venerdì 29 settembre 2017

L'inganno - Sofia Coppola (2017)

(The beguiled)

Visto al cinema.

Remake del film di Don Siegel di cui condivide completamente la trama. Durante la guerra di secessione americana, un soldato nordista, ferito e isolato in una foresta del sud trova rifugio in un istituto per ragazze dove troverà un microcosmo ricco di tensioni. Lui si inserirà cercando i punti deboli per sfruttare la situazione a suo vantaggio.

Questa versione del film risulta meno ambigua della precedente e meno sensuale; l'uomo è un manipolatore  ambiguo mentre le donne sono alternativamente fragili, troppo giovani, ingenue o con troppa voglia di un minimo di normalità; sono donne con debolezze, ma sono innocenti. Viene eliminato del tutto quel manto di ambigua ambivalenza di tutti i personaggi che era il fulcro del film originale, addirittura la decisione estrema presa dalla istitutrice sulla frattura del soldato qui viene giustificata da motivi pragmatici senza quel dubbio (per usare un eufemismo) che la rendeva tanto orribile nell'opera precedente.
Un film smorzato, di molto. Tuttavia più che un'accusa alla superficialità dell'adattamento, mi sembra in linea con la poetica della Coppola (che ha ri-sceneggiato il film), sembra voler essere la stessa opera con un punto di vista più chiaro, rendendo la trama un'indagine alla "Teorema"; le dinamiche interne ad un gruppo chiuso con l'arrivo di un estraneo (in questo caso negativo).
Come dicevo, un'idea chiara e, in parte, interessante, ma che risulta sminuente rispetto all'originale che, purtroppo, adoro.

L'intero cambio di punto di vista è reso evidente anche dall'impianto estetico (già la sola locandina è lampante) che, come sempre nella Coppola, è magnifico: esterni grandiosi e decadenti, interni perfetti, ma algidi, colori tenui, luci di candela di notte e potenti fasci da fonti precise di giorno. Un impianto estetico dettagliato, curato, delicato e in rovina insieme.

Il vero problema però è altrove. La sceneggiatura si muove lenta, spesso a un passo dalla noia, ma riesce a fermarsi un attimo prima; tuttavia sembra perdersi in dettagli per poi dover recuperare con accelerazioni incaute in cui un personaggio dichiara ciò che poteva essere suggerito con una scena in più, rovinando poi in un lungo finale in cui i comportamenti sembrano esplodere senza un adeguato motivo, senza una preparazione sufficiente; più che il punto di vista, la sceneggiatura sembra aver problemi nel gestire sé stessa.

PS: buono il cast, con una nota particolare per la Dunst.

mercoledì 27 settembre 2017

E la vita continua - Abbas Kiarostami (1992)

(Zendegi va digar hich)

Visto in Dvx in lingua originale sottotitolato in inglese.

Un regista, alter ego di Kiarostami, torna sui luoghi di un suo vecchio film ("Dov'è la casa del mio amico?"); torna poiché in quei luoghi è appena avvenuto un terremoto e lui intende premurarsi che cercare il ragazzo che interpretò il protagonista del film stia bene.

Con questo film inizia a farsi conoscere il Kiarostami meta-cinematografico (grande leit motiv di tutto il cinema iraniano. Durante questo road movie atipico e dai tempi dilatati il finto regista incontrerà luoghi e personaggi del suo vecchio film che daranno il destro a dissertazioni sul rapporto tra realtà e finzione, ma soprattutto come i due mondi siano comunicanti e come gli oggetti, le persone o i fatti dell'uno possano e riescano a penetrare nell'altro (basti pensare alla casa dell'anziano). Di fatto l'intero film è una copia carbone di "Dov'è la casa del mio amico?", con il regista che si muove fra villaggi semisconosciuti, spaesato tra le indicazioni vaghe dei passanti cercando una persona che in ultimo neppure troverà.

