mercoledì 30 dicembre 2015

Cappello a cilindro - Mark Sandrich (1935)

(Top hat)

Visto in Dvx.

Un attore viene ingaggiato per una prima segretissima a Londra; li incontra una graziosa ragazza che però lo scambia per quello che in realtà è l'amico dell'attore e il produttore dello spettacolo, lei se ne innamora, ma pensando che sia sposato fugge a Venezia; li re incontrerà entrambi e per sfuggire nuovamente si sposerà con uno spasimante di vecchia data.

Commedia degli equivoci a 16 mani in salsa musicale. Difficile definirlo musical vero e proprio, ci sono in totale 2 o 3 canzoni con relativa scena di ballo. L'intreccio comico risulta solido e ben congegnato anche se senza guizzi d'originalità e, per una volta, da la possibilità a Horton di avere una parte decente come comprimario e non di rimanere relegato nelle retrovie. Purtroppo la versione italiana tarpa le ali a diverse gag (e trasforma lo stilista italiano Beddini in uno straniero qualunque dal nome di Bedinsky; al regime dell'epoca non andava a genio la caricatura fatta e la figura da perdente che ne usciva alla fine del film).
Fred Astaire come soggetto comico risulta molto versatile dato che il suo viso è un morphing inquietante tra Stan Laurel e Frank Sinatra.

Ovviamente l'asso nella manica è nella coppia di protagonisti (il motivo per cui ancora si ricorda questo film), che danno luogo a due o tre incontri di danza davvero notevoli, con un'eleganza e una grazia incredibili, senza mai mostrare segni di stanchezza o di difficoltà (qui è presente la notissima sequenza in cui Astaire canta "Cheek to cheek".
Effettivamente le sequenze di danza non sono sempre be congegnate (assurdo il duetto nel parco sotto la pioggia; talmente senza motivo da sembrare la parodia di Shirley Temple dei Simpson), ma le capacità dei due le rendono tutte degne di essere guardate.

Ultimo pregio è la ricostruzione di Venezia, un crogiuolo strepitosamente kitsch di mare balneabile, gondole, ponti giganteschi, piazze lucide per poter danzare e palazzi degni di Barbie. Un capolavoro di cattivo gusto che riesce a essere di per sé motivo d'interesse.

Un film divertente, scorrevole ed elegantissimo.

lunedì 28 dicembre 2015

Qualcosa di sinistro sta per accadere - Jack Clayton (1983)

(Something wicked this way comes)

Visto in Dvx.

In una cittadina americana arriva, con un treno notturno, uno strano circo, condotto da un eccentrico personaggio vestito di nero dall'evocativo nome di Mr. Dark. Gli abitanti della cittadina, piccole personcine con molti rimpianti e grandi desideri, cominciano a veder esaudite le loro richieste, ma tutto ha un prezzo. Quando la giovane coppia di protagonisti verrà beccata a spiare il dietro le quinte del circo, inizierà la ricerca da parte di Mr. Dark.

Noto per essere una delle prime produzioni della Disney di tema apertamente horror ( tecnicamente credo sia stata la seconda dopo "Gli occhi del parco", il film la Davis), ha in questa cvaratteristica l'unico motivo valido per vederlo; questo e il fatto che un bambino viene ghigliottinato (anche se fuori scena).
Tratto da un racconto (che non ho letto) di Bradbury (quindi buono a priori)  ha una plot base buono, non originalissimo oggigiorno, ma sempre adatto a dare una giusta cornice horror a un film per regazzini; si impegna anche un poco a creare l'atmosfera giusta (il senso di attesa della cittadina dove tutti si conoscono, un Pryce perfetto nei panni di Mr. Dark, un circo inquietante), ma cede completamente le armi in tutto quello che si trova oltre il minimo sindacale. Il soggetto c'è, manca la sceneggiatura.
Una serie di scene disgiunte, tenute insieme da un'incredibile mancanza di ritmo; sequenza scarsamente collegate in cui i personaggi fanno cose che sembrano non allineate con il resto della storia (o semplicemente fanno cose che realisticamente non dovrebbero fare); un villain ben costruito che per tutto il tempo si limita ad abbaiare a distanza senza mai mordere (le massime cattiverie che riesce a fare sono, strappare le pagine di un libro e vestire da donna un obeso); una noia devastante dalla metà in poi (a essere buoni).
Un film terribile.

venerdì 25 dicembre 2015

Senso - Luchino Visconti (1954)

(Id.)

Visto in tv.

Terza guerra d'indipendenza, Venezia. Una nobildonna sposata con un collaborazionista e cugina affezionata di uno dei promotori della rivolta anti-austrica si innamora di un graduato nemico. Le vicende storiche li costringeranno ad allontanarsi per riavvicinarsi continuamente, sempre più di nascosto, sempre più pericolosamente. La donna, dopo aver ricoperto d'oro il generale, scoprirà che lui è un menzognero, uno che sfrutta le donne per riceverne denaro e poi fuggire; lei lo raggiungerà a Verona e scoperto il misfatto (anche se lui soffre nel farla soffrire) lo denuncerà.

Filmone in costume realizzato con una tracotanza ed una pesantezza d'intenti impressionante.
Come ebbe a dire un critico il cui nome non mi verrà più in mente, il film inizia in un teatro (la Fenice) per non uscirne più. Di fatto il lungo melodramma ha la cadenza manierista ed eccessiva di un'opera lirica, la recitazione esagerata (soprattutto nelle scene d'amore disperato) è molto teatrale, i vestiti eccessivi, musiche classiche e le location enormi (Venezia, ville venete ed il borgo di Valeggio sul Mincio) sembrano essere state scelte perché potrebbe essere anche credibilissimi fondali disegnati. La recitazione, come già sottolineato, è schiacciata da tutto ciò e permette di vedere una Alida Valli molto eccessiva per tutto il film, con una ripresa nel finale, dove la disperazione viene resa (finalmente) in maniera credibile. Questo è un film baci mentre ci si afferra per i capelli, mani baciate, lacrime sulle ginocchia dell'amato...

In poche parole un film invecchiato; forse nato già vecchio (e attivamente voluto così), ma oggigiorno risulta fuori tempo massimo.

mercoledì 23 dicembre 2015

Frankenstein oltre le frontiere del tempo - Roger Corman (1990)

(Roger Corman's Frankenstein unbound)

Visto in Dvx.

Uno scienziato del futuro sta creando un'arma che distrugga le truppe senza danneggiare le strutture circostanti, per farlo vengono gettate in uno squarcio spaziotemporale; l'arma creerà un'apertura che risucchierà lo scienziato stesso e lo getterà nella Svizzera dell'ottocento dove coesistono i due Shelley, Byron e il vero Dr. Frankenstein. Lo scienziato verrà coinvolto nella creazione della compagna della creatura, ma lo squarcio li risucchierà nuovamente in un futuro ancora più distante.

Ultimo film di Corman, dopo vent'anni di inattività (beh alla regia... nella produzione non ha ancora smesso). Ovviamente sono incline ad apprezzarlo proprio per questo motivo.... tuttavia diciamo subito le cose come stanno, la creatura è bruttissima... molto molto molto brutta.
Corman si distingue soprattutto nella gestione dei tempi che, in una trama così caotica e raffazzonata (ma l'andamento della trama non è sempre il punto focale di un film di Corman, non è una condizione necessaria) riesce comunque a portare fuori il film con un unico momento di stanca nella parte finale della sequenza ottocentesca. Viene anche realizzata qualche sequenza splatter inaspettata che definirei di buon gusto (nell'ottica di un horror), senza essere esplosive.

Fantastica la coppia di protagonisti con un Hurt come sempre impeccabile e un Julia... beh, non perfetto, un pò troppo ridanciano e sopra le righe, ma è sempre un piacere vederlo sullo schermo.

Inoltre (ma forse questo è solo campanilismo) ho apprezzato la ricostruzione della Svizzera ottocentesca tra il lago di Como e il centro storico di Bergamo (per chi lo conosce è divertente vedere come venga accuratamente evitata la cappella Colleoni; forse troppo rappresentativa e fuori contesto o forse vincolata in qualche modo)
                                       
In definitiva è un film molto godibile con un buon cast in toto, ma sostanzialmente insignificante.

PS: applausi per la locandina, dopo decenni di Frankenstein non c'era molto da aggiungere.

lunedì 21 dicembre 2015

America oggi - Robert Altman (1993)

(Short cuts)

Visto in Dvx.

