martedì 31 dicembre 2013

L'uomo ombra - Russell Mulcahy (1994)

(The shadow)

Visto in Dvx.

Se si comincia a vedere un film aspettandosi una commedia gialla anni '30 ci si può ben immaginare lo sgomento (per usare un eufemismo) nel trovarsi di fronte ad un (incredibilmente) giovane, ma sempre (incredibilmente) inquietante, Alec Baldwin... soprattutto se lo si vede vestito nella versione carnevalesca anni '80 di un cinese...
La storia è quella del riccastro, Baldwin, negli anni '30 (vedi che comunque l'ambientazione era giusta!) che diventa un supereroe con le conoscenze della (sempre misteriosa) cina. Tornato a casa sconfigge criminali e diventa famoso, poi si innamora, un tizio con un qualche rapporto con Gengis Khan (l'ho già dimenticato) si fa spedire in america dentro un sarcofago e gli serve solo un minerale introvabile, un contenitore innovativo ed un'idea del tutto precoce per costruire una bomba atomica... toh guarda minerale, contenitore e l'unico scienziato che può assemblare il tutto si trovano tutti li e hanno tutti un (recente) legame con Baldwin.

Film che rappresenta la quintessenza degli anni '90, con scenografie pantagrueliche tutte realizzate senza computer (con quel misto di veridicità e palese costruzione in cartone); l'oriente come luogo di fuga/rifugio/ritrovamento di se stessi/assimilazioni tecniche innovative per muovere oggetti o diventare ombre; uso inesperto della CGI (ma comunque decente); attori di richiamo in prima battuta e una squadra di attori bravissimi nelle retrovia; infine un'idea di trasposizione da un fumetto molto... fumettosa, kitsch, si insomma post Tim Burton.

In questo tripudio di soldi spesi, c'è un (sempre) poco credibile Baldwin come protagonista, che quando si traveste diventa ancora meno credibile; c'è una storia patetica (la bomba atomica?!!) e poco interessante che si segue a forza; un ritmo da commedia di se stessa, da film che vuole scherzare con un genere che ancora non si è formato del tutto rendendo solo meno credibile il tutto; come già detto tanti attori ottimi usati malissimo. In definitiva, un campionario orrendo di quello che si poteva fare in quei gloriosi anni avendo i soldi, ma non avendo Spielberg.

venerdì 27 dicembre 2013

Lo hobbit: La desolazione di Smaug - Peter Jackson (2013)

(The Hobbit: the desolation of Smaug)

Visto al cinema, in 3D... ed in HFR.

Il seguito dell'esile racconto del primo capitolo non poteva essere che più esile del primo; vengono introdotti gli elfi che danno il destro a Jackson per inserirci un Legolas truffaldino e pure una storia d'amore interrazziale. Per il resto è il solito film d'azione dalla terra di mezzo con fughe e agguati. In più vanno annoverati una serie di riferimenti sempre più pressanti verso la trilogia de "Il signore degli anelli" che, per chi non la conosce (a parte mia mamma, alzi la mano chi non conosce Il signore degli anelli), diventa difficile capire diversi momenti di tensione (tutto quello che circonda l'anello e il negromante ovviamente).

Spero di non aver dato l'impressione di non aver apprezzato; perchè questo è un bel film. Se il primo della trilogia era una cavalcata forsennata senza un attimo di tregua qui, quell'eterno romanticone di Jackson, con l'introduzione degli elfi rallenta il ritmo, si dedica alla costruzione di un'inutile cornice romantica per acchiappare una fetta di pubblico che non era fondamentale acchiappare e solo a tratti accelera come sa fare lui. Si l'elfa che insegue i nani io l'avrei abolita, mentre Legolas, per quanto inutile, non è dannoso ai fine del racconto. Detto ciò l'opera riesce comunque a creare un paio di scene da urlo (su tutte la fuga nel torrente dentro i barili che voto come miglior scena d'azione in CGI dopo quella di Tintin); ma soprattutto ha un enorme asso nella manica: Smaug...
Pare che Jackson abbia affermato che i 10 anni trascorsi fra il signore degli anelli e questa seconda trilogia siano stati, in parte dovuti, alla costruzione degli scenari e alle location... cazzata ovviamente visto che aveva tutto pronto dai film precedenti; in tutti questi anni sono stati in Papua Nuova Guinea a cercare un drago vero (e qualche mese devono averlo impiegato ad insegnargli l'inglese con la pronuncia di Cumberbatch). Smaug è la vera, grande, idea di questo film; un drago praticamente vero, con movimenti incredibili e fuso (ad un certo punto letteralmente) con il tesoro di cui è a guardia; quando c'è, riempie la scena (non solo con la stazza) e Jackson lo utilizza in lunghe sequenze (di per se inutili) che sono solo un catalogo di delizie per gli occhi (il già citato momento in cui viene investito dall'oro fuso...). Applausi.

