") il film si perde nella parte più raffinata di caratterizzazione dei personaggi. Gli uomini che popolano quel vagone sono macchiette bidimensionali costruite su un sentimentalismo melenso fastidiosissimo: c'è l'anziano uomo d'affari egoista e cattivissimo, il buon padre di famiglia simpatico e disposto al sacrificio, la coppia di vecchie (truccate da vecchia malissimo) che si vogliono tantissimo bene anche al di là dello zombismo, e poi c'è il protagonista un padre di famiglia distante e freddo che vorrebbe avere relazioni diverse con la figlia, ma non ci riesce (e poi lavora nella finanza, quindi per principio è distante e freddo). Ogni complessità è apparente, ogni gestione dei rapporti fra personaggi telefonata, ogni elemento emotivo descritto a parole più che con i fatti, a livello di sceneggiatura questa è una débâcle.

Il film poi non offre molto altro a cui aggrapparsi per farsi ricordare (un paio di scene buone, ma non memorabili) e proprio quando sembra pronto a premere sul nichilismo più spinto si lascia andare a un happy ending fuori luogo, ma molto in linea con la parabola di banalità intrapresa...

mercoledì 10 febbraio 2021

Laurence anyways e il desiderio di una donna - Xavier Dolan (2012)

 (Laurence anyways)

Visto su Mubi, in lingua originale sottotitolato.


Al terzo film Dolan torna al dramma, ma lo fa gettando il cuore oltre l'ostacolo affronta una tematica più adulta, senza rifugiarsi nei rapporti fmadre figlio che torneranno più avanti.

Questo film mostra una decina d'anni di vita di una coppia (uomo/donna, eterosessuali) più o meno dal momento in cui l'uomo si rende conto di sentirsi donna e comincia a muovere i primi passi per il cambio di sesso. L'intero film si gioca sul campo della relazione fra i due, la complicità, lo shock, gli allontanamenti, i riavvicinamenti, l'amore sempre presente, il rancore i tentativi impossibili.

Il film è enorme per densità emotiva ed encomiabile per la serietà con cui tratta un tema poco raccontato. A fronte di un impegno del genere, Dolan da fondo a tutte le sue attenzioni maniacali per la costruzione delle inquadrature (come sempre perfette), utilizza in maniera più controllata i suoi ralenty e le sequenze oniriche (che comunque ci sono e sono bellissime, si pensi alla cascata sul divano o la pioggia di foulard); rimane però più dimessa la palette di colori utilizzati, cercando di rimanere più sobria possibile per non sbracare nel kitsch.

L'effetto finale è, visivamente ottimo, ma le solite lungaggini di racconto e rallentamenti del ritmo tipici del regista fanno pagare uno scotto notevole, soprattutto se si considera il minutaggio complessivo. La storia si prende il suo tempo per esplorare ogni passaggio emotivo, ma molte scene sono tenute troppo a lungo o proprio inutili e affossano un film già lento come questo.

Il fascino però sta tutto nella ricerca di sé di una persona che finisce con la rottura di una coppia che rimane però indissolubilmente legata. Un ritratto a due magistrale.

mercoledì 3 febbraio 2021

The believer - Henry Bean (2001)

 (Id.)

Visto su Mubi, in lingua originale sottotitolato.

Un naziskin americano preso dalla strada (ma con il dono della retorica) diventa portavoce di una versione ripulita del neonazismo politico che cerca di trovare finanziatori. Il ragazzo nasconde però il fatto di essere ebreo...

Film che all'epoca dell'uscita mi aveva incuriosito per l'ossimoro di nazi skin ebreo, all'epoca non lo recuperai (era una curiosità più che vero interesse), lo ritrovo incidentalmente su MUBI e dopo averlo visto non posso che non rammaricarmi per averlo perso all'epoca... non è un buon film.

Alla regia per la prima volta Bean, di professione sceneggiatore e si vede. Il film ha la propria ossatura sui lunghi monologhi del protagonista, le sue dissertazioni su antisemitismo e suprematismo bianco sono l'epicentro della vicenda e sono effettivamente la cosa più riuscita. Curioso come al di là delle singole scene l'intera vicenda sia scontata (il giovane ebreo che per problemi di relaizone e istinti autodistruttivi diventa naziskin... davvero c'è ancora bisogno di psicanalisi all'acqua di rose?), caotica (se l'intento del protagonista è quasi chiaro, il modo per arrivarci, nonché tutte le sue scelte sul finale sono francamente poco ragionevoli), al di là di ogni logica (la conversione della Phoenix è una delle decisioni più pretestuose della storia del cinema) e con picchi che oggi noi giovani definiremmo cringe (il bacio dopo il vomito...). 