Ma c'è anche un'altra lettura, un altro sottotesto. Come dice chiaramente il titolo c'è la dimostrazione di come le persone perseguano la normalità in ogni circostanza, della resilienza umana di fronte alle catastrofi. Il regista gira per villaggi colpiti dal terremoto e incontra persone che hanno perso poco o tutto, ma ognuno di loro dimostra di essere più proiettato verso il futuro che scornato dal presente; dai discorsi sulla morte fatti da un bambino a una donna che ha perso un neonato, da un giovane sposato il giorno stesso del terremoto fino al ragazzo che nel campo allestito per gli sfollati si preoccupa di montare un'antenna televisiva per vedere i mondiali.

Film dal ritmo lento, riesce a coinvolgere meno del precedente, ma a interessare di più.

lunedì 25 settembre 2017

Il sangue della bestia - Georges Franju (1949)

(Le sang des bêtes)

Visto qui.

Se "Earthling" inserisce qualcosa di nuovo, il discorso di fondo è più vecchio di quanto ci si possa aspettare. Al di là della questione meramente alimentare, la violenza sugli animali perpetrata nell'industria della carne ha un antesignano illustre. Questo cortometraggio documentaristico di un, quasi, neofita Franju. Prima dei suoi splendidi lungometraggi surreali il regista francese si pose nella scia del documentario, direi, pionieristico. Lo è perché la sua opera prima è degli anni '30, lo è per le difficoltà di realizzare documentari veri e proprio in quei decenni, ma qui lo è soprattutto il tema, all'epoca decisamente poco mainstream.
Il documentario mostra il macello di alcuni animali (mucche, cavalli, maiali) in alcuni mattatoi della periferia parigina. Le sequenze delle uccisioni sono mostrate senza reticenze e con un distacco che evita il voyerismo (e devo ammettere che impressionano poco grazie al bianco e nero) e vengono introdotte da alcune brevi spiegazioni fatte con voice off mentre la macchina da presa mostra i quartieri dove sono presenti i macelli.
Questo corto è certamente originale per l'epoca, ma lo trovo molto più interessante per la sua realizzazione. Ci sono inserti arty con gli stacchi da una scena all'altra fatti tramite oggetti (un ventaglio che si apre), inquadrature dolcemente e tranquillamente surreali (il lampadario sospeso nel nulla, l'uomo seduto a tavola in mezzo a una spianata in esterni) che sembrano voler esaltare l'impatto visivo della macellazione a cui si assisterà poco dopo. Al di là della realizzazione però, c'è anche una certa intelligenza nel portare avanti il concetto (questo documentari non sono mai crudamente obiettivi); con una serenità incredibile, Franju, sembra voler fare dei paralleli fra la periferia urbana (dove sono costruiti i mattatoi) e quella umana; dove uomini allo sbando si concentrano attorni a luoghi non di orrore, ma di fredda indifferenza professionalità.

Earthling - Shaun Monson (2005)

(Id.)

Visto in streaming, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Documentario shock contro lo sfruttamento animale in ogni campo delle attività umane, dall'industria della carne e quello dei vestiti, dagli esperimenti scientifici all'intrattenimento (i circhi).
Inutile discutere sulla tesi proposta; essere d'accordo o in disaccordo con il documentario è pura opinione e (Michael Moore ha reso evidentissimo che) ogni documentario è di per sé fazioso, dovendo partire da un'idea di base che non è mai pura obiettività giornalistica.

