mercoledì 30 dicembre 2020

The founder - John Lee Hancock (2016)

 (Id)

Visto su Netflix.


la storia del fondatore di McDonalds, di come scopre il metodo degli omonimi fratelli, di come li convince ad esportarlo e di come riesce a sfruttarlo per creare un impero economico a scapito degli altri.

L'epopea capitalistica di un personaggio furbo, ma senza troppa empatia è ormai un genere quasi a sé standardizzato da quello che ne rimane l'apice, cioè "The social network".

"The founder" non ha l'innovazione, né le pretese di essere all'altezza del precedente, ma costruisce un lavoro ordinato fotografato bene e con il giusto ritmo (alla regia c'è il Lee Hancock che è maestro di compitiini ben confezionati che non possono deludere l'aspetto tecnico), crea un ambiente in cui muovere un personaggio non originalissimo, ma ben fatto e, il vero colpo di genio, fa le scelte di casting perfette.

Perché la presenza il vero punto di forza di questo film è Michael Keaton.  sono perfetti i corpi da punching ball di Carrol Lynch e Offerman; ma senza Keaton come protagonista ambiguo tutto il film si sgonfierebbe dopo un minuto. Keaton costruisce un personaggio che passa da sfigato a furbo imprenditore con una smorfia della bocca, che passa da simpatico intrallazzatore a stronzo figlio di puttana con un sopracciglio inarcato; ed è semplicemente perfetto e racchiude tutte le dicotomie in poche mosse senza andare (quasi mai) sopra le righe. Mette, invece, tristezza vedere Laura Dern relegata ad una parte che poteva anche essere eliminata.

domenica 27 dicembre 2020

Jallikattu - Lijo Jose Pellissery (2019)

 (Id.)

Visto su amazon prime.


Un bufalo scappa dal macello, era destinato al banchetto di nozze di un riccastro locale. Al macellaio si associano sempre più persone alla ricerca del bufalo, tutti sperano che, prendendolo, possano ricevere una parte della carne come ringraziamento per l'aiuto. La situazione sfuggirà presto di mano, con centinai do persone (l'intero villaggio) che darà la caccia al bovino in un parossismo di follia e violenza, con la coppia di (pseudo) protagonisti che arriveranno allo scontro diretto per concludere con un finale iperbolico fuori da ogni logica.

Film sorprendente dove la fuga di un docile ruminante viene da subito gestita come le scene di tensione de lo squalo, con l'animale che compare all'improvviso come una tempesta e altrettanto rapidamente scompare, con gli umani che partono ragionevoli per divenire sempre più estremi, bestiali, sporchi e numerosi. Con l'arrivo delle scene in notturna la qualità della regia aumenta (l'arrivo con le torce è bellissimo, il recupero nel pozzo è gestito magnificamente e poi c'è la montagna del finale) mentre la trama si fa sempre meno importante  e sempre più pretestuosa mentre porta avanti un discorso fatto di azione e di corpi disgiunto dal motivo iniziale. Il già citato finale, assurdo eccessivo ed estetizzante è ragionevole per la piega presa dalle cose. I dialogo sono inversamente proporzionale al caos sottolineando la disumanizzazione dei personaggi.

Film atipico nella vasta cinematografia indiana (anche per il minutaggio contenuto) che spicca per qualità di scrittura e di regia (cioè, sul serio, scrivere scene come quelle rimanendo seri e farle venire fuori bene è un mezzo miracolo).

mercoledì 23 dicembre 2020

L'abisso - Urban Gad (1910)

(Afgrunden)

Visto qui. 


Il regista, Urban Gad era già uomo fatto quando ebbe l'arroganza e la determinazione che spinse 50anni dopo la Nouvelle vague, dare una svecchiata al cinema che, secondo lui, stava languendo (anche se era stato inventato poco più di un decennio prima).

Per farlo recupera attori di seconda fila e amici d'infanzia dal teatro dove lavorava, si fa finanziare da conoscenti e ingaggia qualche mestierante noto (Alfred Lind che non apprezzerà l'ambiente di lavoro).

Fu uno dei primi film di due rulli (ad avere quindi una lunghezza superiore ai 15-20 minuti), fu il secondo film della futura vamp Asta Nielsen e il primo del sodalizio fra l'attrice e il regista che frutterà 30 film e un matrimonio fra i due. Ma su tutti il film all'epoca fece scalpore per la scena da ballo ritenuta eccessivamente esplicita; bisogna ammettere che è una scena sensuale ancora oggi con una sorta di lap dance (piuttosto contenuta) dove un uomo funge da palo.

A parte il gossip l'opera è un film completo, con un linguaggio cinematografico già adulto; mancano alcuni elementi della grammatica base che verranno inventati/esaltati da Griffith; ma qui i fondamentali ci sono già tutti, e viene abbandonato il cinema statico di stampo teatrale. C'è di tutto, riprese in esterni (magnifica l'apertura sul tram), c'è un moltiplicarsi di location, punti di vista inconsueti (il palco visto di lato), utilizzo massimo delle comparse; a livello di regia c'è già tutto ed è molto gustoso. 

A livello di sceneggiatura invece è un poco claudicante; la storia è una romance torbida il giusto per incontrare il gusto dell'epoca e anche quello attuale, ma lo svolgimento è frettoloso e un poco raffazzonato (facilmente per colpa del minutaggio) che rende a tratti poco godibile il film.

Meriterebbe un restauro se non è già stato effettuato negli ultimi anni.

domenica 20 dicembre 2020

Mank - David Fincher (2020)

 (Id.)

Visto su Netlfix.


La storia dello spunto e la realizzazione della sceneggiatura di "Quarto potere" da parte del Mankiewicz meno famoso (almeno oggigiorno) è la scusa per Fincher di entrare nel territorio del cinema che parla della produzione cinematografica che potrebbe diventare un genere a sé negli stati uniti, ma ovviamente c'è anche molto di più.

Fincher è un signore della regia, sa come si costruiscono le immagini, le scene e le sequenze, sa come mettere in armonia macchina da presa, fotografia e montaggio, sa come e cosa chiedere agli attori. Lo fa dagli anni '90 almeno, figuriamoci dopo 30anni d'attività. "Mank", quindi è bellissimo.

Esteticamente siamo dalle parti della maggior qualità possibile con una bianco e nero d'epoca e un utilizzo delle luci anni '40 gustosissimo che diventa passione nerd quando ci sia accorge che anche le tecniche di dissolvenza sono prese a piene mani da quelle dell'epoca raccontata. Questo è l'idea di fondo vincente, raccontare la genesi di un film d'epoca con gli stilemi dell'epoca. ovviamente ogni giochetto nerd rischia sempre di esplodere in faccia a chi lo costruisce e anche Fincher ci arriva vicinissimo citando abbondantemente soluzioni e inquadrature direttamente da "Quarto potere" che, quando diventano troppo sfacciate ed evidenti sono stucchevoli. Al ,limite in certi momenti, ma Fincher riesce a fare tutto senza opprimere.

L'intento però, sembra quello di parlare di un mondo attraverso un suo personaggio, mostrare la collegialità dei film dell'epoca d'oro di Hollywood con i suoi intrighi di palazzo e le sue piccolezze, mentre, con l'altra mano, si cerca di decostruire il mito intoccabile di Welles e del suo primo film. Anche qui un rischio di risultare arroganti enorme che viene mitigato da una vis entusiasmante e da un'ironia continua.

Quello che latita però è l'efficacia, del film. Tutto funziona bene, ma tutto insieme è eccessivo, lungo, laborioso e con un'obiettivo fumoso, un gigioneggiare nelle sue sequenze buffe e ben scritte senza affondare mai, senza andare mai al punto. Nella carriera di chiunque sarebbe un mezzo capolavoro, ma in quella di Fincher costellata di capolavori veri e film ottimi questo rimane nella sfera dei secondi, anzi, diventa un'occasione mancata.

mercoledì 16 dicembre 2020

L'ufficiale e la spia - Roman Polanski (2019)

 (J'accuse)

Visto su NowTv.


La storia del caso Dreyfuss trattata da Polanski. La sinossi è tutta qui. Il punto di vista è quella dell'ufficiale che fece parte della commissione giudicante, ma che in seconda battuta scoprì che le prove a carico di D. erano costruite e il colpevole di tradimento ancora a piede libero.

Per stessa ammissione del regista il punto di vista è lontanissimo da quello del condannato perchè era un personaggio... noioso. Pochi interessi, personalità normale, niente di cinematograficamente utile (beh e poi c'è un'esilio sull'isola del diavolo piuttosto lungo). 

Polanski quindi si concentra sui dettagli fisici dell'indagine successiva alla condanna, costruisce una sorta di giallo tutto fatto da pezzi di carta, documenti, faldoni e lacci da sciogliere (senza metafore, proprio i lacci che chiudono i porta documenti) in una pornografia della fisicità che non aiuta la suspense, ma la verosimiglianza di un film in costume che diventa totalmente reale, quasi sinestesico.

