mercoledì 31 ottobre 2018

Kagamijishi - Yasujirô Ozu (1936)

(Id. AKA The lion dance)

Visto qui.

Il primo film sonoro di Ozu, piuttosto tardivo, fu un documentario, un cortometraggio, ma, soprattutto, un film su commissione. Per promuovere la cultura giapponese fu chiesto a Ozu di riprendere un'opera di Kabuki. L'impressione che si ha è che il sonoro fu una scelta imposta più che ricercata; la musica, certamente lo imponeva (non c'era più la possibilità di suonare dal vivo nel 1936?), ma anche la velocissima spiegazione iniziale sarebbe risultata piuttosto laboriosa con i cartelli, anche se, immagino, Ozu avrebbe trovato una via alternativa.

Il filmato riprende in toto un'opera Kabuki in cui un attore interpreta una anziano donna che, toccando una testa di leone, viene impossessata dalla spirito dell'animale.
La parte inziale, quella introduttiva (a mio avviso la più interessante), mostra il teatro vuoto da diverse inquadrature in un gioco di montaggio rapido. Il resto sono inquadrature alternate di un campo lungo, con la figura intera dell'attore, con alcuni, rari, primi piani.
Assolutamente elegante, ma senza mordente; l'attore è piuttosto bravo nella parte della donna (anche se avrei immaginato una grazia decisamente superiore), ma riesce al meglio nella energetica parte del leone.
Carino, interessante, importante per la filmografia di Ozu, ma ovviamente non fondamentale.

Storia di erbe fluttuanti - Yasujirô Ozu (1934)

(Ukikusa monogatari)

Visto in Dvx.

Un attore girovago, capo della sua compagnia, torna nella città dove ha lasciato un figlio ormai post adolescente. I rapporti con la madre sono buoni, ha sempre pagato quello che doveva ed è sempr eentrato nella vita di entrambi come zio. La scelta di lasciarli era una presa di coscienza della propria condizione disonorevole come saltimbanco e la volontà di non far diventare il figlio simile a lui.

Ozu avversò a lungo le principali innovazioni in ambito cinematografico; con il sonoro aspettò fino all'anno successivo primo di utilizzarlo. Questo infatti è il suo ultimo film muto e, bisogna ammettere, che la necessità del sonoro divenne impellente solo per i dialoghi sempre più fitti.
Al di là del sonoro il resto del film è figlio dei suoi tempi, anzi, qualitativamente è superiori a molti suoi contemporanei. Fotografia pulita, uso delle luci magnifico nelle scene in notturna e una costruzione equilibrata delle immagini con, spesso, utilizzo di più piani. Ovviamente poi, c'è già la macchina da presa che inquadra da una posizione leggermente ribassata, ma ancora non è obbligo e non c'è la staticità dei suoi film più maturi (ci sono, anzi, diversi movimenti di macchina importanti).

La trama è piuttosto semplice, ma ben descritta, con un'attenzione alla sceneggiatura elevata che rende questo un film ancora godibilissimo. Ovviamenti i temi della famiglia dai rapporti tormentati e il dolore vissuto con calmo stoicismo ci sono già tutti.

lunedì 29 ottobre 2018

Mr. Nobody - Jaco Van Dormael (2009)

(Id.)

Visto in Dvx, doppiato in francese sottotitolato.

Un uomo di 118 è rimasto l'ultimo mortale, di lui non si conosce nulla; quando viene itnervistato racconta la sua vita, parlando delle svolte più importanti (delle scelte fondamentali che hanno portato verso una direzione o un'altra) raccontandone gli effetti come se entrambe le scelte fossero state effettivamente prese.

Film articolato e complesso, con una narrazione volutamente non cronologica e spezzata all'inizio, con una tendenza alla complessità fine a sé stessa come a voler rappresentare così la vita stessa. Si, insomma, stiamo giocando nello stesso campo di "Synecdoche, New York". Ma diciamolo, su tutto un altro livello. Nel suo barocchismo, il film di Kaufman, riesce a essere più organizzato, più concreto e strutturato, oltre che molto più coinvolgente a livello emotivo.