Nove storie indipendenti, una ventina di personaggi, uno spaccato di miriadi di vite che si intersecano, si intrecciano, si schivano, si influenzano; senza eventi eclatanti, senza twist plot spettacolari. Su tutto poi i rapporti di coppia, idiosincrasici e difficili, più estetici che di sostanza.
Altman prende da Carver tutto quello che riesce (non ho controllato, ma ho letto in giro che dovrebbero essere 9 racconti e una poesia; almeno sei di questi racconti li ho identificati come parte di "Vuoi star zitta per favore?"; in ogni caso per chi li volesse sono stati raccolti ad hoc) e costruisce un film che è la copia perfetta di "Nashville", migliaia di personaggi, centinai di eventi senza importanza che si accumulano, poi pochi secondi prima della fine uno showdown inaspettato e dirompente, che però non cambia praticamente nulla...
...però "Nashville" non mi è piaciuto affatto, mentre questo "America oggi" è splendido.
Il merito è sicuramente in parte di Carver, scrittore che non amo, ma che rispetto molto. Carver ha l'incredibile capacità di raccontare il nulla in maniera angosciante, rendere la vita di tutti i giorni un esperienza talvolta interessante, spesso terribile. Altman prende il Carver migliore e lo fa suo; lo mixa alla propria poetica della coralità e dell'apparenza riuscendo a dare ritmo e interesse a 3 ore di vicende di tutti i giorni creando una di quelle rare trasposizione cinematografiche efficaci.
In secondo luogo c'è Altman, ma un Altman più maturo, che non butta alla rinfusa i suoi personaggi per vedere cosa ne viene fuori lasciandone molti sullo sfondo; qui tutti hanno un peso, uno spazio, tutti convergono attivamente a creare il mondo in cui sono immersi. Inoltre la sua poetica delle apparenze riesce a essere impeccabile, senza gridare e senza avere scene apocalittiche, Altman riesce a dare il senso di un'inquietudine che è più efficace di molte scene madri.

Un film minimalista, scorrevole, efficace e rispettoso del materiale originale.

venerdì 18 dicembre 2015

Il bruto e la bella - Vincente Minnelli (1952)

(The bad and the beautiful)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

La storia di un produttore Hollywoodiano dalle origini al successo, il tutto in tre lunghi flashback di tre suoi ex amici che vengono chiamati ad aiutarlo dopo un tracollo finanziario. Si vedrà il genio, il pragmatismo e la faccia tosta nel tradire (sempre per pragmatismo) e nel passare sopra gli altrui sentimenti.

Titolo indecente (per una volta non è colpa degli italiani che si limitano a imitare quello originale) che non rende minimamente il film che dovrebbe rappresentare. Qui siamo dalle parti di un "Citizen Kane" nel mondo del cinema ritagliato su un Minnelli decisamente meno cinico e tracotante di un Welles.
L'incipit è dirimente nel capire il piglio del film; si apre con un abuso (in senso buono) di dolly (cifra di tutto il film), un personaggio odiato dai suoi amici che si negano al telefono e un incontro in piena notte che rievoca il passato (se a questo si aggiunge che il protagonista sacrificherà i sentimenti in favore del successo credo che il parallelismo con "Quarto potere" sia completo).
Il film si muove come un'opera sul ventennio cinematografico precedente con il protagonista che nel primo episodio cita direttamente Val Lewton (ovviamente affiancato dal suo Tourneur) con gli "uomini gatto" che si decide di non mostrare mai;  poi indubbiamente il protagonista diventa un Selznick, ritrovandosi a essere un arrogante titano che imporrà le sue idee ai registi (specie durante la lavorazione di un film ambientato nel sud degli stati uniti durante la guerra civile).

Al di là delle strizzatine d'occhio e dell'idea alla base il film funziona per il ritmo ben tenuto, per l'ironia continua e il divertimento evidente e giocando con le aspettative dello spettatore (il protagonista che riesce a produrre i primi film perdendo al poker anziché vincendo; i commenti sul film horror per lo più positivi tranne l'unico mostrato; la Turner gettata in piscina; ecc...), tuttavia riesce a mantenere un alone generale di amarezza per la fine della carriera che già si vede all'inizio e per i dettagli deprimenti nelle vite dei personaggi.

Ma pure il comparto tecnico è impeccabile; se del dolly come cifra base del film si è già detto, va anche sottolineato l'uso enfatizzato delle luci nelle scene dove più è necessario (si pensi anche solo all'ideazione del film degli uomini gatto); inoltre si aggiungono alcuni twist di vera classe come la bella scena dell'incidente in macchina tutta ripresa dall'interno dell'auto.

Infine il film si avvale di un cast di classe dove però un Kirk Douglas lasciato a briglia sciolta titaneggia divorandosi tutti, compresa Lana Turner.

Un film magnifico, una scoperta bellissima.

mercoledì 16 dicembre 2015

Hellraiser: deader - Rick Bota (2005)

(Id.)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Una giornalista viene mandata a Bucarest per indagare su una setta religiosa che costringe i suoi adepti a suicidarsi... il punto è che dopo il suicidio il guru riesce a riportarli in vita... Ovviamente in questa cosa saranno coinvolti anche la scatola di Lemarchand e i Cenobiti.

Nuovo capitolo a basso costo direct to video di una delle saghe horror più fortunate (perché non merita tutta la fama che ha); nuovo capitolo diretto dal parvenu mestierante dell'horror Rick Bota; nuovo capitolo con una sceneggiatura pensata per un film indipendente a cui sono stati attaccati a forza Pinhead e compagni. Insomma, si ricalca quanto fatto con il precedente "Hellseeker" (che a conti fatti, era un brutto film, ma decisamente ancora nella scia positiva, pur se tendente all'insipido e all'incasinato. Curiosamente entrambi i difetti esploderanno in questo settimo capitolo.

Bon, cominciamo dai pregi. Bota ha molte buone idee; sfruttare scene molto illuminate, ma desolate, per creare suspense senza sfruttare l'eterna paura del buio; la scena dei muri che si stringono e pieni di insetti; l'idea iniziale che mette la giornalista sulle tracce del guru; l'ambientazione europea, ma fuori dai percorsi canonici (va ammesso però che la scelta della Romania è stata presa per motivi economici). Le idee ci sono, purtroppo mancano le capacità. La cornice Rumena è sfruttata malissimo (anzi è proprio sprecata); i vari momenti di suspense (vera e propria) sono pochi e soprattutto nella prima parte; Bota ha una macchina da presa molto mobile (cosa buona), ma la usa a sproposito (cosa cattiva), i finti VHS in bianco e nero hanno tanti di quei tagli di montaggio che sembrano più professionali di un film di Kevin Smith.
inoltre i Cenobiti sono incollati così raramente a una storia praticamente indipendnete che anche il concetto di franchising comincia a scricchiolare (sul serio, Pinhead comparirà in 3 scene in croce); ritorna vagamente l'idea di dolore e piacere, ma in maniere abbastanza blanda e confusa da essere ininfluente nella storia; infine c'è un enorme (enorme) problema di casting con una protagonista vagamente irritante e un antagonista  (il santone della setta dei deader) che ha la faccia come il guru (erano anni che volevo usare questa frase in un contesto corretto), insipido e fuori luogo in ogni momento.

lunedì 14 dicembre 2015

L'ottava moglie di Barbablù - Ernst Lubitsch (1938)

(Bluebeard's eighth wife)

Registrato dalla tv.

Un ricco americano che si trova a Monaco si innamora di una ragazza conosciuta per caso in un negozio di pigiami, le chiederà rapidamente di sposarla e lei acconsentirà per amore, ma anche per interesse (del padre). Poco prima delle nozze scoprirà di essere solo l'ultima di altri sette matrimoni e credendo l'uomo inaffidabile decide di lasciarlo.

Commedia dei sessi di un Lubitsch in grande spolvero aiutato (nella sceneggiatura) da un ottimo Wilder. Il bello di Lubitsch è che quando si trova a suo agio non è detto che faccia un film perfetto, ma azzecca delle sequenze magnifiche anche in film che nel complesso sono solo passabili (come "La vedova allegra", film che ho abbastanza odiato, ma con molte idea imperdibili); in questo caso vince la palma d'oro l'incipit, con i due protagonisti che si incontrano per una delle idee più cretine in assoluto, il fatto che Cooper non voglia comprare i pantaloni del pigiama; inoltre questa sequenza dà il là ai commessi che salgono a chiedere numi ai dirigenti, andando, fisicamente, sempre più in alto.
Da sottolineare anche una macchina da presa abbastanza libera, con carrellate laterali o a inseguire, per continuare a inquadrare i personaggi anche mentre salgono le scale... Ma in un film del genere, la macchina da presa passa in secondo piano. Forse è più corretto sottolineare lo scoppiettio dei dialoghi (che sia merito, anche, di Wilder?) e la perfezione nei cambi di tono improvvisi; inoltre va sottolineato che, nonostante sia una commedia fra i sessi, c'è rimasta abbastanza maestria per rendere gustosi anche i dialoghi fra uomini (soprattutto Cooper con Niven e con Horton).