Curioso, dicevo, come al di là di alcuni acuti, il film sembri girare a vuoto riempiendo di azione la mancanza di idee chiare negli snodi chiave; la regia decisa da uno sceneggiatore poi non supporta nè scelte estetiche particolari, né un ritmo già azzoppato.

C'è però un Ryan Gosling giovanissimo e già bravo e una Summer Phoenix che si fa ricordare.



domenica 31 gennaio 2021

La lunga strada verso casa - Richard Pearce (1990)

 (The long walk home)

Visto su Mubi, in lingua orignale sottotitolato.


A montgomery, nel 1955 la vita di una domestica di colore verrà stravolta dal boicottaggio dei mezzi pubblici (dopo l'episodio di Rosa Parks). Aderirà anche lei a quello sciopero, con gravi ripercussioni personali, ma il suo gesto (pacato e dimesso) farà maturare una coscienza anche nella padrona di casa bianca.

Film sui diritti civile, buono e buonista come molti che arriva dove arrivano un pò tutti i film di questo genere (scene madri con prese di posizione morali che fanno stringere i rapporti umani e scaldano il cuore dello spettatore).

Condotto con una regia pacata quanto la sua protagonista è un filmetto che non aggiunge e non toglie nulla, ma ha la dote di mostrare il solito genere (1quello dei diritti civile ha alcuni stilemi a sé negli USA) da punti di vista lievemente differenti.

Il pregio maggiore è il presentare dei fatti storici epocali dall'esterno, mostrando gli effetti sulle ultime ruote del carro anziché sui protagonisti più eroici. 

Ha l'intelligenza di evitare alcune delle scene madri che potrebbe avere (purtroppo se inanella alcune evitabilissime) e si appoggia su un tono pacato e sussurrato che è un piacere. Non si legga questo come un rallentamento del ritmo, ma si tratta proprio di un portare avanti la trama in punta di piedi che rassicura e appaga molto.

Rimane nei fatti un film ovvio, ma che si lascia guardare con tranquillità.

PS: le due protagoniste sono splendide, la Spacek completamente in parte, la Goldberg ancora esperta della recitazione dimessa da il meglio di sè.

mercoledì 20 gennaio 2021

Il caso Spotlight - Tom McCarthy (2015)

 (Spotlight)

Visto su Netflix.


la ricostruzione dello scoop giornalistico sul caso della pedofilia coperta dalla curia di Boston è inserita nel sottogenere (tutto made in USA) del journalist movie drammatico.

Pur se ben accolto, l'ho avvicinato con molti dubbi.

Ovviamente si tratta di una produzione splendidamente limata fin dalla sceneggiatura, costruita con esperienza che sorprende per la grazia e la compostezza. Un film su un tema delicatissimo (e su cui non fa sconti) che decide di evitare ogni scena madre (c'è giusto uno scontro con Ruffalo nel suo momento sopra le righe), pur avendone molte possibilità, e lasciare il cuore emotivo del racconto al racconto stesso. Sarà il dipanarsi degli eventi, i fili che collegano tutti e che faranno cadere ad uno ad uno i vari notabili della città a costituire il cliffhanger; è lo svolgersi stesso degli eventi a mantenere l'interesse. Una scelta molto elegante, ma non scontata, che può esitare in una freddezza superficiale, ma che guadagna molto in rispetto per i fatti reali e per lo spettatore.

Ovviamente per mettere in piedi un progetto del genere ci vuole una sceneggiatura a prova di bomba. Molti eventi condensati in un minutaggio limitato, ma mostrati con estrema chiarezza sostenuti da una regia che si mette in secondo piano per favorire il flow. ottima anche il world building (utile per chiarire la vicenda, ma formalmente non necessario) in cui si mostra la società bostoniana come un blocco unitario in cui la chiesa è presenza pervasiva e in cui tutti sono condizionati, anche inconsapevolmente, tutti, pure i buoni (sarà quindi un estraneo a dover dare l'abbrivio).

