lunedì 29 aprile 2019

Enemy - Denis Villeneuve (2013)

(Id.)

Visto in Dvx.

Un uomo vede, in un film, una comparsa che è identica a lui. Ne diviene ossessionato, ne cerca il nome e cerca di trovarlo. I due si incontreranno e le loro vite si confonderanno.

Villeneuve è un regista solido. Uno che con l'uso degli spazi, una fotografia scarna, ma d'effetto e ritmi dilatati carichi di tensione riesce a rendere interessante qualunque argomento. Ma Villeneuve ha un problema, 9 volte su 10 ha sceneggiature zoppicanti, parziali o paracule. Di solito riesce nonostante il grave problema di scrittura. Purtroppo questo non è uno di quei casi.

Si perché la regia è la solita, con un'attenzione maggiore al creare tensione tra il thriller e il perturbante 800esco con un'efficacia invidiabile; il tutto dipinto con una fotografia dai colori terrei e gli inserti allucinanti dei ragni che aumentano il senso di straniamento. Si, insomma, Villeneuve lavora seriamente senza sfruttare il pilota automatico.
La sceneggiatura invece (presa da un libro di Saramago) sembra non sapre che fare con lo spunto iniziale. Parte da Dio con una situazione creadibile, ma che presto deraglia nel paradossale, accumula perturbamenti a ogni scena, ma si risolve tutta in uno scambio delle parti che vorrebbe essere più significativo di quanto non sia e che riesce ad essere più assurdo e ridicolo di quanto non dovrebbe.
A mio avviso, in questo caso, Villeneuve non porta a casa un buon film, ma almeno può vantarsi di aver intrattenuto con capacità per almeno metà del minutaggio

venerdì 26 aprile 2019

Dead silence - James Wan (2007)

(Id.)

Visto in DVD.

Una giovane coppia riceve in regalo un pupazzo da ventriloquo (lo trovano davanti alla porta di casa... e fa inquietudine abbestia, io l'avrei lasciato li). Ovviamente ne pagheranno le conseguenze; la giovane donna morirà male. Affranto per la perdita della compagna l'uomo rintraccerà la costruttrice di quel pupazzo, una vecchia (ormai morta) proprio del suo paese natale; tornerà per indagare.

Wan anche nei suoi momenti peggiori è bravo; è bravo a livello tecnico e lo è a livello di regista horror. Purtroppo qui è decisamente migliore come tecnico.
A livello visivo, infatti, "Dead silence" è un film perfetto. Tutto girato su tre colori fondamentali (il nero, il bianco e il rosso) che si intersecano in maniera impeccabile. Le scene sono spesso costruite in maniera efficace, soprattutto nei campi lunghi sembrano dei quadri dipinti da Tim Burton; infine un ottimo uso del buio.
Dall'altra parte abbiamo una storia terribilmente mediocre. Si costruisce una mitopoiesi buona su un antagonista ben realizzato (e con molte possibilità per il futuro), si crea un modo per mostrare che sta per giungere intelligente (il silenzio ovviamente; non c'è bisogno di far vedere nulla, ma impressiona più di un'esplosione); infine si imbastisce una scena iniziale... non perfetta, ma buona, che sfrutta (come Wan stesso dimostrerà di saper fare) le basi del cinema horror in maniera efficace. Vengono pure azzeccati un paio di twist plot...poco credibili, quasi ridicoli; ma che a me son piaciuti molto. E tutto questo per dare aria a una storia che scade nell'ovvio a ogni passo; senza un minimo di originalità e con un ritmo che cala rovinosamente a mano a mano che ci si avvicina al finale.

Diciamo che Wan doveva ancora riprendersi dall'ubriacatura post "Saw".

mercoledì 24 aprile 2019

La nave dolce - Daniele Vicari (2012)

(Id.)

Visto in Dvx.

A 20 anni circa dal grande esodo di albanesi giunte sulle coste di Bari, anche Daniele Vicari gira un documentario. Inevitabile per me fare un paragone con il contemporaneo "Anija" che ho visto diverso tempo fa.
Se "Anija" voleva dare un'idea dei rapporti fra Albania e Italia negli anni '90 (voleva raccontare la storia di tutta l'emigrazione albanese che è durata per tutto il decennio), Vicari si concentra sul singolo episodio, rappresentativo di un evento storico più ampio, ma che permette anche di indagare più nel dettaglio modi e motivazioni di quella fuga di massa, così come le reazioni da parte dell'Italia.
Quello che salta di più all'occhio è la contrapposizione totale che Vicari realizza fra stato centrale (entità mai davvero definita che parla solo con la dura e accusatoria voce di Cossiga) e governo locale (parla poco, ma viene descritto in maniera illuminante).