Il film funziona perfettamente per tutta la parte dell'indagine, si rimane attaccati allo schermo non per scoprire cosa succederà e quale svolta prenderà la vicenda (è un fatto abbastanza noto anche da noi, salvo i dettagli, l'esito si conosce già), ma per sapere come verrà provata l'innocenza, quali q quante prove o indizi saranno necessari. Nell'ultima parte con i nuovi processi si perde un po d'interesse (anche la sceneggiatura si fa più enfatica), ma la cura impeccabile per la fotografia riesce a mantenere alta la qualità.

Per la prima volta Polanski mette in piedi un films torico reale e realistico senza perdere quella sua attitudine sempre svolta nei suoi drammi da camera, con vicende chiuse fra quattro pareti dove personaggi su fronti opposti si si scontrano, si studiano o cercano di eliminarsi (anche fisicamente); e il risultato è il migliore fra i suoi film in costume.

Cast magnifico, tutti all'altezza con un Dujardin che gioca di sottrazione (ma in maniera più calda rispetto ai colleghi americani) e fa da mattatore, una Seigner messa lì perché Polanski la mette dappertutto e un Garrel rabbioso messo u po in disparte (ah c'è pure Barbareschi in una particina).

domenica 13 dicembre 2020

Il quarto uomo - Phil Karlson (1952)

 (Kansas city confidential)

Visto su Mubi, in lingua originale sottotitolato.


Un gruppo di sconosciuti fanno una rapina organizzata da un capo che li incontra solo mascherato. Dovranno incontrarsi dopo diversi mesi in Messico per dividere il bottino con calma. Nel frattempo viene indagato un corriere in realtà innocente. Dopo aver perso tutto si mette alla ricerca dei veri colpevoli per vendicarsi. Trovato uno e sostituitosi a lui andrà all'incontro messicano.

Film noir di serie B è, come spesso in questi casi, un insieme di idee e di ingenuità in pari misura; in questo caso condotto dall'ottimo artigiano Karlson.

L'incipit con il reclutamento dei complici con il capo mascherato è perfetto, crea un clima torbido e inquietante in cui far muovere gli antagonisti. Buona la rapina anche se con pochi lazzi e ottimo l'incontro fra il sospettato e il primo dei colpevoli con lo showdown all'aeroporto perfetto per la drammaticità un po meno per la tensione (la gag del poliziotto che va al telefono è piuttosto elementare e mal condotta).

La parte centrale della vicenda è meno interessante vittima della sceneggiatura che svela tutto fin dalla prima inquadratura e non lascia adito a dubbi.

La trama però (ripeto, zavorrata da ingenuità di scrittura evitabili) è un continuo cambio di registro (film di rapine, poliziesco classico, film di vendetta, thriller con infiltrato, ecc) encomiabile per lo sforzo e per i risultati in termini di godibilità e interesse, la parte della suspense è meno efficace e il cast troppo imbalsamato in stereotipi per spiccare pur con una riuscita media buona (van Cleef è già un caratterista pronto per film più impegnativi).

mercoledì 9 dicembre 2020

The arrival- Desin Villeneuve (2016)

 (Id.)

Visto su Amazon prime.


Gli alieni arrivano sulla terra. Più che pacifici sono silenziosi, se ne stanno sulle loro (inquietanti) astronavi e aspettano. Gli esseri umani tentano di comunicare, ma manca un linguaggio comune che andrà trovato.

Un film di fantascienza con gli alieni che diventa una sorta di thriller linguistico per concludersi con un colpo di scena sul significato della vita che rimette in gioco tutte le immagini viste finora.

Preso da un racconto (fantastico) di Ted Chiang il film ne rielabora la parte concettualmente più impegnativa e meno quella filologica in senso stretto ed è un peccato, ma veniale (odio chi giudica un film per le differenze dal libro, ma con Chiang non sono riuscito a non pensarci tutto il tempo).

Trampolino di lancio per il Villeneuve fantascientifico a cui (sinceramente) non avrei dato due lire, invece il canadese ci sguazza da dio, costruisce tutto il mood sulle immagini ieratiche dai colori cerulei curiosamente degne delle copertine Urania (quelle più serie non quelle cazzare) con venature alla Magritte che dettano il tono di tutto il film e se lo portano sulle spalle anche più della brava e pacata Amy Adams.

Se l'intero film si poggia sul comparto visivo che sostiene il gelido thriller compreso fra linguistica e geopolitca il family drama così come il twist finale riescono a dare ulteriore profondità alla sceneggiatura dando qualcosa che ci si può portare dietro oltre la fine del film. Non ci sarà azione o alieni completamente visibili, ma più di così cosa si può volere?

lunedì 7 dicembre 2020

Strasbourg 1518 - Jonathan Glazer (2020)

 (Id.)

Visto su Mubi.


Altro corto realizzato durante il lockdown. Glazer opta per una serie di ballerini in varie parti d'Europa (il titolo fa riferimento al più noto caso di isteria danzereccia del medioevo (successo, appunto, a Strasburgo nel 1518).

Glazer si libera delle velleità narrative dei suoi lungometraggi e torna alle origini dei videoclip in senso buono (immagini che vivono delle relazioni con la musica) e dei cortometraggi utili a creare un ambiente, un tono e non una storia vera e propria.

Considerate le limitazioni tecniche Glazer fa miracoli. Moltiplica i punti di ripresa nelle singole case e gioca tutto sul montaggio delle scene affiancando il ritmo musicale a quello delle immagini fatto tutto di tagli e della luce naturale che si modifica. Ovviamente siamo di fronte più a un'opera d'arte visuale che un film in senso stretto, ma è questo che lui sa fare meglio ed è questo che dovrebbe continuare a fare.

In my room - Mati Diop (2020)

 (Id.)

Visto su Mubi, in lingua originale sottotitolato.


A Diop viene chiesto di girare un cortometraggio durante il lockdown; è evidente la scarsità di idee, ma alla fine mette insieme le registrazioni audio della nonna morta da poco (per lo più in preda all'ansia dell'età avanzata, delle persone che non ci sono più, il senso di solitudine e di abbandono, ecc...) e le unisce alle riprese dal suo appartamento di una Parigi periferica e vuota con riempitivi fatti personalmente da abiti indossati (c'è un motivo) a inquadrature della sceneggiatura (per poter portare avanti sequenze non realizzabili, come l'arrivo di un corriere).

L'effetto finale è il tipico corto su commissione, un'idea pallida per lo più autoriferita che riempia il vuoto. Noiosetto, ma sopportabile. Quello che però viene fuori prepotentemente, è la capacità delle Diop di inquafrare (e fotografare) anche il dettaglio più comune in maniera gustosa: degli abiti appesi, dei palazzi, l'interno di casa vuoto (quasi mai si vedono esseri umani), tutto è bellissimo, sfruttando le diverse luci del giorno vengono fuori impressioni diverse dello stesso scorcio (usualmente banale). Non salva il cortometraggio, ma sottolinea le capacità della regista.

domenica 6 dicembre 2020

Atlantique - Mati Diop (2019)

 (Id. AKA Atlantics)

Visto su Netflix.


Una ragazza senegalese che sta per sposarsi flirt con un altro uomo. Il loro ultimo incontro finisce velocemente, lui non ha il tempo per dirle che sta per tentare di raggiungere l'Europa in barca. Avverrà un incendio inspiegabile e l'altro uomo sarà accusato, qualcuno l'ha visto in giro. Intanto delle donne minacciano un ricco imprenditore con informazioni ricevute dai mariti partiti in barca.

Un film dalla doppia via, un romance sovrannaturale e un'indagine sempre nello stesso settore. L'idea di fonda è confusa, o meglio, chiara nell'intento, poco precisa nell'esecuzione. Il film deragli nella lentezza nella primissima parte, ma dopo l'incendio ha un incedere più deciso che permette di passarsi via le piccole incongruenze o le parti un po posticce (il discorso delle donne possedute è riscatto sociale all'acqua di rose che non aggiunga molto se non un paio di belle scene) con facilità.

Non siamo davanti a un'opera impeccabile, ma la mano sicura dietro la macchina da presa, l'occhio empatico nei confronti di tutti i suoi protagonisti, una fotografia dai colori tenui e freschi (una novità quasi assoluta per un film ambientato nel continente africano, si vede che non è stato realizzato in USA) e l'embricata fra storia normale (romance e attualità) e sovrannaturale lo rendono una visione interessante. Forse eccessivo il premio a Cannes, ma almeno ha dato il là alla distribuzione internazionale.

mercoledì 2 dicembre 2020

Good time - Benny Safdie, Josh Safdie (2017)

 (Id.)

Visto su Netflix.


Due fratelli fanno una rapina, quello con un lieve ritardo viene arrestato e pestato in carcere. Quello rimasto fuori cercherà di farlo uscire pagando la cauzione, ma una serie di eventi avversi lo costringeranno a scegliere un'altra strada: farlo fuggire dall'ospedale.