Detto ciò il film è esteticamente impegnativo, con una fotografia che utilizza in maniera simbolica i colori, con un suo pervasivo e significativo del fuori fuoco e giochi di rimandi continui. Bisogna ammettere che non c'è niente di nuovo e il film risulta anche piuttosto squilibrato, ma risulta ugualmente fruibile e per la prima ora e mezza è anche estremamente ritmato e interessante.
Uno dei maggiori difetti è la durata fiume di quest'opera, le due ore e mezza senza sapere da che parte si voglia andare a parare possono essere un limite insopportabile, tuttavia sono anche uno dei principali motivi di fascino; un film destrutturato, in cui la scansione temporale potrebbe durare all'infinito, la cui durata è superiore a quella usuale, riesce a creare un effetto lievemente sconcertante. E forse è proprio questa la forza principale del film.

Dal punto di vista del significato sembra tutto riassunto nella frase di Williams citata dal protagonista: "Ogni percorso è il giusto percorso. Ogni cosa avrebbe potuto essere un'altra e avrebbe avuto lo stesso profondo significato". Il film, infarcito di qualsivoglia teoria scientifica/matematica, sembra voler mostrare semplicemente questo, tutte le scelte fatte avrebbero avuto il loro significato, diverso, ma egualmente importante; con questa consapevolezza la scelta è impossibile.

venerdì 26 ottobre 2018

Kill Bill: Vol. 2 - Quentin Tarantino (2004)

(Id.)

Visto in DVD in lingua originale sottotitolato in spagnolo.


"Kill Bill" l'ho visto al cinema e da allora l'ho visto oltre la decina di volte, ma in effetti non mi era mai capitato di vedere il secondo senza vedere prima il Vol.1.
Questo secondo capitolo si caratterizza per un ritmo più rilassato, una predominanza dei dialoghi sull'azione e su una sorta di resa di conti interna ai vari personaggi. Le dinamiche tra i vari caratteri permettono alla vicenda di avere dinamismo senza scadere nel già visto (la sposa non arriverà a uccidere tutti e non è infallibile), assieme alla divisione in capitolo senza ordine cronologico è il vero motore del movimento interno del film.

Il chiacchiericcio (che ha fatto allontanare diverse persone dal film) è anche questo un buon sistema per non diventare la fotocopia del primo, mentre lo scontro finale tutto giocato sui dialoghi, pur essendo un poco frustrante, riesce a rendere il climax che con uno scontro "normale" si sarebbe rischiato di sprecare; in poche parole, quanto difficile è rendere lo scontro finale dopo 4 ore di hype? Tarantino supera il problema con uno showdown emotivo e un duello di parole.

In ogni caso i momenti d'azione non mancano, lo scontro de La sposa con Elle dentro la roulotte è obiettivamente bellissimo (da applausi la parte iniziale in cui Elle non riesce a estrarre la katana) e la breve scaramuccia tra La sposa e Bill entrambi da seduti è un magnifico momento di giocoleria marziale.

L'estetica rimane quella altissima di Tarantino che, per questa coppia di film, raggiunge vette incredibile, semplicemente più polverosa e accaldata per l'ambientazione western. Ecco lo switch principale tra i due film, lo sanno anhce i sassi, è questo passaggio dal wuxia al western. Al di là delle citazioni dirette e ossessive ("Sentieri selvaggi" e Morricone sono presenze costanti) e quelle più sottili e spesse volte forzate; al di là di tutto questo quello che rimane è lo spirito di "Duello al sole", base americana per ogni film di amore e odio (in stile western) che sarebbe scontato ritenere il padre putativo di questo "Kill Bill: Vol. 2", ma che rimane sottotraccia per il dinamismo della trama riuscendo però a esplodere enormemnte nello showdown finale (per questo così efficace) esemplificato dal perfetto primissimo piano piano di Uma Thurman mentre abbraccia sua figlia guardando Bill, un misto di amore e rabbia che sarebbe da mettere in un museo.

Dopo molte visioni per la prima volta mi è sembrato di vedere qualche momento di invecchiamento del film, in alcuni abiti della Thurman ancora anni '90 così come in certe dissolvenze incrociate; ammesso che ciò sia vero (e non una scleta precisa), rimane comunque un film senza tempo, un film magnifico che ha da invidiare al primo le coreografie quanto il primo deve invidiare a questo i dialoghi.

mercoledì 24 ottobre 2018

Cenere - Arturo Ambrosio, Febo Mari (1916)

(Id.)

