giovedì 27 febbraio 2020

Il primo re - Matteo Rovere (2019)

(Id.)

Visto in DVD.

Il primo re (la storia riveduta e allargata di Romolo e Remo) si apre con i 20 minuti migliori del cinema italiano degli ultimi anni. Una serie di sequenze (l'inondazione, la salvezza, la cattura, la lotta e la liberazione) realizzate da dio, che parlano con la sola forza delle immagini (le parole sono pochisisme e quelle poche utile a creare l'ambiente più che a veicolare messaggi) e riescono a spiegare il contesto storico (un epoca pre romana, post neolitaca, una via di mezzo scarsamente raccontata), la relazione fra i personaggi, il tono generale del film (la lotta con la violenza esposta, la fotografia cupa e umida con la luce del fuoco enfatizzata), i rapporti di forza fra i gruppi e il contesto spirituale (determinante ai fini della trama). In quei primi 20 minuti c'è tutto ed è tutto quasi perfetto.
Il resto del film prosegue bene, ma perde in mordente; sviluppa benissimo i personaggi (la sacerdotessa che protegge il malato, la caccia per riguadagnare credibilità eccetera) senza perdere di vista l'ambiente, ma le scene saranno più ripetitive, meno potenti.
Se quell'inizio serve a mostrare i muscoli, il resto del film prosegue con due delle idee più interessanti viste ultimamente.  La prima è la mitopoiesi di un'epoca mai mostrata al cinema (per quanto ne so); l'altra è lo spirituale che pervade il mondo senza mai rendersi evidente.
nel parlare di Romolo e Remo si decide (giustamente) di lasciare da parte lo stile dei peplum (uno stile molto codificato, preciso e ormai usurato con un vago senso di stantio), si abbandona il già noto e si decide di creare qualcosa di nuovo, una via di mezzo fra "La guerra del fuoco" e il "MacBeth" di Polanski, con una natura incombente e traditrice, con un'ambientazione umida, fatta di fango e sudore e sangue.
La parte spirituale è poi perfetta incarnazione di questo ambiente. La divinità è concreta e sfuggente allo stesso tempo (il fuoco), ma il metafisico è incombente quanto gli alberi che li circondano e inquietante quanto il buio senza mai avere bisogno di ricorrere a effetti speciali o giochi di magia.


Encomio generalizzato al gruppo di attori (anche se non tutti perfetti, tutti con un corpo e una presenza utili alla vicenda) con l'ovvio encomio particolare ad Alessandro Borghi.

lunedì 24 febbraio 2020

L'amore bugiardo. Gone girl - David Fincher (2014)

(Gone girl)

Visto in tv.

Una donna che sparisce, l'indagine che si muove per capire cos'è successo, i media che arrivano a imporre il loro punto di vista e i segreti di una coppia che portano un uomo a essere prima ritenuto l'innamorato innocente poi il colpevole predestinato... e siamo solo a metà film, ma il resto non si può raccontare.

Fincher firma il suo film più complesso (anche se non sembra), perde qualcosa nel dinamismo, ma offre un thriller spiazzante ad ogni cambio di scena.
Tutta la prima parte è un interessante discorso sulla manipolazione, dei comportamenti e delle opinioni, da parte dei media che sono solo lo specchio della società (anche dentro ogni matrimonio, ci dirà Fincher, c'è sopraffazione e manipolazione quindi non ci si può aspettare altro dai giornalisti).
La seconda parte sfuma completamente la parte thriller per aggiungere un lavoro di disvelamento nuovo. I personaggi vengono esposti per quello che sono senza che vi siano spiegazioni o flashback, ma tramite le interazioni con altri personaggi.

Se la prima parte è un gioco di specchi per lo spettatore (anche lui manipolato quanto i personaggi a credere o meno a certe opinioni (ma anche lui parte del problema con l'interesse voyeruistico che fa il paio con quello dei fruitori di trasmissioni scandalistiche viste nel film), la seconda è un film di intrighi di palazzo che si occupano di mantenere uno steady state in un rapporto di coppia ormai esploso. Ognuno dei due pezzi cerca di dire qualcosa sulla natura dei rapporti umani e sul gioco di verità e menzogne che legano la società a partire dai nuclei familiari fino agli ambienti dei media. Un pò troppo per un thriller? Il film funziona in ogni senso, è godibile e fa rimanere alta l'attenzione, si prende i suoi tempi (con qualche caduta di ritmo), ma non delude.