                                              

venerdì 11 dicembre 2015

Hausu - Nobuhiko Ôbayashi (1977)

(Id.)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Un gruppo di ragazze decide di passare le vacanze a casa di una parente della madre (morta da tempo) di una di loro. Inizialmente tutto sembra andare per il meglio con una gita in cmapagna di un gruppo di giapponesine (quindi regazzine entusiaste anche di fare i mestieri in casa al posto della donna paralitica), però iniziano a scomparire una dopo l'altra, mentre la più fantasiosa di loro sembra avere elle allucinazioni in cui vede teste volanti che le mordono il sedere.

Film giapponese che rappresenta la punta di diamante dell'impossibilità di classificazione. Oggetto strano parte come una commediola kawai adolescienziale, vagamente sentimentale, passa poi all'horror con punte splatter notevoli con immersioni in ambienti action e tanta comicità di dubbio gusto.
Ma quello che più sconvolge è come il tutto stia perfettamente unito insieme senza soluzione di continuità e ben rappresentato da un'estetica al limite dello schizofrenico.ù
Si perché quello che vince è un gusto estetico kitsch unito a una regia perfettamente consapevole di ciò che fa (e molto competente). Per capirci siamo dalle parti de "Le lacrime della tigre nera", ma con molte più capacità, molta più autoironia e molta più fantasia.

Una libertà formale estrema e molto cazzara, fatta di stilemi semplici ed esagerati con il tono paradossale di un cartone animato. C'è di tutto, mascherine, dissolvenze di una scena in un'altra, cieli e fondali finti e chiassosi, decorazioni degli interni esagerate, fermi immagine, musiche enfatiche (quelle dell'inizio sono piuttosto fastidiose e dal volume troppo alto), luci alla Sirk e viraggi di colore e giochi di montaggio mai visti (l'incipit mostra una riquadro centrale dello schermo virato in bianco e nero con una ragazza con un velo in testa e circondata di candele, la porzione attorno a questo riquadro è l'intenro di una classe che non si incastra con l'inquadratura centrale; poi il dettaglio al centro si muove verso sinistra finché non si sovrappone con il riquadro per poi continuare come un'unica inquadratura... difficile da spiegare, va visto); nel mezzo ci sono personaggi con nomi che caratterizzano il personaggio come nei 7 nani o nella spice girls (le protagoniste si chiamano Fantasy, Melody, Gorgeus, Prof, Sweet, Kung fu e Mac), sequenza fatte in stop motion e un finto film muto che serve a mostrare la storia di famiglia raccontata da una di loro con le amiche che fanno commenti in sovrapposizione.
Ci sono così tante idee messe sul fuoco (molte delle quali splendidamente cazzare) che è difficile ricordarle tutte.
bastino le prime scene. L'incipit è quello descritto sopra, poi cambio di scena e si assiste a un dialogo ripreso con un piccolo piano sequenza fatto da un lungo carrello posteriore; poi cambio di scena con un intermezzo da videoclip con molte mascherine, quindi nuovo cambio di scena si è a casa della protagonista sul balcone, un cielo di fuoco dipinto sullo sfondo, viene presentata la nuova compagna del padre che cammina al rallentatore con il vento che le muove costantemente il foulard.

Si concede inoltre quadretti decisamente più idioti con giochi con i suoni delle parole (la sequenza della ragazza che parla della testa decapitata nel pozzo), gag imbarazzanti (l'incidente di Mr. Togo che è degno di Mr. Bean, con l'insegnante che va all'ospedale per farsi togliere il sedere incastrato nel secchio; mentre nelle immagini prima ci sono alcuni personaggi che si muovono a ritmo di musica e si chiamano fra loro con il nome della professione).

In tutto questo, come già detto, ma è bene sottolinearlo, c'è dell'horror, con una casa infestata, presenze maligne, cannibalismo evidente. Ci sono morti continue, fontane di sangue e qualche buon momento splatter.

indubbiamente questa è una prova di forza più che un film in sé, ma è encomiabile come sia perfettamente bilanciato; si lascia andare solo nell'incasinato finale, dove la confusione (e la voglia di strafare) affossa il ritmo e lo rende piuttosto noioso.

Che possa piacere o meno, questo è uno dei pochi film che bisogna vedere, tutto quanto scritto non rende assolutamente quello che si avrà davanti agli occhi.

mercoledì 9 dicembre 2015

Metropolis - Fritz Lang (1927)

(Id.)

Visto al cinema.

In un futuro dove le forze lavoro sono oppresse dalla catena di montaggio e ritmi forsennati, nelle catacombe una ragazza carismatica li motiva a cercare un futuro migliore; intanto il figlio del padrone di tutto scende anche lui nelle viscere e rimane affascinato dalla ragazza. Il padre però decide di disinnescare il potenziale pericolo sfruttando un automa appena inventato, gli fa mettere addosso le fattezze della ragazza e la getta a creare il caos nei bassifondi. La rivolta incalza, ma l'azione violenta sarà controproducente per i lavoratori.

Di "Metropolis" chiunque ha già detto tutto; dall'estetica che influenzerà quasi ogni film di fantascienza fino ai giorni nostri, alla lungimiranza nel cogliere alcuni fenomeni sociali del recente futuro (per loro).

Quello che colpisce rivendendolo oggi è che, nonostante il fatto che sia un capolavoro, la trama è piuttosto raffazzonata, specie nella prima parte. Detto ciò va sottolineato che è un film dal budget enorme, dalle tendenze bankable anche prima della sua uscita e dalla durata importante, ricco di effetti speciali; in poche parole è un blockbuster, e proprio come oggi, la trama non è il primo degli obiettivi, anche se la manona di Lang permette di veicolare qualunque messaggio.

Detto ciò il comparto tecnico è ancora oggi impeccabile. I fondali sono magnifici, evidentemente ispirati alla New York dell'epoca (che era la vera metropoli del futuro tra gli anni '20 e i '30); scenografie titaniche sfruttate tantissimo con ampie scene in esterni, corse per le strade (futuristiche) colluttazioni sui tetti della cattedrale e lunghe scene nel sottosuolo.
Gli effetti speciali non sono molti, ma sono magnifici; sarebbero dignitosi in un film attuale, figuriamoci alla prova del tempo.
Infine non va dimenticato che c'è Lang dietro la macchina da presa... e non si può dimenticare. Uso delle luci magnifico, montaggio ben ragionato, scene costruite sempre con uno sviluppo simmetrico (anche quando vengono utilizzati singoli oggetti asimmetrici) e addirittura qualche movimento di macchina sempre incisivi (per lo più carrelli, ma anche qualche movimento laterale e addirittura una macchina a mano che insegue un personaggio). Sono bellissime e assolutamente riutilizzabili fin da subito in un film moderno la strepitosa scena dell'inseguimento di Maria nelle catacombe (con un gioco di luce e buio perfetto, movimenti di macchina e un montaggio da urlo che riesce tuttora a dare tensione); inoltre la scena onirica del protagonista malato mentre la falsa Maria balla è un gioco di montaggio (di nuovo) magnifico, che da un ritmo impeccabile e una costruzione delle scene anche con suture di dettagli e primi piani. Applausi.
Regia modernissima che riesce a dare ritmo a un film muto di due ore e mezzo... ho già detto applausi?

Ovviamente questa era la copia restaurata con l'aggiunta delle scene trovate in Argentina qualche anno fa. Le scene aggiunte sono alcuni riempitivi che probabilmente tolte per snellire il minutaggio, più una sequenza in taxi e quasi tutte le scene ambientante nell'appartamento di Josaphat (manca ancora la colluttazione fra il padre del protagonista e l'inventore). Se fa piacere rivedere un'opera di questa entità quasi completo, bisogna però ammettere che il reintegro di queste nuove porzioni non aggiunge nulla al film in sé.

lunedì 7 dicembre 2015

Crimson Peak - Guillermo Del Toro (2015)

(Id.)

Visto al cinema

Per la trama vedere qui.

La prima cosa che va detta è che questo non è un horror. Non fa mai davvero pura, ma neppure la vuole fare, siamo più dalle parti del thriller in un ambiente gotico, siamo più dalle parti del melodramma vagamente hitchcockiano (dove per vagamente intendo che grida Rebecca a ogni inquadratura).
La scelta è da una parte in linea con il Del Toro che conosciamo ("Il labirinto del fauno" non era un horror, sfruttava solo quell'immaginario weird fantasy), mentre dall'altra è un'operazione che io condivido sempre, perché dimostra che l'horror non è solo il genere più maltrattato del mondo, ma è uno stile applicabile anche a storie diverse.
Inoltre l'idea alla base del film, quella dei fantasmi come allegorie del passato (urlata all'inizio del film e giustificata con la chiusa dei titoli di coda) anche quella rimane in linea con il pensiero standard di Del Toro. In tutti i suoi film il sovrannaturale vive in un mondo parallelo al nostro e le sue ingerenze non sono determinanti per le nostre vite, ma cercano di aiutare o rallentare a seconda dei punti di vista.
Inoltre, sempre in linea con le capacità già note del regista, c'è la tendenza a creare immagini in maniera preponderante rispetto alla capacità di creare una storia. Anche qui mi trovo d'accordo con Del Toro, e non posso fare a meno di sforzarmi notevolmente per cercare di ricordare nel dettaglio la trama del già citato "Labirinto del fauno", mentre molte delle creature e delle immagini di quel film sono diventanti punti di riferimento culturale, anche se non fondamentali per la trama stessa (su tutte l'ovvio creatura con gli occhi sui palmi delle mani). E poi siamo sinceri, quando mai la trama di uno qualsiasi dei film horror di Bava (quindi tolgo fin d'ora dal conto "Cani arrabbiati") è determinante per la qualità dell'opera?