Un film con macchina da presa a mano che ha dimostrato di aver ormai digerito il nuovo stile urbano derivato da Refn e i suoi colori fluo, ma portato in un ambiente più sporco, più realistico, più malato.

Un film che prendendo un'estetica decisa, ma realista si immerge con godimento nel lato oscuro della vita. Nella storia di questi fratelli scapestrati (e sfortunati) c'è una sola regola, tutto quello che può andare male ci andrà. Una volta iniziata la rapina inizia un gioco a seviziare i protagonisti facendo succedere ogni possibile evento avverso in una sorta di lunghissima fuga dal destino che dura tutta una notte (a chi venissero in mente di Coen, direi di si, anche con ironia, ma con un nichilismo estremizzato). Non c'è quasi mai una scena action o crime vera e propria, ma la suspense è continua e l'abiezione (o la semplice sensazione di disagio per quanto sta succedendo) è continua. Un lavoro sul lato oscuro che è magnifico e ossessivo.

Pattinson, ormai rivalutato grazie a Nolan, ha il volto perfetto per il trasandato (possibile) tossicodipendente di quartiere, lo sguardo spaventando e i lineamenti tirati adatti per quella che è un'interpretazione impeccabile.

domenica 29 novembre 2020

The walker - Paul Schrader (2007)

 (Id.)

Visto su Mubi, in lingua originale sottotitolato.


Harrelson è accompagnatore per signore dell'alta borghesia (politica) di Washington; non vi è nulla di sessuale nelle sue mansioni data la sua omosessualità (e un rapporto complicato con un ex), è una sorta di personal friend. Nel tempo libero lavora in un ditta di rivendita case. Rimane però invischiato in un omicidio in cui l'amica dell'infanzia si da alla macchia e tutte le prove (o meglio la volontà delle indagini) sembrano condurre a lui, nel frattempo sarà vittima di avvenimenti e minacce.

Doveva essere il seguito ideale di "American Gigolò", ma dopo il rifiuto di Gere, Schrader preferì cambiare linea oltre che sponda. 

Il film si fa notare subito per una confezione impeccabile. Movimenti di macchina precisi e ortogonali, vestiti impeccabili, interni ben confezionati e geometrici, una fotografia che esalta il lavoro fatto sull'estetica. Si fa notare anche una tendenza al chiacchiericcio non insolita in Schrader, ma più affettata con frasi taglienti e puntuali che sembrano venire da una versione sboccata di Oscar Wilde (che verrà citato, e tenuto a distanza, nel film stesso).

Il film sguazza in un paio di generi senza prendere una decisione vera e propria. Un'opera che vorrebbe essere un thriller politico (che ravvierebbe nei giochi di palazzo politici fuori dai palazzi politici) con dramma psicologico determinante per lo svolgimento degli eventi (che dovrebbe essere il vero genere di riferimento). Manca però tensione nella parte del thriller che rimane solo un meccanismo utile a far succedere cose, ma non riesce a incuriosire; mentre il dramma è piuttosto patinato, gestito con freddezza e ripetitività.

Il protagonista è la perfetta espressione del film stesso, impeccabile, azzimato, arguto, elegantissimo; ma distaccato, freddo, scarsamente coinvolto anche quando lo dovrebbe apparire di più. Il film è tutto sommato qua. 

Ottimo il cast (e per dire questo mi baso sul fatto che c'è Lauren Bacall, il che rende sempre ottimo il cast qualunque cosa faccia) femminile; fa piacere vedere Harrelson in una parte pulita e pettinata e si vede il tentativo di non scadere nel cliché continuo, ma il lavoro fatto di caratterizzazione rimane piuttosto banale (pochi cliché si, ma quei pochi determinanti per fare il personaggio).

giovedì 26 novembre 2020

Godzilla II. King of the monsters - Michael Dougherty (2019)

 (Godzilla: king of the monsters)

Visto su Amazon prime.


Dopo il giusto successo del precedente Godzilla (il primo grosso successo per un Godzilla americano) si decide di fare il bis e, positivamente, non lo si fa uscire dopo dieci minuti, ma passano ben 5 anni. Ovviamente per realizzare un seguito a Hollywood si decide di aumentare la quantità del fattore vincente del film precedente, quindi Godzilla e e MUTO vengono moltiplicati da una fiorire di Kaiju su cui primeggiano quelli classici della Toho, Rodan, Mothra e su tutti Gidorah. Purtroppo poi, a Hollywood, bisogna sempre mettere la componente umana...

Parte con la dovuta lentezza (non si può partire con mostrino che si spazzano malissimo tutto il tempo), ma quando parte davvero (con lo scongelamento di Gidorah) si da il via a una sequenza titanica, ben condotta, con una qualità della CGI (chiaramente Gidorah è vero) e un gusto per lo scontro che fa piacere tornare nei Blockbuster e questo sfruttando un personaggio che ho sempre disprezzato (Gidorah, insignificante anche nella serie originale giapponese, malfatto e odioso) riuscendo a farmelo apparire un antagonista credibile e godibile. Encomio totale al Monster design generale, che riesce a dare dignità a tutti (si pensi a Rodan, pterodattilo goffo in Giappone, qui uccello di fuoco dall'indubbia potenza).

Il problema non è il voler fare un film di mostri con molti mostri (pure troppi) con Mothra come deus ex machina tanto credibile (come lottatore) quanto efficace (poco), il problema è mischiare la volontà di titanismo con i problemvucoli umani. Ormai non è più un mostro che attacca New York (o Tokyo), ma un dramma planetario che comprende gli esseri umani solo in parte e confondere il tutto con i piccoli drammi personali che dovrebbero essere più empatizzanti dei drammi su ampia scala, ma che nei fatti allunga il brodo in maniera inutile e imbarazzante (la ricerca di Godzilla negli abissi....) quando sarebbe bastata la componente di dramma complessivo. Se a questo si aggiunge un cast estremamente nutrito a cui dare spazio e una scrittura dei personaggi obiettivamente malfatta (che tristezza vedere Watanabe ridotto così male) l'effetto finale è un'agonia per lo spettatore (quanto meno per me).

Tanto è stato folgorante il primo film, tanto è ignominioso questo secondo capitolo. Devo ancora vedere il film su King Kong su cui le aspettative sono ancora alte e rimango in tiepida attesa del seguito dei due.

PS: non sto qui a dare tutta la responsabilità al cambio di regia, nel primo film Edwards, qui Dougherty; perché il primo aveva dimostrato una padronanza dell'azione del contesto invidiabili, quest'altro invece... non lo conosco. I problemi comunque sono evidentemente (anche) nella scrittura che azzoppa la storia...

PPS: ma che cast enorme di ripescaggi dal cestone delle serie tv?! però, fra scelte ovvie perché bankable, altre giuste per carattere, altre no e basta, almeno c'è Vera Farmiga che rende migliori le mie giornate.

domenica 22 novembre 2020

La principessa + il guerriero - Tom Tykwer (2000)

 (Der Krieger und die Kaiserin)

Visto su Mubi, in lingua originale.


Un'infermiera di un reparto psichiatrico rimane vittima di un incidente potenzialmente mortale, viene salvata da un giovane che scompare prima dei soccorsi. Lo cercherà mettendo in piedi una piccola indagine privata. Trovato rimarrà invischiata in una rapina.

Storia d'amore complicata da una trama che non ha chiaro cosa voglia essere. Inizia con due personaggi da noir messi in due storie disgiunte, si fonde con un'indagine privata che è più sul versante della commedia piuttosto che del thriller, passa al film di rapine classico, poi una romance wannabe atipica, ma in realtà piuttosto scontata.

Realizzato dopo l'incredibile esplosione di "Lola corre" si separa dal precedente (tutto basato su una sola idea, un trucco di prestigio di poco conto, ma magnificamente realizzato) per una storia vera e propria, complessa e articolata. Rimane legato a quello (a parte per la Potente) da una sorta di reiterizzazione, qui ci sono luoghi che tornano fino alla catarsi (che si collegano ad eventi della vita precedente), molti dettagli o primissimi piani ravvicinati. Reitera continuamente le fughe, la tranquillità e la fuga di nuovo quasi non riuscendo a separarsi del tutto dalla ripetitività del film precedente (ok, forse sto esagerando in dietrologia). Quello che è evidente è la banalità nella gestione di una trama confusa, l'insistenza in momenti e metafore al limite dell'imbarazzo (ovviamente parlo dello sdoppiamento finale). Quello che però c'è di buono è la tendenza di Tykwer di realizzare sequenze complesse quasi senza farsene accorgere; su tutto regna la macchina d presa circolare che parte da posizioni difficili per poi cercarsi una situazione stazionaria... anche se la sequenza che più colpisce è la ricostruzione dell'incidente, tutta fatta di suoni e di assenze.

Di fatto una commedia romantica with extra step che la diluiscono più che renderla originale.

mercoledì 18 novembre 2020

Long weekend - Colin Eggleston (1978)

 (Id.)