PS: scena montata alla Fincher, quella del letto con Harris.

giovedì 20 febbraio 2020

XX, Donne da morire - Registe varie (2017)

(XX)

Visto su Netflix.

Film horror a episodi legati da sequenze in stop motion; raccoglie il lavoro di 5 registe donne (una per ognuno dei 4 episodi più una per le scene di raccordo).

Il lavoro risulta nel complesso molto altalenante (cosa sempre presente nei film a episodi, ma non ha la continuità né nell'estetica né nel mood dei film italiani anni '60 e '70) che va giudicato pezzo a pezzo.

The Box di Jovanka Vuckovic. Un segmento degno di "Twilight zone" per impianto narrativo (un bambino guarda nella scatola di uno sconosciuto in treno reagirà in maniera imprevedibile), presenza del perturbante basato in parte sul sovrannaturale, ma molto sulle reazioni delle persone, ma soprattutto per il sottile intento moraleggiante (in questo caso anti-capitalistico; che a onor del vero è molto strisciante e poco fastidioso). Il mood però è tutt'altro, più dalle parte di un film di Kelly.
Ben condotto, esteticamente inappuntabile, manca molto in grip. Alla fine dell'episodio si ha l'impressione che sia un vuoto esercizio di stile, un'idea interessante senza una trama attorno (il rischio insito nel lateral thinking di "Twilight zone"). Bene, ma attendiamo sulla prova lunga.

The birthday party di St. Vincent, AKA Annie Clark. Opera prima di una musicista è una commedia nera (nerissima, ma senza splatter) sui preparativi di una festa di compleanno per bambini che finiscono male (per una morte improvvisa). Scelta coraggiosa (la commedia nera), godibile e scorrevole, ma obiettivamente poca cosa. Non c'è mai tensione né un divertimento scrosciante. Aiutata dal minutaggio breve la storia intrattiene senza annoiare, ma se fosse dovuta durare più a lungo avrebbe rischiato di far soffrire parecchio.

Don't fall! di Roxanne Benjamin. Qui si gioca sul sicuro, con i soliti quattro amici in mezzo al niente che verranno massacrati (in questo caso da un demone random). Niente di originale, ma un grande classico con regole ben codificate. Nello sviluppo vince qualche inquadratura dal basso del finale e riesce anche un momento di tensione. Il film però ha pochissimo tempo per svilupparsi e la tensione non può essere obbligata in pochi secondi, merita di più per potersi sviluppare. Carino.
la Benjamin è quella di maggior esperienza alla regia (dopo la Kusama), ma non posso negare di non conoscere ancora nient'altro di suo.

Her only living son di Karyn Kusama. Il migliore fra i corti. Un'idea di base interessante (si comincia con problemi di relazione fra una madre sola in un paese nuovo e il figlio quasi 18enne che vorrebbe fuggire/incontrare il padre; ma poi verrà fuori ben altro) che meriterebbe un nfilm suo, ma che sa essere adeguatamente sviluppata anche nel corto. Pochissime ingenuità (che purtroppo ci sono) e un'ottima capacità di conduzione del gioco fino a uno showdown finale che, per mancanz adi soldi, non può far succedere molto, ma riesce comunque efficacissimo come conclusione perfetta per il mood impostato fin dall'inizio.
Qui però devo fare le mie scuse. Kusama non la conosco ancora come regista per pigrizia, sono mesi (o più) che ho a disposizione, almeno "The invitation" e "Jennifer's body"... ma ancora non ho trovato l'abbrivio. Dovrò riparare.

Sofia Carrillo, si occupa delle scene di raccordo in slow motion in una casa fatiscente con oggetti animati. Un mood oscuro e torbido pur senza efferatezze sulla scia dei Fratelli Quay. Sono un giannizzero di questo tipo d'animazione, ma il materiale è troppo poco per poter giudicare.

lunedì 17 febbraio 2020

The interview - Evan Goldberg, Seth Rogen (2014)

(Id.)

Cisto su Netflix.

Un giornalista di gossip americano cerca il rilancio fra il gotha dell'intrattenimento serio e per farlo tenta lo scoop assoluto, un'intervista a Kim Jong Un.
Con il suo autore parte per la Corea del Nord mentre viene manipolato da tutti, servizi segreti e leader maximo per primi).

