mercoledì 27 marzo 2013

Telefoni bianchi - Dino Risi (1976)

(Id.)

Visto i Dvx.

Risi ripercorre il ventennio fascista nell'unico modo possibile, niente acrimonia o partigianeria di rito, niente amarcord nostalgico (non si sa mai di come la può pensare uno), di fatto mostra l’epoca nazista per quello che è stata, una farsa. Il fascismo, prima ancora di divenire un gioco al massacro, è stato un enorme baraccone che distribuisse circenses più che panem, ma che di fatto incarnava esattamente ciò che era l’Italia d’allora. Niente rimpianti quindi, niente rabbia postuma, una constatazione che quelli eravamo noi, ma mostrati con tutta l’ironia che merita un progetto del genere.

Il film soffre un poco del ritmo episodico della trama e, di per se simpatico, non dice molto di più ad uno spettatore, niente colpi di genio o messe in scena sensazionali. Il motivo per cui il film si salva (e può venir ricordato) è la carrellata di improbabili personaggi, tutte macchiette costruite su un luogo comune, tutte calzanti e infuse di vita propria; il Pozzetto fascista da operetta; l’inevitabile Gassman nell'inevitabile parte del famoso ed osannato viveur  tronfio e vanitoso quanto incapace e paraculo; ma su tutti merita un encomio Tognazzi nella parte dello stronzo più bieco finora mostrato al cinema, talmente orribile (tanto esteticamente, quanto interiormente, in un’idea quanto mai cartonistica nella costruzione del personaggio) da essere disprezzato persino dai nazisti che aiuta.

La protagonista, di per se non entusiasmante, alla lunga si imprime nella memoria per la sua totale passività agli eventi; lei è stata educata all'avidità e si muove, con assoluta onestà intellettuale verso chi le offre di più, totalmente indifferente ai sentimenti degli altri tanto quanto dei proprio. Solo Virzì, molto dopo, avrà il coraggio di creare un personaggio così algido ed ingenuo.

Complessivamente un’opera simpatica, che avrebbe potuto essere migliore se oltre alla trama ci fosse stata qualche idea in più.

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