Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.
Un gruppo di militari stanziati sulla costa lungo il confine con la Corea del Nord attendono l'arrivo di eventuali spie. Nell'attesa si fomentano vicendevolmente e vengono visti con disprezzo e derisione dalla gente del posto. Tutto precipita quando un ragazzo viene ucciso per sbaglio da un soldato. Il soldato verrà premiato (in fondo pensava fosse il nemico), ma congedato; mentre la ragazza dell'ucciso impazzirà. I due protagonisti involontari diverranno l'uno il carnefice psicologico del plotone (ma anche il capro espiatorio che consentirà alle pulsioni più primitive di venire fuori senza pudore), l'altra la vittima.
Kim Ki Duk si diverte a
presentare la buzzantiana posizione dei militari coreani, in perenne attesa di
un nemico invisibile che potrebbe arrivare in qualunque momento, ma che poi non
arriva mai; addestrati a reagire d’istinto e premiato anche quando
quest’istinto eccede e si colpiscono degli innocenti (idioti finché si vuole, ma
pur sempre innocenti). Poi quando il nemico arriverà sarà un nemico interno e
si muoverà in maniera più fantasmatica dell’immaginario nemico esterno.
Dopo una certa data (il 2003 di
primavera estate ecc..) i film di Kim Ki Duk sono tutti esteticamente splendidi;
questo The coast guard purtroppo non è fra questi (è stato realizzato subito
prima nel 2002), le immagini sono ancora sporche e sgranate, non per
necessità, per intenti, ma proprio per il mezzo a disposizione (si guardi la locandina invece per vedere come avrebbe
potuto essere). Nelle trame dei suoi film Ki Duk ha sempre messo dentro un’idea
di base potente e surreale che fa da motore immobile di tutta la vicenda; in
questo caso invece le idee messe in scena sono diverse, almeno tre (l’attesa
alla Buzzati, l’omicidio che trasforma la ragazza in una pazza e il soldato in
un fantasma, lo sfruttamento della presenza del fantasma per compiere ciò che
si vuole ed incolpare l’invisibile nemico) che si susseguono lasciando aperte
miriadi di porte, senza chiuderne nessuna, soltanto dimenticando le più vecchie
e proseguendo.
Forse il problema è che questo è
un film di raccordo. Tutte le opere precedenti sono caratterizzate da una
violenza visiva importante e da una volontà di sangue che è alla base della
poetica dei film stessi (cose in parte rintracciabili anche qui), quelli
successivi sono opere più poetiche e più
lievi, più inclini al buonismo e allo sfociare verso il cazzeggio mentale (ma
quando riescono bene sono splendide). Questo è un film a metà, lo stupro della
ragazza impazzita ed il suo aborto, nonché gli omicidi del finale fanno parte
del primo Kim Ki Duk; l’attesa, l’essere al limite della società e lo stato di
paranoia che colpisce dapprima i soldati della base e poi fuoriescono anche dal
campo militare sembrano più del secondo periodo. Però non riescono a dialogare
perfettamente e sembrano invece portarsi via tempo vicendevolmente senza mai
concludere nulla. Tutto sommato un film non riuscito e uno dei pochi del
regista che ho trovato piuttosto noioso.
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