Visto su Mubi, in lingua originale.


Una coppia in crisi parte per un weekend lungo nel Bush australiano (in realtà vanno al mare, ma in una spiaggia desolata nel mezzo del niente). Durante la permanenza iniziano segni di squilibrio fra loro e fra gli animali e i due umani fino all'ultima notte con un terribile showdown.

Il classico horror/thriller in cui una coppia in crisi deve cementare il loro rapporto per poter sopravvivere... ma ha il vantaggio di non avere un finale scontato.

Meno efficace invece la base, predisposta come una sorta di vendetta della natura a una coppia menefreghista nei confronti di piante e animali (dettagli che vengono disseminati durante tutta la prima parte), un pò troppo dozzinale e semplicistica, anziché gettare il cuore oltre l'ostacolo della matoivaizone realizzare una sorta di "Gli uccelli" di serie B.

L'effetto finale è un poco claudicante, ma efficace. Non c'è mai tensione vera e propria (anche se quel lamantino un pò di inquietudine la dà), ma la costruzione di un ambiente sottilmente ostile che si unisce al disprezzo solo parzialmente nascosto da parte della coppia. I due personaggi, di fatto, si trovano isolati in un habitat che li respinge in compagnia del loro peggior nemico. Il finale è, in questo senso, adatto e perfetto.

Claudicante per quella mancanza di tensione che si diceva oltre che da una scrittura che ha molte idee, ma una certa ripetitività nel mostrarle. La tecnica è base, adeguata per ottenere la sufficienza, ma forse sarebbe stato necessario qualcosa di più.

Complessivamente una bella scoperta, senza eccessi. Ha giustamente meritato un remake piuttosto recente che spero non abbia svilito il tutto.

lunedì 16 novembre 2020

The raid 2. Berandal - Gareth Evans (2014)

(Serbuan maut 2: Berandal)

Visto su Amazon prime.

Dopo il botto di "The raid" il gruppo di Gareth Evans pensa sia giusto sfruttare il nome per il film successivo e decide di riprendere in mano lo script su cui stava lavorando già prima del 2011 e lo manipola per farlo diventare il seguito diretto del suo capolavoro.
L'effetto di questa manipolazione è evidente. Questo nuovo film ha una trama che non può essere riassunta in una riga; il genere cambia e diventa un hard boiled con un occhio a quello asiatico anni '80-'90; ovviamente il potenziale di empatia non può che aumentare (a chi non apprezza l'hard boiled di Hong Kong non so proprio cosa dire)... però l'impatto devastante del primo tutto fatto di purissima azione, velocità e ritmo enorme dall'inizio alla fine viene perduto.
L'azione c'è e in molte situazioni la cura è altissima e porta a dei risultati da applausi (la mia scena preferita è sicuramente a lotta nel fango dell'inizio, piani sequenza, dettagli, idee di coreografia pazzesche e con picchi di violenza inaudita), ma si fa prendere la mano arrivando a un inseguimento in macchina perfetto e sfrutta a piene mani le location delle varie lotte con un uso drammatico che Hitchcock avrebbe apprezzato (le sedie, la piastre e addirittura la zuppa nel ristorante, la scena iniziale nel bagno, ecc..). La mano quindi c'è, non viene persa, ma è diluita.

La storia è sicuramente buona (infiltrato nella mala deve sgominare tutti, a rischio c'è la famiglia e c'è la polizia corrotta), ma si perde spessissimo, si ipertrofizza senza motivo con picchi di inutilità e i dialoghi non so proprio la punta di diamante del film.
Quello che ne viene fuori è un neo-noir ormai un poco datato (che talvolta  si perde nei suoi stessi meandri), con trovate visive prese e rimaneggiate da Refn (che si conferma il regista più seminale per l'action moderno) e con ottime scene d'azione. "The raid" rimane lassù, ad anni luce di distanza.

mercoledì 11 novembre 2020

Lola - Rainer Werner Fassbinder (1981)

 (Id.)

Visto su Mubi, in lingua originale sottotitolato.


Il nuovo assessore all'urbanistica è un uomo integerrimo, dovrà vedersela con una città prostrata ai piedi degli intrallazzatori locali (su tutti il proprietario del bordello). Non avrà grossi problemi a farsi ben volere, ma quando incontrerà la favorita del night club ne rimarrà folgorato, se ne innamorerà e tutta la sua integrità verrà meno.

Il film è la chiusura dell'ideale trilogia BRD di Fassbinder, la trilogia sulle donne della Germania post bellica dopo "Maria Braun" e "Veronica Voss".

Più che collegato direttamente a quei drammi intensi, qui siamo sulla scia del Fassbinder più solare. 

Il film ha un andamento quasi gioioso che si poggia quasi interamente sul personaggio interpretato da Mario Adorf; faccendiere sfacciato e volgare, ma abile e amante della vita che più che scontrarsi cerca di portare tutti a vedere il mondo come lo vede lui.

Il film gira troppo intorno alla relazione amorosa e poco sui cambiamenti che causa. Si appoggia sulle dinamiche classiche (innamoramento, ritrosia, relazione, trauma, reazione, ecc...) in maniera estesa, inframezzandole con Adorf mattatore che fa quello che vuole, approfondisce bene il protagonista, ma non lo sfrutta a dovere nella seconda parte; il finale rivelatore su molti punti è l'apice del film, ma non ci si arriva con gradualità.

Ecco il finale è forse il punto più alto che trasforma questa cavalcata morale in un film estremamente nichilista, un'inversione a U impressionante, che si allinea perfettamente all'idea che Fassbinder ha sparpagliato nei film precedenti, ma che, almeno per me, arriva quasi a sorpresa in un film come questo e con una leggerezza e un'ingenuità magnifiche.

Un film tra i più godibili fra quelli del regista tedesco, un Adorf fra i migliori che abbia mai visto, ma nel complesso il film riesce solo a metà.

domenica 8 novembre 2020

Il Jokey della morte - Alfred Lind (1915)

 (Id.)

Visto su la Cineteca di Milano.

Un ricco nobile viene ucciso dal sovrintendente che si libera anche della figlia neonata dandola a dei circensi. Molti anni dopo un nipote del nobile torna e scopre la vicenda, cercherà la cugina perduta e per convincerla della realtà di tutta la vicenda... si farà assumere nel circo per fare una serie di funambolismi pericolosi. I due dovranno fuggire a lungo prima dell'inevitabile happy ending.

Film di riscatto e d'azione (si, ok, pure d'amore, ma rimane decisamente sullo sfondo) tutto indirizzato ad esaltare le scene dinamiche; la trama è tra il ridicolo e il cretino, ma è altrettanto evidente che l'intenzione era altro.

Tolto quindi il lungo preludio alla un pò meno lunga fuga (circa 20-25 minuti su quasi un'ora di film) quello a cui si assiste è una sorta di cortometraggio che fa sfoggio di abilità circensi in ogni contesto possibile: sui tetti, sui ponti, sulle navi, tra i treni, sulle biciclette, ecc... con picchi di fascinoso action d'antan (per me il passaggio dalla chiatta al ponte) e picchi di follia irreale che ad un action puro sono prontissimo a perdonare. Certo, qualche anno dopo Keaton farà molto di più, e poco più di un decennio dopo avremo il suo "The General" (bignami di stunt e sprezzo del pericolo tutt'ora valido), ma considerando la bontà del gesto (tutto figlio delle attrazioni classiche del circo), il luogo (l'Italia nn è terra di grandi film d'azione) e l'anticipo sui tempo, questo è decisamente un grande film.

Come si diceva la sceneggiatura invece è imbarazzante e lo è fin dai primi minuti, viene giustificata dal lungo finale, ma non si può perdonare tanta pigrizia.

Magnifico invece il costume del protagonista che dona una nota di dramma cinematograficamente vincente.

PS: questo è il primo film italiano del danese Lind, emigrante della regia (lavorò anche in Germania) che qui interpreta anche l'agile protagonista.

mercoledì 4 novembre 2020

La legge della tromba - Augusto Tretti (1962)

 (Id.)

Visto sul sito della Cineteca di Milano.

per la trama qui.

Collaboratore di Fellini, Tretti tentò la via indipendente con questa sua opera prima. Data la particolarità dell'intreccio e della realizzazione i finanziatori si tirarono indietro (come descritto nel prologo da Maria Boto), venne quindi finanziato personalmente dal regista (e dalla stessa Boto, motivo per cui venne realizzato la sequenza della Boto film che imita la MGM) in un progetto very low budget. Una volta realizzato in maniera piuttosto fortunosa non trovò mai un distributore e divenne irreperibile per anni (anche in tempi recenti post internet). Ora viene riproposto sia dalla Cineteca di Milano sia su Youtube.

Il film è una lunga satira sul potere che tromba i meno abbienti e di come tutti siano equamente invischiati in un allegro gioco al massacro reciproco (tutti compiono qualche infamia, dagli amici che pugnalano alle spalle, alla morosa che punta ai soldi); tematiche che saranno riprese anche nei due lavori successivi.

