giovedì 30 aprile 2020

Showgirls - Paul Verhoeven (1995)

(Id.)

Visto su Mubi, in lingua originale sottotitolato.

Una ragazza arriva a Las Vegas, ha in mente solo di mantenersi e, possibilmente di ballare (la sua passione). Come arriverà nella città nel deserto, sarà derubata e vessata costantemente, sostenuta solo da una ragazza incontrata per caso di cui diverrà amica (e convivente). ovviamente per potersi mantenere (e sfruttare la sua passione) troverà lavoro in un Nightclub.
Con tenacia e doppi giochi verrà assunta nel copro di ballo di un importante teatro dove cercherà di scalare la vetta.

Che belli gli anni '90, si potevano mostrare tette come se non ci fosse un domani in film per tutti, figuriamoci in un film su delle spogliarelliste.
Al di là di ciò, il film offre pochissimo.
Verhoeven ha fondato una carriera sulla carne e sulla violenza e questo film non fa eccezione. Il corpo è esposto e utilizzato in maniera parossistica, la carne è merce, condanna e mezzo per ottenere benefici; la prevaricazione inizia con il furot iniziale e non finirà mai; la protagonista subirà violenze psicologiche da tutti, finché non deciderà di utilizzare lo stesso metodo per ottenere il successo e lo farà con stile finché non si ritorcerà contro (la sua amica).
Verhoeven è quindi dalle sue solite parti, ma stavolta lo fa con una sceneggiatura ridicola e con un cast imbarazzante (non tutti siamo onesti, ma la protagonista è ballisisma, ma non brava, e alcune spalle come il buttafuori totalmetne non in grado di recitare).
L'intera trama, pur essendo lineare, risulta farraginosa, il finale dove c'è vendetta e perdono (entrambi troppo facili, entrambi improvvisi e non troppo motivati) ridicolo nel suo semplicismo sbrigativo.


lunedì 27 aprile 2020

Noah - Darren Aronfsky (2014)

(Id.)

Visto su Netflix.

Aronofsky prende la storia biblica di Noè, la gonfia a dismisura introducendo personaggi e relazioni nuove e (questa l'idea fondamentale) la gestisce come un fantasy. Ed ecco fatto un film.
A monte di ogni giudizio fa piuttosto specie vedere un regista viscerale e circonvenuto come Aronofsky alle prese con un colossal dal sapore supereroistico,  avrei scommesso fosse un film su commissione della Paramount rimaneggiato dall'autore se non ne avessi letto della precisa volontà di Aronofsky che da anni tentava di portare sullo schermo questa storia.

Detto ciò il film è, come già detto, un'avventura fantasy; un'ottica che, per le storie bibliche soprattutto per un europeo, è sostanzialmente nuova e, diciamocelo, vincente. La storia trattata in questo modo riesce ad avere un ritmo, un passo e un titanismo che difficilmente avrebbe avuto in altro modo, ma no solo questo. Aronofsky prende una delle storie bibliche più fantasiose (meno realistiche) e la gestisce con i linguaggi delle storie inverosimili cinematografiche, anziché il tentativo di un'agiografia di un personaggio impossibile. Fatto il salto l'effetto finale è garantito.

A fronte di questa idea di trama il film fa perno sui rapporti familiari come base del racconto, attriti, rapporti di fiducia e di forza che si muovono, si sbilanciano e si ricreano mentre questo gruppo di persone equilibrato viene messo in mezzo a una delle situazioni più estreme in assoluto.
A condire e a gonfiare c'è (e ci deve essere) un antagonista esterno che banalizza un poco e degli alleati esterni (gli angeli di pietra realizzati e animati benissimo che sono, di fatto, l'unico elemento dichiaratamente fantastico inserito a forza).

Peccato che l'arco narrativo sia scontato per gli scontri esterni e sia invece claudicante per quelli interni.
Per gli scontri esterni la scena di assalto all'arca è l'unica che si fa ricordare.
Gli scontri fra i membri della famiglia invece, una volta arrivato il diluvio diventano l'unica fonte di dinamismo ed essendo confinati in un luogo con pochi personaggi, diventano presto pretestuosi, ripetutitivi e con cambi improvvisi non giustificati.