Quello che qui viene aggiunto, invece, è un'idea di mondo in linea con il miglior Tim Burton (anche se sembra realizzata dal kitschissimo Burton contemporaneo), come in molti (tutti?) hanno già avuto modo di sottolineare. Un mondo dove le creature esteticamente terribili (gli outsider di una società illuminista) non sono malvagie, ma aiutano i buoni; e dove i nobili affascinanti nascondono segreti incestuosi e terribili. Un concetto non in linea con Del Toro che però non appesantisce. La realizzazione estetica è barocca e oppressiva come nel Burton moderno, ma si salva per un uso accortissimo dei dettagli e dei colori (quelli si, chiassosi e presi pesantemente da Bava, ma lavorati da uno che sa giocare benissimo con le immagini; e questo vale in sé un intero film).
Infine la realizzazione barocca si slava per il non insignificante dettaglio della casa. La dimora inglese isolata e "viva" che faccia da personaggio a sé è un'idea abusata come poche altre... tuttavia qui è forse l'idea principale, anzi l'idea migliore mai avuta da Del Toro. Sfruttando tutti i cliché sull'argomento, raggruppandoli e utilizzandoli alla meglio crea qualcosa di enorme. Un edifico metaforico e reale allo stesso tempo; enorme e possente come il casato di un tempo, ma costantemente marcescente, rovinato dall'incuria e dal tempo atmosferico (i cui strali non riesce a tenere fuori dalle sue mura dato il tetto sfondato), piena di fantasmi del passato, di rumori e scricchiolii, respiri e ansiti già condannata al lento sprofondare nella terra e talmente pregna di eventi negativi da trasudare melma rossa dalle assi dei pavimenti o dalle tubature (la casa stessa che sanguina). Niente di nuovo, ma tutto giostrato da dio e con il dettaglio della terra rossa che rappresenta l'ideale salvezza e il denominatore comune di tutta la vicenda.

In definitiva un film che nel comparto visivo (dove più ci si aspetta qualcosa da Del Toro) funziona perfettamente.
La storia banale e un pò troppo enfatica per me non rappresenta un vero problema. Il problema, casomai, è nella gestione dei tempi, un ritmo mai sostenuto (ma anche mai mollato del tutto) che aiuta a introdurre, ma non accelera quando dovrebbe e un climax che sembra sempre stare per arrivare da qualche parte per poi disattendere le aspettative. Questi sono i veri problemi con cui un film di questa portata deve fare i conti e, innegabilmente, soccombe.

venerdì 4 dicembre 2015

The visit - M. Night Shymalan (2015)

(Id.)

Visto al cinema.

Una coppia di regazzini vanno a trovare i nonni per la prima volta in vita loro (dietro c'è una brutta storia di dissidi e rancori) per permettere alla madre di andarsene in vacanza con il nuovo toyboy.
Nella casa dei nonni tutto procede noiosamente bene, finché non cala la notte... cominciano quindi strani divieti e inquietanti rumori.

Io sono un appassionato nemico di Shymalan; amo talmente tanto odiarlo da andare al cinema a vedere i suoi film ogni volta che posso, ma da "The last airbender" avevo deciso che basta così; era andato talmente oltre che ormai tutti l'avrebbero preso a pernacchie e non c'era bisogno del mio disprezzo. Questa volta però è diverso; per la prima volta dal 1999 ho letto una recensione positiva! Giuro è stato un colpo.

Da sempre tutti noi sosteniamo che Shymalan sarebbe un buon regista (concreto nella gestione degli spazi e degli attori, perfetto nella messa in scena e maniacale nella fotografia), purtroppo come sceneggiatore fa abbastanza cagare il cazzo (per dirla in francese, non è capace).
Qui però, miracolosamente (is the new grazie al produttore) sembra funzionare.
La storia è impeccabile; si percepisce fin da subito che qualcosa non funziona, ma non si riesce a capire cosa; le prove si accumulano, ma vengono tutte irrimediabilmente disinnescate (arrivando molte volte a ritenere che l'orrore sia insito nella vecchiaia come non succedeva dai tempi di Whale). Ma perché funziona così bene? perché Shymalan conosce perfettamente i cliché del genere e li sfrutta per creare aspettative enormi, generare tensione e poi concludere il tutto con un nulla di fatto che non lascia l'amaro in bocca, anzi, genera maggiori aspettative su quanto avverrà dopo (incredibile quanti dettagli vengano distribuiti durante il film che vengono tutti giustificati alla fine, ma che a conti fatti non sono nulla). Incredibile quanta maestria dimostri nel costruire scene horror come non se ne vedevano da anni; l'inseguimento, in pieno giorno, sotto la casa (e il modo semplice e banale con cui conclude) sono qualcosa di notevole.

Da sempre poi, sono nemico giurato del found footage. Solitamente non aggiunge nulla, non arricchisce il discorso, toglie la sospensione dell'incredulità (found footage con un montaggio ottimale o con le inquadrature sempre precise o con una fotografia pazzesca) e rende il film meno godibile (noia, macchina a mano che fa venire il mal di mare). Qua il found footage funziona, perché giustifica tutto. La regazzina vuole girare un documentario sulla sua famiglia, dunque cerca l'inquadratura ottimale, la mise en scene perfetta e la camera fissa il più possibile. In più questa tecnica concede a Shymalan di aumentare la tensione con i fuori fuoco, con ciò che succede alle spalle e con la famosa macchina a mal di mare.
Il finale nella camera buia è un concentrato di J-horror, "REC" e "The Blair witch project" (che è anche apertamente citato poco prima); un insieme che genera la migliore scena del film con una tensione invidiabile. Se ci si aggiunge che tutto questo succede in un film in cui tutto fa, fin da subito, riferimento al sovrannaturale, inteso come fiabesco.... beh applausi.

Due sono i dettagli che vanno comunque sottolineati.
Il primo è l'ironia. Il film è costellato da continui riferimenti inquietanti, ma descritti in maniera ironica, a volte quasi ridicola... se da una parte questo sembra essere un preciso piano e, quando funzionano, sono una stella in più da appuntare al petto del regista, spesso però eliminano parte della tensione (poi per carità, ero al cinema con una mandria di adolescentelli, che continuavano a fare battute, alcune anche molto calzanti, ricordandomi perché dentro la sala odio tutte le persone che non sono io).
Il secondo dettaglio è il twist plot finale. Si c'è; è ovvio, questo è un film di Shymalan. Tuttavia funziona; è efficace, coerente con quanto successo prima, spiega completamente gli avvenimenti, getta nuove domande, aumenta l'inquietudine anziché diminuirla e non manda tutto in vacca.

Ci sono altri piccoli difetti, i dettagli inutili seminati in giro per dare spessore come la fobia dei germi; tuttavia stavolta, davvero, bravo Shymalan.

PS: oltre al rischio risata, il problema più grosso è tutto una questione italiana (credo e spero). Ci sono tre rap improvvisati dal regazzino dentro al film... posso immaginare che neppure in inglese siano dei poemi incredibili visto che vengono fatti da un 13enne, ma in italiano sembrano pensati da una scimmia bonobo con scarsi mezzi linguistici e una ancor minima capacità di comprensione su concetti come "rima" o "metrica". Non c'era bisogno di Tupac, ma almeno un misero Moreno potevano ascoltarlo prima.

mercoledì 2 dicembre 2015

La fuga di Logan - Michael Anderson (1976)

(Logan's run)

Visto in Dvx.

Un futuro postapocalittico, una città coperta dove tutto è organizzato dalle macchine (in definitiva un computer), tutti vivono comodamente, ma c'è un limite, raggiunti i trentanni devono consegnarsi al Carousel, una cerimonia dove vengono (buffamente) uccisi per esplosione nell'aria... Uno dei guardiani (si ci sono dei guardiani che ti uccidono se tenti di fuggire o se ti rifiuti di partecipare al Carousel) viene incaricato di sabotare l'unica organizzazione che finora è riuscita a far fuggire delle persone, dovrà fingere di essere uno di loro, scappare dai colleghi senza poterli avvertire e raggiungere il luogo dove vivono fuori dalla città. Ovviamente riuscirà a scappare, ma quello che troverà una volta fuori non sarà quanto era previsto dal computer centrale.