Ottimo il cast che gioca una sfida all'autocontrollo in una serie di performance perfette quanto trattenute (erano anni che non si vedeva un Keaton così composto).

mercoledì 6 gennaio 2021

Lazzaro felice - Alice Rohrwacher (2018)

 (Id.)

Visto su Netflix.


Un gruppo di mezzadri d'altri tempi lavora per una nobildonna che va a trovarli periodicamente. La fuga del figlio della signora porterà la modernità nel microcosmo e si scoprirà che i contandini erano sfruttati ai limiti della schiavitù. tornati alla "modernità" dovranno ricominciare da capo, ma non saranno aiutati.

Intriso di un realismo magico di campagna con il protagonista un "semplice" dostoevskiano il film sembra prendere a piene mani dal naturalismo norditaliano alla Olmi. Il tono lieve nonostante tutto ciò che di abietto succede, la dolcezza dei rapporti umani e un passo continuo seppure senza una meta chiara riesce a rendere il film scorrevole e interessante fino alla fine.

Non vengono risparmiate allegorie urlate o ingenuità dimenticabili (su tutte, la musica che esce di chiesa... un poco didascalico direi) e non è chiaro neppure il concetto di fondo (se c'è), ma forse è solo un muovere i personaggi ai limiti di ogni società e farli mantenere in piedi grazie ai rapporti umani. Semplice, ma non semplicistico,l ben condotto e con un cast all'altezza (c'è pure una irriconoscibile Nicoletta Braschi che rimane incapace di recitare, ma è l'unico neo ed è quasi voluto per la parte più inutilmente enfatica).

Buona prova imperfetta che lascia sul fuoco molto materiale che potrebbe essere sviluppato, ma che gioca con le aspettative in maniera vincente (se non si conosce la storia si rimane interdetti nella prima parte) e che con un ritmo lento non annoia mai.

domenica 3 gennaio 2021

Nel paese delle creature selvagge - Spike Jonze (2009)

(Where the wild things are)

Visto su Netflix.

Un bambino ha crisi in famiglia, fugge di sera e approda in un mondo di fantasia con creature inquietanti e buffe che lo incoronano loro re.
Inutile dire che in quel gruppo di creature troverà rispecchiati gli stessi sentimenti di rabbia e frustrazione del suo menage familiare, scenderà a patti e sarà pronto a tornare a casa.
Tratto da un libro illustrato di pochissime pagine senza una trama specifica, il film si prende ogni libertà possibile e affidato a Jonze riesce a rendere perfettamente il realismo delle scene iniziali (magnifiche ed essenziali per rendere il tono crepuscolare e la dignità delle piccole lotte e difficoltà dell'infanzia), tanto quanto la gestione fiabesca del corpo centrale. Tutte le sequenze del paese delle creature sono in ampissimi esterni in una perenne luce crepuscolare che danno un senso di sospensione onirica perfetta; aiutata dalla fotografia, le reazioni dei personaggi e il loro aspetto, Jonze gioca tantissimo con un vago senso di inquietudine e di instabilità nel mondo fantastico che è estremamente adulto (e che rappresenta l'unico pregio effettivo del lungo e noioso film).
Il tono del film ha però rappresentano il motivo della sfiducia nei confronti del regista stesso e ampi problemi di produzione che ne hanno ritardato l'uscita e rimaneggiato momenti. Che sia da incolpare questa incostanza o una sceneggiatura già claudicante è difficile dirlo, ma il film non funzione. A fronte dei pregi l storia è lenta, noiosa, svogliata e ridondante; dopo le prime scene realistiche piuttosto dinamiche e il fantastico arrivo nella terre selvagge il film muore in una palude di noia.

mercoledì 30 dicembre 2020

The founder - John Lee Hancock (2016)

 (Id)

Visto su Netflix.


la storia del fondatore di McDonalds, di come scopre il metodo degli omonimi fratelli, di come li convince ad esportarlo e di come riesce a sfruttarlo per creare un impero economico a scapito degli altri.

L'epopea capitalistica di un personaggio furbo, ma senza troppa empatia è ormai un genere quasi a sé standardizzato da quello che ne rimane l'apice, cioè "The social network".