A livello di immagini, meno repertorio, ma una cura maggiore nelle interviste. Alternanza di dettagli (gli occhi, le mani) e mezzibusti, tutti su sfondo neutro con una splendida luce a illuminare i volti.

Infine il lavoro più raffinato è quello operato sui suoni (come già succedeva nei migliori momenti di "Diaz"); durante le interviste il rumore del mare o il vociare delle persone riprende quanto viene raccontato dai protagoniste sottolineandolo e aumentandone l'effetto.

Un documentario meno emotivo di "Anija", ma più curato.

lunedì 22 aprile 2019

L'uomo dai mille volti - Joseph Pevney (1957)

(Man of a Thousand Faces)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

La vita di Lon haney, poche scene dell'infanzia e poi l'età adulta dagli spettacoli come clown al grande successo, mostrando soprattutto il rapporto combattuto con la prima moglie e l'amore incondizionato per il figlio.

Filmone erculeo che santifica la figura di Lon Chaney, immagino che all'epoca fosse ancora piuttosto quotata.
La prima parte si focalizza sul rapporto di coppia andando dritto verso la banalità del solito film melodrammatico; stucchevole, ma gradevole.
Nella seconda parte migliora nettamente; vengono mostrati alcuni minuti della Hollywood dell'epoca d'oro, si vira verso una galleria di personaggi dal gusto freak (non bisogna però aspettarsi Tim Burton, siamo pur sempre negli anni '50) e si introduce una devastante, grottesca, ironia sulla voce (o sulla sua mancanza) come leit motiv della vita (e della morte) di Chaney.

Complessivamente è un'operazione hollywoodiana in senso di superficiale e ad ampio spettro, stucchevole ed enfatica che azzecca solo i momenti più generalisti e rende poco il personaggio (anche se un porzione è dedicata alla cura che l'attore metteva nel costruire i suoi personaggi e la sua cassetta per il trucco); però il finale strappalacrime con il passaggio di consegne e la carrellata di volti, per me, è riuscita in maniera efficace.

Bravissimo Cagney, che fa tutto quello che può e anche quello che non può per recitare con ogni segmento del corpo (ottimo nella prima parte soprattutto per l'impegno, bravo nella seconda), ma non ha la presenza scenica dell'originale.

venerdì 19 aprile 2019

mercoledì 17 aprile 2019

Summer of Sam. Panico a New York - Spike Lee (1999)

(Summer of Sam)

Visto in DVD.

NEstate del 1977 un serial killer uccide le coppiette appartate in un quartiere italoamericano di New York. Mentre la comunità si mobilita per trovare il colpevole, si intrecciano le vite di un uomo sposato che non riesce a non tradire sua moglie, un ragazzo appena convertito al punk che lavora in un locale gay per mantenersi e il gruppo di amici che gira intorno a loro.

Per la prima volta Spike Lee abbandona gli afroamericano, ma solo per dedicarsi completamente al secondo leit motiv della sua carriera, gli italo-americani.
La storia del serial killer è solo un MacGuffin per giustificare lo stato di paranoia che sfocerà nel finale, ma quello che interessa al regista è mostrare un mondo legato a una mentalità arcaica, l'effetto del gruppo, l'ansia di sdoganarsi dal vecchio e la paura che si crea quando sic erca di farlo. Di fatto, vuole solo raccontare una storia di italo-americani.
Ecco... il problema di Spike Lee spesso sono le sceneggiature troppo dispersive, le storie corali dove molti dei personaggi sono inutili, la ricchezza di dettagli che non servono a nulla, non rendono tridimensionale un mondo, ma riescono invece a rallentare la trama. Ecco, tutti questi difetti sono concentrati in questo film.
Efficace invece la ricostruzione storica e splendidamente utilizzate le musiche più ovvie per sottolineare quel periodo.

Per la regia c'è tutto ml'armamentario standard di Lee (piani sequenza, inserti post-moderni di sequenze in mezzo a un dialogo, macchina da presa mobile, ecc...) quello che manca è il ritmo sincopato di molte sue opere precedenti (e forse anche una certa cura per le immagini che ha sempre avuto) che in questo film, ipertrofico e lungo, sarebbe stato necessario per rendere il prodotto più digeribile.
Bravissimi Leguizamo e la Sorvino, meno Brody, il resto del cast vivacchia.

