(The Hobbit: The battle of the five armies)
Visto al cinema.
Bilbo e i nani hanno scatenato il drago Smaug nel precedente episodio, e ora distrugge tutto quello che può nella città degli uomini. L'eroe locale riuscirà a sconfiggerlo piuttosto rapidamente, ma solo per ritrovarsi accanto degli elfi, tutti uniti nel muovere guerra ai nani... anche se ci si mettono gli orchetti a unire tutti in un fronte comune.
Avevo letto peste e corna di questo capitolo conclusivo; invece è un film dignitoso in linea con i precedenti capitoli. Certamente gli mancano i veri e propri colpi di genio che c'erano nel primo, così come c'è troppo poco drago per soddisfare il mio senso di abbandono da "Jurassic Park". Però il film regge.
Nonostante ci si dedichi quasi esclusivamente alle battaglie non si scade nelle scene da videogioco del secondo film della trilogia del Signore degli anelli. Le scene d'azione di massa della prima metà sono enormi come al solito, ma nella seconda parte ci si dedica di più agli scontri personali, con una sequenza fra Legolas e il capo degli orchetti su una torre abbattuta sospesa nel vuoto che è davvero ben giostrata. C'è coraggio, sacrificio ed eroismo a piene mani con una punta di disillusione e accettazione della morte che da un tocco meno banale alle agnizioni personali che altrimenti sarebbero da melodramma classico.
Non ci sono idee nuove o risoluzioni vincenti delle vicende personali; l'impegno di Jackson sembra quello di chiudere con dignità, spargere tutti i cliffhanger che riesce fra le due trilogie e chiudere del tutto la porta. Io direi che la missione è compiuta.
mercoledì 31 dicembre 2014
lunedì 29 dicembre 2014
Maradona di Kusturica - Emir Kusturica (2008)
(Maradona by Kusturica)
Visto in tv.
Maradona intervistato da un Kusturica fan estremista. Quello che ne viene fuori è un mix tra il genio e l'idiota, tra il trascinatore del popolo (anche politicamente) e il tizio che si è perso l'infanzia delle figlie per la droga; il tutto con una serie di sequenze dei suoi gol migliori, interviste dirette, sequenze dei precedenti film di kusturica, animazioni, scene documentaristiche della grottesca chiesa di Maradona.
La question è che questo "documentario" ha tutto già nel titolo; non è un film su Maradona, ma è prima di tutto un film di Kusturica. Il regista ama il calciatore ed il personaggio e cerca di paragonarlo ai suoi personaggi, ma questo solo per paragonare sé stesso all'Argentino (la sequenza iniziale è addirittura sfacciata, con Kusturica sul palco che suona e viene introdotto come "il Maradona del cinema").
In una parola, il regista crea l'ennesimo film sull'ennesimo suo personaggio; un personaggio che è un furbo profittatore e un arrogante, ma è anche un vincente, un duro con grandi sentimentalismi, un buono con molta pervicacia e che, nonostante pregi e difetti, ama ed è amato.
La regia caotica che confonde i generi (ho trovato orribili gli inserti animati), eccede in populismo, mete dentro canzoni, crea situazioni paradossali (costruite ad arte), dà ritmo vertiginoso e regala sentimenti prima ancora di capire cosa sta succedendo e perché, ecco questa regia è quella solita di Kusturica, la sua solita regia quando gli riesce bene.
Kusturica loda sé stesso (perché ritiene di essere lui il protagonista di ogni suo film) e qui dirige un falso documentario sul suo ennesimo personaggio balcanico.
Visto in tv.
Maradona intervistato da un Kusturica fan estremista. Quello che ne viene fuori è un mix tra il genio e l'idiota, tra il trascinatore del popolo (anche politicamente) e il tizio che si è perso l'infanzia delle figlie per la droga; il tutto con una serie di sequenze dei suoi gol migliori, interviste dirette, sequenze dei precedenti film di kusturica, animazioni, scene documentaristiche della grottesca chiesa di Maradona.
La question è che questo "documentario" ha tutto già nel titolo; non è un film su Maradona, ma è prima di tutto un film di Kusturica. Il regista ama il calciatore ed il personaggio e cerca di paragonarlo ai suoi personaggi, ma questo solo per paragonare sé stesso all'Argentino (la sequenza iniziale è addirittura sfacciata, con Kusturica sul palco che suona e viene introdotto come "il Maradona del cinema").
In una parola, il regista crea l'ennesimo film sull'ennesimo suo personaggio; un personaggio che è un furbo profittatore e un arrogante, ma è anche un vincente, un duro con grandi sentimentalismi, un buono con molta pervicacia e che, nonostante pregi e difetti, ama ed è amato.
La regia caotica che confonde i generi (ho trovato orribili gli inserti animati), eccede in populismo, mete dentro canzoni, crea situazioni paradossali (costruite ad arte), dà ritmo vertiginoso e regala sentimenti prima ancora di capire cosa sta succedendo e perché, ecco questa regia è quella solita di Kusturica, la sua solita regia quando gli riesce bene.
Kusturica loda sé stesso (perché ritiene di essere lui il protagonista di ogni suo film) e qui dirige un falso documentario sul suo ennesimo personaggio balcanico.
Etichette:
2008,
Documentario,
Emir Kusturica,
Sport
venerdì 26 dicembre 2014
Fantasmi a Roma - Antonio Pietrangeli (1961)
(Id.)
Visto in Dvx.
In una palazzina in centro a Roma vivono un gruppetto di fantasmi, alloggiati presso un anziano nobile decaduto, alla morte di questo si troveranno per casa il nipote. Voglioso di soldi il giovano vorrebbe vendere il palazzo, ma i fantasmi lavoreranno di concerto per non perdere la casa, arriveranno anche a chiedere la consulenza di un pittore del 500.
Questo è un film delizioso. Il termine delizioso di solito non lo uso, neppure per il cibo, neppure per i coniglietti o i cuccioli di foca. Ma questo è proprio un film delizioso. Una commedia delicata, divertente, dal ritmo calmo, ma sempre ben tenuto, una galleria di personaggi che non inventano nulla, ma sfruttano gli stilemi sui fantasmi e i luoghi comuni sugli attori per creare i personaggi e le situazioni; tutto però diluito nella delicatezza. Cast enorme che si muove con grazia incredibile e, come già detto, fa il luogo comune di sé stesso, Mastroianni fa il solito donnaiolo (ma senza gli estremismi di Fellini) e altri due personaggi, Milo fa la ragazza svampita (personaggio piuttosto secondario), Gassman è un sanguigno artista anticlericale, Buazzelli un frate corpulento e bonaccione ed infine De Filippo nelle vesti del nobile (di pedigree e di intenti) decaduto, intellettuale e reazionario (pur avendo l'apertura in solitaria è il personaggio meno sfruttato, si poteva fare di più).
I rapporti tra i morti e i vivi si esauriscono in gag e giochi prevedibili, ma organizzati perfettamente (dato che i vivi non possono vedere i fantasmi); unica scena che si discosta dallo stato di quieta commedia è quella di Mastroianni con la ballerina nel locale, nel mood generale stride, ma alla fine risulta innocua.
Tra gli sceneggiatori Flaiano e Scola.
Non è un capolavoro, ma un film da recuperare di sicuro.
Visto in Dvx.
In una palazzina in centro a Roma vivono un gruppetto di fantasmi, alloggiati presso un anziano nobile decaduto, alla morte di questo si troveranno per casa il nipote. Voglioso di soldi il giovano vorrebbe vendere il palazzo, ma i fantasmi lavoreranno di concerto per non perdere la casa, arriveranno anche a chiedere la consulenza di un pittore del 500.
Questo è un film delizioso. Il termine delizioso di solito non lo uso, neppure per il cibo, neppure per i coniglietti o i cuccioli di foca. Ma questo è proprio un film delizioso. Una commedia delicata, divertente, dal ritmo calmo, ma sempre ben tenuto, una galleria di personaggi che non inventano nulla, ma sfruttano gli stilemi sui fantasmi e i luoghi comuni sugli attori per creare i personaggi e le situazioni; tutto però diluito nella delicatezza. Cast enorme che si muove con grazia incredibile e, come già detto, fa il luogo comune di sé stesso, Mastroianni fa il solito donnaiolo (ma senza gli estremismi di Fellini) e altri due personaggi, Milo fa la ragazza svampita (personaggio piuttosto secondario), Gassman è un sanguigno artista anticlericale, Buazzelli un frate corpulento e bonaccione ed infine De Filippo nelle vesti del nobile (di pedigree e di intenti) decaduto, intellettuale e reazionario (pur avendo l'apertura in solitaria è il personaggio meno sfruttato, si poteva fare di più).