Un'action fantascientifico con la tipica estetica futuristica molto anni ’70, costumi molto brutti (rielaborazione colorfull dei peplum), ma scenografie molto buone (invecchiate è vero, abbastanza brutalista è vero, però buone) tutte tese a rendere sterile e perfetto l'interno artificiale. Gli effetti speciali risultano un pò datati quando vengono utilizzati a pieno regime, ma ancora sono ancora apprezzabili (quelli di bassa lega d’oggigiorno sono allo stesso livello, quindi per chi è anche solo minimamente avvezzo a syfy non può storcere il naso).
Come comparto estetico quindi direi che il film riesce ancora a essere all'altezza di un pubblico moderno... certo bisogna dimenticare uno dei più brutti robot della storia del cinema, ridicolo oltre ogni dire (e non voglio credere che fosse accettabile neanche all'epoca) e poi bisogna anche tollerare un Michael York come protagonista, ma accettati questi due nei, ci siamo. A stemperare c'è una comparsata di Ustinov nella parte del vecchio pazzo che è un piacere (la sua parte è da vedere in lingua originale se possibile).

Quello che manca è il mordente della storia. L'idea di base, seppure un pò abusata, avrebbe il tono e la cadenza giusta (una delle guardie, costretta dal sistema a fingersi ribelle, fugge, non trova ciò per cui era stato assoldato, non ha alternative e torna; potrebbe essere un dramma degno di Ken il guerriero). Invece si incanta nella descrizione di quel mondo, si incarta nella fuga senza fine, si concede troppo tempo nel mostrare i capisaldi dell'americanità (oltre all'americocentrismo questa parte difetta anche di ritmo) e infine conclude il tutto con un improbabile happy ending (mentre avrebbe potuto virare per un finale oscuro e orwelliano).

PS: no dai, il povero York mi sta anche simpatico, ma ha una faccia facciosa che spesso mi sospende la sospensione dell'incredulità... e poi lo confondo con Ryan O'Neal che invece non sa recitare, vabbé son tutti problemi miei.

lunedì 30 novembre 2015

La tela animata - Jean-François Laguionie (2011)

(Le tableau)

Visto in Dvx.

In un quadro c'è differenza di casta in base al grado di completezza; ci sono i completi, gli incompleti e gli schizzi. Ovviamente c'è un amore impossibile fra un completo e un'incompleta. L'innamorato fuggirà dal quadro per cercare il pittore per fargli finire il lavoro; se ne andrà con uno schizzo finito con lui per caso e un'incompleta (che non è la sua amata).

Storiella canonica che potrebbe (e vorrebbe) essere poetica e fantasiosa. Per un breve momento riesce quasi ad esserlo, ma si incarta presto nella fuga da un quadro all'altro (anzi dentro un unico quadro di Venezia) e si perde nella banalità. Carina solo l'idea dell'autore deificato (di fatto è una storia d'amore con ricerca di Dio sotto mentite spoglie) e simpatiche le citazioni pittoriche (il pittore che sembra Monet, dipinge come Picasso e c'è almeno una scena francamente dechirichiana),

Realizzato con una tecnica d'animazione mista (molto computer) tutto sommato ben realizzata che sfrutta la bidimensionalità quando serve e realizza 3D molto buoni quando necessario (e poi si aggiunge anche una scena in live action).

In definitiva è una robetta, piacevole e ben realizzato, ma sempre una robetta.      

venerdì 27 novembre 2015

Anna Karenina - Joe Wright (2012)

(Id.)

Visto in Dvx.

la storia di Anna Karenina è più o meno nota... comunque; una brava madre di famiglia russa si innamora di un giovine militare, si fanno duro, poi il marito di lei lo scopre, solo che (per amor di figlia e perché è un santo e per evitare uno scandalo) lui ci passa sopra, lei è scossa per il senso di colpa e perché il nuovo amore finisce rapidamente... e pure lei finisce rapidamente.

Anche qui un film muscolare dal punto di vista della regia. Wright sa che tutti quello che guardano il film sanno come finisce, quindi anziché girarci intorno e fare finta che sia un colpo di scena, trasforma lo spoiler in un punto di forza; prende il treno e lo usa come un'immagine che perseguita la protagonista fin dall'inizio (visivamente e a livello uditivo).
L'altra idea (più folle e immotivata) è di ambientare quasi tutto dentro un teatro (tra cui il ballo! la pista di pattinaggio!! e la corsa dei cavalli con relativo incidente!!!) con fondali dipinti, scenografie mobili, comparse che interpretano più parti cambiandosi di vestito in scena, trucchi teatrali mostrati e sfruttati (come i camminamenti al piano superiore usati come fossero le stanze di una casa) e l'occhio di bue a sottolineare i personaggi. Il senso non è diretto, ma rende più rapide le scene, può dare libero sfogo ai suoi amati piani sequenza e per dare un risalto pazzesco alle scene in esterni (oltre al fatto che realizzato così è figo).
Il ritmo, come dicevo, è sostenutissimo e da il meglio di sé nelle danze (quelle vere, come il valzer rielaborato come un ballo di mani, o quelle improprie, come la vestizione dell’incipit o i burocrati che timbrano fogli), eppoi c’è il solito uso grandioso dei suoni come mezzo principe per veicolare concetti (il suono del treno) o per creare l’atmosfera (le musiche fatte con i suoni del lavoro).
Oltre a tutto ciò c'è una sequela di scelte estetiche enorme, dai colori all'immobilità delle comparse in certe scene, il gioco con i cubi con le lettere.

Probabilmente l'adattamento migliore di sempre del romanzo di Tolstoj.

PS: c'è un personaggio che è uguale a Nero.

PPS: l'ho già detto che ha immagini bellissime?

mercoledì 25 novembre 2015

Il segreto dei suoi occhi - Billy Ray (2015)

(Secret in their eyes)

Visto al cinema.

Un omicidio, un agente dell'antiterrorismo che, per motivi personali, si mette a indagare; a distanza di 13 anni sembra avere (finalmente) scoperto qualcosa, cerca di riaprire il caso grazie all'aiuto della sua ex fiamma (quasi mai dichiarata) riaprendo vecchie ferite.

Questo film è, ovviamente, il remake americano, dell'omonima opera argentina. Al netto delle differenze di trama (molto semplificata in questo caso, eliminando alcuni personaggi tra cui il bellissimo collega alcolista e riducendo la vicenda a un doppio inseguimento, uno nel passato e uno nel futuro) l'operazione è interessante, perché prende una vicenda blandamente legata alla storia della dittatura argentina e la attualizza sostituendo la dittatura con l'ossessione per il terrorismo post 11 settembre.

Più che la semplificazione della storia (che almeno nella seconda parte sembra modificarsi per poter ottenere l'effetto finale simile a quello del film originale anche per chi già conosce la storia) quello che qui fa scadere il film al rango di un mediocre thriller è tutta la sottigliezza di sceneggiatura e di regia (per le qual cose si può incolpare sempre Billy Ray).
Semplificando la vicenda vengono semplificati anche i rapporti tra i personaggi; l'attrazione corrisposta, ma ami dichiarata, fra i protagonisti è esplicitata innumerevoli volte senza riuscire a raggiungere le vette del precedente; viene ance cassata la scena madre del treno, ma a voce alta tutti dicono continuamente dell'amore tra i due. Cambiando il rapporto con la vittima, la magnifica ossessione del protagonista del film ispanico (ossessione legata alla vicinanza con l'innamorata e a fattori indiretti) non viene sfruttata (e sarebbe stato magnifico vedere un protagonista ossessivo in un ambiente paranoico come il post 11 settembre) e si riduce tutto a una sorta di vendetta quasi personale.
Infine la regia si adagia. Non si pretendono i forzati virtuosismi del primo film, ma qui proprio manca tensione quasi in ogni scena e manca completamente il ritmo, riuscendo con successo a costruire qualcosa giusto nel breve inseguimento al galoppatoio.

Il cast all star non rende assolutamente; la Roberts si salva solo per la consuzione che le si vede sul volto e per il dono fattole di interpretare tutte le scene madri, Ejiofor è bravo, ma naviga nella media, la Kidman toglie ogni sottigliezza al personaggio e non riesce minimamente a ricordarmi perché l'ammiravo così tanto.

Un film che perdendo tutto il fascino dell'originale non riesce comunque a competere dal punto di vista del thriller, diventando uno dei tanti prodotti che presto si dimenticheranno.

lunedì 23 novembre 2015

All'ovest niente di nuovo - Lewis Milestone (1930)

(All quiet on the western front)

Visto in Dvx.