Il film che ha causato a Franco e Rogen problemi diplomatici si rivela essere una loro, classica, innocua commedia demenziale... e sinceramente non c'è sorpresa in questa scoperta.
Film comico volgare come ci hanno abituati con Rogen, stavolta, nella veste del buddy serio e Franco della spalla comica.
Il ritmo è sostenuto e l'estetica curatissima con l'ambientazione nordcoreana, poco originale, ma ben costruita.
Il bromance demenziale è ormai un genere canonizzato quindi non bisogna aspettarsi chissà quale innovazione e, purtroppo, siamo lontani dalla splendida contaminazione con l'action puro di "Strafumati" (così come non ci si avvicina al picco di follia di "Facciamola finita"), ma per chi conosce e apprezza la discendenza produttiva di Apatow questo è l'ennesimo buon film

giovedì 13 febbraio 2020

The devil and Father Amorth - William Friedkin (2017)

(Id.)

Visto su Netflix, visto in lingua originale sottotitolato.

Un documentario fatto dal regista de "L'esorcista" su un vero esorcista (il noto, in Italia, e buffo, padre Amorth) non può non attirare l'attenzione.
Si compone di una parte iniziale in cui Friedkin ripercorre le location del suo stesso film, passa quindi a descrivere sommariamente Padre Amorth, descrive e riprende un caso di esorcismo (la signora in questione riferisce che le capitano spesso delle piccole sfighe e che quello è segno di possessione); si sposta poi in giro per il mondo a sentire le opinioni di molti neurochirurghi sul video dell'esorcismo (che giustamente non sanno cosa dire non essendo materia loro) e di alcuni psichiatri (che invece spiegano abbastanza nei pochi minuti a loro concessi), poi un altro paio di interviste a vescovi e scrittori circa la presenza del maligno...

Inutile nascondercelo, il documentario è deludente. Non c'è nulla di interessante nella sua realizzazione. Friedkin è un grande regista di corpi umani che usa, abusa e sfrutta in ogni suo film; qui però non c'è nulla di tutto questo, non c'è nessuna idea di regia che vada oltre il documentario televisivo più banale con il solo protagonismo del regista a rendere l'impianto più "moderno" (se questo si possa definire ancora moderno è tutto da discutere).
Dall'altro lato non è neppure chiaro l'obiettivo nel contenuto del documentario. Chiaramente verto attorno alla figura di Padre Amorth, che però ne viene fuori a metà; poco raccontata la sua vita e il suo personaggio. Viene spiegata la grande impressione che provoca su Friedkin, ma non viene mostrata né motivata, di fatto è solo il regista che dice (a parole) che è un grande e tu gli devi credere.
Non c'è un focus vero sull'esorcismo (che è, come prevedibile poco interessante) e c'è solo un accenno di indagine sull'argomento portata avanti da alcuni addetti e da molti chiacchieroni.

Complessivamente è solo il documentario delle vacanze di un regista ossessionato dall'occulto.

lunedì 10 febbraio 2020

Transformer - Michael Bay (2007)

(Id.)

Visto su Netflix.

Io e Bay ci siamo lasciati quasi un ventennio fa con "Pearl Harbor", da allora c'è stato fra di noi solo un breve flirt (che però è stato stupendo). Volendo arrivare preparato a "6 underground" mi è toccato recuperare il rapporto con questo regista. Ho, quindi, visto per la prima volta il primo capitolo della saga... e mi sono divertito molto.

Bay ha codificato in maniera definitiva la sua estetica con colori acidi, movimenti di macchina circolari, un uso ossessivo (ma spesso adeguato) del ralenty.
A fronte di tutto ciò viene realizzato un film totalmente assurdo che nel primo terzo (primo dell'arrivo dei robot) è un divertentissimo teen movie interpretato da trentenni con un dinamismo da action. Il risultato è sorprendete e non può non entusiasmare. La regia muscolare di Bay improntata alla rapidità messa disposizione della sotria di un liceale sfigato, ma ambizioso è semplicemente perfetta e ha la giusta dose di autoironia.
Poi arrivano i robot.
A quel punto il film comincia una lenta trasformazione in un action tutti gli effetti con una serietà che aumenta di minuto in minuto fino alla preparazione dello scontro sulla diga (e lo showdown in città ovviamente) che non devia più verso il riso. Di questa trasformazione la trama ne perde moltissimo, ma non il ritmo che viene mantenuto altissimo e riesce a sostenere le scene d'azione.
Il film risulta godibile dall'inizio alla fine nonostante le lungaggini e si lascia ricordare con piacere (e Lebouf non risulta neppure antipatico!!).