"The founder" non ha l'innovazione, né le pretese di essere all'altezza del precedente, ma costruisce un lavoro ordinato fotografato bene e con il giusto ritmo (alla regia c'è il Lee Hancock che è maestro di compitiini ben confezionati che non possono deludere l'aspetto tecnico), crea un ambiente in cui muovere un personaggio non originalissimo, ma ben fatto e, il vero colpo di genio, fa le scelte di casting perfette.

Perché la presenza il vero punto di forza di questo film è Michael Keaton.  sono perfetti i corpi da punching ball di Carrol Lynch e Offerman; ma senza Keaton come protagonista ambiguo tutto il film si sgonfierebbe dopo un minuto. Keaton costruisce un personaggio che passa da sfigato a furbo imprenditore con una smorfia della bocca, che passa da simpatico intrallazzatore a stronzo figlio di puttana con un sopracciglio inarcato; ed è semplicemente perfetto e racchiude tutte le dicotomie in poche mosse senza andare (quasi mai) sopra le righe. Mette, invece, tristezza vedere Laura Dern relegata ad una parte che poteva anche essere eliminata.

mercoledì 23 dicembre 2020

L'abisso - Urban Gad (1910)

(Afgrunden)

Visto qui. 


Il regista, Urban Gad era già uomo fatto quando ebbe l'arroganza e la determinazione che spinse 50anni dopo la Nouvelle vague, dare una svecchiata al cinema che, secondo lui, stava languendo (anche se era stato inventato poco più di un decennio prima).

Per farlo recupera attori di seconda fila e amici d'infanzia dal teatro dove lavorava, si fa finanziare da conoscenti e ingaggia qualche mestierante noto (Alfred Lind che non apprezzerà l'ambiente di lavoro).

Fu uno dei primi film di due rulli (ad avere quindi una lunghezza superiore ai 15-20 minuti), fu il secondo film della futura vamp Asta Nielsen e il primo del sodalizio fra l'attrice e il regista che frutterà 30 film e un matrimonio fra i due. Ma su tutti il film all'epoca fece scalpore per la scena da ballo ritenuta eccessivamente esplicita; bisogna ammettere che è una scena sensuale ancora oggi con una sorta di lap dance (piuttosto contenuta) dove un uomo funge da palo.

A parte il gossip l'opera è un film completo, con un linguaggio cinematografico già adulto; mancano alcuni elementi della grammatica base che verranno inventati/esaltati da Griffith; ma qui i fondamentali ci sono già tutti, e viene abbandonato il cinema statico di stampo teatrale. C'è di tutto, riprese in esterni (magnifica l'apertura sul tram), c'è un moltiplicarsi di location, punti di vista inconsueti (il palco visto di lato), utilizzo massimo delle comparse; a livello di regia c'è già tutto ed è molto gustoso. 

A livello di sceneggiatura invece è un poco claudicante; la storia è una romance torbida il giusto per incontrare il gusto dell'epoca e anche quello attuale, ma lo svolgimento è frettoloso e un poco raffazzonato (facilmente per colpa del minutaggio) che rende a tratti poco godibile il film.

Meriterebbe un restauro se non è già stato effettuato negli ultimi anni.

domenica 20 dicembre 2020

Mank - David Fincher (2020)

 (Id.)

Visto su Netlfix.


La storia dello spunto e la realizzazione della sceneggiatura di "Quarto potere" da parte del Mankiewicz meno famoso (almeno oggigiorno) è la scusa per Fincher di entrare nel territorio del cinema che parla della produzione cinematografica che potrebbe diventare un genere a sé negli stati uniti, ma ovviamente c'è anche molto di più.

Fincher è un signore della regia, sa come si costruiscono le immagini, le scene e le sequenze, sa come mettere in armonia macchina da presa, fotografia e montaggio, sa come e cosa chiedere agli attori. Lo fa dagli anni '90 almeno, figuriamoci dopo 30anni d'attività. "Mank", quindi è bellissimo.

Esteticamente siamo dalle parti della maggior qualità possibile con una bianco e nero d'epoca e un utilizzo delle luci anni '40 gustosissimo che diventa passione nerd quando ci sia accorge che anche le tecniche di dissolvenza sono prese a piene mani da quelle dell'epoca raccontata. Questo è l'idea di fondo vincente, raccontare la genesi di un film d'epoca con gli stilemi dell'epoca. ovviamente ogni giochetto nerd rischia sempre di esplodere in faccia a chi lo costruisce e anche Fincher ci arriva vicinissimo citando abbondantemente soluzioni e inquadrature direttamente da "Quarto potere" che, quando diventano troppo sfacciate ed evidenti sono stucchevoli. Al ,limite in certi momenti, ma Fincher riesce a fare tutto senza opprimere.

