domenica 28 febbraio 2021

le idi di marzo - George Clooney (2011)

 (The ides of march)

Visto su Netflix.


Alla sua quarta regia Clooney decide di entrare a piedi pari nel cinema politico classico americano. La vicenda della corsa alla candidatura democratica (quindi qui tutti sono i "buoni" della politica americana) vengono sondati gli intrighi di palazzo della politica, fatta di spin doctor e scrittori di discorsi, di forma che deve mostrare la sostanza ostentata e, come sempre in questo genere alla Redford, dello scontro morale del protagonista fra ideali e realpolitik.

Di fatto non si inventa niente, ma si costruisce un film solido che viene girato in maniera formalmente ineccepibile e in maniera ottimale senza un manierismo imbalsamato, azzeccando momenti che solo gli americani riescono a darci (il dialogo con la bandiera a stelle e strisce sul fondo).

Il vero pregio è aver virato l'attenzione dai protagonisti della campagna elettorale ai burattinai dietro di loro, di aver affidato queste parti ad alcuni degli attori migliori in circolazione all'epoca (Clooney si ritaglia la parte, perfetta per lui, ma defilata, del candidato alla Obama) e lasciare che siano loro gestire la questione morale di compromessi e minacce.

L'effetto finale è un film dal tono estremamente basso, ma ricco di livore e di energie contenuto, gestito bene, pur nella sua totale mancanza di innovazione. Ma diciamocelo, se i prodotti medi fossero tutti così il cinema sarebbe tutto su un altro livello.

mercoledì 24 febbraio 2021

Va' e vedi - Elem Klimov (1985)

 (Idi i smotri) 

Visto qui.

Un ragazzo di un villaggio russo durante la seconda guerra mondiale freme all'idea di arruolarsi nella resistenza contro i nazisti. Il suo entrare nella guerra attiva sarà diverso da quanto si aspetta, sarà totalmente senza gloria.

Ebert, in questa sua splendida recensione di questo film, sosteneva che ogni film di guerra, per quanto antimilitarista esalta comunque lo scontro, perché la guerra e di per se eccitante. Tutti i film di guerra tranne questo... e devo dargli ragione.

Questo film sfrutta la seconda guerra mondiale per parlare di un ambiente (fisico e mentale) trasformato dalla guerra, pur senza mostrarla mai direttamente. I personaggi si spostano in un mondo post apocalittico vittima di giochi del destino e della volontà di pochi di fare il male per il male, un ambiente e una situazione che trasforma tutti, anche i buoni, sia livello morali (uccidendoli dentro) sia esteticamente (l'invecchiamento fisico del ragazzo è un'idea così semplice, quasi naif, ma così efficace che ci si chiede perché sia stata usata così poco).

Per farlo Klimov abbandona completamente il registro di guerra classico (che ci sarà, un pò e con un pò di enfasi, nel finale) in favore di una gestione più vicina all'horror. C'è una sensazione di perturbante che è creata solo indirettamente duale pallottole dalle armi da fuoco; l'utilizzo dell'aereo come elemento alieno che porta più avvertimenti di sventura che bombe, le morti dei parenti nella prima parte raccontate con la loro scomparsa improvvisa (e mostrate solo ad estrema distanza di sfuggita), tutta le sequenza nella palude  (che riesce ad essere dolorosissima pur senza far succedere quasi nulla) sono elementi d'orrore che mostrano meglio di qualunque altro genere lo scivolare nella follia e il gioco del destino (il caos) che governa gli affari del mondo.

La seconda parte, con l'arrivo dei nazisti è un festival del dolore provocato che ottiene l'effetto voluto non con l'ostentazione gore, ma mettendo i cattivi in un mondo già incattivito, già morto e sconfitto dove basta un gesto per ottenere sofferenze psicologiche indicibili come nel miglior Croneneberg (si pensi all'atrocità delle persone ammassate nella casa dove viene offerto del cibo ai nazisti ridanciani comparato con l'incendio del magazzino, pur essendo molto diversi i presupposti, l'effetto è estremamente simile).