I rapporti tra i morti e i vivi si esauriscono in gag e giochi prevedibili, ma organizzati perfettamente (dato che i vivi non possono vedere i fantasmi); unica scena che si discosta dallo stato di quieta commedia è quella di Mastroianni con la ballerina nel locale, nel mood generale stride, ma alla fine risulta innocua.
Tra gli sceneggiatori Flaiano e Scola.
Non è un capolavoro, ma un film da recuperare di sicuro.
Etichette:
1961,
Antonio Pietrangeli,
Commedia,
Eduardo De Filippo,
Fantasy,
Film,
Marcello Mastroianni,
Sandra Milo,
Vittorio Gassman
mercoledì 24 dicembre 2014
Dopo la morte - Evgenij Bauer (1915)
(Posle smerti)
Visto qui, grazie a questa recensione.
Un giovane studente universitario vive nella venerazione della madre e nelle cure (esagerate) della zia (strepitosa la vecchietta che di notte va a controllare che dorma o a colazione gli zucchera il te e gli avvicina di 10 cm le brioche così che non debba allungare una mano). Conosce una ragazza, un'attrice, che si innamora di lui, lui la rifiuta e lei si suicida poco prima di uno spettacolo. Venuto a sapere della morte impazzisce e comincia a sognare la donna e a vederne il fantasma che lo perseguita.
Scoperto di recente (da me) questo Bauer fu uno dei più importanti (rimango sul vago perché non so se fosse o meno il principale) regista della Russia zarista, nato nella seconda metà dell'800 e morto proprio nel 1917 per una polmonite non dovette mai affrontare un cambio di registro nei suoi film (chissà che cosa avrebbero pensato l'uno dell'altro Bauer e Eisenstein). Decadente, simbolista, drammatico e fantasy fu un innovatore delle immagini (luci e scenografie per lo più).
Il film ha due enormi talloni d'Achille. Il cast francamente inadatto a recitare (la protagonista ha sempre la stessa espressione enfatica e dolente, il protagonista non riesce ad essere credibile) e la sceneggiatura, scritta in fretta su un canovaccio e tutta tesa a mostrare il fantasma fregandosene del climax; la storia è lenta prima della morte della ragazza e dopo si rende ripetitiva in un insistere di apparizioni tutte uguali che non aumentano il dramma, ma la noia.
Bauer dal canto suo lavora di regia in senso teatrale, gli interni sono curatissimi e muove gli attori con il maggior senso estetico possibile, creando alcune immagine pittoricamente interessanti (la scena del sogno nei campi e qualche primo piano ricco di emozione).
Il film non mi ha entusiasmato molto, ma considerando l'epoca di produzione è già visivamente ben realizzato; non si può pretendere che siano tutte opere totali come "Cabiria".
Visto qui, grazie a questa recensione.
Un giovane studente universitario vive nella venerazione della madre e nelle cure (esagerate) della zia (strepitosa la vecchietta che di notte va a controllare che dorma o a colazione gli zucchera il te e gli avvicina di 10 cm le brioche così che non debba allungare una mano). Conosce una ragazza, un'attrice, che si innamora di lui, lui la rifiuta e lei si suicida poco prima di uno spettacolo. Venuto a sapere della morte impazzisce e comincia a sognare la donna e a vederne il fantasma che lo perseguita.
Scoperto di recente (da me) questo Bauer fu uno dei più importanti (rimango sul vago perché non so se fosse o meno il principale) regista della Russia zarista, nato nella seconda metà dell'800 e morto proprio nel 1917 per una polmonite non dovette mai affrontare un cambio di registro nei suoi film (chissà che cosa avrebbero pensato l'uno dell'altro Bauer e Eisenstein). Decadente, simbolista, drammatico e fantasy fu un innovatore delle immagini (luci e scenografie per lo più).
Il film ha due enormi talloni d'Achille. Il cast francamente inadatto a recitare (la protagonista ha sempre la stessa espressione enfatica e dolente, il protagonista non riesce ad essere credibile) e la sceneggiatura, scritta in fretta su un canovaccio e tutta tesa a mostrare il fantasma fregandosene del climax; la storia è lenta prima della morte della ragazza e dopo si rende ripetitiva in un insistere di apparizioni tutte uguali che non aumentano il dramma, ma la noia.
Bauer dal canto suo lavora di regia in senso teatrale, gli interni sono curatissimi e muove gli attori con il maggior senso estetico possibile, creando alcune immagine pittoricamente interessanti (la scena del sogno nei campi e qualche primo piano ricco di emozione).
Il film non mi ha entusiasmato molto, ma considerando l'epoca di produzione è già visivamente ben realizzato; non si può pretendere che siano tutte opere totali come "Cabiria".
Etichette:
1915,
Dramma,
Evgenij Bauer,
Fantasy,
Film,
Muto,
Vera Karalli,
Vitold Polonsky
lunedì 22 dicembre 2014
Mafioso - Alberto Lattuada (1962)
(Id.)
Visto in Dvx.
Un siciliano lavora come supervisore in una fabbrica del nord, si è sposato con una milanese da cui ha due figlie; finalmente dopo quasi 10 anni riesce a tornare nella nativa Alcamo (portando per la prima volta la famiglia in Sicilia). Il film si dipana nel mostrare lo sconcerto della nordica nei confronti dell'ambiente, le abitudini, i preconcetti e i servilismi del sud. Verso la fine della vacanza però il capo mafia locale chiede un favore che non si può rifiutare al protagonista.
Un film stranissimo che parte come una commedia sulle differenze nord-sud piuttosto carina seppure con alcuni (molti) luoghi comunissimi sfruttati per divertire a colpo sicuro. La mafia viene trattata con sussiegosa ironia, seppure rimane come convitato di pietra in ogni inquadratura.
Nella seconda parte il film vira verso il dramma, con un regolamento di conti e la tragedia di un uomo normale invischiato in questioni immorali più grandi di lui a cui è costretto ad assoggettarsi; il finale normalizzante non è certo consolatorio.
Lo stacco fra le due parti non è improvviso. Lentamente il capo mafia dimostra di avere un piano e pur rimanendo ironico, se non proprio macchiettistico, il concetto aleggiante di mafia si fa sempre più presente, pervasivo ed inquietante. Lo stacco più netto si ha nel bellismo incontro notturno, da li inizia il dramma. Ma anche nel pieno svolgersi della tragedia, l'atteggiamento e la fisicità di Sordi (magnifico protagonista) continuano a puntare sull'ironia.
Mix incredibile di generi che si fondono in maniera impeccabile. Effetto straniante che colpisce davvero molto. Il mash up nasce dalla fusione di due sceneggiature una di Marco Ferreri e una di Age e Scarpelli (guess who è per il dramma grottesco e chi per la commedia regionale?), nate indipendentemente ed immotivatamente unite. Beh l'unione delle due crea un film particolarissimo.
Il comparto artistico è però meritevole degli encomi e credo sia proporzionalmente investito dalla responsabilità della riuscita perfetta.
Sordi macchina comica molto fisica (che solitamente non amo troppo per la tendenza alla caricatura e per essere un caratterista esagerato) qui è bravissimo nella prima parte (il suo entusiasmo all'arrivo in nave in Sicilia è così veritiero da essere contagioso) e nella seconda riesce ad essere credibile nel dramma divenendo necessario per garantire quel trait d'union con la commedia precedente.
Lattuada invece è solido e concreto, inquadra con gusto per la composizione, utilizza alcuni panfocus molto belli, costruisce tutte le scene (almeno nella prima parte) su più piani, gioca molto con il bianco accecante della Sicilia per controbilanciarlo con le ombre del dramma; inoltre il ritmo dell'incipit è enorme tutto tenuto in piedi da una macchina da pesa che si ferma solo per inquadrare i personaggi in movimento. La scena dell'incontro in notturna con Don Vincenzo è un capolavoro di primissimi piani, silhouette, luci crude ed ombre vicino all'espressionismo o al noir classico. Il viaggio stilizzato con una schermata nera, due spiragli di luce in movimento e la voce fuori campo di Alberto Sordi che prega e pensa alla famiglia è un altro colpo di genio.
Un film da recuperare assolutamente. Locandine tutte fuorvianti.
Visto in Dvx.