Detto ciò il 3D; non è vitale, come al solito, permette qualche buon momento con le cose che ti volano addosso, ma soprattutto riesce a definire meglio i dettagli in 2 (dico 2) scene; poi Jackson è bravo e riesce a sfruttarlo pure nella foresta per creare scene a più piani... però in definitiva è, e rimane, ancora lo stesso inutile tentativo di portare gente al cinema già fatto negli anni '50.
Detto ciò l'HFR (i 48 frame al posto del 24 canonici)... Massi in diversi momenti c'è un'impressione di iperrealtà... Massi in diversi momenti si sfonda la quarta parete e si vede che la location è finta... però più un impressione (forse un effetto placebo) che con l'andare avanti del film neppure si nota più...

mercoledì 25 dicembre 2013

Blue Jasmine - Woody Allen (2013)

(Id.)

Visto al cinema.

Una ricca borghese di New York, moglie di un intrallazzatore d'affare di dubbia legalità che spesso usava il suo nome, crolla, dopo l'arresto del marito. Il figliastro fugge e lei deve recuperare un lavoro e delle relazioni facendosi, intanto, ospitare dalla sorella a San Francisco. La sorellastra ad essere più esatti, una sorellastra di ceto medio/basso e di cui condividono ben poco.

Un film carino... Una storia dal passo classico; il sapore è quello di una tragedia greca, la si vede nel caso come elemento conducente la storia, lo si vede nella follia risolutiva della storia, lo si vede nel dover scontare le pene spesso dovute ad altro. Affascinante inoltre la costante impossibilità di mutare; nessun personaggio evolve e nessun evento (alla fine) subisce una modificazione strutturale. Le vere differenze si vedono solo nel rapporto continuo fra il presente e i flashback. Interessante inoltre il fatto che (nelle scene finali) si capisce chiaramente che le vittime sono le inconsapevoli carnefici e viceversa.
Altro motivo per cui vedere il film (anzi, Il vero motivo per vederlo almeno una volta nella vita) è la perfetta interpretazione della Blanchett; la sua miglior prova e una delle migliori in generale. La Blanchett è un'affascinante borghese piena di stile quando deve esserle; ma è anche una psicotica sfatta e con le occhiaie quando le viene richiesto... Non recita mai, lei è il personaggio che interpreta; credo che sia rimasta sveglia di notte e si sia ubriacata realmente per le scene di follia. Impeccabile.

Purtroppo il film di per se è solo carino... Non c'è ritmo che sostenga il tutto oltre la metà; le scene si dipanano ripetitive, alcune volte completamente inutili, in altri casi semplicemente troppo lunghe. la storia, molto alla Allen, affoga i vari punti di itneresse.

lunedì 23 dicembre 2013

Vittime di guerra - Brian De Palma (1989)

(Casualities of war)

Visto in tv.

Vietnam, durante un’azione un gruppo di soldati rapiscono una ragazza, la violentano a turno e la uccidono. Questa decisione non è un impulso del momento, ma un piano attuato per vendetta. Tutti si sottomettono alla legge del branco, tranne Michael J. Fox, che si rifiuta e, una volta tornato, chiede come deve comportarsi ai superiori e agli amici. Dopo essere stato vittima di un attentato deciderà di denunciare il tutto…
Un film dalla fotografia chiara e pulita, pure troppo per un film di guerra che fa da sfondo ad una storia prevedibile, buonista e senza nerbo che a stento si fa seguire senza noia o senza ripetuti andirivieni dalla tv alla cucina (tanto già si sa cosa sta per succedere). Se a questo ci si aggiunge un De Palma particolarmente poco ispirato (diverse soggettiva, uno split screen e qualche inquadratura interessante sono poca cosa per chi ci ha abituati a tonnellate di autorialismo, anche kitsch, in ogni fotogramma) direi che il film ha poco appeal. Michale J. Fox ha anche l’aspetto meno adatto a fare il soldato duro e integerrimo.
PS: un cast di futuri grandi (o anche solo buoni) attori ragguardevole, al casting c'avevano visto giusto.

venerdì 20 dicembre 2013

Le dernier combat - Luc Besson (1983)

(Id.)

