(The best years of our lives)
Visto in DVD.
Non lo so con certezza, ma così, ad intuito direi che questo è uno dei primi film sui reduci mai realizzato, considerando che è stato fatto nel 1946… e comunque è quasi di sicuro il primo sui reduci della seconda guerra mondiale.
La storia è proprio questa, 3 militari di ritorno dalla guerra pendono lo stesso aereo per tornare nella stessa città; in quel breve viaggio i 3 si uniscono molto e si incontreranno spesso. Ognuno porta con se una storia dolorosa, un trauma e delle aspettative. C’è March con una moglie vista in totale per 20 giorni, ovviamente non sarà la donna che pensava e finché lui avrà soldi andrà tutto bene, ma per un reduce trovare lavoro non è facile. C’è Andrews che ritornerà ad una famiglia che ancora gli vuol bene nonostante i molti anni di silenzio, tornerà anche al suo lavoro in banca, ma si scontrerà (neanche tanto) con il capo per la gestione dei finanziamenti ai reduci. Infine c’è la storia più pesante, quella di Harold Russell, marinaio che durante un incendio ha perduto entrambe le mani e ora se la cava da dio con una paio di uncini (Russell non è un attore professionista, ma un vero reduce, e realmente invalido; questo però non impedirà all’Academy di fargli avere un oscar come miglior attore non protagonista); ovviamente lui dovrà affrontare la vita di tutti i giorni in questa nuova ottica, ricucire i rapporti famigliari, e soprattutto con la sua fidanzata, cercando di non farsi compatire.
Diciamolo subito, il film è melo drammone enfatico più lungo del dovuto, che però, incredibilmente, non pesa troppo. L’happy ending totale sarebbe stucchevole, se non fosse completamente in linea con tutto quanto accaduto fino a quel momento.
Ciò che però salva realmente il film è Wyler, che imbastisce una regia, a mio avviso, inferiore a quella di “Piccole volpi”, ma comunque degna di nota (su tutte è da antologia la scena di March dentro la carlinga dell’aereo distrutto). Wyler però, anche in questo caso, si fa aiutare da Toland (per chi non lo conosce è il grande direttore della fotografia che ha reso possibile “Quarto potere” di Welles, oltre che il già citato “Piccole volpi”), le sue impressionanti profondità di campo sono poco sfruttate, è vero, (giusto qualche scena costruita su due piani e qualche carrello le utilizzano) ma i giochi di specchi che tanto gli piacciono, impazzano, rendendo fenomenali alcune sequenze che senza di questi sarebbero state piuttosto piatte (su tutte, la scena delle due donne in bagno a rifarsi il trucco è un capolavoro).
In definitiva risulta godibilissimo, e funzionale. Può appagare tutti, se si sopportano le due ore e passa di durata.
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