Un siciliano lavora come supervisore in una fabbrica del nord, si è sposato con una milanese da cui ha due figlie; finalmente dopo quasi 10 anni riesce a tornare nella nativa Alcamo (portando per la prima volta la famiglia in Sicilia). Il film si dipana nel mostrare lo sconcerto della nordica nei confronti dell'ambiente, le abitudini, i preconcetti e i servilismi del sud. Verso la fine della vacanza però il capo mafia locale chiede un favore che non si può rifiutare al protagonista.
Un film stranissimo che parte come una commedia sulle differenze nord-sud piuttosto carina seppure con alcuni (molti) luoghi comunissimi sfruttati per divertire a colpo sicuro. La mafia viene trattata con sussiegosa ironia, seppure rimane come convitato di pietra in ogni inquadratura.
Nella seconda parte il film vira verso il dramma, con un regolamento di conti e la tragedia di un uomo normale invischiato in questioni immorali più grandi di lui a cui è costretto ad assoggettarsi; il finale normalizzante non è certo consolatorio.
Lo stacco fra le due parti non è improvviso. Lentamente il capo mafia dimostra di avere un piano e pur rimanendo ironico, se non proprio macchiettistico, il concetto aleggiante di mafia si fa sempre più presente, pervasivo ed inquietante. Lo stacco più netto si ha nel bellismo incontro notturno, da li inizia il dramma. Ma anche nel pieno svolgersi della tragedia, l'atteggiamento e la fisicità di Sordi (magnifico protagonista) continuano a puntare sull'ironia.
Mix incredibile di generi che si fondono in maniera impeccabile. Effetto straniante che colpisce davvero molto. Il mash up nasce dalla fusione di due sceneggiature una di Marco Ferreri e una di Age e Scarpelli (guess who è per il dramma grottesco e chi per la commedia regionale?), nate indipendentemente ed immotivatamente unite. Beh l'unione delle due crea un film particolarissimo.
Il comparto artistico è però meritevole degli encomi e credo sia proporzionalmente investito dalla responsabilità della riuscita perfetta.
Sordi macchina comica molto fisica (che solitamente non amo troppo per la tendenza alla caricatura e per essere un caratterista esagerato) qui è bravissimo nella prima parte (il suo entusiasmo all'arrivo in nave in Sicilia è così veritiero da essere contagioso) e nella seconda riesce ad essere credibile nel dramma divenendo necessario per garantire quel trait d'union con la commedia precedente.
Lattuada invece è solido e concreto, inquadra con gusto per la composizione, utilizza alcuni panfocus molto belli, costruisce tutte le scene (almeno nella prima parte) su più piani, gioca molto con il bianco accecante della Sicilia per controbilanciarlo con le ombre del dramma; inoltre il ritmo dell'incipit è enorme tutto tenuto in piedi da una macchina da pesa che si ferma solo per inquadrare i personaggi in movimento. La scena dell'incontro in notturna con Don Vincenzo è un capolavoro di primissimi piani, silhouette, luci crude ed ombre vicino all'espressionismo o al noir classico. Il viaggio stilizzato con una schermata nera, due spiragli di luce in movimento e la voce fuori campo di Alberto Sordi che prega e pensa alla famiglia è un altro colpo di genio.
Un film da recuperare assolutamente. Locandine tutte fuorvianti.
Etichette:
1962,
Alberto Lattuada,
Alberto Sordi,
Commedia,
Dramma,
Film,
Norma Bengell
venerdì 19 dicembre 2014
Hellraiser 5: Inferno - Scott Derrickson (2000)
(Hellraiser: Inferno)
Un poliziotto sul modello del cattivo tenente herzogiano viene in contatto con la scatola di Lemearchand sulla scena di un crimine, da quel momento sembra che una serie di omicidi prendano di mira le persone a lui vicine; mentre una serie di visioni, di sogni dentro sogni, di messaggi diretti e di mostri grotteschi lo perseguitano.
Buffo che il miglior film della saga finora sia il 5° capitolo, ancora più buffo se si pensa che questo è il primo film fato per andare direttamente al videonoleggio e con trama riciclata da un progetto precedente; buffissimo se si pensa che comunque è un filmetto mediocre.
La parte di trama che compete ai cenobiti è ridotta all'osso, attaccata malamente ad un film che vive per conto proprio e sono proprio buttati a caso. Il concetto di scelta (il volere scoprire cosa c'è nella scatola) e il sadomasochismo dei film precedenti (l'idea che siano demoni per qualcuno, angeli per altri) viene completamente violentato in favore della più banale idea demonologica di traghettatori verso l'inferno, di angeli del male che colpiscono il poliziotto per le sue colpe (cosa di per se carina, ma che svilisce il concetto precedente decisamente migliore e che si affianca a decine di altri film dello stesso stampo). Unica nota positiva il ritorno (in versione 2.0) di Chatterer.
Il film che sarebbe venuto fuori senza cenobiti è comunque l'idea vincente. Un thriller soprannaturale senza satana, zombi o fantasmi, ma con una vena di surrealtà presa direttamente da Lynch (il locale pieno di cowboy, la soggettiva sulla strada, il filmato dato al detective, la madre del protagonista che io pensavo essere la signora del ceppo...) ed un gioco di sogni a scatole cinesi che sembra Nightmare. Non inventa nulla, ma nella prima metà funziona. Nel finale invece non si riesce a tirare le somme, le idee vengono affastellate senza una struttura chiara e tutto quello che si riesce a capire è che c'è un gran casino ed una supponenza pure superiore.
Cast irritante.
Un poliziotto sul modello del cattivo tenente herzogiano viene in contatto con la scatola di Lemearchand sulla scena di un crimine, da quel momento sembra che una serie di omicidi prendano di mira le persone a lui vicine; mentre una serie di visioni, di sogni dentro sogni, di messaggi diretti e di mostri grotteschi lo perseguitano.
Buffo che il miglior film della saga finora sia il 5° capitolo, ancora più buffo se si pensa che questo è il primo film fato per andare direttamente al videonoleggio e con trama riciclata da un progetto precedente; buffissimo se si pensa che comunque è un filmetto mediocre.
La parte di trama che compete ai cenobiti è ridotta all'osso, attaccata malamente ad un film che vive per conto proprio e sono proprio buttati a caso. Il concetto di scelta (il volere scoprire cosa c'è nella scatola) e il sadomasochismo dei film precedenti (l'idea che siano demoni per qualcuno, angeli per altri) viene completamente violentato in favore della più banale idea demonologica di traghettatori verso l'inferno, di angeli del male che colpiscono il poliziotto per le sue colpe (cosa di per se carina, ma che svilisce il concetto precedente decisamente migliore e che si affianca a decine di altri film dello stesso stampo). Unica nota positiva il ritorno (in versione 2.0) di Chatterer.
Il film che sarebbe venuto fuori senza cenobiti è comunque l'idea vincente. Un thriller soprannaturale senza satana, zombi o fantasmi, ma con una vena di surrealtà presa direttamente da Lynch (il locale pieno di cowboy, la soggettiva sulla strada, il filmato dato al detective, la madre del protagonista che io pensavo essere la signora del ceppo...) ed un gioco di sogni a scatole cinesi che sembra Nightmare. Non inventa nulla, ma nella prima metà funziona. Nel finale invece non si riesce a tirare le somme, le idee vengono affastellate senza una struttura chiara e tutto quello che si riesce a capire è che c'è un gran casino ed una supponenza pure superiore.
Cast irritante.
Etichette:
*Hellraiser,
2000,
Caig Sheffer,
Doug Bradley,
Film,
Horror,
Scott Derrickson,
Serie B,
Thriller
mercoledì 17 dicembre 2014
Il sale della terra - Wim Wenders, Juliano Ribeiro Salgado (2014)
(The salt of the Earth)
Visto al cinema.
Wenders percorre la vita di Salgado, dalla giovinezza in Brasile alla fuga a Parigi, la scoperta della fotografia fino all'ultima mostra, passando per l'impegno ecologista nel rimboschimento della sua terra natale.
Tutto questo viene fatto con pochissime immagini di repertorio, diversi filmati girati dallo stesso Wenders (o per lui dal figlio del fotografo) e con tantissime foto.
Diciamolo subito, il film è un film parlato; un pò perché è un documentario su una persona (per altro ancora viva) e quindi è ovvio che il protagonista sia invitato a spiegare il suo lavoro, localizzare nel tempo e nello spazio le sue foto; ma in parte perché le immagini sono la poesia e le parole la prosa. Secondo me Wenders vince proprio perché riesce a unire le immagini statiche (che follia voler girare un documentario su un fotografo per proiettarlo in un cinema; contemporaneamente figlio e nemesi della fotografia stessa) al volto invecchiato dell'autore e alle sue parole. Le immagini mostrano un concetto, un sentimento, un moto dell'animo, mentre le parole descrivono il contesto e spiegano ciò che forse non si coglierebbe del tutto.