Visto in DVD.
In un futuro post apocalittico dove sembrano scomparse tutte le donne e gli uomini rimasti non parlano più; un ragazzo fugge con un ultraleggero da una banda locale e si rifugia presso un vecchio medico che nasconde un esemplare femminile... Verranno però attaccati da un Jean Reno medievale e cattivo.
Primo di Besson e, tra i suoi pochi film che ho visto finora, è anche il migliore.
Una fotografia splendida incornicia paesaggi perfetti per rendere il clima del film. Una scelta di sottrazione che lavora sul bianco e nero e, ancora di più, sull’espressiva mancanza di dialoghi.
Più che un film è una prova, estremizzata dalle limitazione autoimposte (e semplificata dal non dover scrivere dialoghi interessanti); la storiella esile è però ben sostenuta da tutto l’apparato estetico, da un ottimo ritmo (fatta salva per la parte iniziale in cui il film deve introdurre), da un’espressività sorprendente e dalle ottime prove del cast muto e spesso inespressivo (e nonostante questo impeccabile).
Inizia qui il sodalizio con Jean Reno.

mercoledì 18 dicembre 2013

I soliti sospetti - Bryan Singer (1995)

(The usual suspects)

Visto in DVD.

La prima volta che lo vidi (un decennio fa), già sapevo tutto della storia; tutto sommato lo apprezzai. Oggi che lo rivedo di nuovo, ovviamente so già tutto quello che non bisogna sapere; eppure rimane un film eccezionale.
La trama è quella di un noir moderno, fatto di un gruppo di criminali assodati da un misterioso narcotrafficante efferato e onnipresente. Di più si potrebbe dire, ma fino ad un certo punto, perché il finale è tutto.
Film eccellente che parte con il freno a mano tirato, sembra pretenzioso, lentuccio e non particolarmente interessante, ma probabilmente è tutto un piano preciso, perché il ritmo è un continuo crescendo fino al finalone dove si rimane col fiato sospeso per almeno 10-15 minuti consecutivi. Alcune idee di messa in scena interessanti permettono la creazione di qualche icona pop (il confronto al’americana dell’inzio, perfetto come immagine di copertina) e di molte immagini affascinanti (ancora una volta queste idee aumentano con il progredire della storia).
Il film si appoggia poi ad un cast più lungimirante che affermato. L’unico attore che all’epoca era già noto è Gabriel Byrne (oggi ingiustamente il più sconosciuto del gruppo), ma si avvale di un Del Toro che si sta allenando a fare il Dr. Gonzo; più ovviamente di un Kevin Spacey che vinse un oscar per questa interpretazione.
Detto ciò torno di nuovo sul finale. Il copo di scena è una parte fondamentale, ma oggigiorno l’internet è pieno di spoiler; anche in mancanza dell’effetto sorpresa il gioco fatto di sovrapposizione di voci fuori campo e flashback, il continuo montaggio parallelo di scene distanti, alcune scelte precise nelle inquadratura che non starò a citare, infine il già citato ritmo e l’idea di iniziare il finale con la vera scena madre del film; ecco tutto questo è un lavoro certamente paraculo, ma estremamente efficace e d’effetto che non può non essere apprezzato. Bellissimo.

lunedì 16 dicembre 2013

Spiral - Adam Green, Joel David Moore (2007)