Visto qui.

Dall'omonimo romanzo di Grazia Deledda, questo cortometraggio di meno di 40 minuti è l'unico film realzizato da Eleonora Duse.
Il film è un dramma dove il vero protagonista è Febo Mari nei panni del figlio, mentre la Duse viene utilizzata in maniera piuttosto marginale considerandone il peso specifico.
La recitazione di Mari, enfatica e un poco sciatta, può accontentarsi di essere nella media per l'epoca (o poco sotto), mentre la Duse, misurata e sofferente, riesce a essere, non solo ottima, ma incredibilmente moderna; un peccato quindi il suo essere in secondo piano.

Le inquadrature in esterni presentano qualche valore aggiunto, ma sono poche e, anch'esse, marginali; mentre la storia procede a ritmo accettabile, ma con così poca empatia da riuscire comunque piuttosto noiosa nonostante il basso minutaggio.

In poche parole un film, incredibilmente non riuscito che si guarda solo per la presenza dell'attrice.


lunedì 22 ottobre 2018

Hunger games - Gary Ross (2012)

(The hunger games)

Visto in Dvx.

In un futuro distopico, ogni anno, il governo estrae a caso due coppie per ogni distretto per farle scontrare in gioco mortale dove solo uno uscirà vincitore. Attorno al massacro di giovani gira un mondo di marketing, media, moda e politica.

La versione edulcorata di "Battle Royale" fatta dagli americani non può, prima di vederla, che suscitare due reazioni; piacere che anche il cinema mainstream USA si avvici a temi differenti, gelido distacco per la consapevolezza che stanno per rovinare qualcosa di bello.
Una volta visto il film, invece, ci si rende conto che, stavolta, hanno vinto loro. Il tema (grazie alla serie di libri originale) è trattato sempre con il piglio per young adult che anche il manga utilizzava, ma con un intento decisamente più adulto.
Se in tutti e due ci si trova di fronte alla metaforona delle frustrazioni adolescenziali, masticate da un una società gerontocratiche che impone le proprie scelte tarpando le ali; nell'opera giapponese, il tutto si risolve in un ghiotto bagno di sangue, qui, invece, nella più classica volontà di sopravvivenza in un mondo in cui cane mangia cane (e più avanti nella serie nel più classico tentativo di rivolta giovanile).
Sembra una sciocchezza, ma il tema, anche se scontato, è decisamente più interessante e il film riesce a trattatarlo in maniera impeccabile.
C'è un lungo prologo dove viene spiegato tutto il meccanismo che sta alle spalle della sfida che è, forse, la più intelligente delle invettive da teenager contro un mondo corrotto fatto di apparenze; dopo l'inizio dei giochi, invece, si passa a una rilettura dei rapporti di forza tra regazzini, dove i bulli massacrano i perdenti e gli outsider provano a sopravvivere da soli sfruttando le loro capacità.
Certo, siamo davanti a un prodotto molto commerciale, ma trattato in maniera estremamente intelligenti.
A questo si affianca una regia che nella prima parte cerca un realismo a colori spenti che ha dell'incredibile (incredibile per il format, i film ad alto budget tendono sempre a colpire per l'uso dei colori e la fotografia satura) che culmina in alcune scene con macchina da presa a mano che rasentano lo shoa movie (durante la scelta del tributo nel distretto 12). La messa in scena però non si accontenta del taglio gelido della provincia, ma realizza un mondo esteticamente differenziato e organico per la capitale che sembra una versione timburtiana tenuta a freno dalla consapevolezza che non deve sfociare in farsa.
A questo va aggiunto un cast enorme i nomi (con una capacità recitativa media tra le più alte di sempre nonostante ci sia pure uno degli Hemsworth tirare verso il basso) che culmina in una protagonista magnifica; la Lawrence riesce a mantenere uno sguardo rabbuiato per tutto il tempo trasmettendo tutta una serie di emozioni con il resto del viso e del corpo.