Wenders sceglie, saggiamente, di farsi rapidamente da parte (credo che avrebbe addirittura fatto meglio a non inserirsi direttamente nel film, come invece fa all'inizio) per lasciare spazio alle immagini; quando però decide di riprendere il suo protagonista lo fa con una cura maniacale; dovendo rapportarsi con delle foto magnifiche decide fin da subito di porsi al loro livello; spesso usa il bianco e nero, lavora enormemente sulle luci e (quando può) sulla composizione dell'inquadratura, eseguendo alcuni degli shot esteticamente più appaganti della sua carriera, pur essendo solo immagini di raccordo.
Poi ovviamente ci sono l'impegno civile e umanitario di Salgado, un autore che si è ritrovato in mezzo ai peggiori massacri degli anni '90 e li ha mostrati senza censure, ma si è anche rapportato con civiltà distanti e antiche entrandone in contatto diretto e, infine, si è scontrato con la potenza della natura documentandola in maniera maniacale. Tutto questo suo percorso umano è raccontato magnificamente in turbine di emozioni esposte, ma esposte in maniera talmente empatica che non si può non provare tutto ciò che Salgado racconta.
Infine ci sono le foto. Per chi già apprezza Salgado niente di nuovo; ma per chi, come me, lo conosce poco o nulla sono una vera epifania; alcune delle immagini più belle mai impresse su pellicola, dalla brutalità della morte nel Sahel alla zampa di un'iguana, dal fuoco che si sprigiona da un pozzo di petrolio incendiato ai ritratti di etnie andine fino alla banalità di due pappagalli in volo, tutto è magnificato da una capacità incredibile di giocare con la luce e la messa a fuoco, con un bianco e nero che da spessore e densità a ogni scena.
Visto al cinema.
Wenders percorre la vita di Salgado, dalla giovinezza in Brasile alla fuga a Parigi, la scoperta della fotografia fino all'ultima mostra, passando per l'impegno ecologista nel rimboschimento della sua terra natale.
Tutto questo viene fatto con pochissime immagini di repertorio, diversi filmati girati dallo stesso Wenders (o per lui dal figlio del fotografo) e con tantissime foto.
Diciamolo subito, il film è un film parlato; un pò perché è un documentario su una persona (per altro ancora viva) e quindi è ovvio che il protagonista sia invitato a spiegare il suo lavoro, localizzare nel tempo e nello spazio le sue foto; ma in parte perché le immagini sono la poesia e le parole la prosa. Secondo me Wenders vince proprio perché riesce a unire le immagini statiche (che follia voler girare un documentario su un fotografo per proiettarlo in un cinema; contemporaneamente figlio e nemesi della fotografia stessa) al volto invecchiato dell'autore e alle sue parole. Le immagini mostrano un concetto, un sentimento, un moto dell'animo, mentre le parole descrivono il contesto e spiegano ciò che forse non si coglierebbe del tutto.
Wenders sceglie, saggiamente, di farsi rapidamente da parte (credo che avrebbe addirittura fatto meglio a non inserirsi direttamente nel film, come invece fa all'inizio) per lasciare spazio alle immagini; quando però decide di riprendere il suo protagonista lo fa con una cura maniacale; dovendo rapportarsi con delle foto magnifiche decide fin da subito di porsi al loro livello; spesso usa il bianco e nero, lavora enormemente sulle luci e (quando può) sulla composizione dell'inquadratura, eseguendo alcuni degli shot esteticamente più appaganti della sua carriera, pur essendo solo immagini di raccordo.
Poi ovviamente ci sono l'impegno civile e umanitario di Salgado, un autore che si è ritrovato in mezzo ai peggiori massacri degli anni '90 e li ha mostrati senza censure, ma si è anche rapportato con civiltà distanti e antiche entrandone in contatto diretto e, infine, si è scontrato con la potenza della natura documentandola in maniera maniacale. Tutto questo suo percorso umano è raccontato magnificamente in turbine di emozioni esposte, ma esposte in maniera talmente empatica che non si può non provare tutto ciò che Salgado racconta.
Infine ci sono le foto. Per chi già apprezza Salgado niente di nuovo; ma per chi, come me, lo conosce poco o nulla sono una vera epifania; alcune delle immagini più belle mai impresse su pellicola, dalla brutalità della morte nel Sahel alla zampa di un'iguana, dal fuoco che si sprigiona da un pozzo di petrolio incendiato ai ritratti di etnie andine fino alla banalità di due pappagalli in volo, tutto è magnificato da una capacità incredibile di giocare con la luce e la messa a fuoco, con un bianco e nero che da spessore e densità a ogni scena.
Etichette:
2014,
Documentario,
Juliano Ribeiro Salgado,
Wim Wenders
lunedì 15 dicembre 2014
Magic, Magia - Richard Attenborough (1978)
(Magic)
Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.
Un aspirante mago da di matto alla sua prima esibizione (il pubblico era francamente irritante); capisce quindi che i trucchetti con le carte, per quanto sudati per ottenerne il meglio, non possono reggersi da soli. Si inventa quindi un pupazzo da ventriloquo, un personaggio rozzo e divertente che prende in giro il mago stesso, con questa distrazione riesce a fare trucchi sempre più elaborati e raggiunge il successo... o almeno, lo raggiungerebbe. Il suo agente gli procura un accordo con la tv, ma prima deve sottoporsi ad un controllo medico; il mago fugge, cerca rifugio nel passato, ma la sua casa dell'infanzia è ormai un rudere; decide quindi di tornare nella casa di alcuni suoi vicini la cui figlia fu la sua prima infatuazione. Gli anziani genitori si sono ormai ritirati in Florida, ora li c'è solo la donna di cui era innamorato; il di lei marito è a caccia; figurarsi cosa non può succedere. Però c'è sempre il pupazzo, che da una parte risulta utile a stemperare le situazioni di tensione, dall'altra sembra crearle... anche perché il mago parla con il pupazzo anche quando si trova da solo con lui...
Più che un horror, come viene spesso definito, direi che siamo dalle parti del thriller. Un film solido ed inquietante, sostanzialmente impeccabile (tranne che per l'inizio, ben condotto con le scene mute e il protagonista che sembra doppiarle mentre racconta cosa sta succedendo; ben condotto, ma inutile) che riesce a tenere alta la tensione continuamente. Dovendolo contestare probabilmente avrei fatto a meno della scena finale, lo scioglimento che c'era stato poco prima l'avrei trovato sufficiente.
In ogni caso questo misconosciuto gioiello si può far vanto di due prestazioni particolarmente buone. Il protagonista ed il regista.
Anthony Hopkins è qui ad una delle sue più strambe interpretazioni di sempre; ma soprattutto ad una delle migliori interpretazioni. Se nella parte iniziale, dove si limita ad essere il timido maghetto è bravo, ma niente di più; nel graduale andare fuori di testa da lustro ad una serie di prestazioni da urlo (la scena in cui gattona per terra, poi si alza e gira su sé stesso perché glielo ordina il pupazzo è pazzesca), specie nelle discussioni con il nulla. Da sottolineare che Hopkins da la voce anche al pupazzo.
Il regista è il nostro amato Hammond, prima di interpretare Hammond e prima di realizzare quel biopic senza guizzi, ma ricco di pathos (e acchiappapremi) di "Gandhi". Qui si trova per le mani una sceneggiatura da urlo e decide di buttare tutto nel cesso; organizza un film magistrale, dai colori grigi o terrei, umido e sporco, con una tensione continua (una volta giunto nella baita direi che non c'è tensione solo per un paio di scene d'amore... ma forse neppure li il film ne è privo del tutto); ma soprattutto decide di giocare pesante e, dalla metà in poi, mantiene una gustosa ambiguità nella gestione della trama, tra la follia ed il soprannaturale. Bravissimo.
Infine una nota va fatta per la partecipazione di un Meredith magnifico nella parte del vecchio, ricco, mestierante; giuro di non averlo riconosciuto vestito così bene (nonostante questo film sia quasi equidistante fra "Rocky" e "Rocky 2"); una faccia da schiaffi bellissima con un paio di scene impeccabili che lo fanno catalogare direttamente fra i migliori caratteristi del cinema americano (la scena nel pranzo dove con il suo sorriso sempre in faccia maschera il disappunto per la testardaggine del mago e quella dello scontro nella baita, dove conduce lui il gioco per almeno 10 minuti, mostrando preoccupazione, sangue freddo e, verso la fine, la rabbia di chi non ha più voglia di discutere con un pazzo).
Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.
Un aspirante mago da di matto alla sua prima esibizione (il pubblico era francamente irritante); capisce quindi che i trucchetti con le carte, per quanto sudati per ottenerne il meglio, non possono reggersi da soli. Si inventa quindi un pupazzo da ventriloquo, un personaggio rozzo e divertente che prende in giro il mago stesso, con questa distrazione riesce a fare trucchi sempre più elaborati e raggiunge il successo... o almeno, lo raggiungerebbe. Il suo agente gli procura un accordo con la tv, ma prima deve sottoporsi ad un controllo medico; il mago fugge, cerca rifugio nel passato, ma la sua casa dell'infanzia è ormai un rudere; decide quindi di tornare nella casa di alcuni suoi vicini la cui figlia fu la sua prima infatuazione. Gli anziani genitori si sono ormai ritirati in Florida, ora li c'è solo la donna di cui era innamorato; il di lei marito è a caccia; figurarsi cosa non può succedere. Però c'è sempre il pupazzo, che da una parte risulta utile a stemperare le situazioni di tensione, dall'altra sembra crearle... anche perché il mago parla con il pupazzo anche quando si trova da solo con lui...
Più che un horror, come viene spesso definito, direi che siamo dalle parti del thriller. Un film solido ed inquietante, sostanzialmente impeccabile (tranne che per l'inizio, ben condotto con le scene mute e il protagonista che sembra doppiarle mentre racconta cosa sta succedendo; ben condotto, ma inutile) che riesce a tenere alta la tensione continuamente. Dovendolo contestare probabilmente avrei fatto a meno della scena finale, lo scioglimento che c'era stato poco prima l'avrei trovato sufficiente.
In ogni caso questo misconosciuto gioiello si può far vanto di due prestazioni particolarmente buone. Il protagonista ed il regista.
Anthony Hopkins è qui ad una delle sue più strambe interpretazioni di sempre; ma soprattutto ad una delle migliori interpretazioni. Se nella parte iniziale, dove si limita ad essere il timido maghetto è bravo, ma niente di più; nel graduale andare fuori di testa da lustro ad una serie di prestazioni da urlo (la scena in cui gattona per terra, poi si alza e gira su sé stesso perché glielo ordina il pupazzo è pazzesca), specie nelle discussioni con il nulla. Da sottolineare che Hopkins da la voce anche al pupazzo.
Il regista è il nostro amato Hammond, prima di interpretare Hammond e prima di realizzare quel biopic senza guizzi, ma ricco di pathos (e acchiappapremi) di "Gandhi". Qui si trova per le mani una sceneggiatura da urlo e decide di buttare tutto nel cesso; organizza un film magistrale, dai colori grigi o terrei, umido e sporco, con una tensione continua (una volta giunto nella baita direi che non c'è tensione solo per un paio di scene d'amore... ma forse neppure li il film ne è privo del tutto); ma soprattutto decide di giocare pesante e, dalla metà in poi, mantiene una gustosa ambiguità nella gestione della trama, tra la follia ed il soprannaturale. Bravissimo.
Infine una nota va fatta per la partecipazione di un Meredith magnifico nella parte del vecchio, ricco, mestierante; giuro di non averlo riconosciuto vestito così bene (nonostante questo film sia quasi equidistante fra "Rocky" e "Rocky 2"); una faccia da schiaffi bellissima con un paio di scene impeccabili che lo fanno catalogare direttamente fra i migliori caratteristi del cinema americano (la scena nel pranzo dove con il suo sorriso sempre in faccia maschera il disappunto per la testardaggine del mago e quella dello scontro nella baita, dove conduce lui il gioco per almeno 10 minuti, mostrando preoccupazione, sangue freddo e, verso la fine, la rabbia di chi non ha più voglia di discutere con un pazzo).
Etichette:
1978,
Ann-Margret,
Anthony Hopkins,
Burgess Meredith,
Dramma,
Film,
Richard Attenborough,
Thriller
venerdì 12 dicembre 2014
Addio alle armi - Frank Borzage (1932)
(A farewell to arms)
Visto in Dvx.
Dal libro di Hemingway viene presa solo l'ambientazione italiana durante la grande guerra e la storia d'amore fra un soldato e un'infermiera; il resto è la classica storia hollywoodiana di un amore contrastato da fattori esterni, separazione, ricongiungimento... ma siamo negli anni '30, talvolta l'happy ending non è scontato...
Questo è un film breve ricco di motivi d'interessa, ma narrato malissimo. La storia è terribilmente banale e mal scritta, noiosa nella sua linearità, senza idee particolari e, se solo avessero osato farlo durare oltre l'ora e venti minuti (circa), probabilmente l'avrei abbandonato o l'avrei "guardato" mentre facevo dell'altro. La guerra (che viene mostrata in diversi momenti) è in realtà un McGuffin; non c'è tragedia, non c'è dramma militare; è solo una storia d'amore in un ambiente militaresco (ma neppure troppo).
Quello che il film non ha nella sceneggiatura lo recupera tutto nella regia. La macchina da presa è dinamica, si muove spesso soprattutto con carrellate laterali bevi, ,a anche in inseguimenti alla Arnofsky (che per me sta diventando un aggettivo) per non parlare della lunga sequenza in soggettiva dalla barella con gli ampi soffitti che si aprono mentre le voci fuori campo parlano (poi i visi delle persone in primo piano). Ma anche le inquadrature cercano di non essere scontate, spesso vengono incorniciate (da delle finestre, dalle zampe della cavallo di bronzo, i soldati in marcia mostrati attraverso l'apertura di una tenda , ecc...) Borzage poi si diverte con gli intermezzi, quello con le marionette per il mostrare il passare dei mesi; quello più espressionista con i soldati in marcia (con un attacco aereo che sembra un mash up di Picasso e Eisenstein) nonché un piccolo gioiello di surrealtà per feticisti nella breve scena in cui Cooper chiacchera da ubriaco con il piede di una donna.
Infine la scelta degli interpreti è contestabile. Bravi entrambi, ma Cooper è un gigante, la Hayes no, e la scena del bacio a Milano, dove fanno fatica a raggiungersi, è abbastanza ridicola.
In sostanza un film molto più interessante che bello.
Visto in Dvx.
Dal libro di Hemingway viene presa solo l'ambientazione italiana durante la grande guerra e la storia d'amore fra un soldato e un'infermiera; il resto è la classica storia hollywoodiana di un amore contrastato da fattori esterni, separazione, ricongiungimento... ma siamo negli anni '30, talvolta l'happy ending non è scontato...
Questo è un film breve ricco di motivi d'interessa, ma narrato malissimo. La storia è terribilmente banale e mal scritta, noiosa nella sua linearità, senza idee particolari e, se solo avessero osato farlo durare oltre l'ora e venti minuti (circa), probabilmente l'avrei abbandonato o l'avrei "guardato" mentre facevo dell'altro. La guerra (che viene mostrata in diversi momenti) è in realtà un McGuffin; non c'è tragedia, non c'è dramma militare; è solo una storia d'amore in un ambiente militaresco (ma neppure troppo).
Quello che il film non ha nella sceneggiatura lo recupera tutto nella regia. La macchina da presa è dinamica, si muove spesso soprattutto con carrellate laterali bevi, ,a anche in inseguimenti alla Arnofsky (che per me sta diventando un aggettivo) per non parlare della lunga sequenza in soggettiva dalla barella con gli ampi soffitti che si aprono mentre le voci fuori campo parlano (poi i visi delle persone in primo piano). Ma anche le inquadrature cercano di non essere scontate, spesso vengono incorniciate (da delle finestre, dalle zampe della cavallo di bronzo, i soldati in marcia mostrati attraverso l'apertura di una tenda , ecc...) Borzage poi si diverte con gli intermezzi, quello con le marionette per il mostrare il passare dei mesi; quello più espressionista con i soldati in marcia (con un attacco aereo che sembra un mash up di Picasso e Eisenstein) nonché un piccolo gioiello di surrealtà per feticisti nella breve scena in cui Cooper chiacchera da ubriaco con il piede di una donna.
Infine la scelta degli interpreti è contestabile. Bravi entrambi, ma Cooper è un gigante, la Hayes no, e la scena del bacio a Milano, dove fanno fatica a raggiungersi, è abbastanza ridicola.