L'intento però, sembra quello di parlare di un mondo attraverso un suo personaggio, mostrare la collegialità dei film dell'epoca d'oro di Hollywood con i suoi intrighi di palazzo e le sue piccolezze, mentre, con l'altra mano, si cerca di decostruire il mito intoccabile di Welles e del suo primo film. Anche qui un rischio di risultare arroganti enorme che viene mitigato da una vis entusiasmante e da un'ironia continua.

Quello che latita però è l'efficacia, del film. Tutto funziona bene, ma tutto insieme è eccessivo, lungo, laborioso e con un'obiettivo fumoso, un gigioneggiare nelle sue sequenze buffe e ben scritte senza affondare mai, senza andare mai al punto. Nella carriera di chiunque sarebbe un mezzo capolavoro, ma in quella di Fincher costellata di capolavori veri e film ottimi questo rimane nella sfera dei secondi, anzi, diventa un'occasione mancata.

mercoledì 9 dicembre 2020

The arrival- Desin Villeneuve (2016)

 (Id.)

Visto su Amazon prime.


Gli alieni arrivano sulla terra. Più che pacifici sono silenziosi, se ne stanno sulle loro (inquietanti) astronavi e aspettano. Gli esseri umani tentano di comunicare, ma manca un linguaggio comune che andrà trovato.

Un film di fantascienza con gli alieni che diventa una sorta di thriller linguistico per concludersi con un colpo di scena sul significato della vita che rimette in gioco tutte le immagini viste finora.

Preso da un racconto (fantastico) di Ted Chiang il film ne rielabora la parte concettualmente più impegnativa e meno quella filologica in senso stretto ed è un peccato, ma veniale (odio chi giudica un film per le differenze dal libro, ma con Chiang non sono riuscito a non pensarci tutto il tempo).

Trampolino di lancio per il Villeneuve fantascientifico a cui (sinceramente) non avrei dato due lire, invece il canadese ci sguazza da dio, costruisce tutto il mood sulle immagini ieratiche dai colori cerulei curiosamente degne delle copertine Urania (quelle più serie non quelle cazzare) con venature alla Magritte che dettano il tono di tutto il film e se lo portano sulle spalle anche più della brava e pacata Amy Adams.

Se l'intero film si poggia sul comparto visivo che sostiene il gelido thriller compreso fra linguistica e geopolitca il family drama così come il twist finale riescono a dare ulteriore profondità alla sceneggiatura dando qualcosa che ci si può portare dietro oltre la fine del film. Non ci sarà azione o alieni completamente visibili, ma più di così cosa si può volere?

lunedì 7 dicembre 2020

In my room - Mati Diop (2020)

 (Id.)

Visto su Mubi, in lingua originale sottotitolato.


A Diop viene chiesto di girare un cortometraggio durante il lockdown; è evidente la scarsità di idee, ma alla fine mette insieme le registrazioni audio della nonna morta da poco (per lo più in preda all'ansia dell'età avanzata, delle persone che non ci sono più, il senso di solitudine e di abbandono, ecc...) e le unisce alle riprese dal suo appartamento di una Parigi periferica e vuota con riempitivi fatti personalmente da abiti indossati (c'è un motivo) a inquadrature della sceneggiatura (per poter portare avanti sequenze non realizzabili, come l'arrivo di un corriere).

L'effetto finale è il tipico corto su commissione, un'idea pallida per lo più autoriferita che riempia il vuoto. Noiosetto, ma sopportabile. Quello che però viene fuori prepotentemente, è la capacità delle Diop di inquafrare (e fotografare) anche il dettaglio più comune in maniera gustosa: degli abiti appesi, dei palazzi, l'interno di casa vuoto (quasi mai si vedono esseri umani), tutto è bellissimo, sfruttando le diverse luci del giorno vengono fuori impressioni diverse dello stesso scorcio (usualmente banale). Non salva il cortometraggio, ma sottolinea le capacità della regista.