Con tutto quanto ci si può chiedere se e dove Aronofsky si riconosca. Aronofsky c'è ed è riconoscibile. Splendido il time lapse per indicare il passare del tempo (la fonte d'acqua che diventa fiume), perfetto il continuo ritornare alla frutto della conoscenza e la morte di Abele con 3 immagini in sequenza riconoscibilissime (una sintesi rapida e perfetta fatta solo con immagini di comune riconoscibilità); idee ben congegnate, ma che, per me, sono pò poco.

giovedì 23 aprile 2020

Goksung. La presenza del diavolo - Na Hong Jin, (2016)

(Gok-seong AKA The wailing)

Visto su Amazon prime video.

In una cittadina coreana cominciano ad avvenire strani omicidi e c'è una malattia infettiva che si diffonde. La gente del posto accusa, velatamente o meno, un giapponese (Jun Kunimura!) da poco insediatosi nel paese, ritenendolo nientemeno che il Diavolo stesso.
Un poliziotto colpito direttamente comincerà a indagare, mettendo in mezzo lo sciamanesimo tradizionale e un prete cattolico.

Similmente a quanto fatto in "The chaser", Hong Jin, parte da una storia piuttosto banale e lineare, ma la mette in scena con un andamento ingarbugliato, vicoli ciechi, momenti di chiarezza improvvisa che vengono smentiti in un gioco di conferme e frustrazioni che durerà fino alle scene finali.
Similmente a quanto fatto in "The chaser" costruisce la vicenda con un tono leggero (da commedia) che si incupisce e si diluisce con il proseguire dell'azione fino alla sua completa scomparsa.
Similmente a "The chaser" è un filmone, anche più di "The chaser".

Questa storia su un'epidemia in un ambiente chiuso, il sospetto di soprannaturale (che verrà confermato o smentito solo verso la fine), l'indagine goffa di un uomo abituato a galleggiare che dovrà dare fondo a tutte le sue risorse, la spietatezza degli eventi e delle scelte da fare e il ritmo della narrazione sempre costante (con la tendenza coreana a non fissarsi sui tre tempi occidentali della sceneggiatura, ma con un movimento fluviale in cui non si sa mai quando avverrà il vero showdown finale) trasformano questo film in un esperienza immersiva enorme.
Non ha il ritmo o l'adrenalina di "The chaser", né l'attenzione al giallo a cui avrebbe potuto aggrapparsi; neppure si può definire un horror anche se la ricerca del maligno è parte centrale della vicenda. Il film cerca invece di mettere il suo protagonista in una situazione che deraglia sempre di più e immersa in un ambiente da cui non si può che venire soffocati; incastrandone all'interno anche lo spettatore.

Inoltre il film viene costellato di dettagli innumerevoli, prove o indizi, elementi metaforici, scene mai spiegate, che servono da indicazione o depistaggio in un gioco con chi guarda che dimostra un rispetto e una conoscenza delle dinamiche cinematografiche davvero notevole.

lunedì 20 aprile 2020

Midsommar. Il villaggio dei dannati - Ari Aster (2019)

(Midsommar)

Visto su NowTv.

Un gruppo di amici decide di passare il solstizio d'estate nel villaggio svedese d'origine di uno di loro dove ci sono celebrazioni folkloristiche caratteristiche.
Assieme a loro si associa la ragazza di uno del gruppo; lei ha appena subito un lutto pesantissimo ed è presa malissimo, lui la vorrebbe lasciare già da tempo, ma non ne ha il coraggio e la relazione si trascina avanti in maniera frustrante per entrambi (e per il gruppo di amici che chiaramente la sopporta poco).