Il film è ingenuo e didascalico (e soffre tantissimo della mancanza di fondi in ogni settore), ma vince per una regia ottima e folle; folle della follia dei bambini con idee di messa in scena che sono giochi fumettistici (la Boto che fa 4 parti, uno dei coprotagonisti quasi mai inquadrato in volto perché troppo alto per stare nell'inquadratura, i numeri dei carcerati, ecc..). Ma come si diceva è una regia ottima, ma folle, ottima per la sicurezza nella composizione delle scene (con molti personaggi incastrati nella stessa inquadratura) che va dal dinamismo caotico della fuga alla perfezione ortogonale nelle precedenti scene della prigione.

Su tutto però l'effetto maggiormente straniante è il sonoro. Il film venne registrato muto e ridoppiato dagli attori con la sonorizzazione solo dei rumori che Tretti riteneva utili e spesso realizzati con effetti sonori cartooneschi e dozzinali.

Nell'insieme è un film semplice da guardare, stranissimo e non completamente soddisfacente, che darebbe voglia di vedere altro dell'autore per capire se c'è sostanza o solo ideette. Tretti realizzò solo altri 2 film ed entrambi azzoppati da problemi di budget e cast tecnico, il giudizio, pertanto, non può che essere parziale.

lunedì 2 novembre 2020

Viaggio all'inferno - Fax Bahr, George Hickenlooper, Eleanor Coppola (1991)

(Heart of darkness: a filmmaker's apocalypse)

Visto su Mubi, in lingua originale sottotitolato.

Durante le riprese di "Apocalypse now" la moglie di Coppola gira il back stage (su indicazione del marito) e registra alcune loro conversazioni su nastro. Da quel materiale origina questo documentario, unitamente a interviste ai diretti interessati e qualche immagine di repertorio. Quello che viene fuori è la descrizione (edulcorata) di uno dei più fortunati fallimenti della storia del cinema.
Viene quindi impresso su pellicola tutte le voci che circondarono il film; i set distrutti dal tifone, gli elicotteri offerti dallo stato filippino che venivano improvvisamente portati via (anche in mezzo alle riprese) per combattere i comunisti da qualche parte, l'attacco di cuore di Martin Sheen, la sceneggiatura improvvisata, il cambio in corsa del protagonista (Keitel verrà fatto fuori dopo un paio di settimane di riprese), parzialmente le sostanze d'abuso e le uccisioni rituali di galline, maiali, ma soprattutto del bufalo.
Personalmente mi ha colpito particolarmente le riprese dell'incipit con uno Sheen fatto come un cotechino, sanguinante e sproloquiante; così come le scene con Brando e Coppola che gira in torno non sapendo cosa fargli fare oltre ai dialoghi con Hopper che, fuori scena, è peggio di Sheen della scena ricordata poco fa.
Anche se forse i documenti migliori sono gli sfoghi, solo audio, di Coppola che preconizza il fallimento e che si chiede perché siano tutti così accomodanti, il film sarà orribile, lui fallirà personalmente, ma tutti i presenti sembrano possibilisti.

Un pò accomodante, taglia molto la parte sulle droghe, che pure vengono nominate, ma glissando (sembra essere noto ad esempio che l'arrivo di Hopper però rappresentò l'arrivo di droga fresca per tutti che portò nuovi disagi aggiuntivi alla produzione); rimane un documentario interessante sul fallimento più di successo di sempre, con dietro le quinte fantastici e che rende giustizia a Coppola che ne esce, più che come visionario, come un santo per aver dovuto sopportare tutto quello e tutte quelle persone (leggasi, come sempre, Hopper e Brando).

giovedì 29 ottobre 2020

Solo gli amanti sopravvivono - Jim Jarmush (2013)

(Only lovers left alive)

Visto su Amzon prime.

Credo che uno dei problemi principali della saga di Twilight non sia stato quello di far sembrare cretini pure i vampiri, bensì dare l'idea che chiunque voellse "svecchiare" l'immagine del conte Dracula fosse il ben venuto (almeno al botteghino). Non mi capacito altrimenti di come mai Jarmush, nel suo periodo meno ispirato di sempre, dopo il suo film più pretestuoso e pretenzioso (che giustamente nessuno ha mai visto) in assoluto (almeno fino a questo) decida di dare a sua versione del vampirismo e riempirla di altezzosità e snobismo da far venire le lacrime agli occhi.

Il film è sostanzialmente senza trama e serve solo a veicolare la sua idea di vampiri come lite culturale di questo pianeta che tollera (e talvolta prova pietà, raramente ammirazione) per gli esseri umani. I vampiri sono gli unici in grado di apprezzare (e creare) arte (almeno musica e letteratura) e sono gli unici a vivere davvero la vita; non sono più i voraci divoratori di uomini e, anzi, disprezzano chi si diletta ancora in attività così basse.
Un'idea che è snob, inutile e senza attrattiva, autoconsolatoria e autoindulgente che raggiungi picchi di imbarazzo impressionanti quando per consolare un aspirante suicida gli suggerisce che ci sono molte cose che può fare come "contemplare la natura, coltivare la gentilezza e le amicizie, danzare".
C'è anche un insistere sul name dropping di personaggi famosi incontrati, supportati o che erano vampiri, come se continuare a fare gag poco divertenti su Shakespeare o mettere una foto di Poe desse spessore al racconto.

Un film che è più che inutile, ma è proprio fastidioso, che non da nulla alla poetica del regista, ma che almeno è fotografato bene; almeno c'è un passo avanti rispetto a "The limits of control".

lunedì 26 ottobre 2020

La grande scommessa - Adam McKay (2015)

(The big short)

Visto su Netflix.

La crisi del 2008 è stata causata dall'inadeguatezza del sistema finanziario di capire quanto male stava facendo (oltre che dal disinteresse) era prevenibile e prevedibile. Alcune (poche) persone l'hanno prevista... e ci hanno guadagnato. Questa è la storia di 3 gruppo indipendenti e di come hanno gestito la possibilità su una crisi in un settore che non poteva andare in crisi.

Nel suo primo film senza Ferrell, Adam McKay si butta sulla commedia impegnata, parla di alta finanza e di crisi dei mutui e lo fa con piglio moralista ed educativo prendendo a mani basse dai predecessori.
La grande scommessa è, infatti, un furto continuo a "The wolf of Wall Street" e, in parte, a Michael Moore.
Moore è presente soprattutto all'inizio e nella descrizione di quello che sarebbe dovuto succedere; immagini di repertorio ben utilizzate e molto ritmate, la voce fuori campo, uso enfatico dello schermo nero e molto, molto ricatto emotivo.
Scorsese è invece ovunque. Dalla fotografia, all'uso della musica, dal montaggio alla visione morale della finanza come covo di malvagità che, pertanto, deve essere punita fino alla rottura della quarta parete.
L'effetto finale lungi dall'essere solo un compitino è un ottimo prodotto, un film su un argomento ostico (uno dei meno interessanti di sempre, almeno per me) trattato con la giusta leggerezza e un ritmo invidiabile che punta tutto sullo stupore dei suoi personaggi per quello che scoprono e non tanto sui meccanismi reali che vi hanno portato; un film che funziona.
Ottima prova d'attori che in qualche caso (per esempio tutto Bale) avrebbero dovuto essere trattenuti un poco.
Unico vero e proprio neo le sequenze con personaggi famosi (Robbie, Bourdain, Gomez) che spiegano concetti difficili al pubblico; momenti piuttosto pretestuosi che al di là della simpatia iniziale sembrano una versione moderna e fighetta di Troy McClure.

giovedì 22 ottobre 2020

Poor cow - Ken Loach (1967)

(Id.)

Visto su Mubi, in lingua originale sottotitolato.

Una neo mamma è sposata con un uomo che la maltratta e che vive di furti, finito in galera andrà a vivere con un amico del marito, stesso problema per portare a casa i soldi, ma è gentile e realmente innamorato... finirà pure lui in carcere.

Primo film per il cinema di Ken Loach (aveva già realizzato degli episodi la BBC) è un figlio del free cinema di quegli anni, con già presente lo sguardo sociale che il regista sfodererà negli anni, senza troppa politica e con grandissimo sentimento per i suoi personaggi.
Quello che viene fuori è un film sul lato b della società inglese, l'altra faccia della swinging london, ma senza che vi siano ricerche di giustizia o responsabilità politica, anzi, con un animo leggero lontanissimo dal dramma (che vi si accenna solo nel finale, ma è questione di una sequenza che si risolve per il meglio).

Regia al servizio degli attori che si lancia in giochi di montaggio che rompono la ripetitività (la preparazione della zia per la serata). Cast adatto, ma con qualche caduta, una protagonista che perfetta e la presenza di Stamp che è sempre magnetica anche quando non fa il pazzo.