PS: smaccate, ma calzanti, le citazioni de "La città nuda" e  "Strada sbarrata".

lunedì 15 aprile 2019

Sono nato, ma... - Yasujirô Ozu (1932)

(Otona no miru ehon - Umarete wa mita keredo)

Visto in Dvx.

Un uomo si trasferisce con la famiglia nella periferia di Tokyo, i due figli dovranno integrarsi con i ragazzini della zona, ma la parte più difficile sarà accettare le umiliazioni a cui il padre si sottopone in favore del proprio boss.

Un film delizioso completamente votato alla commedia che sembra voler semplicemente mostrare le dinamiche di socialità dei bambini, ma che nel finale si soffermerà nel mostrare la scoperta dei rapporti di forza tra gli adulti e la loro accettazione, nonostante tutto. Un finale con il sorriso sulle labbra, ma un sapore amaro in bocca.

Ozu, ancora muto data la sua diffidenza nei confronti del sonoro, ripulisce la sua tecnica degli anni precedenti e confezione un film godibile e agro-dolce che resiste tranquillamente agli anni passati.
Ancora, però, non ha ottimizzato la sua regia in favore del minimalismo assoluto e regala dei virtuosismi tecnici estremamente gustosi, con un uso continuo dei carrelli (utilizzando il movimento anche come unione fra le scene come nella sequenza dei lavoratori messi in relazione con la classe e con i due ragazzi nel prato; ma su tutte vince il carrello con i lavoratori che sbadigliano che torna indietro ad aspettare che anche l'ultimo dimostri stanchezza, per poi proseguire), un paio di panoramiche, ma soprattutto un uso esteso dei punti di vista differenti (su tutte, nelle lunghe sequenze in esterni dei ragazzi i punti di vista aumentano per aumentare il dinamismo).

Lontani anni luce dall'Ozu dei decenni successivi, complesso nella regia, ma estremamente semplice nella trama, rimane un gioiello da ripescare nella filmografia del regista.

venerdì 12 aprile 2019

Pisutoru opera - Seijun Suzuki (2001)

(Id. AKA Pistol opera)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.


Per la storia, troppo complicata, qui.

Un film estremamente teatrale, dalla trama che è solo un pretesto per mettere in scena una vicenda pulp estetizzante al massimo. Anzi, la trama soccombe miseramente dopo pochi minuti sotto chili di tableau vivant dai colori accesi e dal gusto di un eccessivo postmodernismo.

Potremmo essere davanti a una seria opera sulla destrutturazione del linguaggio cinematografico, oppure un'incredibile operazione paracula.
...personalmente credo più alla seconda ipotesi. Un pò perché immagino il povero Suzuki ignorato per anni, finché non viene miracolato da San Quentin Tarantino che gli da un pacco di soldi e vuole dimostrare di non essere scelto a caso e pigia l'acceleratore sul suo stile tipico (di Suzuki) rimaneggiato con il post-moderno americano che di li a poco sarà fuori moda... e un pò perché un discorso sulla destrutturazione del linguaggio cinematografico la vedo più simile a "L'anno scorso s Marienbad" (scusate, sul lavoro di destrutturazione di Godard sono piuttosto ignorante), non per forza più godibile (anzi, potenzialmente anche molto meno), ma con un'idea di regia e di linguaggio che siano nuovi, che non prende a mani basse da quanto già fatto da circa un decennio e in via di abbandono di lì a poco, ma al contrario, si annulla il linguaggio per crearne uno nuovo, non per averne uno rimasticato.

Esteticamente molto bello, spesso eccessivo, ma di un eccesso ancora affascinante. Un film che nasce moribondo, ma che risulta più bello che godibile e che tende alla video art piuttosto che al cinema.

mercoledì 10 aprile 2019

Rotaie - Mario Camerini (1929)

(Id.)

Visto registrato dalla tv.

Due giovani che si amano contro il parere delle famiglie decidono di suicidarsi insieme. La stanzetta che hanno preso per l'estremo gesto è vicino alle rotaie e il treno che passa all'improvviso li fa desistere all'ultimo. Alla stazione trovano un portafoglio, con i soldi partono e si mantengono sopra le loro possibilità giocando al casinò. Quando la fortuna girerà tornerà la crisi.

Considerato la resurrezione del cinema italiano dopo la crisi degli anni '20 (crisi che ancora non ho visto) è in effetti un film dalla storia molto semplice (e piuttosto altalenante), ma ha uno stile modernissimo, quasi contemporaneo.