In sostanza un film molto più interessante che bello.
Etichette:
1932,
Adolphe Menjou,
Dramma,
Film,
Frank Borzage,
Gary Cooper,
Guerra,
Helen Hayes,
Romantico
mercoledì 10 dicembre 2014
Interstellar - Christopher Nolan (2014)
(Id.)
Visto al cinema.
In un futuro bloccato in una stasi per assenza di ricerca della conoscenza (a parte l'agricoltura, le scienze sono scomparse) la terra sta morendo a causa di una piaga che distrugge le colture. La NASA si è fatta segreta e cerca una soluzione nella fuga nello spazio alla ricerca di mondi abitabili. Un padre di famiglia, ex ingegnere NASA, viene scelto per l'ultima missione, quella che dovrebbe selezionare definitivamente il piante. Dovrà abbandonare la famiglia consapevole che potrebbe non rivederla più.
Sinceramente trovo fantastico che si possa assistere al cinema a dei film del nuovo Kubrick; un regista che con Kubrick condivide l'arroganza di tematiche, la forza produttiva e il rigore formale; per questo film però viene aggiunta anche una sonora dose di sentimentalismo degno di Spielberg che nei precedenti non c'era. Per chi ha amato i film precedenti di Nolan e la loro glaciale bellezza, questo potrebbe essere il difetto principale. Se a questo ci si aggiunge che "Interstellar" è il suo film più pretenzioso, ma non il più riuscito, l'inevitabile paragone con i precedente lo potrà rendere ancora più inviso.
Comunque "Interstellar" è uno splendido film. Oltre due ore senza noia parlando di amore, fisica quantistica e family drama non è cosa facile.
Le scene sulla terra sono un perfetto connubio di modernariato e tecnologia (non in versione fumettistica, ma tutto rigorosamente verosimile) con una morte che aleggia inquietante in ogni inquadratura.
Lo spazio è un mondo pericoloso, ma affascinante, pieno di umanità.
Per tutto il film c'è una corsa verso la salvezza per evitare una minaccia invisibile; perché questo è un film leggermente miyazakiano, non ci sono cattivi, tutti sono buoni o hanno buone ragioni per fare ciò che fanno (o quantomeno sono comprensibili), come viene detto nel film la natura non è maligna, al massimo è spietata e, per la prima volta, lo spazio profondo viene presentato per quello che è, una porzione della natura.
In un film così sentimentalmente buono anche la tecnologia non può più essere quella kubrickiana; qui la tecnologia è benigna, quasi organica (il drone che vola da solo da dieci anni e di cui la figlia chiede che venga liberato; o il rapporto con i robot e la tristezza per doverne sacrificare uno), a dispozione dell'uomo, ma viva e completa in sé stessa (e viene creato un nuovo robot da inserire nella galleria degli androidi cinematografici).
Ovviamente anche qui c'è un ampio discorso sul tempo che da diversi film a questa parte (praticamente dall'inizio della carriera) Nolan sembra portare avanti, sulla percezione alterata e diversa da persona a persona.
Come sempre ottimo il lavoro sugli attori che danno il massimo e l'ancor più sensibile lavoro sui corpi che diventano parte integrante del film (incredibile come gli attori più famosi in questo film non compromettano la sospensione dell'incredulità).
Ci sono parecchi errori e diverse ingenuità, ma tutto senza conseguenze evidenti; giusto il finale è caotico ed eccessivo, giusto lì l'arroganza di Nolan si fa altissima e difficile da seguire, ma se non si rimane troppo a fare gli schizzinosi il risultato è comunque piacevole.
Visto al cinema.
In un futuro bloccato in una stasi per assenza di ricerca della conoscenza (a parte l'agricoltura, le scienze sono scomparse) la terra sta morendo a causa di una piaga che distrugge le colture. La NASA si è fatta segreta e cerca una soluzione nella fuga nello spazio alla ricerca di mondi abitabili. Un padre di famiglia, ex ingegnere NASA, viene scelto per l'ultima missione, quella che dovrebbe selezionare definitivamente il piante. Dovrà abbandonare la famiglia consapevole che potrebbe non rivederla più.
Sinceramente trovo fantastico che si possa assistere al cinema a dei film del nuovo Kubrick; un regista che con Kubrick condivide l'arroganza di tematiche, la forza produttiva e il rigore formale; per questo film però viene aggiunta anche una sonora dose di sentimentalismo degno di Spielberg che nei precedenti non c'era. Per chi ha amato i film precedenti di Nolan e la loro glaciale bellezza, questo potrebbe essere il difetto principale. Se a questo ci si aggiunge che "Interstellar" è il suo film più pretenzioso, ma non il più riuscito, l'inevitabile paragone con i precedente lo potrà rendere ancora più inviso.
Comunque "Interstellar" è uno splendido film. Oltre due ore senza noia parlando di amore, fisica quantistica e family drama non è cosa facile.
Le scene sulla terra sono un perfetto connubio di modernariato e tecnologia (non in versione fumettistica, ma tutto rigorosamente verosimile) con una morte che aleggia inquietante in ogni inquadratura.
Lo spazio è un mondo pericoloso, ma affascinante, pieno di umanità.
Per tutto il film c'è una corsa verso la salvezza per evitare una minaccia invisibile; perché questo è un film leggermente miyazakiano, non ci sono cattivi, tutti sono buoni o hanno buone ragioni per fare ciò che fanno (o quantomeno sono comprensibili), come viene detto nel film la natura non è maligna, al massimo è spietata e, per la prima volta, lo spazio profondo viene presentato per quello che è, una porzione della natura.
In un film così sentimentalmente buono anche la tecnologia non può più essere quella kubrickiana; qui la tecnologia è benigna, quasi organica (il drone che vola da solo da dieci anni e di cui la figlia chiede che venga liberato; o il rapporto con i robot e la tristezza per doverne sacrificare uno), a dispozione dell'uomo, ma viva e completa in sé stessa (e viene creato un nuovo robot da inserire nella galleria degli androidi cinematografici).
Ovviamente anche qui c'è un ampio discorso sul tempo che da diversi film a questa parte (praticamente dall'inizio della carriera) Nolan sembra portare avanti, sulla percezione alterata e diversa da persona a persona.
Come sempre ottimo il lavoro sugli attori che danno il massimo e l'ancor più sensibile lavoro sui corpi che diventano parte integrante del film (incredibile come gli attori più famosi in questo film non compromettano la sospensione dell'incredulità).
Ci sono parecchi errori e diverse ingenuità, ma tutto senza conseguenze evidenti; giusto il finale è caotico ed eccessivo, giusto lì l'arroganza di Nolan si fa altissima e difficile da seguire, ma se non si rimane troppo a fare gli schizzinosi il risultato è comunque piacevole.
lunedì 8 dicembre 2014
The hole - Joe Dante (2009)
(Id.)
Visto in tv.
Madre con figlio regazzino e figlio adolescente a carico si trasferiscono in una cittadina del menga; nello scantinato, i pargoli, trovano una botola con una voragine apparentemente senza fondo. Dopo averla aperta cominciano a a mostrarsi personaggi inquietanti; una bambina che piange sangue, un clown demoniaco, un uomo gigantesco che lascia impronte infangate...
Horror luminosissimo che si permette diversi momenti de paura in pieno sole (gesto di un coraggio incredibile), mandando a quel paese anni di luoghi comuni. La storia è piuttosto confusa e lo spiegone finale (pur nel suo fascino) eccessivo, come lo showdown estremo (anche se l'ambiente dello scontro finale è una perfetta riproposizione moderna dell'espressionismo tedesco).
La paura di questo film è qualcosa di molto superficiale che può facilmente non colpire affatto...
Tuttavia bisogna essere consapevoli di che cosa si sta guardando; questo è il graditissimo ritorno di Joe Dante all'horror per regazzini dagli anni '80! Certo, non è nemmeno paragonabile a "Gremlins"; tuttavia è una leggera deviazione alla norma anni '90 di fare horror solo per teenager ipersessuati. Anche qui il teenager è il vero protagonista e la tipa che gli sta dietro è decisamente... importante... ma si comincia a tornare ad una buona abitudine ormai perduta.
Non un film fenomenale, ma un buon segno.
PS: il film uscì originariamente in 3D, così a pelle direi utile solo per farti lanciare addosso gli oggetti in caduta libera nella botola.
Visto in tv.
Madre con figlio regazzino e figlio adolescente a carico si trasferiscono in una cittadina del menga; nello scantinato, i pargoli, trovano una botola con una voragine apparentemente senza fondo. Dopo averla aperta cominciano a a mostrarsi personaggi inquietanti; una bambina che piange sangue, un clown demoniaco, un uomo gigantesco che lascia impronte infangate...