Quello che ne viene fuori è un film non perfetto, ma di intrattenimento intelligenti che si fa guardare senza stanchezza per tutte le sue due ore e mezza.

venerdì 19 ottobre 2018

Marebito - Takashi Shimizu (2004)

(Id.)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Un videoamatore (in realtà un tizio ossessionato dall'idea di inquadrare il terrore con la sua pessima videocamera) si introduce nel labirintico sottosuolo di Tokyo; troverà un'enorme caverna sotterranea con costruzioni abbandonate e una luce dalla provenienza ignota; incatenata ad una parete troverà un giovane e bellissima donna, piuttosto palliduccia. Come fossimo in uno dei Guine pig la porterà a casa... purtroppo lei è una creatura che si nutre solo di sangue e lui sarà costretto a procurarglielo, che sia il proprio, di un animale o di altri esseri umani è questione di poco conto.

Film dell'ottimo Shimizu, realizzato con un presupposto un pò del cazzo (cercare il terrore per inquadrarlo... ma che vuol dire?! e le creature del sottosuolo... vogliamo parlarne?), realizzato a costo bassissimo in poco tempo con la partecipazione straordinaria di Tsukamoto.
Regia accettabile (che nella prima parte ricorre alla camera a mano), ma che viene ammazzata, nella gestione del ritmo, da una trama laboriosa e da una voce fuori campo che dovrebbe rappresentare i pensieri del protagonista, ma in definitiva è il veicolo principale per esporre l'inquietudine che lo spettatore dovrebbe provare... definire questa cosa didascalica è un eufemismo.
Il film, già un poco lento, rallenta ulteriormente nella seconda parte con il rapporto con la donna del sotterraneo che fa deragliare la comprensibilità della vicenda e rende impossibile capire dove voglia andare a parare, o più semplicemente quali fossero le intenzioni iniziali.

L'unico punto di forza è qualche momento azzeccato nella sequenza dei sotterranei che lascia sperare qualcosa che non arriverà mai.
Sinceramente la qualità è ottima se si considera l'extremly low budget, peccato, perché mancano le idee.


mercoledì 17 ottobre 2018

La parmigiana - Antonio Pietrangeli (1963)

(Id.)

Visto in Dvx.

Una ragazza della provincia di Parma se ne va dalla casa dello zio prete dopo aver sedotto un seminarista; si trasferirà in casa di una amica della madre (ormai morta), ma anche lì le attenzioni degli uomini non si faranno attendere; cercherà quindi di sposarsi per poter ottenere, con questo assoggettamento parziale, la libertà che cerca.

Pietrangeli, salvo in pochi bellissimi casi, ha sempre fatto lo stesso film; film di persone sole o abbandonate che cercano il loro posto nel mondo, di solito donne.
Qui la protagonista è una ragazza appena uscita dall'adolescenza che deve affrontare un mondo in cui tutti già sanno quale deve essere il suo posto e in cui lei, neanche a dirlo, si trova stretta. Ma al contrario del classico tipo alla Pietrangeli, la giovane protagonista di questo film ha le idee molto chiare e persegue con determinazione il suo obiettivo, il suo posto nel mondo al di fuori degli obblighi sociali. Rispetto agli altri film sullo stesso tema, qui sembra anche esserci la reale possibilità di riuscirci.
Come spesso, ma non sempre, siamo di fronte a un dramma con i ritmi e i toni di una commedia efficacissima.
Come sempre la regia è magnifica e utilizza gli spazi (il film è quasi interamente in interni) in maniera perfetta, con porte chiuse o aperte che danno significato all'azione, con movimenti di macchina da presa e inquadrature ragionate che rendono ritmo e intenti e un utilizzo particolare di diversi dialoghi in cui i due non sono voltati nella stessa direzione senza, quindi, potersi vedere (quando Manfredi smacchia i pantaloni) o uno dei due viene eclissato dalla vista dello spettatore (il dialogo dietro la colonna per strada).
Come sempre, cast grandioso, senza sbavature né tra i protagonisti, né tra le spalle.

lunedì 15 ottobre 2018

Re-animator 2 - Brian Yuzna (1989)

(Id.)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Al suo secondo film, dopo l'incredibile "Society", Yuzna decide di andare sul sicuro e mettere in scena il sequel di "Re-animator". Decide di andare sul sicuro per il successo del primo e la certezza di ritornare nei pressi del cinema slasher comico e folle senza avere i bastoni fra le ruote. Riprende gli stessi personaggi li porta avanti nel tempo, stessi esperimenti, stesse pulsioni, il tutto con più cadaveri.