Il film è godibilissimo e vive interamente sulle spalle della sua protagonista, una donna nel contempo succube della società da cui si lascia tiranneggiare senza accorgersene (il rapporto con il marito) , ma dallo spirito libero quando messo nelle condizioni di esserlo. Figlia del suo tempo, ma non puritana, vive con serenità la sua vita in costante ricerca d'amore.
Non è un film positivo, né negativo, è solo un ritratto di una donna ricco di sentimenti.

lunedì 19 ottobre 2020

Mi gran noche - Alex de la Iglesia (2015)

(Id.)

Visto su Netflix, in lingua originale sottotitolato.

Durante la registrazione del programma televisivo per il capodanno si intrecciano i giochi di palazzo per avere più visibilità degli altri partecipanti

Ad Alex de la Iglesia piace la Tv (e dell'intrattenimento in generale), ci si sente a suo agio perché la vede come parte del proprio mondo, come estensione di quel grottesco e cinico multiverso che crea con i suoi film. Ci era già passato diverse volte da vent'anni a questa parte, ora ci torna con un tocco più farsesco, ma mai così efficace.

Appoggiato a una scrittura davvero convincente che riesce a dare spazio ad ognuna delle minuscole storie che vengono portate sul video, riuscendo a farle risaltare (nonostante alcune siano davvero dimenticabili), dando spazio agli attori e arrivando integrare e rendere credibile gli scontri fra star da una parte e le rivolte sedate dalla polizia dall'altra.
De la Iglesia dalla sua ci mette una messa in scena kitsch il giusto che esagera solo quando deve (i due cantanti), ma soprattutto un ritmo costante che non cede mai un secondo. Unica deflessione il finale alla "Hollywood party", un poco eccessivo e un poco troppo semplicistico (e quasi normalizzante)

Siamo lontani dall'epica tragica di "Balada triste", ma anche dalla profondità e dal cinismo di "La chispa de la vida"; niente di serio qui, solo una montagna russa, non c'è stratificazione, ma un divertimento viscerale che punta sul ritmo.

PS: Per chi segue il regista spagnolo da tempo questo film è anche una carrellata di tutti i volti iglesiani degli ultimi anni e, finalmente, fa partecipare direttamente il Raphael che cantava "Balada triste de trompeta" (evidentemente un suo guilty pleasure) nella parte di una caricatura di sé stesso magnifica. Vorrei un remake su questo film solo per vederlo interpretare da Gianni Morandi.

giovedì 15 ottobre 2020

Revenant. Redivivo - Alejandro González Iñárritu (2015)

(Revenant)

Visto su Netflix.

Selvaggio west (solo più a nord della media dei film di genere), lo scout di una spedizione rimane ferito da un orso, il gruppo lo lascia indietro accudito dal figlio (mezzo indiano) da un ragazzo e dall'uomo che lo odia di più (bella idea). L'antagonista ucciderà il figlio e abbandonerà l'uomo lasciando che freddo e animali facciano il lavoro sporco... spoiler, non lo faranno, e lui tornerà redivivo solo per ucciderlo.

Gigantesco e lussureggiante film di vendetta che impiega quasi un'ora per perpetrare l'abbrivio e il resto si dilunga i una lotta contro la natura per rimanere vivi.
Inutile nascondere che il pensiero viaggia subito a "Corvo rosso non avrai il mio scalpo", ma li differenzia la trofia, ipertrofico il film di Iñárritu, asciutto e diretto quello di Pollack.
Se il difetto è proprio nell'eccesso e nell'accumulo costante senza troppi motivi che gonfia il minutaggio in maniera artificiale; il film vince per il tono cupissimo che riesce a creare (dando vita ad un ambiente permeato dalla morte che viene dagli uomini, dagli animali, dal clima e dagli elementi naturali inerti) aumentando il titanismo dello scontro fra l'uomo e il resto del creato.
La messa in scena poi è perfetta (e con un'interesse maniacale alla verosimiglianza tramite CGI) per dare la giusta voce a questo scontro; una serie di inquadrature incredibili degli sfondi naturali (con l'occhio clinico di chi sa inserire ogni elemento su più piano) fotografato con Malick in mente (e infatti in entrambi c'è Lubezki).
Sineddoche del film la scena  dello scontro iniziale con gli indiani, morte ovunque, che si muove senza un ordine preciso, fango, acqua alberi e frecce che trasudano violenza e che si muovono con il disinteresse e la rapidità di una valanga.

Fosse stato più stringato e con mezz'oretta in meno, sarebbe un film di vendetta perfetto.

martedì 13 ottobre 2020

Peluca - Jared Hess (2003)

(Id.)

Visto qui, in lingua originale.

Per cercare di dimenticare (il comunque dimenticabilissimo) "Masterminds" ho cercato l'unico film di Hess che ancora mi manca, "Don Verdean".
Non trovandolo ho ripiegato su "Peluca", il primo corto da cui tutto è nato. Di fatto l'ispirazione per il primo lungoimetraggio "Napoleon Dynamite".
Opera a basso costo, girata in bianco e nero con una trama breve ed esilissima (la ricerca di una parrucca per uno dei coprotagonisti).

Il corto serve al regista a veicolare due cose il suo mondo di emarginati e il suo personaggio principale.
Il mondo è accennato, c'è una sorta di world building realizzato unicamente dai personaggi principali che lo popolano, le loro dinamiche, la loro presenza scenica; meno invece la regia, meno incisiva (siamo agli inizi, non ha ancora una voce propria) e assente la messa in scena che arriverà dopo.
I personaggi sono assolutamente in linea con i successivi; il protagonista è già identico a quello del lungometraggio (letteralmente identico anche per l'aspetto) e le due spalle delineano perfettamente l'outsider dolce e sfigato di Hess.

Se non fosse il prodromo di qualcosa di più sarebbe carino, ma poca roba; materiale insospettabile per un lungometraggio, coraggiosa MTV a finanziarlo all'epoca.

lunedì 12 ottobre 2020

Mastermind. I geni della truffa - Jared Hess (2016)

(Masterminds)

Visto su NowTv.

Jared Hess è uno dei registi indipendenti più personali e interessanti in circolazione, ovviamente è anche il mio preferito. Caratterizzato da personaggi dai connotati chiarissimi, immersi in un mondo a sé e con un'estetica (che arriva fino alle scelte di regia) pesantissima e molto riconoscibile. Sforna pochi film tutti molto simili (le tematiche sono sempre quelle), ma come i registi migliori (si legga pure Allen) si ripete rimanendo sempre originale.
In passato preconizzavo che la sua forza sarebbe diventata il suo limite rimestando nel già visto e nel banale e morendo sotto il peso del suo armamentario visivo.
Il passaggio a un cinema più ricco invece mi ha smentito, la sua morte (per ora) è stato l'abbandono dei suoi cliché.

Il film è comico demenziale con attori più o meno di peso in quel settore e nient'altro che sia in grande spolvero. La trama si concentra a costruire un film adatto per gli orfani di "Una notte da leoni" riuscendoci in parte, ma perdendo tutto in originalità.
Hess dal canto suo conduce si una storia di outsider, ma che nella tradizione hollywoodiana sognano il sistema e ne entreranno a far parte; per il resto il regista si limita all'abbigliamento del protagonista, qualche Personaggio spalla (la moglie è l'unica completamente alla Hess, impassibile, comica per il modo di porsi e non per quello che dice) e per una certa atemporalità ( il film potrebbe essere ambientato negli anni '80 come l'altro ieri).
Sembra quasi che dopo l'incipit (la presentazione dei due protagonisti in maniera quasi statica e una comicità puramente fisica, fino allo shooting fotografico) il regista si sia messo da parte. Proprio quell'inizio ci illude di come sarebbe potuto essere un'opera di Hess con i soldi, ma è troppo poco.

giovedì 8 ottobre 2020

Junun - Paul thomas Anderson (2015)

(Id.)

Visto su Mubi, in lingua originale sottotitolato.

Nel 2015 Jonny Greenwood (chitarista dei Radiohead e amicone di P. T. Anderson) va in India per incidere un album con il polistrumentista Shye Ben Tzur e un gruppo di fiati e corde indiano. Ovviamente per il filmino delle vacanze di portano dietro Anderson.
Umilmente il regista non si accredita se non come operatore e, tecnicament,e il documentario è senza regia. Un manovra che sembra più che altro un lavarsene le mani o un disimpegno per fare un video che non è niente di più che un passatempo. ovviamente questo disimpegno si vede.

Le scelte di regia ci sono e sono molte e molte sono quelle poco giustificabili. La macchina da presa che perde la messa a fuoco, i movimenti eccessivamente liberi che sottolineano solo il cambio di idea improvviso, il contrarsi sui piccioni che entrano nella sala di registrazione o i falchi sui merli del forte.

Davvero siamo dalle parti dei filmati delle vacanze con intermezzi musicali (questi si molto belli), una sorta di making of dell'album che non avrebbe sfigurato come extra nei DVD che i gruppi facevano uscire a cavallo tra gli anni '90 e gli anni '00; una delusione però l'assenza di interesse dello stesso Anderson.

martedì 6 ottobre 2020

Il caso valdemar - Gianni Hoepli, Ubaldo Magnaghi (1936)

(Id.)