La struttura è piuttosto semplice. Immagini di repertorio (alcune troppo datate) per lo più disturbanti (la parte sull'industria alimentare è una delle sequenze più persuasive a favore del mondo vegan che abbia mai visto) e molto efficaci che che riportano a una sorta di Mondo movie con una voce narrante (Joaquin Phoenix) molto adatta, competente e convincente e con un intento educativo che i veri Mondo non avevano.
Quello che cambia rispetto ai precedenti documentari sullo stesso tema (che io abbia visto, ovviamente) è, in parte, proprio questo intento educativo. Più che cercare di convincere o svelare fatti nuovi e sconvolgenti, cerca di spiegare perché ha ragione, di insegnare le basi morali che sostengono la tesi proposta. Un insegnamento piuttosto didascalico nell'incipit e nel finale che si fonda sull'antispecismo; teoria tutt'altro che nuova o innovativa a livello filosofico, ma (per me) nuova a livello documentaristico (sicuramente per quello più mainstream); che, dunque, non si accontenta di mostrare le torture subite dagli animali (cosa che viene pedissequamente fatta almeno dai tempi di Franju in poi), ma le mette in prospettiva/relazione rispetto alle esperienze umane. Ecco, questa idea di fondo è la cosa migliore del film (e per quanto molto rigidamente aneddottica, all'inzio del film, viene anche ben spiegata).

Forse troppo didascalico (...senza forse), certamente troppo lungo (specie nell'assunto finale) e nella lunga porzione centrale mostra il festival da grand guingnol che ci si può aspettare da un film di questo genere (molto più efficace dei discorsi iniziali, ma non molto costruttivo), ma molto intelligente.

venerdì 22 settembre 2017

Dunkirk - Christopher Nolan (2017)

(Id.)

Visto al cinema.

La ritirata senza gloria da Dunkerque viene mostrata con la triplice ottica dei soldati sulla spiaggia in attesa di salvezza, una nave civile che tenta di salvarli (i privati inglesi che attraversarono la manica per salvare il proprio esercito sono la pagina più commovente tra gli eventi della seconda guerra mondiale in UK) e un aereo che deve tenere il cielo pulito per evitare che le navi d'appoggio vengano affondate.
Come sempre Nolan ama giocare con il tempo del film e quello percepito dallo spettatore, ma, rispetto ai film precedenti, qui è una tecnica inutile per lo svolgimento della trama (così non era per "Memento" o per "Inception"), da un certo dinamismo (le battaglie aeree compensano la sostanziale stazionarietà della sequenza in mare), ma rimane comunque una scelta più per accattivarsi il pubblico che di sostanza.
Si aggiunga anche un'enfasi patriottica (per l'Inghilterra, Nolan in fondo fa parte del Commonwealth), non diffusa, anzi concentrata in due personaggi e in un finale che si rivela positivo (ma solo fino a un certo punto).
Ecco qui si concludono i due difetti del film, che difetti veri e propri non sono, sono solo cadute di stile.
Per il resto "Dunkirk" si rivela il solito film geometrico e perfetto (con i soliti virtuosismi invisibili alla regia), realizzato per sottolineare la presenza costante della morte sul campo di battaglia e la lotta per la sopravvivenza (in questo senza tutte le sequenze iniziale fino ai primi bombardamenti sono una serie di scene impeccabili e quasi didattiche). Senza usare parole (e con la trama con tendenze eroistiche) il film imbastisce un'opera totalmente permeata da un'epica del nulla, una guerra fatta di attese, file e viaggi, una guerra dove le battaglie sono proiettili improvvisi che non si capisce mai da dove arrivino, dove è facile morire per scelta dei propri commilitoni o per la disorganizzazione del proprio lato del fronte e dove le speranze vengono riposte nella società civile (non a casa il nemico vero, i nazisti, non sono mai nominati né visti). Nolan ha creato una trilogia di Batman sulla morte dell'eroe e dell'eroismo e in questo film continua il suo discorso anti retorico sull'assenza di grandiosità nelle vicende umane.