L'effetto angosciante è anche raggiunto con la luce crepuscolare e i colori terrei che fanno da padroni, oltre ad alcune idee di regia molto chiare come l'insistenza sui primissimi piani spesso con i personaggi sofferenti che guardano lo spettatore contrapposti a nazisti folli quasi caricaturali; una serie di idee che messe in un contesto diverso avrebbero potuto banalizzare o trasformare tutto in farsa, ma che qui rendono la visione estremamente empatica e dura.

Solo nel finale c'è un cedimento all'enfasi patriottica con le scene in cui il ragazzo spara all'immagine di Hitler, ma è poca cosa di fronte a un'opera altrimenti perfetta.

domenica 21 febbraio 2021

The commitments - Alan Parker (1991)

 (Id.)

Visto su Mubi, in lingua originale sottotitolato.


Un gruppo di amici del proletariato di Dublino mettono su una band, decidono di fare cover di canzoni soul; prenderanno amici e conoscenti e riusciranno ad avere un piccolo seguito locale cercando di fare il grande salto...

Alan Parker è un regista versatile, che si concentra sui personaggi più che sul contorno indipendentemente dal genere. Qui non si fa eccezione; la storia di una band con molte buone intenzioni, ma realizzazione minore è tutta un gioco di relazioni; è l'insieme di desideri, di velleità e di intenzioni a partire da un substrato sociale ben definito con molti limiti e che vede in un progetto campano per aria un modo per prendere ossigeno.

Ma non c'è vittimismo o delusione nel finale, il tutto è toccato da una vena ironica che trasforma un potenziale dramma in una commedia musicale godibilissima e in cui l'incredibile ottimismo e vitalità del protagonista trasforma il finale agrodolce in una vittoria morale.

La macchina da presa non fa scelte estetiche devastanti, ma riesce a gestire in maniera chiara un cast corale e permette di realizzare molti numeri musicali (ci sono diverse canzoni mostrate per intero durante i concerti) sono suonate benissimo e gestite in maniera impeccabile tanto da risultare parte fondamentale del film e non una pausa nel ritmo complessivo.


mercoledì 17 febbraio 2021

Train to Busan - Yeon Sang-ho (2016)

 (Busanhaeng)

Visto qui.


Un'epidemia zombie irrompe in Corea (del sud). Un uomo e sua figlia (con problemi relazionali) si ritrovano in un treno mentre il morbo si diffonde. Dovranno vedersela con gli zombie dentro al mezzo e con l'incognita della destinazione sicura. Ma più di tutti dovranno vedersela con il più classico degli homo homini lupus.

Senza inventare nulla, le basi di questo film sono estremamente interessanti. Il morbo degli zombie come pretesto per realizzare un dramma horror in un ambiente chiuso con molte persone che devono riuscire a relazionarsi per sopravvivere , con l'aggiunta dell'incognita sul loro destino. Lo zombismo dunque è solo il perturbante che fa scatenarla guerra fra sani più che un espediente horror vero e proprio; fatta salva una o due buone scene thrilling (su tutte il superamento del vagone pieno di mostri durante la galleria) il resto è un (tentativo di) dramma dure e sanguigno.

Di tutta questa operazione non c'è proprio nulla da eccepire (l'horror viene sfruttato come arredamento più che come genere per idee decisamente meno interessanti, dunque ben venga), ma è lo sviluppo che latita. A fronte di un cinismo non indifferente nel mettere a morte tuti quelli che non ti spetteresti dovrebbero morire (si, esatto, come in "Game of thrones") il film si perde nella parte più raffinata di caratterizzazione dei personaggi. Gli uomini che popolano quel vagone sono macchiette bidimensionali costruite su un sentimentalismo melenso fastidiosissimo: c'è l'anziano uomo d'affari egoista e cattivissimo, il buon padre di famiglia simpatico e disposto al sacrificio, la coppia di vecchie (truccate da vecchia malissimo) che si vogliono tantissimo bene anche al di là dello zombismo, e poi c'è il protagonista un padre di famiglia distante e freddo che vorrebbe avere relazioni diverse con la figlia, ma non ci riesce (e poi lavora nella finanza, quindi per principio è distante e freddo). Ogni complessità è apparente, ogni gestione dei rapporti fra personaggi telefonata, ogni elemento emotivo descritto a parole più che con i fatti, a livello di sceneggiatura questa è una débâcle.