Horror luminosissimo che si permette diversi momenti de paura in pieno sole (gesto di un coraggio incredibile), mandando a quel paese anni di luoghi comuni. La storia è piuttosto confusa e lo spiegone finale (pur nel suo fascino) eccessivo, come lo showdown estremo (anche se l'ambiente dello scontro finale è una perfetta riproposizione moderna dell'espressionismo tedesco).
La paura di questo film è qualcosa di molto superficiale che può facilmente non colpire affatto...
Tuttavia bisogna essere consapevoli di che cosa si sta guardando; questo è il graditissimo ritorno di Joe Dante all'horror per regazzini dagli anni '80! Certo, non è nemmeno paragonabile a "Gremlins"; tuttavia è una leggera deviazione alla norma anni '90 di fare horror solo per teenager ipersessuati. Anche qui il teenager è il vero protagonista e la tipa che gli sta dietro è decisamente... importante... ma si comincia a tornare ad una buona abitudine ormai perduta.
Non un film fenomenale, ma un buon segno.
PS: il film uscì originariamente in 3D, così a pelle direi utile solo per farti lanciare addosso gli oggetti in caduta libera nella botola.
Etichette:
2009,
Bruce Dern,
Chris Massoglia,
Film,
Haley Bennett,
Horror,
Joe Dante,
Teri Polo
venerdì 5 dicembre 2014
Tigre reale - Giovanni Pastrone (1916)
(Id.)
Visto qui.
Una contessa (sposata) è una vamp che attira a sè gli uomini solo per respingerli, su di lei si addensano storie di suicidi per amor suo o per disperazione causata da lei. Un uomo (un borghesuccio senza particolare appeal) riesce a farsene innamorare... o forse no, il comportamento di lei appare schizofrenico. Allontanatisi e reincontratisi in una notte si chiariranno tutte le ombre, lei è stata innamorata, ma a causa di un trauma ora allontana da sè gli amati... ed è tisica. Allontanatisi di nuovo, lui si fidanzerà con un'altra donna. Reincontratisi lei appare morente, mentre si danno l'addio l'albergo in cui si trovano va a fuoco, il marito di lei li sorprende e preso dalla rabbia li chiude a chiave nella stanza; riusciranno a fuggire e lei (ritemprata dall'amore) guarirà anche dalla tisi...
Due anni dopo "Cabiria" (e a poca distanza da "Il fuoco"), Pastrone interrompe la collaborazione con D'annunzio per girare questo film supervisionato da Verga (no per dire chi lavorava nel cinema italiano all'epoca)... Eppure la differenza non si vede, un ambiente ed un tema dannunziano tale che il vate non avrebbe potuto far diversamente.
Pastrone va sul sicuro ricorrendo di nuovo alla Menichelli nella parte principale (attrice lanciata in Italia proprio dal suo film precedente) della vamp mangiauomini. La Menichelli che Borelleggia più della Borelli con i suoi sguardi sempre in tralice, il mento sempre alzato, gli occhi supertruccati, la bocca bloccata in una smorfia, i capelli pettinati a gufo e le articolazioni del braccio sempre, costantemente piegate tutte insieme... beh è magnifica nel suo eccesso.
La regia decisamente più canonica del Kolossal del 1914 si concentra più nella costruzione degli spazi e negli arredi opulenti, si concede qualche immagine grandiosa solo nel rogo finale (con delle scene di una certa potenza) e si diletta nei movimenti di macchina (che in "Cabiria" erano all'ordine del giorno) solo in un paio di scena (anche se quello nel teatro, grazie alla prospettiva del palco in secondo piano ha un effetto potentissimo).
Il film decisamente più canonico del capolavoro precedente esiste solo nella versione per i paesi anglofoni; amanti dell'happy ending costringe la sceneggiatura al volo pindarico della guarigione miracolosa; la versione originale (molto più in linea con D'Annunzio) prevedeva una morte per tisi della Menichelli, da sola, abbandonata dall'amante respinto ormai fidanzato.
Visto qui.
Una contessa (sposata) è una vamp che attira a sè gli uomini solo per respingerli, su di lei si addensano storie di suicidi per amor suo o per disperazione causata da lei. Un uomo (un borghesuccio senza particolare appeal) riesce a farsene innamorare... o forse no, il comportamento di lei appare schizofrenico. Allontanatisi e reincontratisi in una notte si chiariranno tutte le ombre, lei è stata innamorata, ma a causa di un trauma ora allontana da sè gli amati... ed è tisica. Allontanatisi di nuovo, lui si fidanzerà con un'altra donna. Reincontratisi lei appare morente, mentre si danno l'addio l'albergo in cui si trovano va a fuoco, il marito di lei li sorprende e preso dalla rabbia li chiude a chiave nella stanza; riusciranno a fuggire e lei (ritemprata dall'amore) guarirà anche dalla tisi...
Due anni dopo "Cabiria" (e a poca distanza da "Il fuoco"), Pastrone interrompe la collaborazione con D'annunzio per girare questo film supervisionato da Verga (no per dire chi lavorava nel cinema italiano all'epoca)... Eppure la differenza non si vede, un ambiente ed un tema dannunziano tale che il vate non avrebbe potuto far diversamente.
Pastrone va sul sicuro ricorrendo di nuovo alla Menichelli nella parte principale (attrice lanciata in Italia proprio dal suo film precedente) della vamp mangiauomini. La Menichelli che Borelleggia più della Borelli con i suoi sguardi sempre in tralice, il mento sempre alzato, gli occhi supertruccati, la bocca bloccata in una smorfia, i capelli pettinati a gufo e le articolazioni del braccio sempre, costantemente piegate tutte insieme... beh è magnifica nel suo eccesso.
La regia decisamente più canonica del Kolossal del 1914 si concentra più nella costruzione degli spazi e negli arredi opulenti, si concede qualche immagine grandiosa solo nel rogo finale (con delle scene di una certa potenza) e si diletta nei movimenti di macchina (che in "Cabiria" erano all'ordine del giorno) solo in un paio di scena (anche se quello nel teatro, grazie alla prospettiva del palco in secondo piano ha un effetto potentissimo).
Il film decisamente più canonico del capolavoro precedente esiste solo nella versione per i paesi anglofoni; amanti dell'happy ending costringe la sceneggiatura al volo pindarico della guarigione miracolosa; la versione originale (molto più in linea con D'Annunzio) prevedeva una morte per tisi della Menichelli, da sola, abbandonata dall'amante respinto ormai fidanzato.
Etichette:
1916,
Dramma,
Febo Mari,
Film,
Giovanni Pastrone,
Muto,
Pina Menichelli,
Romantico
mercoledì 3 dicembre 2014
Wake in fright - Ted Kotcheff (1971)
(Id. AKA Outback)
Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.
Un insegnante assegnato in una cittadina persa nel nulla dell'outback australiano vuole tornare dalla sexy fidanzata a Sydney per le vacanze di Natale. Per tornare dovrà prendere un treno fino all'anonima cittadina di Bundanyabba, dove perderà tutti i suoi soldi in un insulso gioco d'azzardo (una forma minimamente più elaborata di testa o croce); per fortuna a Yabba tutti i cittadini sono sì dei campagnoli, ma sono anche molto cordiali, disponibili ad aiutare e a condividere... però l'outback australiano non è Buckingham palace; gli uomini passano il tempo a bere alcolici, andare a caccia di canguri e fare altre cose da maschi, mentre le donne si concedono random.
Detta così la storia sembra noiosa e patetica, eppure il film è spesso (ma a torto) considerato un horror. Perché la cittadina di Yabba, fatta di abitanti compagnoni è un girone infernale da cui è impossibile fuggire nonostante nessuno ti trattenga; tema caro ad un certo cinema horror (si veda "Il seme della follia"), qui però, l'ubriacatura, la mancanza di soldi e l'essere in mezzo al deserto sanno essere più determinanti di qualunque demonio. L'inferno dantesco è condotto da un Virgilio sui generis, un medico alcolista che si fa mantenere dalla comunità facendone parte, giudicandoli e giudicandosi, ma rimanendo comodamente nella propria nicchia da parassita e condividendo la ferocia insita nel sistema. Si perché la moralità del giovane insegnante sarà continuamente messa alla prova, dalla disponibilità sessuale, dalla mancanza di freni inibitori, dalla selvaggia carica omicida che viene dimostrata nella cruenta caccia ai canguri.