Regia molto mobile, segue i movimenti degli attori, le mani e i volti; utilizza diversi carrelli che inseguono i personaggi in una stanza; gioca benissimo con il montaggio affiancando spesso due eventi collegati per rinforzarli (i due amanti con le mani intrecciate e il veleno; i due coricati assieme sul treno e le ruote che girano) o dando ritmo con sequenze d’immagini in rapida successione (come nella fabbrica, o arrivando fino alla sovrapposizione, come nella sequenza del gioco alla roulette).
Un encomio particolare la scena del tentato suicidio con la macchina da presa che continua  muoversi tra i volti degli amanti e le loro mani in montaggio alternato con il bicchiere.

Inoltre nell'ultima parte del film la trama prende una piega inaspettata anticipando di sessantanni "Proposta indecente".

lunedì 8 aprile 2019

Quell'oscuro oggetto del desiderio - Luis Buñuel (1977)

(Cet obscur objet du désir)

Visto in Dvx.

Un borghese parigino si innamora della cameriera, che a parole sembra amarlo di rimando, ma nei fatti continua a frustrare le sue intenzioni sentimentali, ma soprattutto sessuali. Nel mentre una stagione stragista sembra investire la Francia.

Ultimo film di Buñuel che torna, come sempre, ad attaccare la borghesia. Con una regia più misurata del solito e una trama decisamente più coesa, che si slancia qui e la in singoli episodi surreali o in ammicchi al suo pubblico; questo sembra più un divertito film alla Buñuel che non un'opera onestamente indipendente.
Un certo piacere nel mostrare sé stesso unito a una decisa ripetitività della vicenda rendono questo gradevole film non molto appassionante. Vedere Buñuel che continua giocare a fare sé stesso in tono allegro sarebbe piacevole se almeno non si rischiasse la noia.

Magnifica l'idea di far interpretare lo stesso personaggio a due attrici diverse, spiazzante, soprattutto per le fisicità totalmente distanti.
Un encomio anche al solito Rey, anche lui più divertito del solito e leggiadro mattatore della vicenda.

venerdì 5 aprile 2019

La valle delle bambole - Mark Robson (1967)

(Valley of the Dolls)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Tre ragazze con il sogno di sfondare nel mondo dello spettacolo (...beh a dire il vero solo una lo sogna, una ne entra a far parte per caso, la terza è solo troppo bella per non farne parte); ognuna di loro riuscirà a sfondare (chi più chi meno), ma ognuna pagherà a caro prezzo il successo.

Film sul prezzo della fama e su come le vite dorate dei divi possano non essere davvero dorate; niente di nuovo in definitiva. Ma questo è un film curioso. La trama è incredibilmente scontata; pur con tematiche potenzialmente graffianti non riesce mai ad uscire dal prevedibile, non riesce mai a colpire davvero e si risolve in un enorme melodrammone dal numero di sfighe incalcolabile con chiusura morale.
Risulta però incredibile come esistano film che, pur non essendo riusciti, azzecchino perfettamente lo spirito del periodo. Questo film è uno di questi, l'estetica funziona perfettamente (fotografia, colori, costumi, acconciature, interni, ecc...) e riesce a essere un manifesto incredibile degli anni '60 dell'upper class americana. L'effetto è aiutato anche da un paio di momenti arty (messi in mezzo a una regia altrimenti mobile il giusto, ma senza guizzi), come quello del training e la pubblicità, che potrebbero essere delle opere di video art radical chic sixties.

Complessivamente un film godibile, con alcune pesantezze di troppo. Si fa irrimediabilmente enfatico nel finale melodrammatico dove perde ogni verosimiglianza.

mercoledì 3 aprile 2019

Un uomo da bruciare - Valentino Orsini, Paolo Taviani, Vittorio Taviani (1962)

(Id.)

Visto in Dvx.

La vita di un sindacalista nella sicilia dei latifondisti, le sue battaglie per l'indipendenza dei braccianti, ma, ancora di più, le lotte contro il sindacato stesso.

Se non sbaglio il primo film di fiction dei fratelli Taviani con Orsini (prima fiction per lui pure), i tre avevano già collaborato per un documentario e, in effetti, partono da un terreno affine, il biopic.
Evitano con facilità l'eccesso di documentarismo e si inseriscono in una storia già iniziata, con il ritorno del protagonista già famoso e con il ritrovarsi con un gruppo già organizzato. Le relazioni fra i personaggi non sono da costruire, ma lo spettatore deve scoprirle in base alle reazioni che tutti hanno nel vedere tornare a casa il personaggio di Volontè.