Il film poi non offre molto altro a cui aggrapparsi per farsi ricordare (un paio di scene buone, ma non memorabili) e proprio quando sembra pronto a premere sul nichilismo più spinto si lascia andare a un happy ending fuori luogo, ma molto in linea con la parabola di banalità intrapresa...

domenica 14 febbraio 2021

Cimitero vivente 2 - Mary Lambert (1992)

 (Pet Sematary II)

Visto su Netflix.


Contro ogni pronostico (che avrei fatto io), il primo "Cimitero vivente" non fu un fiasco tale da fargli meritare l'oblio, ma venne premiato con un sequel.

La sceneggiatura venne affidata a tale Outten, medio mestierante che su imdb ha circa 5-6 credit, ma pare ne abbia diversi mai prodotti (un seguito de "I Goonies" che periodicamente viene riproposto) e alcuni non accreditati ("Gremlins 2"). Se si vede cosa ha realzizato e cosa avrebbe realizzato è ecvidente il cambio di rotta impostato, da un horror duro e puro (almeno nelle intenzionj) scritto da King, si preferisce il più vendibile prodotto d'orrore per regazzini (genere fiorito negli '80s).

Il cambio di marcia è evidentissimo; il protagonista è un teenager medio con i problemi connessi (bulli, difficoltà di inserimento, accettazione da parte di altri outsiders) Viene eliminata la parte più dura (il bambino assassino) e quella più macabra (il fantasma del morto che torna), rimane l'idea di fondo 8ci  mancherebbe), ma viene declinata con una vena ironica con punte demenziali (il redivivo patrigno dell'amico è caricaturale sia prima che post mortem).

Se personalmente ho sempre apprezzato l'idea di dedicare a bambini e ragazzi film di ogni genere, horror compreso (che sono, d'altra parte, spina dorsale dei racconti americani anche televisivi), bisogna anche accettare il fatto che farlo male è una colpa più grande che non farlo proprio.

Fastidioso nello svolgimento, con punte di idiozia, sorretto da un cast non all'altezza e gestito nella cabina di regia dalla stessa Lambert del primo film, se la gioca per decidere chi sia il peggiore. Forse, data la minor serietà, il target diminuito e i nomi in gioco meno altisonanti questo numero due potrebbe vincere ai punti contro il predecessore.

mercoledì 10 febbraio 2021

Laurence anyways e il desiderio di una donna - Xavier Dolan (2012)

 (Laurence anyways)

Visto su Mubi, in lingua originale sottotitolato.


Al terzo film Dolan torna al dramma, ma lo fa gettando il cuore oltre l'ostacolo affronta una tematica più adulta, senza rifugiarsi nei rapporti fmadre figlio che torneranno più avanti.

Questo film mostra una decina d'anni di vita di una coppia (uomo/donna, eterosessuali) più o meno dal momento in cui l'uomo si rende conto di sentirsi donna e comincia a muovere i primi passi per il cambio di sesso. L'intero film si gioca sul campo della relazione fra i due, la complicità, lo shock, gli allontanamenti, i riavvicinamenti, l'amore sempre presente, il rancore i tentativi impossibili.

Il film è enorme per densità emotiva ed encomiabile per la serietà con cui tratta un tema poco raccontato. A fronte di un impegno del genere, Dolan da fondo a tutte le sue attenzioni maniacali per la costruzione delle inquadrature (come sempre perfette), utilizza in maniera più controllata i suoi ralenty e le sequenze oniriche (che comunque ci sono e sono bellissime, si pensi alla cascata sul divano o la pioggia di foulard); rimane però più dimessa la palette di colori utilizzati, cercando di rimanere più sobria possibile per non sbracare nel kitsch.