L'esperimento, a mio avviso, riesce. Non si pretende una trama dettagliata o particolarmente interessante, né l'effetto straniante dell'originalità di "Society"; quello che si può chiedere e si ottiene è film folle e totalmente libero di mostrare ciò che desidera.
Il film si permette scene splatter e la creazione di mostri ibridi a uso ridere (magnifico il cane con la mano o la mano con un occhio) realizzati benissimo con gli effetti speciali d'epoca e l'utilizzo oculato del passo uno, niente a confronto di un ottima CGI, ma niente a confronto (qui in senso positivo) di un CGI mediocre.
L'effetto caotico di un film caotico può infastidire, ma se si accetta il piglio scanzonato e senza pretese di Yuzna, ci si può godere una gradevole commedia grandguignolesca con la pretestuosità di pesanti citazioni da "La moglie di Frankenstein" e un finale apocalittico pieno di creature d'ogni sorta che, senza raggiungerlo, non fa rimpiangere il già citato "Society".

venerdì 12 ottobre 2018

Alleluja! - King Vidor (1929)

(Hallelujah)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Negli anni '20 diversi film (cortometraggi) con protagonisti afro-americani cominciarono a fiorire, o con contenuti apertamente caricaturali o per autoproduzioni a basso costo. Alla fine del quel decennio, con l'arrivo del sonoro ("Il cantante di Jazz" è solo di due anni più vecchio), le grandi produzioni americane divennero, cautamente, più propense ad aprirsi a film che garantassero di aumentare il mercato verso le minoranze razziali. A questa minima apertura si appigliò Vidor, cresciuto nel sud, allevato da una donna di colore, da anni avrebbe voluto realizzare un film sulle condizioni dei neri. Oltre all'apertura mentale, Vidor, si appigliò anche al fatto che parte dei soldi li avrebbe messi lui. Il film venne realizzato.
Per rimanere nell'anedottica anti-razzista, per la scrittura della sceneggiatura venne ingaggiata l'unica sceneggiatrice donna dell'epoca, Wanda Tuchock.

Il film parla di un lavoratore dei campi di cotone del Tennessee che rimane invischiato nell'omicidio del fratello, a seguito del quale, riscopre la fede e si fa predicatore; ma la carne è debole e per una donna abbandona tutto e tutti (i numerosi familiari).

Ecco, sicuramente la produzione accettò anche per l'intenzione di Vidor di costellare il film di molti momenti musicali (non è un musical vero e proprio, ma la musica permea tutto il film), così da sfruttare al meglio il sonoro. Quello che però mi rimane in sospeso è sapere chi ha voluto dare a questo film un taglio così leggero. La trama è un ottimo materiale per il melodramma, ma tutto il film ha il respiro della commedia di redenzione, con l'aggravante di un incipit (20-30 minuti) che ha intento più ridanciano. Spesso questo film viene accusato di mostrare lo stereotipo dell'epoca dei neri come dissoluti incapaci di controllare i propri impulsi (anche se Vidor sembra toccare apposta questi temi per smentirli; con il protagonista che vuole baciare la donna, ma si trattiene e se ne scusa, o che riesce a resistere alla voglia del gioco d'azzardo, almeno all'inizio); a mio avviso più di quello, il film può essere accusato di una visione caricaturale fino all'imbarazzo proprio in quelle scene iniziali. Che sia stata la produzione a pretenderlo o un'idea di Vidor per alleggerire il tono di un film altrimenti troppo cupo; direi che comunque non funzione e, anzi, stride molto, con la sensibilità attuale, ma anche con l'ambientazione totale del film.

A livello di regia il film sembra non farcela mai a staccarsi dal consuetudinario. Vidor sembra più interessato alla storia che al come raccontarla. Cose buone ce ne sono sempre e, qui, le migliori sembrano essere i vari primissimi piani ottimamente curati (molto da cinema muto) e il montaggio perfetto della scena della "conversione" del protagonista (quella in cui decide di diventare predicatore) o la scena della fuga di Zeke; a questo poi aggiungere il mood dell'inseguimento nella palude nel finale riesce ad essere ancora efficace.