Ovviamente tratto da Remarque, quindi la storia della prima guerra mondiale vista dagli occhi di un adolescente tedesco convinto ad arruolarsi volontario.

C’è stato un periodo a cavallo fra gli anni ’20 e 30, a cavallo fra muto e sonoro, che massacrò diversi registi, ma chi riuscì a sopravvivere creò alcune delle opere più interessanti di sempre. Anche qui vi sono scene da vero e proprio film muto (il ragazzo che si presenta alla madre in divisa o il passaggio degli stivali da un militare all’altro) e un uso emotivo del sonoro (il bombardamento durante l’attacco alla trincea); primi e primissimi piani bellissimi degni di un Dreyer (ok, non esageriamo, sono poco un poco più insipidi) e un uso del montaggio molto vivace.
Un film enorme, che con la regia riesce a rendere l'intero mood del libro originale anche più della sceneggiatura. Incipit bellissimo, con i soldati in marcia sempre sullo sfondo (ci sono grandissime scene/affresco con moltissimi piani) mentre in primo piano la gente comune in piena euforia sceglie di arruolarsi; dopo pochi minuti arriverà la guerra vera.

Bellissima, anche, la scena dell’attacco alla trincea, molto coinvolgente dove il sonoro (usato splendidamente) è fatto solo dalle esplosioni dei bombardamenti e vi sono lunghe carrellate sulla trincee (come in molti film di guerra… beh almeno delle guerre di trincea appunto). Unica scena poco risucita, poco empatica, è l’assassinio dentro la buca, dove il dramma non viene quasi per nulla trasmesso. Però poi si conclude con una scena bellissima, che in un altro film sarebbe stata stucchevole.
Detto ciò questa rimane una delle trasposizioni cinematografiche meglio riuscite e, ripeto, per lo più grazie all'uso intelligente dei movimenti di macchina da presa e del sonoro.

Inoltre un film del genere con i tedeschi buonini non lo avrebbero più potuto fare per qualche decennio...

PS: la versione che ho visto è quella ridotta con mezzora in meno.

venerdì 20 novembre 2015

Bronco Billy - Clint Eastwood (1980)

(Id.)

Visto in tv.

Il capo di un circo itinerante di tema western cerca una nuova partner che lo affianchi nel fare da bersaglio nei suoi giochi con le pistole; molte defezioni dopo incontrerà una ricca supponente stronza appena sposata per interesse reciproco che si trova momentaneamente abbandonata dal marito senza soldi. Ovvio che la convivenza inizialmente sarà molto difficile, ma poi conoscendosi si innamoreranno.

Che dire... questo film viene spesso considerato un secondario nella lunga filmografia di Eastwood... Beh è davvero un secondario, molto secondario.
Di fatto un film banale che si muove con il ritmo giusto nel delineare la solita commedia romantica all'amerigana. Non sbaglia niente Eastwood, un protagonista simpatico, un ritmo buono, buoni sentimenti a uso ridere...
Quello che manca è il mordente; è la presenza di uno spettacolo accettabile quando vengono mostrate le giocolerie del circo; è quel tocco alla Eastwood a cui ci si è abituati.
Unici (minimi) motivi d'interesse è il continuo sottolineare la morte del western tenuto in piedi artificialmente da uno spettacolo che ormai nessuno guarda più (si insomma, Eastwood che parla del genere a cui è tanto legato); eppoi c'è la (più) famosa idea del tendone fatto con delle bandiera americane cucite insieme dagli ospiti di un manicomio...
Evitabile.

mercoledì 18 novembre 2015

Spectre - Sam Mendes (2015)

(Id.)

Visto al cinema.

Bond viene incaricato dalla defunta ex M di uccidere un uomo e andare al suo funerale. Ovviamente Bond esegue e viene messo sulle tracce di una organizzazione segreta capitanata da un uomo che lui sembra conoscere; nel mente in UK la sezione 00 viene chiusa.

Questo è un film di cui si dovrebbe parlare su due piani; quello del film a sé e quello del film collocato nella serie dei 4 film con Daniel Craig.

Il film in sé è un lussureggiante, fighetto e high budget thriller spionistico. Curato nei minimi dettagli con una carrellata di vestiti degni di una sfilata di moda e sempre perfetti per l'ambiente in cui devono essere indossati; location impeccabili (al solito) in giro per il mondo (meno titaniche che nei precedenti, ma pur sempre all'altezza); una costruzione degli interne che sta a metà strada fra l'interior design più chic e la mostra d'arte; infine una fotografia impeccabile che colora di toni diversi le varie location e le varie situazioni, senza mai una sbavatura. A questo si aggiunge un cast completamente in parte, non impeccabile, ma adatto, con il villain per eccellenza interpretato da quella faccia da cattivo hollywoodiano di Waltz (non entusiasmante nella recitazione, ma almeno ha smesso quasi del tutto di fare le faccette che faceva per Tarantino).
Poi beh diciamolo, ha diverse scene puramente action di cui una da ricordare, quella esageratamente lunga dell'incipit sull'elicottero in Messico, altre effettivamente poco sfruttate (l'inseguimento sulla neve o la lotta sul treno), con altre che stanno dignitosamente nella media come l'inseguimento a Roma (ottimo per ambientazioni, ma inutilmente protratto senza nessun twist).

Il film inteso come conclusione della serie di quattro film partita con "Casino royale" è invece una delle operazioni di rifondazione di un personaggio più complesse di sempre; nonché una delle meglio realizzate.
Se nei primi due film si era tutti intenti a frustrare le aspettative del pubblico presentando un James Bond completamente privo delle sue caratteristiche base, con "Skyfall" (che diciamolo subito, rimane il migliore dei quattro, ma in fondo era quello con meno debiti da pagare alla storia più ampia) iniziano a delinearsi i segni del mito di sempre, ma aggiornati e autoironici; con questo film si ricostruisce del tutto il James Bond che tutti conosciamo. La ricostruzione però non è una copia pedissequa del personaggio anni '60; si ricostruisce dando tutti i tratti salienti senza i quali non sarebbe Bond, ma lo si aggiorna, lo si rimette in gioco in un mondo contemporaneo; nello stesso momento lo si pulisce dagli eccessi kitsch o camp dei decenni precedenti (ancora una volta prendendosi in giro, come la macchina con le leve che servono ad accendere l'autoradio). Questa ricostruzione passa attraverso la riproposizione di idee di successo modernizzate; si pensi alla sala in cui si riunisce la Spectre, ancora un ampio salone con i villain seduti su un ampio tavolo e Blofeld dal volto invisibile, ma tutto questo senza più quella versione di modernità anni '60 ormai anacronistica; ma ancora di più si pensi al personaggio di Bautista, il classico scagnozzo forzuto della Spectre che sembra essere una fusione di due o tre personaggi dei primi film pur senza volerne ricalcare nessuno.
In tutto questo lavoro è anche encomiabile il tentativo di dare spessore al protagonista regalandogli un passato, non del tutto chiaro, ma ormai evidente; nonché la comprensibile idea di giustificare in qualche modo il perché capiti sempre tutto a lui. In questa opera meritoria si inserisce il personaggio di Blofeld che, a sua volta, viene ricostruito a partire dalla base; duole però ammettere che proprio questo personaggio è il tallone d'Achille della vicenda; il film sembra più intento a dargli un'origine che una personalità e viene relegato nella parte di un megalomane con molti agganci.

In tutto questo però quello che mi ha ulteriormente colpito è il discorso intrapreso già nel film precedente del passato; del dialogo fra vecchio e moderno. Per la prima volta James Bond ha un passato; ma per la prima volta i morti dei film precedenti hanno un peso(la morte viene introdotta con la prima scena e non se ne andrà per tutto il film), vengono ricordati, ma hanno anche un ruolo vero e proprio in questo ultimo capitolo.
L'operazione di modernizzazione sembra voler passare anche da qui, non solo fa dialogare un Bond comunque vecchio stampo con un mondo contemporaneo, ma sembra interessarsi anche a dare ai film un significato che vada oltre all'ennesima avventura di un fighetto a cui va sempre tutto bene.

PS: pur capendone le intenzioni, la sigla di apertura del film si candida a essere la più ridicola di sempre e la canzone una delle più sbagliate.

PPS: il piano sequenza iniziale è un perfetto esempio di regia impeccabile che azzecca completamente il suo personaggio. Bond vestito da "Baron Samedi" va in una camera d'albergo con la bellisma donna di turno, che si stende sul letto in attesa... intanto lui si cambia d'abito in un blink (citazione perfetta di Moore, ma anche di Connery con lo smoking sotto la muta) e se ne esce sul cornicione come niente fosse con un'arma da fuoco in mano e intanto si sistema con stile i polsini della camicia. Perfetto. C'è tutto.

martedì 17 novembre 2015

Ayanda and the mechanic - Sara Blecher (2015)

(Id.)