La regia è già raffinata, con un uso intelligentissimo degli spazi: esterni nelle camapagne con piani lunghi, interni sfruttati pienamente con movimenti di macchina brevi e scene in notturna trattate come interni grazie alle tenebre fotografate in maniera netta, come fossere un muro.

Il problema del film non è nell'immaturità della tecnica, quanto nella totale mancanza di ritmo. Un tema interessante e uno stile già elaborato soccombono a una noia che trascina avanti la vicenda anziché far appassionare a un personaggio moderno e misconosciuto.

lunedì 1 aprile 2019

Dancer in the dark - Lars von Trier (2000)

(Id.)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato.

Una donna cecoslovacca, emigrata negli USA, lavora in una fabbrica e si arrabatta di mille lavoretti per mettere via abbastanza soldi per poter pagare un'operazione agli occhi del figlio che, per una tara genetica, è desitnato a divenire cieco; lei stessa lo sta diventando quasi del tutto. Donna entusiasta della vita e dolce con tutti è però estremamente determinata a portare a termine il suo dovere senza che nessuno lo sappia, per non dover spaventare il figlio. Andrà incontro a un crimine per il quale sarà condannata, ma non cederà di un millimetro dalla sua posizione.

Per chi non l'ha visto la trama sa di melodrammetto spiccio come ce ne sono molti. Invece questo film è il più grande rappresentante del melodramma moderno, un riuscito concentrato di sentimenti ostacolati, ma giganteschi che non può non colpire.
La storia di un personaggio minore che vive per gli altri e si mantiene viva con un ottimismo contagioso; la storia di un personaggio del genere che è costretta a ogni umiliazione, sofferenza e delitto per arrivare in fondo al suo unico obiettivo è qualcosa che di per se sarebbe sufficiente; resa in maniera tanto realistica, quanto trattenuta; sentimentale, ma mai stucchevole con uno dei gradi di empatia più alti della storia del cinema. Ripeto, tutto questo sarebbe già di per sé sufficiente.
Invece von Trier si inventa il musical. La sua protagonista ama i musical americani, perché nei musical non possono succedere cose troppo brutte e perché c'è sempre qualcuno pronto a prenderti quando cadi. Li ama a tal punto che nei momenti di maggior difficoltà, quelli in cui deve ragionare, distrarsi o razionalizzare quanto avvenuto, riesce a farlo solo pensando in quella maniera; raccoglie i suoni che la circondano (un treno che passa, un giradischi che viaggia a vuoto, i rumori di una fabbrica) e li fa diventare musica su cui canta i propri pensieri.

Von Trier, finalmente, abbandona il Dogma, anzi, lo sfrutta nella misura in cui gli è ancora necessario; con lunghe scene sgranate, dalla fotografia povera e dai continui, dondolanti piani sequenza. Uno stile secco che aiuta la verosimiglianza dell'opera e ne aumenta l'impatto emotivo (i sentimenti esposti sono aumentati dall'ambiente arido in cui esplodono) e l'empatia. Ma questo stile cambia completamente nelle scene musicali; dove la macchina da presa diventa fissa, il montaggio rapidissimo, le inquadrature si allargano e i colori vengono saturati; rendono la differenza fra il mondo reale e la fantasia indiscutibilmente potente.

Il film poi si avvale di Bjork in maniera egregia. Non siamo di fronte a musical vero e proprio (la prima canzone è dopo 45 minuti di film), ma le sette canzoni scritte sono perfette, in linea con il film e dolcissimi o strazianti anche ascoltate in maniera avulsa dal contesto; la performance canora è di quelle che lasciano il segno. Come attrice Bjork sorprende; ha sicuramente il viso e il piglio giusti per la parte dell'innocente, ma riesce in alcuni picchi emotivi su cui era lecito aspettarsi un risultato inferiore. Il film inoltre è arricchito da un cast che va da una Deneuve in disparte, ma che fa il suo lavoro con dignità, a una serie di facce da secondo piano del cinema americano sfruttate al meglio; su tutte Stormare, utilizzato, finalmente, fuori dal luogo comune del villain in una delle parti più delicate dell'opera.

Un film enorme per potenza ed efficacia, originale e spiazzante nonostante attinga da generi più che abusati. Un film che, nonostante l'abbia rivisto per l'ennesima volta, non riesce a non commuovermi.