Interessante per tutti i precedenti motivi storici (più che per la godibilità bassina) ha anche qualche, misero, motivo aggiuntivo come anello di congiunzione fra il muto e il cinema sonoro maturo degli anni '30, con una recitazione molto fisica (in qualche momento slapstick) e un'eccessiva mimica facciale nonostante i dialoghi.

PS: questo film non riuscì ad essere il primo film all-black della storia perché pochi mesi prima la Fox Batté la MGM portando in sala "Hearts in Dixie"; sempre all-black, sempre musicale.

mercoledì 10 ottobre 2018

The lost thing - Andrew Ruhemann, Shaun Tan (2010)

(Id.)

Visto qui.

Un ragazzo trova una cosa perduta sulla spiaggia. Questa cosa è un gigante di metallo con tentacoli animali. Cerca di capire cosa sia, la porta a casa e la nasconde. Vede una pubblicità del governo dove descrivono un ufficio cose perdute, prova ad andarci, ma viene fermato da un inserviente che gli suggerisce di non rimanere in quel palazzo e gli da un biglietto con cui troverà un altro luogo per la sua cosa perduta.

Shaun Tan lo conosco per alcuni suoi lavori cartacei, ma, guardando "Tsumiki no ie" ho scoperto aver messo su pellicola questo "La cosa smarrita".
Tan ha uno stile particolare; un disegno estremamente realistico, tondo, tridimensionale; crea mondi realistici, ma inverosimili, costellati da strutture semplici, ma impossibile con creature assurde, trattate in maniera consueta dai vari personaggi. I mondi che crea sono solitari, figli della memoria con cui condividono fogli ingialliti e l'idea di un passato che non può tornare; le storie raccontate sono semplicissime, banali, ma con elementi inconsueti e surreali e con un mood familiare e vagamente perturbante nello stesso momento. Ecco, questa opera prima è un giusto compendio cinematografico all'opera disegnata.
Il corto si avvale di un CG assolutamente impeccabile nella creazione delle strutture e degli oggetti (così come delle creature ibride meccaniche/biologiche), fallisce di più con gli esserei umani (caricaturali come da volontà dell'autore, ma eccessivamente falsi in un mondo iperreale).  Nella costruzione della vicenda si avvale di una fastidiosa voce fuori campo, ma anche di una regia parca, ma precisa che sa utilizzare gli stilemi del fumetto per scopi cinematografici (le vignette che fungono da split screen).
Senza lodi eccessive, un buon corto, premiato con l'Oscar alla miglior short d'animazione.

Tsumiki no ie - Kunio Kato (2008)

(Id. AKA La Maison en Petits Cubes)

Visto qui.

Vincitore del premio Oscar per il miglior cortometraggio animato nel 2008, il breve film di Kato mostra un mondo allagato dove le acque continuano a salire e dove le persone risolvono il problema costruendo una nuova stanza sopra la precedente. Un anziano perde la pipa nella botola che lo collega alle sue, molte, case sommerse, comprerà dell'attrezzatura da sub per recuperarla, così facendo ripercorrerà a ritroso tutta la sua vita.

Delicato dramma senile, ben realizzato, ma, a conti fatti, non molto originale.
L'ambito in cui il corto di Kato vince a mani basse è la realizzazione tecnica. A fronte di un'animazione semplicemente impeccabile, il tratto è estremamente lontano da quanto ci si potrebbe aspettare da un autore giapponese. A vedere i disegni del film si potrebbe pensare che l'autore sia europeo, chiaramente figlio di Chomet, con i suoi tratti caricaturali, i colori terrei e il disegno "sporco"; il tutto con un tocco di Shaun Tan per la tridimensionalità dei corpi e il senso di lieve disagio pur nella normalità del soggetto rappresentato.
L'effetto finale è affascinante e, pur di fronte a una certa banalità dell'idea (come si è detto), il viaggio fisico di questo buffo personaggio dentro la sua memoria rimane affascinante.