Ovviamente le celebrazioni del solstizio non saranno quelle che ci si potrebbe aspettare.
Al secondo film Aster si tuffa nel folk horror, pur mantenendo tutte le caratteristiche del precedente "Hereditary" (dettaglio che nei prossimi anni dimostrerà se si tratta di firma d'autore o limite tematico).
Come colpo d'occhio in realtà Aster tenta il percorso opposto al suo film precedente. L'altro era un film sovrannaturale che viveva di buio, di penombra e di dettagli nascosti, ma mostrati. Qui invece è un horror in pieno sole (giusto un paio di scene importanti sono al chiuso o di notte) con il bianco come colore dominante ed esplosioni floreali (il finale in mezzo ai fiori con il volto in lacrime e gli altri in bianco è da incorniciare), la ricchezza di dettagli c'è anche qui, ma in molti casi sono apertamente esposti (il tessuto che mostra le tecniche magiche per far innamorare), ma, ovviamente, quelli evidenti sono solo la punta dell'iceberg (ed è un gioco ricchissimo il cercare di scovarli ad una seconda visione).
Però molto è condiviso. La "famiglia naturale" come problema, la famiglia allargata come rifugio (disfunzionale) in cui poter vivere pienamente; il gioco con lo spettatore a cui vengono dati quasi tutti gli elementi per capire, ma non il modo in cui incastrarli; ecc...
Ovviamente a tutto questo si abbina la solita cura nella messa in scena, con un'ambientazione ragionatissima e la fotografia splendidamente curata a cui ci ha già abituati.

L'effetto finale è straniante e interessante. Lontano dalla perfezione prettamente horror di "Hereditary" qui siamo di fronte ad altro. Il genere horror si presta da sempre ad essere declinato verso altre tematiche (come quello sociale alla Romero); qui Aster utilizza il genere per mostrare un'elaborazione del lutto e la presa di coscienza di una donna nei confronti delle zavorre della sua vita. Di fatto un dramma psicologico giocato sul terreno dell'horror che ha il suo picco nel finale, congruo con l'andamento di tutto il film, ma nello stesso momento estremamente metaforico.
Indubbiamente più complesso, ma, di conseguenza, meno efficace del precedente.
Va però encomiata l'enorme capacità di creare immagini potenti, anche con elementi complessi arrivando a sfiorare il ridicolo senza mai cadervi apertmente.

giovedì 16 aprile 2020

Breakfast club - John Hughes (1985)

(The breakfast club)

Visto su Netflix.

Un gruppo di ragazzi (disparati per cultura, estrazione sociale e personalità) si ritrova il sabato a scuola come punizione.
Tra i 5 inizieranno tensioni, tentativi di avvicinamento, allontanamenti, litigi per poi giungere all'inevitabile scioglimento finale ecumenico.

Secondo film di John Hughes universalmente considerato il suo capolavoro; di fatto un cult ultracitato... negli USA.

Vedendolo nel 2020 per la prima volta (e in Italia) si può essere obiettivi.
La trama è piuttosto scontata, con personaggi archetipici che hanno un arco narrativo prevedibilmente buono e bunista (si parte con scontri diretti, si passa per confessioni a cuore aperto e un finale a tarallucci e vino) muovendosi su dialoghi non impeccabili.
Le note positive, già che di messa in scena, sono sulla struttura della trama. Con un'unità di luogo e una forma ripetitiva (azione con eventuale scontro, chiacchierata emotiva, di nuovo azione) il film però riesce a muoversi con il giusto ritmo; senza cali improvvisi e regge bene anche i twist nelle confessioni dei protagonisti (che twist spesso non sono). Inoltre c'è questa canzone che è un emblema degli anni '80.
Non un grande film, ma ammetto che se l'avessi visto all'età giusta ora sarebbe un personal cult che propinerei a tutti.

lunedì 13 aprile 2020

Un giorno di pioggia a New York - Woody Allen (2019)

(A rainy day in New York)

Visto su NowTv.

Una coppia di fidanzati (lui famiglia bene di New York, lei ricca wasp del midwest) vogliono, finalmente, passare due giorni nella grande mele approfittando ci un'intervista che lei deve fare a un regista. Lui vorrebbe portarli in tutti i luoghi che significano qualcosa per la sua vita, ma evitando la famiglia.
I due, però, verranno divisi dagli eventi.