Da quasi 20 anni i film di guerra si stanno trasformando (di nuovo) in film che esaltano gli esseri umani degradando l'eroismo (specie del singolo); mai come in quest'opera, però, si era arrivati alla sostanziale assenza d'eroismo dovuta alla sostanziale casualità dell'esaltazione (una disfatta che viene festeggiata e spiegata come una vittoria, un uomo che ne ha salvati a decine che viene lasciato nelle mani del nemico senza fiatare e un ragazzino senza utilità alcuna viene esaltato dai giornali.

mercoledì 20 settembre 2017

Le faux magistrat - Louis Feuillade (1914)

(Id.)

Visto in Dvx.

Ultimo film della serie, ovviamente unito agli altri per contenuti e per stile.
Quest'ultimo, però, al pari del precedente quarto capitolo, è stato parzialmente rovinato. Qui va fatto un plauso per la scelta di restaurare, mantenendo l'unità di stile appena citata e mantenendo anche la fruibilità di un prodotto cinematografico; in definitiva non sono state usate foto di scena, ma le parti mancanti sono state rimpiazzate con spezzoni di altri film della serie, inserite in sequenze senza tagli o stacchi, rendendo, di fatto, impossibile per lo spettatore rendersi conto del cambiamento (i giannizzeri della purezza dell'opera d'arte potrebbero non apprezzare, tuttavia la possibilità in qualunque momento di rintracciare i fotogrammi aggiunti ed eventualmente eliminarli, rende la scelta totalmente revocabile). In questo quinto episodio però il danno è maggiore e dove non è stato possibile sostituire è stato inserito un cartello che spieghi lo svolgimento. In ogni caso un lavoro rispettoso dell'opera e della godibilità del prodotto.

A livello estetico, tornano, in un paio di occasioni, i movimenti di macchina laterali (ma sempre funzionali a quanto inquadrato) e tornano le riprese dal vivo, in mezzo ai passanti ignari di ciò che sta avvenendo.

A livello di gestione del mood va sottolineata (idea presente in tutta la serie e maggiore nel primo film), la quasi totale assenza di suspense. pur presentando sequenze dove c'è, molte di più sono quelle dove potrebbe esserci, o potrebbe venire sfruttata molto più a lungo, ma per scelta attiva viene smorzata. La questione è da ricercare, non tanto nell'idea di cinema di Feuillade, quanto nel suo pragmatismo. All'epoca, in Francia, tutti gli spettatori di Fantomas avevano già letto i libri, pertanto non c'era la necessità di far soffermare il pubblico su "cosa potrebbe succedere", ma su "come si farà a farlo succedere". L'eliminazione della suspense (di fatto inutile in quel contesto), credo abbia inoltre permesso di snellire il film e mantenere il ritmo adeguato.
come si farà.

lunedì 18 settembre 2017

Baby driver - Edgar Wright (2017)

(Id.)

Visto al cinema.

Un autista perfetto ha un grosso debito con un boss che lo costringe a gestire le fughe dalle rapine. Pagato il debito, essendo un bravo ragazzo dal cuore d'oro, vorrebbe andarsene, farsi una cameriera, rifarsi una vita... e invece è costretto a tornare, ma farà di tutto per chiudere definitivamente con il crimine.

Edgar Wright è un regista che ha già dimostrato di gestire un intero film con il montaggio, aggiungendo un paio di movimenti di macchina da presa e una fotografia di livello crea capolavori; figurarsi se la trama può essere un fattore determinante. La storia di questo film si può raccontare in 4 righe e, a conti fatti, nel film risulta fin troppo tortuosa. Per fortuna non conta molto.