Unico appunto, la CGI dell'epoca. I robot spesso inquadrati in maniera molto ravvicinata o quei ralenty continui potrebbero essere una necessità più che una scelta di regia. Bay riesce così a mostrare il meno possibile i movimenti del robot rapportati con glie seri umani per nasconderne una minor fluidità (?). In ogni caso l'operazione riesce in pieno.

giovedì 6 febbraio 2020

Il lato positivo. Silver Linings Playbook - David O. Russell (2012)

(Silver Linings Playbook)

Visto su Netflix.

Il caso cinematografico del suo anno è in realtà una commedia romantica che si inserisce nella nicchia dei film sulla seconda possibilità nella vita. Si concede una buona struttura, lievemente più da outsider della media (c'è dei mezzo la malattia mentale, che rappresenta sempre l'estremità del fuori dal coro positivo negli USA), ma di fatto non inventa nulla.
La sceneggiatura indugia molto sui topos della malattia mentale vista dagli americani con i protagonisti che sono più che altro dei dolci ingenui che non sanno mentire e sono, per tutto questo, vessati dalla vita. C'è umn piano di riscatto che è tra il folle e il velleitario e c'è ovviamente la riunificazione della famiglia nel finale.
Ecco se dovessi fermarmi qua darei l'impressione, sbagliata, che il film non mi sia piaciuto... invece...
Il film riesce a vincere e convincere grazie all'uso perfetto degli attori.
La vera capacità di Russell sembra proprio quella di tirare fuori il meglio da tutti arrivando addirittura a far recitare di nuovo Robert De Niro che era in stand by da anni (sul serio, questa è la sua miglior interpretazione del ventennio ed è un piacere vederlo in scena). Tira fuori da Cooper quello che serve per portare avanti la storia (faccia ingenua, occhi sgranati, sorriso semplice) e lavora di fino con la Lawrence che riesce a trasmettere al suo personaggio la frustrazione di un vissuto che prima di essere raccontato è mostrato.
Con questa capacità del cast la storia diventa tollerabile e anzi, si riesce a empatizzare con loro fino al prevedibile (ma accettabilissimo, date le premesse) finale.

PS: non ho neppure riconosciuto Chris Tucker in una particina secondaria e solo ora mi rendo conto che era "Rush hour" che non avevo sue notizie.

lunedì 3 febbraio 2020

The neon demon - Nicolas Winding Refn (2016)

(Id.)

Visto su Netflix.

Una ragazza arriva a Los Angeles per cercare di fare la modella. Lei è giovane, troppo, ma ha una bellezza che illumina e ammalia in maniera quasi soprannaturale, attira tutti, riuscendo ad arrivare rapidamente, ma allo stesso modo pagherà per l'attrazione che suscita.

Bislacco film di un Refn che ormai non contiene più la sua propensione all'estetica. In passato ci ha già abituato a opere (anche ottime) dove il comparto visivo conta più della trama, integrandosi, però, ad essa (qualche volta fallendo male); qui però fa il salto, butta il cuore oltre l'ostacolo e crea un'opera di videoart.
La trama è superficiale, diluita tantissimo e appare fin da subito una scusa per arrivare a certe inquadrature; nel finale impenna, avvengono delle cose (finalmente) e si tinge di horror, ma anche li è pretestuoso (e obiettivamente mal fatto).
Finché Refn rimane saldamente dalla parte del racconto film non narrativo vince. Vince perché si sfoga con sequenze che più che dal cinema sembrano affini all'arte visuale (la festa nella discoteca, la prima sessione fotografica) e vincono a piene mani riuscendo a conciliare la bellezza formale con emozioni e sensazioni.
Nella seconda parte però il film perde in qualità delle scene e nello stesso momento la trama diventa lievemente più importante e qui avviene la disfatta. Non potendo contare su una sceneggiatura di livello (il twist finale è talmente esagerato, rozzo e mal fatto, da risultare ridicolo) che compensare l'estetica mancate e avendo una prima parte che alzato troppo l'asticella il film declina in maniera insalvabile.
Peccato, ma almeno sembra segnare l'intenzione di Refn di andare nella direzione antri trama delle vecchie avanguardia a là Marienbad.

PS: magnifico anche l'uso degli stilemi del genere thriller per costruire le scene nella prima parte, su tutte vince la magnifica introduzione di Reeves.