Visto al Festival di Cinema Africano (in concorso); in lingua originale, sottotitolato.

Una ragazza, orfana di padre, cerca di mandare avanti l'officina di famiglia per tutti i ricordi che essa contiene. Per tutti quegli anni sono stati aiutati (lei, suo fratello e sua madre) da un amico del padre morto, ma ora anche lui non riesce più a sostenerli. Dovrà reinventarsi restauratrice d'auto per cercare di tenere in piedi tutto, ma il passato ritorna, i sentimenti tenuti nascosti tornano a galla e i rapporti amorosi saranno vittime proprio di quel sogno di riscatto.

Film sudafricano dal piglio giovanile e dalla freschezza innegabile. Gioca con una fotografia colorata; mostra personaggi dai volti solari con tendenze artistiche; cita poesie di Achebe e sfoggia una regia molto calata sui dettagli stilistici (le scene che si muovono come serie di foto, gli intermezzi d'animazione), tutto viene realizzato per essere giovane, carino e totalmente non luogocomunista. Se tutti gli elementi presi singolarmente sono efficaci (e su tutti mi si permette di sottolineare la splendida arroganza degli intermezzi animati totalmente inutili ai fini della storia e realizzati con quel preteso artigianato alla Gondry), nell'insieme però non regge. I troppi elementi sfondano la struttura e affossano il ritmo. Troppe le agnizioni messe in campo per tenere in piedi la commedia, troppi i sentimenti romantici per mantenere la velocità del film di riscatto, troppi i colpi di scena per tollerare un finale che sembra continuamente sfuggire.
Funziona, è godibile, ma è troppo noioso rispetto a quello che avrebbe potuto essere, ma soprattutto è troppo insignificante, troppo dimenticabile. Un esempio al contrario di less is more.

Il film è stato anticipato dal corto "Lazy Susan" del sudafricano Stephen Abbott. Con la macchina da presa sempre appoggiata su un piatto girevole nel centro di un tavolo di un locale (in maniera tale da inquadrare perfettamente i clienti, mentre del personale mostra solo il busto senza testa né gambe), il regista mostra lo spaccato, in versione di commedia, di una giornata di una cameriera, fra clienti accomodanti, irritanti, irritati o stupidi; fino al finale dove, malvolentieri, sarà la cameriera a doversi sedere per essere inquadrata.
Non c'è una trama vera e proprio e neppure la creazione di vere gag; ma il corto p rapido e positivo, divertente senza mai esser davvero comico, non dice nulla, ma in questa descrizione di una giornata attraverso i clienti incontrati, ce n'è abbastanza per essere soddisfatti. Buona la chiusura.

lunedì 16 novembre 2015

Madame courage - Merzak Allouache (2015)

(Id.)

Visto al Festival di Cinema Africano (in concorso); in lingua originale, sottotitolato.

Un ragazzo algerino vive fra piccoli furti di basso profilo, la dipendenza da una medicina euforizzante e una famiglia ai margini (la sorella di prostituisce e la madre bipolare e distante vive guardando programmi religiosi). Durante un furto il suo sguardo si incrocia con quello della vittima e se ne innamora. Inizierà a seguirla, ma il fratello di lei, un poliziotto, cercherà di proteggere la sorella.

Un film che più neorealista non si può; parlo del contorno in cui vivono i personaggi prima di parlare dei protagonisti utilizza una macchina a mano pervasiva e una fotografia realista; non crea eventi epocali, ma racconta una piccola storia priva di sbocchi...
eppure a questo film manca molto. Se il neorealismo ha avuto successo è stato perché parlava della realtà, of course, ma anche perché dietro alla macchina da presa con De Sica si mostrava una poesia degli ultimi invidiabile o perché con Visconti il paesaggio non divorava lo spazio alla storia narrata; più di recente la riproposizione del neorealismo ha avuto come sbocchi felici il cinema dei Dardenne, che però riesce a essere uno dei più sentimentali di sempre, o come quello di Panahi dove il neorealismo è solo un mezzo per tirare fuori contenuti forti descritti in maniera elegante e potente insieme. Insomma, il neorealismo non si è mai limitato a essere una sorta di documentario in forma di fiction, ma è sempre stato un mezzo per veicolare più efficacemente emozioni, sentimenti o opinioni.
Qui la parte tecnica è presente e la realtà descritta è estrema, c'è l'intento morale e sociale, ma manca completamente il cuore; Allouache descrive bene l'ambiente, ma ne mostra solo il volto e non le espressioni.

Il film è stato anticipato dal cortometraggio "Discipline" dell'egiziano Christophe M. Saber; in un negozio di alimentari svizzero un padre (di origine nordafricana) esausto da uno schiaffo alla figlia, una donna svizzera interverrà inorridita e dopo di lei a uno a uno tutti i personaggi all'interno del negozio; ognuno in contrasto con gli altri, ognuno di origine diversa e ognuno con un suo pregiudizio nei confronti degli altri; da un gesto messo in atto per far rispettare la disciplina ne verrà fuori uno scontro di massa. Film dal soggetto buono e da una sceneggiatura spettacolare per come riesce a dare fuoco alle polveri e sostenere il caos che crea in maniera coerente per tutto il minutaggio; regia al servizio della trama, rapida e dal ritmo sempre presente. Un piccolo gioiello, divertente e dissacrante.

sabato 14 novembre 2015

Decor - Ahmad Abdalla (2014)

(Id.)

Visto al Festival di Cinema Africano (in concorso); in lingua originale, sottotitolato.

Una direttrice artistica cinematografica che lavora con il compagno, decide, con lui, di accettare un lavoro commerciale; i tempi di produzione stretti, il regista pilatesco e i diverbi con la star causeranno un tale stress che la donna sembrerà avere problemi mentali; si ritroverà spesso sbalzata nella vita di un'altra donna che rispecchia in parte quella fittizia creata per il film. Ovviamente i continui salti introdurranno il dubbio su quale sia la vita vera e quale l'allucinazione, ma durante lo svolgimento del film, la sicurezza e la voglia di vivere l'una o l'altra vita continueranno a modificarsi.

Prima di difetti. Il film latita in ritmo; non è mai noioso, ma fin dai primi (bellissimi) minuti si percepisce una mancanza di grip. Inoltre, e soprattutto, il film dura troppo, con una sceneggiatura che parte estremamente superficiale (ma si rivelerà esattamente all'opposto) con una ripetitività evitabile; può quindi risultare facilmente indigesto, specie nella prima metà.

Poi i pregi. Il film è esteticamente bellissimo. Una fotografia in bianco e nero senza la minima sbavatura; un costruzione delle scene che sembra creare delle fotografie da esposizione; alcuni tagli di luce che il 90% dei film autoriali europei invidierebbero se solo potessero immaginare cosa c'è dall'altra parte del Mediterraneo.

Infine la lettura. Beh questo è un film con così tanti strati plausibili che difficilmente se ne può venire del tutto capo. Al di là della trama pura e semplice, la prima lettura è il film metacinematografico. Il film cita apertamente altri film classici egiziani e continua a far tornare la figura di Faten Hamama (ma ci sono anche citazioni dai Lumière con il treno nelle prime scene che precorre a quello a metà film che a sua volta sembra una citazione di "Strade perdute" di Lynch), mentre le due storie che si svolgono sono, ognuna per conto suo, un melodramma classico, quasi stucchevole; la chiusura finale che ricalca quella di un film già mostrato e poi l'uscita dal cinema sono solo le evidenze che rimangono più impresse.
C'è anche la fiaba morale che mostra come tutto ciò che è accessorio alla vita sia fuggevole (sia un decoro), compresa la felicità, ma che il migliore dei mondi possibili non si limiti per forza nello scegliere fra il bianco o il nero, ma che a volte c'è una terza via possibile (che aumenta i colori della tavolozza, come nell'ultimissima inquadratura).
C'è il risvolto meramente onirico di una vicenda che parli solo della mente umana, di cui il cinema (come rappresentazione per immagini della fantasia del suo autore) diventa simbolo assoluto e, in quest'ottica, la scena finale con l'incidente che riporta i colori in scena rappresenta la sveglia che riporta in gioco la realtà.
Infine c'è il riferimento politico; i continui discorsi sul coprifuoco che vengono fatti solo in una delle due vite sembrano riferirsi ai giorni delle proteste di piazza Tahrir, il riferimento alla terza via già citato prima (proprio durante le elezioni del 2014 si fece presente il riferimento a questa terza possibilità che non fosse né con i Fratelli mussulmani, né con i militari).

Comunque lo si voglia vedere (e credo che le interpretazioni potrebbero essere ancora molte) quello che si ha davanti è un tracotante mastodonte, perfettamente realizzato che rende omaggio al mezzo che lo produce. Comunque sia, applausi.