Prendendo spunto dal "The driver" di Walter Hill per stravolgerlo e tirarci fuori tutto un altro film.
Inizia con due scene, la prima un inseguimento tutto gestito con un montaggio frenetico, la seconda un piano sequenza, entrambe a ritmo di musica che danno totalmente l'idea di cosa significa fare un musical. E in quelle due scene c'è già tutto.
C'è la fotografia curatissima e un ritmo pazzesco, c'è ironia fatta di trama e fatta con la regia. Ci sono i movimenti di macchina e il montaggio (di cui già si è detto, ma si potrebbe parlare ancora tantissimo) che non servono solo a creare ritmo, ma a gestire completamente la storia e, infine, c'è la musica. Il film è una lunga playlist realizzata in base al mood più che al gusto personale, lontana dai suggerimenti di spotify così come dai gruppi fondamentali o da generi specifici. Ecco, il grande valore aggiunto che ci regala Wright è il sonoro; le musiche utilizzate in maniera emotiva, il montaggio sonoro e l'utilizzo dei suoni, la loro presenza o la loro assenza, il linguaggio dei segni e i nomi pronunciati; utili ed efficaci quanto quello dei colori.
Un film non perfetto, ma muscolare al massimo, con un tecnica perfetta che porta ad altezze vertiginose un trama sempliciotta e un cast buono, ma non completamente a proprio agio.

venerdì 15 settembre 2017

Butch Cassidy - George Roy Hill (1969)

(Butch Cassidy and the Sundance Kid)

Visto in DVD.

Una coppia di banditi, dalla pistola infallibile, vengono traditi dalla loro stessa banda, ed essendo i più ricercati in diversi stati, viene messo alle loro calcagna il più coriaceo gruppo di sceriffi e guide indiane. Per poter sfuggire loro dovranno andarsene in Bolivia dove li attenderà un glorioso (non epr forza positivo) epilogo.

Film gradevolissimo che dimostra come, dopo l'avvento del western crepuscolare e dello spaghetti western degli anni '60 il genere cominciò una nuova vita sperimentando tutte le contaminazioni più ardite. "Piccolo grande uomo" è una parodia del western classico, "Corvo Rosso" un film larger than life che infarcisce una storia western di commedia, dramma e superomismo alla maniera di Milius; qui invece Hill realizza un godibilissimo buddy movie in ambiente westernato.

La regia vorrebbe ssere originale e azzecca diverse idee. Grande uso dei carrelli e di piccoli movimenti di macchina (bellissima, la semplice sequenza della bicicletta vista attraverso la staccionata), gioca con la messa e fuoco, ma utilizzando sempre una fotografia ottimale; inoltre si diverte a trattare l'inquadratura trasformandola di volta in volta in un finto film muto (solo per la qualità della pellicola, visto che la regia del film muto sarebbe modernissima), utilizzando il viraggio in seppia o un'intera sequenza realizzata solo con delle fotografie.

Il film vince molto con la costruzione dei due personaggi, divertenti, impeccabili e sfrontati il giusto, guadagna dalla performance del duo principale , soprattutto da Newman (ovvio, dunque, la riconferma dei due come protagonisti de "La stangata" sempre di Hill).
Il film, però, perde qualcosa per la durata, per la trama che la tira troppo per le lunghe, per il ritmo che cede al minutaggio.
In definitiva un esperimento ben riuscito, un film estremamente gradevole, ma non è il capolavoroi di cui ho letto in giro.


mercoledì 13 settembre 2017

Nata di marzo - Antonio Pietrangeli (1958)

(Id.)

Visto in Dvx.

Una ragazza a mala pena maggiorenne si innamora di un uomo di mezza età (per l'epoca). Dal carattere lunatico e precipitoso, decide di sposarsi, ma la vita coniugale diverrà presto usurata e tesa fino al breakdown.

L'intero film è raccontato tramite due o tre lunghi flashback a un amico anche lui innamorato di lei. Di fatto il film è una lunga e dettagliata storia di una crisi di coppia e, in quell'ottica, molto ben realizzato, con tutti gli elementi già presenti fin dall'inizio, ma che divengono problematici solo con il passare del tempo. Una sceneggiatura molto buona, ma priva di fantasia, una dissezione di un rapporto di coppia che va alla malora, ma senza grinta.
Per il resto il film è decisamente vittima di lungaggini, pur con dei personaggi interessanti, non riesce a mantenere un ritmo accettabile.