L'ultimo film di Allen è una commedia degli equivoci tutta giocata sul caos che regna in ogni destino e l'immancabile elemento atmosferico determinante per far succedere cose (spoilerato fin dal titolo).
La novità sta nella tensione di voler vivere e far vivere la città di New York a una parvenue, tensione costantemente frustrata (anche se la nuova arrivata conoscerà, per conto suo, una New York diversa) che, nel finale, batterà in ritirata tornando verso lidi già conosciuti.
Dal punto di vista tematico niente di enormemente nuovo (ma va?!), ma è una sorta di descrizioni delle New York classiche (le grandi famiglie borghesi, i piano bar fumosi e la componente dello showbiz cinematografico) fatta per vie indipendenti e discordanti; condotta con un tono magistrale e con dei personaggi stereotipati il giusto per cogliere tutte le sfumature del caso. Su tutto regna una leggerezza alleniana che rende una storia di amori spezzati (tradimenti, rivelazioni shockanti, desideri frustrati) dolce e ingenua.

Infine è da sottolineare il comparto luci. Alla terza collaborazione con Storaro alla fotografia (di cui ho visto finora solo il precedente capolavoro "La ruota delle meraviglie") questo nuovo Allen gioca tutto sulle luci e sul loro calore.
Gli esterni newyorkesi sono bigi e spenti, gli interni illuminatissimi e caldi con un'occhio per la posizione e le costruzioni delle luci che esalta anche nei dettagli (il bar dove la ragazza e lo sceneggiatore entrano per pochissimi istanti a chiedere del regista è un piccolo capolavoro); anche se il grosso è realizzato con i cambi di luce. Sfruttando una serie di movimenti di macchina d presa, carrelli e piccoli piani sequenza (che Allen ha introdotto da poco nel suo cinema), le luci cambiano il loro calore durante la stessa scena soprattutto quando i sentimenti in gioco sono importanti aumentando l'effetto sentimentale complessivo (senza aumentare la stucchevolezza). Si vedano ad esempio l'intervista al regista (le luci sul volto della Fanning), il bacio in macchina o il viaggio in taxi.

giovedì 9 aprile 2020

Noi - Jordan Peele (2019)

(Us)

Visto su NowTv.

Una bambina si perde alla sagra del mare e finisce nel classico tunnel dell'orrore in disuso dove incontrerà... una bambina uguale al lei.
Dopo uno shock che le procurerà strascichi per anni decide di tornare su quella spiaggia con tutta la famiglia (marito e due figli a cavallo dell'adolescenza). ovviamente sarà una scelta sbagliatissima perché dovrà confrontarsi, di nuovo, con sé stessa.

Togliamo subito il dubbio. Come già "Get out" (e come sembra essere il cinema di genere autoriale di questi anni) siamo di fronte a un metaforone sociale; c'è un sopra e un sotto (il parallelismo con "Parasite" non è peregrino), una classe abbiente che neppure sospetta esistano degli "altri" sotto di loro che potrebbero venire a reclamare ciò che ritengono sia stato tolto loro.
ma come già in "Get out" Peele non affossa nella metafora, è solo lo spunto da cui partire per costruire un film horror venato di commedia (molto meno rispetto al precedente).

Peele poi sembra fare parte di una corrente (involontaria) sul nuovo horror anglofono caratterizzato da una cura estrema nella messa in scena (anche qui come nei film di Aster la fotografia è incredibile) e da un'intolleranza nei confronti delle spiegazioni eccessive. 
Quindi il film a cui ci si trova è visivamente potente, la trama ben svolta, raccontati i motivi fondamentali, ma non chiariti i dettagli. Con questa possibilità Peele, per la seconda volta, riesce a raccontare una storia ai limiti della sospensione dell'incredulità, senza sforare nell'inaccettabile.

Inoltre Peele è, al momento, uno dei migliori nelle scene horror puro. 
Il film parte con un home invasion semplice, ma perfetto, dove non si lesina in efferatezze. Ci si sposta con una fuga rocambolesca per finire... in un altro home invasion (anche questo gestito in maniera brillante) per poi ricominciare con una fuga che si muove sotto la luce del sole e terminare con uno showdown estetizzante completo di twist plot.
Peele fa tutto e lo fa benissimo, gestisce una trama articolata con il giusto ritmo, cuce insieme film diversi dosando la tensione e la commedia. Certo l'effetto finale è meno granitico di quello di "Get out", ma partendo da un presupposto affascinante, ma inverosimile il risultato è grandioso.