Il film è stato anticipato dal cortometraggio "Kwaku" del regista ghanese Anthony Nti. Il corto mostra le avventure di un ragazzino per recuperare dei soldi. Il film, opera prima realizzata con pochissimi mezzi riesce ad avere molti motivi di interesse nonostante una trama semplice e un minutaggio contenuto. Il limite principale è quello di avere una macchina da presa non hollywoodiana, ma il giovane regista la sfrutta, utilizzando la difficoltà di messa a fuoco per costruire le scene e dare più dinamismo esagerando ogni tanto in una confusa macchina a mano alla europea. L'occhio del regista si concentra spesso sui dettagli costruendo sequenze complesse (usando anche in maniera ottima il montaggio), senza, quindi, limitarsi a piazzare gli attori davanti alla macchina da presa. Inoltre la semplicità della storia non limita il linguaggio, anzi, il regista riesce a introdurre elementi all'inizio del film che diverranno chiari solo con il proseguimento della vicenda (il pallone iniziale magistralmente bucato dopo la dissolvenza, o la gamba della nonna massaggiata dal ragazzino) senza che vi sia bisogno che vengano spiegati i collegamenti; inoltre riesce a dare al film un finale totalmente aperto, ma soddisfacente, non lasciando nessuno a bocca asciutta.

venerdì 13 novembre 2015

L'assassino - Elio Petri (1961)

(Id.)

Visto in Dvx.

Un antiquario, donnaiolo e arraffone (si insomma è il solito personaggio di Mastroianni), viene svegliato dalla polizia che lo porta in centrale per un interrogatorio. Per tutto il tempo della sua permanenza lì nessuno gli dirà neppure il motivo. Una volta venuto a sapere di essere un sospettato di omicidio verrà portato sul luogo del delitto e poi in prigione. Questo lungo interrogatorio è la scusa per permettere al personaggio di fare il punto sulla sua vita che gli appare sempre più vuota.

Opera prima di Elio Petri; film evidentemente imperfetto per produzione, ma già contiene in nuce molto di quello che verrà.
A livello estetico c'è una costruzione su più piani (le immagini attraverso le finestre e le porte; c'è una scena all'inizio con Mastroianni che recita con sullo sfondo Roma in un quadro bellissimo); la macchina da presa è dinamica con piccoli piani sequenza e inquadrature sempre gustose (e pure dei carrelli che proseguono alcune sequenze permettendo piccoli momenti di ottima recitazione); e poi continui passaggi con piccoli flashback che è una scusa per fare il punto e i suoi affetti.

A livello di contenuti c'è il rapporto tirannico con l'autorità onnipotente e la presenza di un protagonista solitario pur vivendo immerso nella società.
Da applausi il finale, semplice, ma grottesco che ribalta completamente il personaggio rendendolo non più una figura tragica, ma un ometto piccolo come tutti gli altri.

mercoledì 11 novembre 2015

A 30 secondi dalla fine - Andrey Konchalovskiy (1985)

(Runaway train)

Visto in Dvx.

Alaska, un prigioniero tenta la fuga portandosi dietro, non molto volentieri, un ragazzo che lo ha aiutato a raggiungere le fogne della prigione. Per andarsene dallo stato intendono nascondersi in un treno merci; per un gioco del destino il treno viaggia senza conducente. Si metteranno all'inseguimento del treno il direttore del carcere per acchiappare i fuggitivi e i responsabili delle ferrovie per evitare un disastro.

"Pelham" mi ha insegnato ad apprezzare gli inseguimenti coi treni, "Lone Ranger" (sottovalutatissimo blockbuster di pochi anni fa) mi ha confermato l'attualità di un'idea del genere (che ha come padre nobile Buster Keaton); quindi vedere adesso questo film è semplicemente perfetto.
I motivi d'interesse ci sarebbero comunque essendo la sceneggiatura di Kurosawa (creata per una produzione americana che non arrivò mai in porto) e ripresa da un Konchalovskiy anche lui in trasferta USA (infatti ambienta il film in un'Alaska che sa tantissimo di Siberia).
La trama infatti fa sfoggio di un rapporto a due maestro/allievo con un sensei burbero, ma estremamente vitale e un regazzino che si svilupperà in fretta; c'è tanto Kurosawa.

Konchalovskiy però costruisce un film d'azione duro e realistico, senza fronzoli né fighetterie, lento nello svolgimento, ma preciso al millimetro; mentre si sviluppa viene fuori un pò "Pelham" e un pò "L'imperatore del nord".
Altro punto di forza la costruzione dei personaggi, quello di Jon Voight è roccioso e preciso, folle nel finale, ma per una rivalsa che vale una vita, quasi eroico (ed è interpretato magistralmente da un Voight che nella recitazione assomiglia a Nicholson come non mai; per me la sua migliore interpretazione di sempre che abbia visto finora; è titanico, mangiandosi le scene madri a uso ridere); quello di Eric Roberts è la perfetta controparte, insicura, ma spavaldo, imberbe, ma pieno di aspettative (anche lui è bravissimo, perfetto per la parte, sublime nel rendere i dettagli della caterva di emozioni nascoste sotto quel sorrisetto da regazzino stupido); infine c'è un antagonista magnifico, un John Ryan che, pur essendo il rappresentante del bene, sguazza nella feccia con una gioia indicibile e ama l'azione più del risultato stesso, quando compare in scena gli occhi sono tutti per lui.

Che altro dire, c'è una delle prime particine di un Danny Trejo incredibilmente giovane e un finale in crescendo che ha l'imapatto di una sinfonia. Applausi.

lunedì 9 novembre 2015

La febbre dell'oro - Charles Chaplin (1925)

(The gold rush)

Visto in DVD.

Un omini di belle speranza va in Alaska alla ricerca dell'ora; dopo una serie di disavventure incontra invece l'amore, purtroppo non corrisposto. Grazie all'intervento di un amico con una amnesia gli procurerà il successo, il suo buon cuore gli procurerà l'amore.

Vedendo la scena slapstick con il beccheggio della nave de "L'emigrante" mi è venuta in mente la scena della casa in bilico di questo film... devo ammettere, rivedendolo che le due scene hanno molto poco in comune.

Il film è giustamente uno dei più famosi di Chaplin degli anni '20. Al di là della qualità delle gag che, senza far scoppiare a ridere, riescono comunque a essere divertenti ancora oggi; e al di là della presenza di due delle scene più famose di sempre (quella divertente di Chaplin che mangia la propria scarpa e quella dolce di Chaplin che fa la danza con i due panini). Al di là di tutto ciò, questo film riesce a essere ancora encomiabile per la migliore integrazione fra commedia e sentimentalismo.
Chaplin è un regista drammatico, sentimentale come pochi, semplicissimo nella messa in scena, ma creatore di alcune delle scene più commoventi di sempre; in questo film non ci sono scene enormemente struggenti, ma il valore aggiunto è che il divertimento scaturisce proprio dalle scene più tristi, la fame, la violenza della natura, la violenza, ma soprattutto la solitudine (vero argomento del film) sono i motori immobili attorno cui Chaplin costruisce le gag. Se in altri film ottiene risultati migliori nel far commuovere, mai p riuscito a farlo mentre divertiva il pubblico come in questo film.

Inoltre è ancora godibile nonostante l'età

PS: c'è una versione degli anni '40 con la voce di Chaplin fuori campo che sostituisce i cartelli; non da niente più di quello che davano i cartelli e in qualche occasione l'ho trovato irritante. Consiglio il film muto originale.

L'emigrante - Charles Chaplin (1917)

(The immigrant)

Visto qui.

Le disavventure di un emigrante che cerca di sopravvivere, prima sulla nave che conduce verso gli USA, poi alla miseria che incontrerà una volta giunto a terra. Il finale positivo gli porterà un matrimonio nonostante le difficoltà

Gradevolissimo cortometraggio di un Chaplin già molto abile nello slapstick, anche se non ancora perfetto nell'unire nelle medesime capacità di far empatizzare.
L'ho cercato dopo averlo visto nel film "Arrivederci, ragazzi" perché è evidente che, senza sollevare troppa polvere, Chaplin mostra le condizioni degli emigranti, il sollievo nel vedere la Statua della libertà e gli effetti della povertà (il pesante pestaggio dell'uomo che non può pagare al ristorante); Chaplin qui unisce, come farà nei suoi film migliori, la risata alla lacrima, diverte per le condizioni orribili sulla nave e per le persone trattate come animali così come per le difficoltà economiche successive. Il fatto che sia stato realizzato nel 1917, periodo in cui le migrazioni dall'Atlantico erano ancora presenti (e di cui probabilmente Chaplin aveva avuto esperienza diretta) lo rende una critica sociale in versione di commedia. Bravo.