PS: di Kato, su youtube, si può trovare anche gran parte della serie su "Tortov Roddle" che presenta una trama decisamente più surreale, un'animazione peggiore, ma una suggestione che si avvicina (solo avvicina eh?!) al Codex Seraphinianus senza perdere le parentele con gli autori già citati.

lunedì 8 ottobre 2018

You're next - Adam Wingard (2011)

(Id.)

Visto in Dvx.

In un cottage in mezzo al nulla, una ricca famiglia si riunisce per festeggiare l'anniversario di matrimonio dei genitori, i quattro figli verranno ognuno con il partner. Durante la cena in cui tutti gli odi repressi verranno esposti in maniera esaustiva arrivano dei tizi che cercano di ammazzare tutti con balestre e spranghe come nel migliore home invasion. Come nel migliore home invasion il film non finisce dopo tre minuti per il grande numero di vittime e per l'organizzazione che la ragazza di uno dei fratelli riesce a mettere in piedi.

Sono anni che ho i primi film di Wingard e che avrei voluto vedere in ordine cronologico, ora che non trovo più "Pop skull" e che alla fine mi sono rotto di aspettare ho deciso di vedere questo "You're next". Il film è magnifico, ma bisogna fare dei distinguo.

A livello puramente tecnico ci sono poche pecche; la fotografia è ottima, c'è un uso degli spazi notevole (la villa è enorme, ma sembra una gabbia minuscola, il vasto mondo esterno sembra totalmente precluso) e un'estetica perfetta (le maschere degli aggressori sono magnifiche) e Wingard sembra divertirsi ad avere a disposizione così tanti attori e così tante possibilità. Il cast non è impeccabile (ci sono gli amici, registi, di Wingard, non ottimali come attori, che però tendono a morire abbastanza velocemente), ma è decisamente buono nel suo complesso. Dal punto di vista horror la lunga introduzione si fa perdonare da un incipit splatter, una serie di inquietudini efficaci e da un inizio vero e proprio notevole; il body count finale è alto e i metodi di omicidio sono fantasiosi e variegati e utilizzano in maniera drammatica la location domestica. In poche parole il pacchetto è di livello più che egregio.
Quello che può far storcere il naso è la non purezza della vicenda. Quello che nasce come uno splendido e terribile home invasion rapidamente si ribalta e i cacciatori diventano prede a loro volta aumentando le potenzialità del film, ma ammazzandone completamente l'effetto emotivo. Se in un home invasion gli invasori, hanno un volto e non sembrano più creature indistruttibile e insondabili, diventa solo un duello, magari ben realizzato, ma l'inquietudine assimilabile a una punizione divina viene buttata.
Personalmente, nonostante il calo drammatico, rimano un grande film.

venerdì 5 ottobre 2018

Deathgasm - Jason Lei Howden (2015)

(Id.)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

In un paesino della Nuova Zelanda un ragazzo appena trasferitosi ha dalla sua una madre psicotica, degli zii ultrareligiosi e una passione smodata per il metal. Di fatto dovrà cercare di uscire vivo dalla sua adolescenza, la sfigaggine che lo segue ovunque, il suo isolamento dal resto del mondo a cui il metal fa schifo, ma soprattutto, da un'accidentale evocazione satanica fatta proprio suonando con la sua band metal.

Horror splatter con corredo di possessioni zombesche e demoni, oltre che a potenti nemici umani che si muove con estrema dignità e passione nel proprio genere. Con una regia che sembra una versione accettabile e pulita di "Scott Pilgrim", con un'attenzione alle strizzatine d'occhio metacinematografiche concentrate all'inizio, con segmenti alla Manowar e filmati amatoriali; si fa via via più diretto e meno fighetto nella parte finale per permettere uno showdown come dio comanda.
Ammazzamenti ironici e grotteschi (peccato che la scena dei vibratori sia stata tenuta troppo a lungo), fatti con effetti speciali artigianali estremamente curati che non potranno non essere apprezzati dagli appassionati; pacchetto tecnico ottimale in tutto.
Inoltre, questo film, ha il valore aggiunto di calare la classica horror comedy nel mondo del metal con riferimenti interni e con l'utilizzo di questa forma musicale come simbolo dell'adolescenza e il suo senso di inadeguatezza, dell'essere fuori posto, ma con la voglia di essere grandiosi.

mercoledì 3 ottobre 2018

Lo specchio della vita - Douglas Sirk (1959)

(Imitation of life)

Visto in Dvx.