Alcuni vedono un motivo d'interesse per la descrizione dell'ennesimo personaggio femminile alla pietrangeli. Idea parzialmente vera, ma con qualche differenza. Seppure la protagonista è la stessa ingenuità di vivere della protagonista di "Io la conoscevo bene" e forse anche la superficialità de "Lo scapolo", questo personaggio non è un solitario, è un outsider, ma con un'evoluzione grazie alla quale riesce a rimanere all'interno di una società senza cercare scappatoie. Non sarà felice, ma è pur sempre accettata (ancora una volta vittima più di sé stessa che degli altri).

Interessante, invece, il contorno, con un certo gusto nel mostrare alcune architetture (il Sancarlone dell'inizio o il Pirellone in costruzione... tutto in one...). C'è pure un cameo di Dario Fo.

lunedì 11 settembre 2017

Atomica bionda - David Leitch (2017)

(Atomic blonde)

Visto al cinema.

Una spia viene mandata a Berlino una settimana prima della caduta del muro per riprendere una lista contenente i nomi (e gli scheletri negli armadi) di tutti gli agenti sul campo. Inizierà una caccia all'uomo in cui tutti inseguiranno tutti.

Sgombriamo il campo da ogni dubbio: il titolo è orribile, il film avrebbe meritato molto di più. Si perché il film è incredibilmente bello.

Diretto da Leitch, che si porta dietro lo splendido comparto estetico del suo (non accreditato) "John Wick", colori desaturati, luci fluo, fotografia attenta a incastrare corpi, dentro vestiti magnifici dentro a location magnificamente sgarrupate. Un comparto estetico totalmente derivativo (da "Sin city" a ai film americani di Refn).
All'interno di un ambiente perfettamente dipinto si inserisce una trama noiresca per complessità, incastri e twist che, personalmente, trovo molto affascinante, ma che è anche il vero neo del film; momenti difficilmente comprensibili, buchi, l'aggancio di un o due finali di troppo per dare il là a un ultimo (bellissimo) twist plot.
Dalla trama articolata e complessa riesce però a uscire, con forza e determinazione, una perfetta descrizione di un apocalisse; a mano a mano che si avvicina la caduta del muro, le spie da entrambi i lati tentano la fuga da una nave che affonda che è anche una terra di nessuno senza legge; è una colonia di topi che si muovono impazziti per cercare di uscirne, ma che distruggono molto (o tutto) ciò che toccano. Una rappresentazione durissima, ma molto efficace che riluce come l'idea più affascinante e riuscita del film.
Una nota rapida sulle musiche utilizzate; poco originali (dai Clash a una non totalmente comprensibile "Under pressure"), ma tutte prese dal periodo in cui il film è ambientato, ma soprattutto, perfettamente integrate con lo svolgimento delle scene, peccato per le frequenti sbavature nei momenti in cui la musica viene tolta o modulata.

Per ultima, però, bisogna parlare dell'altro valore aggiunto (oltre alla trama auto-distruttiva), la parte più propriamente action. Leitch nasce stuntman, recentemente prestato alla regia, ma sembra aver assorbito totalmente le tendenze contemporanee dei film d'azione. Charlize Theron spara, picchia a viene picchiata senza remore e senza alcuno sconto per lo spettatore mentre la macchina da presa (grazie a "The raid") si butta a capofitto nelle scene arrivando anche a frapporsi fra gli atleti in lotta dando vita ad alcune delle sequenze meglio realizzate e più onestamente thrilling di quest'anno (ovviamnte vince su tutti il piano sequenza ambientato proprio in un palazzo).

A questo punto il cast riesce anche a passare in secondo piano, nonostante si stia parlando di una Theron in gran forma (fisica indubbiamente, ma anche capace di dare vita a un personaggio senza anima in cui gli spettatori continuano a volersi ingannare vedendone una) circondata da una serie invidiabile di comprimari che la metà sarebbero già motivo sufficiente per vedere un film al cinema (Marsan, Goodman, Jones sono solo quelli più riconoscibili); solo McAvoy, per quanto in parte, risulta un pelo fuori dal mood, ma comunque assolutamente all'altezza.