L'effetto finale è, visivamente ottimo, ma le solite lungaggini di racconto e rallentamenti del ritmo tipici del regista fanno pagare uno scotto notevole, soprattutto se si considera il minutaggio complessivo. La storia si prende il suo tempo per esplorare ogni passaggio emotivo, ma molte scene sono tenute troppo a lungo o proprio inutili e affossano un film già lento come questo.

Il fascino però sta tutto nella ricerca di sé di una persona che finisce con la rottura di una coppia che rimane però indissolubilmente legata. Un ritratto a due magistrale.

domenica 7 febbraio 2021

The gentlemen - Guy Ritchie, (2020)

 (Id.)

Visto su Amazon prime.


Dopo diversi tentativi più o meno riusciti di buddy movie (wannebe) d'azione e qualche lavoro d'alto profilo (economico) Ritchie decide di tornare nel suo mondo.

Scrive quindi l'ennesimo film corale, un noir ironico e intricato ambientato nel sottobosco malavitoso inglese.

Stessa frenesia nel portare avanti il racconto (ma con un montaggio più rilassato), stessa abilità nel gestire un cast ampio e variegato, stesso amore per le inutili complicazioni.

Per chi apprezza il primo Ritchie qui si ritroverà a casa, niente di nuovo, ma tutto ben condotto, con il problema di una trama che vorrebbe essere  più circonvoluta di quello che è, ma con il piacere di una produzione finalmente all'altezza con il ritmo sostenuto dall'intera vicenda e non solo con il montaggio.

Encomio particolare per la costruzione di un paio di personaggi (su tutti il detective) e applausi a scena aperta a un Hugh Grant che gigioneggia come mai prima riuscendo perfettamente a dare carattere senza infastidire; bravo McConaughey che però è incastrato in una parte estremamente controllata in film sopra le righe, fa il suo con grande professionalità, porta a casa il risultato, ma non si fa notare nonostante la centralità del personaggio.


mercoledì 3 febbraio 2021

The believer - Henry Bean (2001)

 (Id.)

Visto su Mubi, in lingua originale sottotitolato.

Un naziskin americano preso dalla strada (ma con il dono della retorica) diventa portavoce di una versione ripulita del neonazismo politico che cerca di trovare finanziatori. Il ragazzo nasconde però il fatto di essere ebreo...

Film che all'epoca dell'uscita mi aveva incuriosito per l'ossimoro di nazi skin ebreo, all'epoca non lo recuperai (era una curiosità più che vero interesse), lo ritrovo incidentalmente su MUBI e dopo averlo visto non posso che non rammaricarmi per averlo perso all'epoca... non è un buon film.

Alla regia per la prima volta Bean, di professione sceneggiatore e si vede. Il film ha la propria ossatura sui lunghi monologhi del protagonista, le sue dissertazioni su antisemitismo e suprematismo bianco sono l'epicentro della vicenda e sono effettivamente la cosa più riuscita. Curioso come al di là delle singole scene l'intera vicenda sia scontata (il giovane ebreo che per problemi di relaizone e istinti autodistruttivi diventa naziskin... davvero c'è ancora bisogno di psicanalisi all'acqua di rose?), caotica (se l'intento del protagonista è quasi chiaro, il modo per arrivarci, nonché tutte le sue scelte sul finale sono francamente poco ragionevoli), al di là di ogni logica (la conversione della Phoenix è una delle decisioni più pretestuose della storia del cinema) e con picchi che oggi noi giovani definiremmo cringe (il bacio dopo il vomito...). 

Curioso, dicevo, come al di là di alcuni acuti, il film sembri girare a vuoto riempiendo di azione la mancanza di idee chiare negli snodi chiave; la regia decisa da uno sceneggiatore poi non supporta nè scelte estetiche particolari, né un ritmo già azzoppato.

C'è però un Ryan Gosling giovanissimo e già bravo e una Summer Phoenix che si fa ricordare.