Visto su Cineteca di Milano.

L'opera unica, al cinema, di Hoepli (l'istrionico nipote del fondatore dell'omonima casa editrice) e una delle pochissime opere dell'ancor meno conosciuto Magnaghi è un cortometraggio muto (in pieni anni '30!) eccezionale.
tratto dal noto racconto di Poe che parla di ipnosi su un moribondo che ne allunga la premorte; questo cortometraggio sembra l'opera di un regista navigato che conosce alla perfezione gli stilemi dle muto, ma che li fonde con acxcortezze contemporanee.
La breve durata e la ricchezza di idee di regia rende difficile fare un esempio univoco, ma basta l'incipit a entusiasmare; i due registi fanno di tutto: la presentazione dei personaggi con primi piano arrivati dopo un movimento verticale (e un gioco di montaggio con la statua), inquadrature da dietro il pendolo, primissimi piani evocativi, cambi di luce nella stessa sequenza, inquadratura da sotto il tavolo. In quell'inizio viene fatto di tutto per rendere tollerabile e dinamica una seduta spiritica in cui non succede praticamente niente, ma si rimane subito conquistati.
Bello anche l'intermezzo che mostra il passare dei mesi, semplice, ma giocato benissimo con un montaggio rapido.
In pochi minuti viene costruito un film con cui non si può non empatizzare e in cui non ci si può non perdere. Duole solo sapere che questo è un unicum nel panorama italiano.

PS: notare che ho elogiato il film senza neppure commentare gli effetti speciali durante la marcescenza rapida del cadavere per il quale viene considerato (con qualche eccesso) il primo horror/gore italiano.

lunedì 5 ottobre 2020

L'étoile de mer - Man Ray (1928)

(Id.)

Visto su Cineteca di Milano.

Ispirato dalla poesia utilizzata come intertitolo, a sua volta ispirata da una stella marina (intesa come simbolo dell'amore perduto) venne realizzato da Man Ray con l'ottica di farne un film surreale, quindi solo parzialmente narrativo.
La vicenda narrata è una confusa versione di un triangolo amoroso in cui l'intento del regista è però quello di far affiorare il lirismo a scapito della narrazione       
Ovviamente la parte del leone è la componente tecnica. Al di là di sovraimpressioni, simbolismi e di una sequenza con oggetti che ruotano l'idea determinante è l'uso di una lastra fotografica dell'epoca messa davanti all'obiettivo per dare un senso di vetro smerigliato a tutte le sequenze determinanti.
L'intento è variegato; propone scene scabrose senza rischiare censure poiché non chiaramente visibili, in alcune sequenze da un'impressione come di pennellata, ma soprattutto rende inintelligibili i dettagli aumentando il simbolismo.
A fronte di un'idea molto arty e poco pratica il film si rivela vagamente godibile con alcune sequenze che riescono nell'intento di dare poesia nelle piccole cose (anche aiutate dalla colonna sonora) come nella sa dei giornali trasportati dal vento. però è un po poco per rendere la visione più che dimenticabile.

giovedì 1 ottobre 2020

Mom and dad - Brian Taylor (2017)

(Id.)

Visto su Amazon prime.

Come fossimo in un film di zombi anni '60, un'ondata di follia omicida contagia l'america, ma è una follia omicida molto circoscritta: i genitori vogliono uccidere i propri figli, di qualsiasi età.
Prendendo a piena mani da Romero (la fuga dalla scuola, le notizie tramite la tv, addirittura certe inquadrature all'ospedale) Taylor vuol mettere in scena la sua versione dell'apocalisse horror, ma senza intento politico o sociologico, solo con tanta voglia di divertire e prendere in giro.
la trovata della follia genitoriale da l'assist per una serie di scelte grottesche, potenzialmente fino allo stremo, che Taylor decide di sfruttare solo in parte per poi ripiegarsi in una sorta di home invasion.
se l'idea di fondo è potenzialmente esplosiva così non è il risultato finale. Il film ha un enorme problema di scrittura. Non c'è un collante unico vero e proprio, inizia con una serie di scene più o meno efficaci (bene, ma migliorabile la scuola, bene l'ospedale, unica sequenza di vera tensione) meno bene la casa dell'amica ecc...) che però risultano sempre claudicanti, gestite con troppa fretta come a voler passare all'idea successiva, ma soprattutto slegate. Quando poi si arriva al gioco del gatto col topo in casa ci si infila in un anticlimax che ammazza l'ultima parte e il finale che non conclude niente sa solo di pigrizia e non di finale aperto.
Il film è simpatico, porta a casa il risultato di minima... e poi diciamoci la verità, il film si salva e risulta godibilissimo grazie a Cage.
Non mi sono reso conto i quale momento Cage sia diventato attore apprezzato per il suo overactig (certo l'ha sempre avuto, ma non credo che fosse la prima scelta per le sue faccette all'epoca), qui però è chiaramente la scelta più azzeccata e viene chiaramente chiamato a salvare la baracca (e si mangia pure una Blair obiettivamente brava).

lunedì 28 settembre 2020

Silence - Martin Scorsese (2016)

(Id.)

Visto su Netflix.

Se lo Scorsese degli ultimi anni pè diventato sempre più ipertrofico nella durata dei suoi film, nelle sue due ultime opere si abbandona anche a un ritmo lento che può renderne più difficile la digestione (beh non per me, ma immagino che possa). Il livello per fortuna rimane altissimo.
In questo film (organizzato e pensato per quasi 30anni, non a a caso vicino a "L'ultima tentazione di Cristo") Scorsese torna con una potenza incredibile sul rapporto con la fede, azzera tutti gli altri suoi topos classici e si concentra su quello.
La lunga epopea di questi due preti nel temibile Giappone di fine '600 alla ricerca di un altro prete cattolico (religione messa al bando e pesantemente punita) è un apocalypse now della fede, un lento immergersi nei rischi supportati solo da una sicurezza che non può cedere o tutto è perduto.
E Scorsese gestisce benissimo la materia, utilizzando la natura (pervasiva almeno per la prima metà), gli alberi, l'acqua, come forze sferzanti, come prima ordalia da affrontare, ma che non nega la presenza di un dio; mostrando la paura attraverso il coraggio altrui. Si concede poi un lungo showdown incastrato negli edifici tradizionali giapponesi, il passaggio è netto, la perfezione geometrica dei palazzi, la pulizia estrema, sono una gabbia in cui rinchiudere i cristiani, ma in cui è anche impedito al loro dio di entrare. Nel lungo finale è tangibile l'assenza di dio, trattenuto dalla forza (morale) dei giapponesi (che sembrano i vincitori della vicenda) e l'ultima inquadratura è la crepa nell'edificio perfetto, la falla che permette il fluire della divinità in quel mondo asettico.

Il film è largamente imperfetto, eccessivo e lunghissimo; ma è formalmente impeccabile (come sempre), di un perfezione che definisce anche il contenuto.
L'eccessiva lunghezza e ripetitività non possono farlo considerare un ottimo film, ma se si trattasse di un fallimento (che non è) sarebbe un dei più belli e intensi di sempre.
Personalmente non credo che lo vorrò rivedere a breve, ma è uno Scorsese in grandissimo spolvero e, nel suo continuo interrogarsi sulla fede, probabilmente uno dei migliori.

PS: non ho riconosciuto Tsukamoto nella parte dle fedele del primo villaggio!!!!

giovedì 24 settembre 2020

Michael - Markus Schleinzer, Kathrin Resetarits (2011)

(Id.)

Visto su Mubi, in lingua originale sottotitolato.

Un uomo piuttosto grigio vive da solo, isolato da tutti gli affetti; ma in compenso tiene prigioniero in uno scantinato un  bambino di 10 anni come schiavo sessuale.
Incredibile quanto siano evidenti le fonti di ispirazione di questo film, da una parte la cronaca austriaca del recente passato, dall'altra il cinema di Haneke.
Un giorno qualcuno dovrà denunciare il fatto che Haneke si sia fagocitato il cinema austriaco (almeno quello di genere che esce dai confini nazionali) appiattendolo sul suo linguaggio anche quando non si è in grado di gestirlo. Se Seidl tutto sommato si è affrancato con una certa personalità, è evidente la presenza hanekiana in "Lourdes" e, meno grezza, in "Goodnight mommy". Tra questo film ci si può infilare anche quest'opera di Schleinzer.
Fra tutti Schleinzer è quello che ha più diritti su Hankee avendo collaborato con lui per anni, ma qui non si fa mancare molto. Una situazione verosimile, ma estrema per contenuti, un ritmo rallentato, pochi dialoghi, una regia (e dei personaggi) gelidi, l'inizio della storia in media res, ecc..
Schleinzer costruisce il suo film sul distacco e l'accanimento sui personaggi, ma lo fa in maniera meccanica. Ha un'idea (quella della trama e della volontà di come mostrarla), ma poi si attacca a stilemi senza riuscire a gestirli del tutto. Se il gelo di Haneke funziona è grazie all'umanità dei suoi personaggi, per lo più tartassati da un'entità incombente (e spesso non chiara), ma sempre ricchi di emozioni.
Qui invece il gelo è ovunque e l'incombente non c'è; quindi l'empatia finisce subito e il film prosegue lento verso un finale aperto (ma indubbiamente positivo).

lunedì 21 settembre 2020

Un sogno chiamato Florida - Sean Baker (2017)

(The Florida project)

Visto su Netflix.