In poche parole; il thriller più duro visto quest'anno, il film action che si candida ad essere il migliore dell'annata e uno dei film più drammaticamente interessanti visto finora.

venerdì 8 settembre 2017

Wagahai wa neko de aru - Kon Ichikawa (1975)

(Id. AKA Io sono un gatto)

Visto in Dvx in lingua originale sottotitolato in inglese.

Tratto dall'omonimo (e bellissimo) romanzo di Soseki, il film mostra alcuni giorni nella vita di un professore e intellettuale del primo novecento giapponese che, con la sua cerchia di amici, disquisisce di tutto, cerca di risolvere problemi di poco conto della vita di tutti i giorni.

Si dice che la letteratura giapponese moderna sia nata con un gatto e il romanzo in effetti è un satira dettagliata, ma divertente e godibile. Il film invece no. Nel libro il gatto del titolo è il vero protagonista e l'io narrante, è un osservatore esterno della realtà che commenta e cerca di capire; nel film il gatto è un personaggio sullo sfondo, una animale senza coscienza di sé (in realtà ha coscienza di sé, ma poco e nel finale); l'io narrante non è presenta e l'osservatore esterno è dato dalla macchina da presa. Ovviamente non ci sono opinioni o incomprensioni (che nel libro erano generate dall'impossibilità del gatto di capire del tutto gli esseri umani) e da affresco ironico e molto chiacchierato sulla società dell'epoca (soprattutto sull'intellighenzia) diventa un filmetto simpatico, una vicenda ironica in costume con una serie di buffi personaggi.
Regia un po rigida con inquadrature ariose, fisse, con un buon uso del montaggio per dare senso a ciò che viene detto a parole (ma non per sostituirlo), per esemplificarlo o sfotterlo; qualche ottima costruzione delle inquadrature.
Purtroppo il ritmo, il tono e l'atteggiamento del film è quello che più mi stimola a fare altro mentre lo guardo quindi è possibile abbia perso alcune sfumature che l'avrebbero reso l'opera migliore di sempre... tuttavia se da un libro con molti dialoghi si fa un film con molto cicaleccio c'è uno sbaglio di fondo nell'adattamento.

mercoledì 6 settembre 2017

Roger and me, Roger e io - Michale Moore (1989)

(Roger & me)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato.

Dopo aver legato indissolubilmente il nome della General Motors a quello della cittadina di Flint, l'industria decide di chiudere lasciando senza lavoro migliaia di persone, per poter aprire fabbriche a basso costo in Messico. Michael Moore, nato in quella cittadina decide di incontrare l'amministratore delegato, fallendo continuamente, ma nel farlo incontrerà persone il cui futuro è stato distrutto dalla chiusura della fabbrica.

Ciò che più sconvolge nel vedere questo primo film di Moore,  che un parvenu del documentario sia riuscito a fare una cosa così originale e così diversa da tutto ciò che c'era in circolazione all'epoca.
Costretto, forse dall'argomento, Moore scende in campo in prima persona e con un espediente narrativo non molto distante da un MacGuffin (incontrare l'amministratore generale della General Motors per farlo venire a Flint, da parte di un signor nessuno e senza appuntamento, è abbastanza difficile) mette in scena un documentario che è già compiutamente in stile Moore, solo meno raffinato.
Immagini scadenti, spesso fuori fuoco, immagini di repertorio prese solo dai tg o dai filmini locali (o anche da vecchi film, immagino senza più copyright); ma tutto il resto c'è. C'è l'uso ironico della musica e l'ancor più efficace umorismo creato con il solo montaggio, c'è la faziosità estrema di un film costurito a tesi (che nel documentario è cosa comunque diffusa), c'è l'accostamento di situazioni contraddittorie e un interesse particolare per i piccoli freak di tutti i giorni; e poi c'è un nemico da combattere.
Meno aggressivo che nei successivi, ma non meno efficace, anzi, la capacità di gneerare scene divertenti utilizzando solo il girato originale ha dell'incredibile (la donna delle analisi dei colori è pazzesca).
Da vedere.