(Id.)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato

Un ragazzo con un enorme problema di ansia e di socialità vivacchia lavorando in un ufficio asettico dove il suo unico amico è il suo superiore. Tra crisi superate a fatica  pranzi in solitudine tira avanti. Un giorno compare una ragazza che sembra interessarsi a lui, dapprima solo per amicizia, poi da cosa nasce cosa… ma la psicosi del protagonista riuscirà essere trattenuta solo fino ad un certo punto.
Film di Green in coppia con il protagonista Moore, esteticamente impeccabile; fotografia perfetta, fredda e distaccata, luci gelide e tutto il corredo di costumi e location di conseguenza.
Detto ciò, per il resto, è un film fatto tutto di faccette da pazzo, autismo, monosillabi bofonchiati, arte nell’accezione più snob; in una parola un’idea di plot piuttosto banale che gioca fra la realtà e la finzione fin dall’inizio in maniera sfacciata; a tal punto che fin dall’inizio ci si chiede quale delle due ipotesi più ovvie si sceglierà per il finale… la cosa buffa è che alla fine vengono scelte entrambe. Complessivamente esagerato nell’interpretazione e nella storia, oltreché nella regia…
La regia non è originale, ma ravana nel già visto nel genere horror con la sapienza di chi ci prova a costruire un buon prodotto; niente di fenomenale, ma giochi di fuoco e fuori fuoco, macchine a mano, dettagli del protagonista, vengono usati quando servono, ma anche quando francamente se ne potrebbe fare a meno. Un ritmo un poco fiacco conclude il tutto.
In una parola; non è il film che ti cambia la serata, ma la fa passare bene.

venerdì 13 dicembre 2013

Onibaba, Le assassine - Kaneto Shindo (1964) Jitsuko Yoshimura

(Onibaba)

Visto in DVD, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Giappone medievale. Durante una guerra che decima gli uomini, in mezzo alla campagna vivono una suocera e la nuora. In una terra dove manca il cibo, i mezzi e le persone, vivono uccidendo e derubando i passanti. Un giorno torna l’amico del figlio dell’anziana (quindi marito della giovane) che le avverte della morte del loro parente; la figlia inizia una relazione sessuale con l’uomo. La suocera non riesce a sopportarlo e, derubato un nobile della sua maschera da demone, si finge un diavolo per spaventare la giovane; ma la maschera rimarrà attaccata al volto.
Mi era stato venduto anche come un film horror; in realtà è un dramma, al massimo un dramma allegorico. In ogni caso è un gran dramma. Tratto da una fiaba giapponese se ci si fermasse alla sinossi nessuno avrebbe voglia di guardarlo; ma la messa in scena vince su tutto.
Un bianco e nero che alla (poca) luce del sole risulta chiaro e pulito proprio come nel precedente “L’isola nuda” (per fortuna con quel film ha in comune solo questo e una certa attitudine ai silenzi). La regia costruisce un dramma da camera essendo tutto girato in interni… beh spieghiamola meglio, almeno metà film è girato all’interno delle capanne (o nel buco nel terreno), ma anche gli esterni sono di fatto chiusi da palpabili muri di tenebre o dagli onnipresenti giunchi, tanto da rendere claustrofobica ogni inquadratura e costruendo ogni scena su più piani per poter mostrare anche lo sfondo pieno di canne e le foglie in primissimo piano. Poi c’è tutto un lavoro sui volti; il cast azzeccatissimo viene esaltato da un serie di primissimi piani e dettagli degli occhi che definirei alla Leone se questo film e la prima opera del regista italiano non fossero contemporanei; inoltre sui visi è costante la presenza di ombre espressioniste che rendono ogni smorfia un ghigno terribile. C’è altro? Beh direi una certa mobilità di camera e un uso della profondità che permettono diversi giochi di prospettiva e un finale estetizzante che inanella una serie di sequenze impressionanti.
Non fa paura, non è questo lo scopo, mostra invece un’umanità animalizzata che si muove per istinti primari utilizzandosi a vicenda per il proprio benessere.

mercoledì 11 dicembre 2013

Il mio nuovo strano fidanzato - Dominic Harari, Teresa Pelegri (2004)

(Seres queridos)

Visto in tv.