Due donne, una bianca e una nera, amiche, si ritrovano ad affrontare i problemi dell'essere sole con figlie a carico. La figlia della donna di colore è incredibilmente bianca e cercherà in ogni modo di non far sapere a nessuno chi è sua madre; la figlia della ricca (o almeno, che diverrà ricca) bianca, invece, si troverà a dover convivere con una madre amorevole, ma assente.

A me il melodramma piace; ma qui siamo di fronte alla sublimazione del melò; questo è il più titanico esempio di film ricattatorio che strappa lacrime a viva forza dagli spettatori. Fintamente democratico è in realtà un film piuttosto consueto (i rapporti di forza fra le due amiche non saranno mai equi) utilizza ogni spietato elemento di sceneggiatura per tirare fuori il pianto da ogni accenno di bontà o di rivolta che sia.
In questo senso è un film impeccabile.
La trama, come si è detto, è falsamente progressista, ma nel suo continuare a dipingere gli estremi razziali in maniera scontata (ma ovviamente edulcorata, qui il dramma è casalingo, non sociale) comincia a veicolare un'idea di cinema in cui gli afroamericani possono avere un posto (come già "La parete di fango").
Sirk dal canto suo gestisce tutto come suo solito; con assenza di ritmo, ma con la gestione delle scene come in un musical, con colori accesi, macchina da presa immobile, ma che gioca molto di montaggio (il finale è, in questo senso, magnifico) e, nelle ultime scene, si lancia nella più struggente cavalcata di dolore supportato da una canzone cantata in scena.

lunedì 1 ottobre 2018

Il giustiziere della notte - Michale Winner (1974)

(Deathwish)

Visto in Dvx.

Un tranquillo ingegnere di New York, innamorato di sua moglie, ex obiettore della guerra di Corea, viene raggiunto dalla notizia dell'omicidio della signora e dello stupro della figlia (che la farà rimanere sotto uno shock da cui non si riprenderà mai). A seguito di un tentativo di aggressione contro di lui finito con la fuga del malintenzionato grazie a una reazione violenta e a seguito di una pistola donatagli da un cliente, inizierà a muoversi per una New York sempre peggiore in cerca di criminali da uccidere.

Primo film ad affrontare il tema della giustizia sommaria e della violenza nella vita di tutti giornil si porterà dietro una fama di blando fascismo americanocentrico che, nel bene e nel male non gli è propria.
Il film è tratto da un romanzo di successo che viene declinato da un punto di vista totalmente psicologico; il protagonista, un uomo tranquillo, non diviene un violento giustiziere a seguito del torto subito; ma è l'ambiente criminale che gli viene costantemente messo davanti (dalla tv, dai colleghi e dalla polizia stessa), dopo la morte della moglie, e la logica americana delle armi facili a portarlo sempre di più verso l'altra sponda (rispetto all'obiezione di coscienza). A questo si somma una struttura sociale che non mostra lo stato assente (non è un violento neorealismo all'italiana), ma una polizia intenta nel proprio dovere, semplicemente soverchiata dalla quantità e dalle difficolatà. 
Inoltre vengono, a dire la verità solo superficialmente, incrociati anche i temi dell'effetto che ha un giustiziere di questo tipo sulla popolazione generale e successivamente sulle forze dell'ordine (una sorta di "The dark knight" con i suoi effetti domino, dove il supereroe è un uomo qualunque).
Il finale, ironico e grottesco sembra un poco svilire quanto successo prima, ma rimane anche una delle poche scelte che non fossero un happy ending disneyano (e fuori luogo).

Oltre a tutto questo, la forma è essenziale, ma adeguata; la fotografia terrea perfetta per il tema trattato e la regia asciutta. Bronson non recita, ricordo, sinceramente, pochi cambi d'espressione per tutto il film; semplicemente Bronson è il corpo adatto a incarnare lo spirito del film e porta a casa un lavoro egregio. 

Uniche pecche, un ritmo che nella seconda metà (a causa di una certa ripetitività) si fa a tratti lento e una caratterizzazione della criminalità macchiettistica.
Da ricordare un giovanissimo Jeff Goldblum nella sua prima apparizione cinematografica.