lunedì 4 settembre 2017

Dragon trainer - Dean DeBlois, Chris Sanders (2010)

(How to train your dragon)

Visto in tv.

Un ragazzo vichingo, inetto nell'uccisione dei draghi ha i soliti problemi irrisolti con il padre. Ferendo accidentalmente il più pericoloso e infido fra tutte le speci di draghi scoprirà che sono animali da compagnia anziché animali feroci. Imparerà a gestire e ammaestrare i draghie li utilizzerà contro l'inevitabile boss finale.

Ci sarà mai un anno senza un film di animazione in con un rapporto conflittuale padre-figlio? Da quando l'ha tirato fuori dal cilindro la Disney (negli anni 80 se non sbaglio) sembra che sia la base di un buon cartoon. Un giorno qualcuno dovrà studiare il fenomeno.

Al di la di queste considerazioni direi che "Dragon trainer" è la quintessenza del film di animazione medio. Storia buona, ma senza guizzi o senza particolare inventiva; animazione di livello ottimale con qualche intuizione (Sdentato che si muove come un animale d'appartamento e la caratterizzazione dei vari draghi); ambientazione originale che con qualche dettaglio crea un mondo.
Di fatto non c'è niente di nuovo o di particolarmente interessante, ma se questo è lo stato dell'arte di un film animato medio, direi che stiamo vivendo nel migliore die mondi possibile.

Da sottolineare solo la scena d'azione iniziale, dinamica e fantasiosa che avrebbe meritato la visione al cinema. Serie di seguiti meritati.

venerdì 1 settembre 2017

Carcere - George W. Hill (1930)

(The big house)

Vist in Dvx, in lingua originale sototitolato in inglese.

Un uomo viene condannato per omicidio colposo, finirà in cella con una coppia di carcerati di lunga data, esperti nella gestione del penitenziario. Nonostante gli attriti, la fuga di uno dei due li riavvicinerà come cognati e una rivolta all'interno del carcera farà da deus ex machina.

Primo film sulla vita di carcere degno i questo nome, essenziale nella trama, ma già con tutti quelli che in futuro saranno gli archetipi di genere (lo scontro con il duro, il tentativo di fuga, la rivolta, il rigido direttore della prigione). Interessante anche che, a fronte di una trama lineare, il protagonista del film cambi circa a metà, passando dal ragazzo dell'inizio, al compagno di cella innamorato della seconda parte.
Al di là del switch di metà (che credo fosse dovuto al tentativo di dare dinamismo alla vicenda più che a un progetto alla Hitchcock), il film risulta ben realizzato con un ritmo di minima ben tenuto e una serie di personaggi che, pur non essendo ben caratterizzati, prendono posto sulla scena polarizzando l'attenzione. Ovvio che il migliore in questo senso sia il personaggio di Beery; personaggio che avrebbe dovuto essere interpretato da Chaney morto in quello stesso anno; Beery sopperisce egregiamente per presenza scenica, ma latita in capacità attoriali, rimanendo un buon caratterista (nomination all'oscar esagerata).
Ottimo anche l'utilizzo degli spazi, tutti costruiti in maniera regolare e spoglia con un ricercato gigantismo degli interni per sminuire le figure umane.

PS: sceneggiatura lineare, ma che vinse un Oscar, realizzata da Frances Marion che vinse il suo secondo premio solo due anni dopo con una storia di pugilato, esondando quindi per due volte in territori all'epoca "maschili".