Il film è veramente eccezionale a trasmettere il senso di malattia morale che pervade quella che, a prima vista, sembra essere solo una comunità di persone semplici; riesce perfettamente a rendere il paradosso dell'impossibilità della fuga in una città con una stazione dei treni (senza bisogno di utilizzare mezzi sovrannaturali); lo spaesamento e la lenta discesa nella follia del protagonista sono seguiti passo a passo (il gesto estremo nel finale sarà assolutamente comprensibile) ed infine il personaggio del dottore interpretato da un luciferino Pleasence che sembra non aver mai fatto altro in vita sua che bere ed inquietare.
Film particolarissimo impossibile da incasellare (o lo si butta nel cestino della definizione Dramma o bisognerebbe coniare una definizione tipo "Persona a modo diventa matto in una cittadina normale che tutti potremmo incontrare a causa delle buone intenzioni dei suoi abitanti che vivono in una società più violenta del previsto, ah già, dalla cittadina non riesce a fuggire"). Merita, almeno, una visione.
PS: che poi questa è solo la storia, ma anche la regia è interessantissima, fotografata in colori caldissimi, splendida nel rendere questo un film polveroso e sudato, riesce anche a dare un continuo senso di movimento con una macchina da presa che continua a fare brevi carrellate quando non si impegna a girare in tondo ai personaggi; le scene di caccia infine sono autentiche (anche se le più cruente non sono state messe nel film), ma hanno il dinamismo di una realizzazione di fiction (se la caccia al canguro sembra troppo violenta, si veda come reagisce Chatwin quando segue un gruppo di aborigeni).
PPS: più bella la locandina in testa, ma la rielaborazione qui sotto contiene tutto il film.
Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.
Un insegnante assegnato in una cittadina persa nel nulla dell'outback australiano vuole tornare dalla sexy fidanzata a Sydney per le vacanze di Natale. Per tornare dovrà prendere un treno fino all'anonima cittadina di Bundanyabba, dove perderà tutti i suoi soldi in un insulso gioco d'azzardo (una forma minimamente più elaborata di testa o croce); per fortuna a Yabba tutti i cittadini sono sì dei campagnoli, ma sono anche molto cordiali, disponibili ad aiutare e a condividere... però l'outback australiano non è Buckingham palace; gli uomini passano il tempo a bere alcolici, andare a caccia di canguri e fare altre cose da maschi, mentre le donne si concedono random.
Detta così la storia sembra noiosa e patetica, eppure il film è spesso (ma a torto) considerato un horror. Perché la cittadina di Yabba, fatta di abitanti compagnoni è un girone infernale da cui è impossibile fuggire nonostante nessuno ti trattenga; tema caro ad un certo cinema horror (si veda "Il seme della follia"), qui però, l'ubriacatura, la mancanza di soldi e l'essere in mezzo al deserto sanno essere più determinanti di qualunque demonio. L'inferno dantesco è condotto da un Virgilio sui generis, un medico alcolista che si fa mantenere dalla comunità facendone parte, giudicandoli e giudicandosi, ma rimanendo comodamente nella propria nicchia da parassita e condividendo la ferocia insita nel sistema. Si perché la moralità del giovane insegnante sarà continuamente messa alla prova, dalla disponibilità sessuale, dalla mancanza di freni inibitori, dalla selvaggia carica omicida che viene dimostrata nella cruenta caccia ai canguri.
Il film è veramente eccezionale a trasmettere il senso di malattia morale che pervade quella che, a prima vista, sembra essere solo una comunità di persone semplici; riesce perfettamente a rendere il paradosso dell'impossibilità della fuga in una città con una stazione dei treni (senza bisogno di utilizzare mezzi sovrannaturali); lo spaesamento e la lenta discesa nella follia del protagonista sono seguiti passo a passo (il gesto estremo nel finale sarà assolutamente comprensibile) ed infine il personaggio del dottore interpretato da un luciferino Pleasence che sembra non aver mai fatto altro in vita sua che bere ed inquietare.
Film particolarissimo impossibile da incasellare (o lo si butta nel cestino della definizione Dramma o bisognerebbe coniare una definizione tipo "Persona a modo diventa matto in una cittadina normale che tutti potremmo incontrare a causa delle buone intenzioni dei suoi abitanti che vivono in una società più violenta del previsto, ah già, dalla cittadina non riesce a fuggire"). Merita, almeno, una visione.
PS: che poi questa è solo la storia, ma anche la regia è interessantissima, fotografata in colori caldissimi, splendida nel rendere questo un film polveroso e sudato, riesce anche a dare un continuo senso di movimento con una macchina da presa che continua a fare brevi carrellate quando non si impegna a girare in tondo ai personaggi; le scene di caccia infine sono autentiche (anche se le più cruente non sono state messe nel film), ma hanno il dinamismo di una realizzazione di fiction (se la caccia al canguro sembra troppo violenta, si veda come reagisce Chatwin quando segue un gruppo di aborigeni).
PPS: più bella la locandina in testa, ma la rielaborazione qui sotto contiene tutto il film.
Etichette:
1971,
Donald Pleasence,
Dramma,
Film,
John Meillon,
Ted Kotcheff
lunedì 1 dicembre 2014
Suicide club - Sion Sono (2001)
(Jisatsu sâkuru AKA Suicide circle)
Un'ondata di suicidi (spesso di gruppo) sta gettando Tokyo nel caos. La polizia viene indirizzata verso un sito dove si tiene il conto dei morti con anticipo sulla diffusione delle notizia; l'informatrice della polizia viene rapita da un buffo gruppo di punk giapponesi con un capo che tenta di imitare il Dr Frank'n'Furter, canta canzoni pop inneggianti alla morte e ha come quartier generale un bowling. Sgominata quella banda di scialbi disadattati il capo della polizia comincia a ricevere le telefonate di un bimbo con la tosse....
Film giapponese che comincia come un inquietante thriller con una scena iniziale con un suicidio in metropolitana di 54 studentesse; incipit epico e davvero ben condotto che padroneggia da dio i tempi, la suspense e pure lo splatter. C'è anche una scena con dei ragazzi che per gioco si incitano l'un 'altro a buttarsi dal tetto di una scuola che è anch'essa encomiabile per il lavoro visto il pugno nello stomaco che vorrebbe dare ( e che in parte dà). Detto questo il resto è un noioso casino.
Non c'è un finale comprensibile; cosa di per sé non fondamentale; ma punta tutto sull'allegoria/surrealismo ed ottiene di non far capire un cazzo, far irritare la gente e dare la sensazione di aver buttato via del tempo; l'idea di fondo inoltre non è neppure così potente da giustificare così come la regia di Sono che da sola non basta ad appassionarmi. L'intermezzo idiota con la band Frank'n'Furter poi non ha nessun motivo se non tentare d'acchiappare i favore di qualche darkettone che esce alla luce del sole solo per vedere i film di Burton.
Un'ondata di suicidi (spesso di gruppo) sta gettando Tokyo nel caos. La polizia viene indirizzata verso un sito dove si tiene il conto dei morti con anticipo sulla diffusione delle notizia; l'informatrice della polizia viene rapita da un buffo gruppo di punk giapponesi con un capo che tenta di imitare il Dr Frank'n'Furter, canta canzoni pop inneggianti alla morte e ha come quartier generale un bowling. Sgominata quella banda di scialbi disadattati il capo della polizia comincia a ricevere le telefonate di un bimbo con la tosse....
Film giapponese che comincia come un inquietante thriller con una scena iniziale con un suicidio in metropolitana di 54 studentesse; incipit epico e davvero ben condotto che padroneggia da dio i tempi, la suspense e pure lo splatter. C'è anche una scena con dei ragazzi che per gioco si incitano l'un 'altro a buttarsi dal tetto di una scuola che è anch'essa encomiabile per il lavoro visto il pugno nello stomaco che vorrebbe dare ( e che in parte dà). Detto questo il resto è un noioso casino.
Non c'è un finale comprensibile; cosa di per sé non fondamentale; ma punta tutto sull'allegoria/surrealismo ed ottiene di non far capire un cazzo, far irritare la gente e dare la sensazione di aver buttato via del tempo; l'idea di fondo inoltre non è neppure così potente da giustificare così come la regia di Sono che da sola non basta ad appassionarmi. L'intermezzo idiota con la band Frank'n'Furter poi non ha nessun motivo se non tentare d'acchiappare i favore di qualche darkettone che esce alla luce del sole solo per vedere i film di Burton.
Iscriviti a:
Post (Atom)