La vita di una bambina che vive con la madre single in un motel (riconvertito in appartamenti di case popolari) nel quartiere che Walt Disney aveva pensato come residenziale per i lavoratori (e turisti) di Disneyworld. Di questo esperimento sociale architettonico è rimasto un quartiere fieramente kitsch, tutto colori pastello, nomi buffi ed edifici a forma di maghi o gelati, dove i turisti hanno paura d'andare e dove la povertà è endemica.
In questo contesto la bambina vive le sue giornate con gli amici del posto e aiuta la madre nelle piccole truffe che danno loro da vivere.

Un piccolo film europeo nella realizzazione, girato con i ritmi, le location e il tono americano. Un connubio che immerge il cinema documentaristico dei Dardenne dentro la classica epopea degli outsiders americani.
Il film è realizzato benissimo con alcuni picchi di regia (per lo più concentrati nel finale) che si fanno ricordare (l'ultimo vaffanculo della madre ho letto in giro sia stato paragonato a Spike Lee prima maniera, paragone perfetto) e con una piccola protagonista che sembra non recitare, ma vivere quella vita (un pò tutti gli attori bambini del film sono bravissimi).
Il film è appesantito dal suo stesso registro con un didascalismo esagerato che porta le singole scene a essere slegate le une dalle altre e ad assumere senso per accumulo, le cui fila vengono tirate nel finale. Più che una scelta coraggiosa, è proprio il limite dal documentarismo utilizzato in questo modo.
Ottima la prestazione di Dafoe (che è incredibilmente composto e preciso) che si avvale dell'unico personaggio tridimensionale del film, l'unico con un animo complesso che viene descritto dalle sue azioni e non dalle dichiarazioni.
Su tutto però il vero valore aggiunto di un film comunque buono è il tono complessivo. Questo film di diseredati immersi in un mondo grottesco è virato nell'ottica della sua piccola protagonista; questo è un film realizzato con lo sguardo di una bambina, senza sentimentalismi o sconti, ma con tutta la leggerezza del caso.

giovedì 17 settembre 2020

Un sogno lungo un giorno - Francis Ford Coppola (1981)

(One from the heart)

Visto su Mubi, in lingua originale sottotitolato.

Dopo la lavorazione ai limiti della follia di "Apocalypse now" e il suo gigantesco e insperato successo Coppola ha in mano un pacco di soldi e sa come usarli. Vuole far tornare l'epoca d'oro di Hollywood sia come tecniche per fare i film sia nei valori produttivi.
Ri-immette denaro nella boccheggiante Zoetrope (era già stata fondata una decina d'anni prima con il pacco di soldi dei due Padrini, ma aveva rischiato il collasso proprio con Apocalypse) mette sotto contratto perenne una serie di attori, acquisisce teatri di posa giganteschi e si butta anima e corpo nella realizzazione di questo film.

La trama è riassumibile con una coppia si ama, ma litigano, ognuno si separa per un giorno coltivando il sogno di andarsene con un altro, nessuno dei due ce la farà, si renderanno conto di amarsi ancora e torneranno insieme.
La storia non è solo banale, ma estremamente semplicistica, per gran parte del film quasi assente, perché Coppola vuol fare altro, vuole fare un film totalmente figlio della regia e, nello stesso tempo, mostrare i muscoli con una capacità produttiva enorme. Tutto il film è ambientato in una Las Vegas ricostruita in studio (anche la scena finale dell'aeroporto), scelta che permette al regista di gestire le luci in maniera totale e sbizzarrirsi con fondali dai colori espressionisti e con la costruzioni di location "outdoor" arredate come dei musei in decadimento. Su tutto aleggia la mano di Storaro, evidente su gran parte delle scelte di messa in scena, ma che risalta nell'uso delle luci nella serie di sequenze in interni dell'inizio (dove il cambio di un colore o una luce che si spegne e una che si accende seguono il cambio di mood della scena). Da applausi anche alcune soluzioni prettamente teatrali portate davanti alla macchina da presa come l'affiancamento delle scene ambientate in case diverse utilizzando dei finti muri che mostrano i personaggi che vi si trovano dietro in base all'illuminazione, questa soluzione originale (al cinema) unita al dinamismo della regia rende la canonica sequenza di separazione della coppia più ritmata e visivamente magnifica.
Ma a fronte di un'idea di tornare al passato per raccontare storie con un taglio moderno e picchi di formalismo mai tentati il film non regge così bene. La rarefazione della storia è totale, fino all'eccesso, ingigantita da sequenze musicali (alcune di ballo vero e proprio, altre degni di un videoclip artistico), il film si trasforma nell'epopea arty di un regista tracotante. Bellissimo, ma difficile goderne appieno.

Il film sarà un insuccesso clamoroso che, da una parte, lo costringerà in futuro ad accettare di tutto per ripianare i debiti, ma dall'altra non lo fermerà dal continuare con i suoi film revival del cinema anni '40-'50, migliorandone di volta in volta, se non la qualità già alta, almeno l'efficacia.

PS: il film è impreziosito dalle musiche del Tom Waits prima maniera, assolutamente perfette; il cast ha per protagonisti due antidivi, ma ha di contorno alcuni semidivi (Julia e la Kinski) oltre a uno Stanton 50enne che si comporta come un ragazzino, fantastico.

domenica 13 settembre 2020

Sto pensando di finirla qui - Charlie Kaufman (2020)

 (I'm thinking of ending things)

Visto su netflix.

parte con un lungo viaggio in macchina dove si parla tantissimo, si fa sfoggio di cultura e si assiste a una neocoppia con diverse idee sul loro futuro. Inizia come un film molto parlato, mai noioso, ma semplicemente non codificabile, con molti dettagli perturbanti. Si arriva alla casa dei genitori di lui (l'obiettivo del viaggio è una cena di presentazione) e il mood si codifica sulle coordinate dell'horror, parte con calma, introduce dettagli weird, marcescenza e morte per poi arrivare a dei glitch nel sistema; ma quando le linee temporali si confonderanno sembrerà di essere di fronte alla migliore rappresentazione di un sogno mai vista al cinema. Poi ci sarà il viaggio di ritorno con due pause e il tono cambierà di nuovo.

Il nuovo film di Kaufman è, come sempre, un regalo che andrebbe scartato senza sapere nulla del contenuto, più se ne sente parlare più l'effetto sorpresa emotivo viene diminuito.

Il nuovo film di Kaufman è, come sempre, un rimestare nella testa di qualcuno, lo fa da sempre, ma è dall'epoca di "Synecdoche" che sembra essersi creato gli strumenti ultimi con cui parlare. Questo film infatti fa il paio con il precedente, ma riesce a cambiare luce anche su quello. Se "Synecdoche" mi era piaciuto, ma non mi aveva entusiasmato la regia e il ritmo, qui non posso contestare quasi nulla; la gestione delle inquadrature è perfetta con un uso claustrofobico degli interni (nella casa i personaggi sono sempre incastrati dentro a linee rette, in macchina sono le inquadrature, sfocate dalla neve, da fuori i finestrini ecc...), tanto quanto degli esterni (perturbati dalla tempesta e con un buio che denso come una parete), la fotografia incredibile (affidata a Zal) rende gustosa ogni scena. La regia insomma è perfetta per rendere il senso e il mood dello script.

Il nuovo film di Kaufman, come sempre, è un capolavoro. Si rimane spiazzati dalla mancanza di linearità della trama, dalla mancanza di senso o di un protagonista chiaro, dai riferimenti inintelligibili e dai continui cambi dei personaggi (d'abito, d'interprete o di carattere); ma anche non capendolo le sensazioni vengono rese perfettamente e la trama nonsense rimane godibile fino al finale (forse, la parte comunque più debole). Ovviamente riuscendo a collegare i puntini quello che viene fuori è poesia sulla mente umana i cui dettagli e easter eggs sparpagliati in giro possono essere trovati tranquillamente sull'internet.

In definitiva è un capolavoro di complessità (ma questo ce lo si poteva aspettare) e di realizzazione (meno ovvio) che sembra un poco claudicante (soprattutto nel finale) e pretenzioso, ma che ti cresce dentro (chiedo scusa per l'abusato cliché, ma è davvero calzante) nei giorni seguenti; subito dopo averlo visto non avrei usato toni troppo entusiastici, ma ora, a quasi una settimana dalla prima visione ho la necessità di una seconda visione.