PS: non l'ho mai citata, ma è evidente che se in un horror metti una come Nyong'o (una delle attrici più credibili della sua generazione) l'effetto finale non solo sarà migliorato ma supererà a destra molti colleghi del settore che, di solito, per il cast hanno pretese molto inferiori.

lunedì 6 aprile 2020

Répertoire des villes disparues - Denis Côté (2019)

(Id. AKA Ghost town anthology)

Visto su Mubi, in lingua originale sottotitolato.

In Canada i morti tornano nelle città che li hanno ospitati da vivi. Non fanno nulla, non sono aggressivi, né richiestivi, rimangono immobili all'esterno (al massimo ti fissano a lungo con sicumera). In una piccola cittadina dove è appena morto un ragazzo (forse incidente d'auto, probabilmente suicidio) le cose si muovono più lentamente, finché l'immobile invasione non arriverà a tutti producendo... sostanzialmente nulla, giusto la levitazione di una concittadina non troppo sveglia.

Film inclassificabile (non è un horror o un thriller, potrebbe essere un dramma se solo succedesse qualcosa)  che vorrebbe dire moltissimo (immagino) senza far succedere nulla.
la prima metà del film presenta una serie di personaggi della cittadina, delineati quasi tutti bene e con questioni irrisolte o volontà granitiche che fanno presagire uno showdown drammatico. L'arrivo dei morti si mostra subito distante dall'horror e vicino al dramma con spunto fantasy, ma, semplicemente, non succede nulla. L'arrivo dei morti causano soltanto la fuga di due personaggi (una fuga quasi senza effetti) la rinuncia ad una casa (ma che non è l'ultimo gesto di una profonda agnizione psicologica, semplicemente c'è un morto dentro la casa abbandonata e non la si vuol più comprare) e un personaggio che levita senza motivo (citazione di "Teorema", il film di Pasolini però ha costruito per tutto il suo minutaggio l'aura surreale che porta a quella levitazione qui invece succede all'improvviso e senza costrutto reale).
Sembra che ci sia stata l'idea di far succedere qualcosa di improbabile senza poi avere la minima idea di come far proseguire la vicenda. Imbarazzante.

PS: peccato perché la fotografia sgranata e l'ambientazione sarebbero stati il perfetto compendio per una storia realistica di gelo e solitudine.


giovedì 2 aprile 2020

The perfection - Richard Shepard (2018)

(Id.)

Visto su Netflix.

Una ex violoncellista (la più grande del suo "corso") incontra la nuova migliore nel settore durante una selezione in Cina. Le due si piacciono, pure molto, e decidono di prendersi due settimane nella Cina selvaggia (e curiosamente preda di un virus misterioso) da sole. ovviamente le cose andranno malissimo.

Un Thriller che vive tutto dei 3 o 4 colpi di scena che cambiano radicalmente il punto di vista e l'appartenenza ai buoni o ai cattivi dei personaggi.
Siamo onesti, un film thriller ben costruito con 4 twist plot può funzionare bene anche se non siamo davanti a Hitchcock... ma qua si esagera.
Posto che dopo i primi gli altri cambi improvvisi diventano telefonatissimi; ma quello che manca è il senso della misura (e una buona mano alla sceneggiatura specie nella seconda parte).
A partire dal secondo twist gli avvenimenti diventano iperbolici, sempre meno credibili mettendo a dura prova la nota sospensione. anche questo sarebbe probabilmente accettabile se la scrittura fosse decente... Invece i personaggi indugiano in spiegoni lunghissimi, in flashback in cui si capisce tutto dopo 30 secondi, ma la scena viene tenuta in una (fallimentare) suspense per 10 minuti, i personaggi diventano stereotipati in maniera idiota (il maestro di musica che deve sempre mimare la direzione d'orchestra con le mani quando ascolta la musica, pure mentre guida!).
Talmente è scritto male che non risulta brutto, ma fastidioso.