Lei ebrea, lui palestinese, sono fidanzati e hanno deciso di andare a cena con la famiglia di lei, che ancora non sa che lui è islamico. Questo in realtà sembra un problema secondario se confrontato con la famiglia che li dovrà accogliere, matriarca sotto stress con marito (forse) traditore, un fratello da poco ortodosso e una sorella ninfomane con figlia (problematica) a carico… La serata non andrà come previsto. Ah già c’è pure un nonno cieco e un anatroccolo randagio a chiudere il cast.
Commedia degli equivoci spagnola ad altissimo ritmo (per tutta la prima metà almeno) che per gestione dei tempi, efficacia delle battute (alcune sono usurate, come il gioco con l’anziano non vedente, ma complessivamente il film diverte nella prima parte) e fotografia dai colori brillanti deve tutto alle prime opere di Almodovar. Certo i temi e i colori sono comunque più castigati dell’originale (ah beh e le scelte di regia non sono neppure paragonabili).
Il tutto si distacca dal classico per l’introduzione del rapporto di convivenza fra le due entie nemiche per eccellenza; anche se la cosa è comunque un sotterfugio che viene rapidamente messo in secondo piano.
Nella seconda metà (l’arrivo del personaggio del padre smemorato e le scene in ufficio) il ritmo cala, la sospensione dell’incredulità (già messa a dura prova) vacilla e complessivamente il gioco si rompe del tutto nel finale irrisolto, frettoloso e gaio per niente.
In definitiva un buon film con alcuni difetti, che se rappresentasse la commedia media spagnola allora la cinematografia iberica sarebbe una delle migliori al mondo.
Ah già, non l’ho detto, tutto (e sottolineo tutto) il cast è assolutamente in parte, credibile e divertente.
PS: assicuro che la locandina italiana è terribilmente fuorviante.

lunedì 9 dicembre 2013

Ladri di cadeveri, Burke & Hare - John Landis (2010)

(Burke & Hare)

Visto in Dvx.


Una coppia di sbandati dell'Edimburgo dell’ottocento scopre che alla facoltà di anatomia pagano per avere cadaveri freschi. Inizieranno a cercarne tra gli anziani, poi nei cimiteri, infine inizieranno ad uccidere.

Landis ci prova, si impegna in un film difficile e, a mio avviso, riesce solo a metà. Riesce nella parte più difficile del compito; mischiare lo splatter, il dramma ed il nero alla commedia più riuscita. Unisce le due componenti perfettamente tanto da rendere simpatici due personaggi che uccidono per denaro in maniera estremamente fredda (anche se buffa). Il mix riesce e perde qualcosa solo per le batutte non riuscite; ce la fa anche ad inserire una storia d’amore come volano della vicenda e ad ammantare tutto di un (falso) romanticismo.

Però il film mi risulta riuscito a metà… a metà perché il film è di un distacco spaventoso; si ride dei personaggi, ma non si empatizza praticamente mai; il film si perde a mostrare mille dettagli (tra cui alcune patetiche idee come mostrare la nascita della fotografia) e non riesce ad andare oltre all'intrattenimento che si dimentica velocemente.

Splendido un Serkis incredibilmente in live action; si mangia tutti gli altri in maniera imbarazzante.

venerdì 6 dicembre 2013

The mission - Johnnie To (1999)

(Cheung fo)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Un gruppo di criminali viene assoldato per difendere un boss locale da una serie di attentai omicidi. Riusciranno a salvargli la vita in diverse occasioni e a scoprire chi e perché sta cercando di farlo fuori… ma proprio quando tutto sembra essersi concluso il boss incarica uno dei criminale per ucciderne un altro per avergli tampinato la moglie. Si formerà un gioco ad inseguirsi in cui il gruppo si sfalderà per ricomporsi nuovamente.

C’è tutto il Johnnie To che consociamo dall'ambiente metropolitano all'amicizia virile, dalle sparatorie ad alta tensione alle (continue) scene attorno ad una tavola. C’è tutto, ma è tutto un poco sottotono.

La storia è fantastica, ma è un poco lasciata a se stessa, i rapporti fra i personaggi vengono detti più che essere suggeriti dai fatti e chi guarda deve solo fidarsi. Le scene di convivialità o di intermezzo sono quantomeno poco sfruttate. Il vero punto di forza (come sempre in To) sono le sparatorie. Niente di enorme, ma le diverse scene all'interno del centro commerciale sono un buon motivo per guardarsi il film.

mercoledì 4 dicembre 2013

Reefer madness - Louis J. Gasnier (1936)

(AKA Tell your children)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolata.

Film propagandistico anti marijuana degli anni ’30. Ha agguantato lo status di film cult negli anni ‘60/’70 quando nei college gruppi di giovani consumatori si riunivano per sfotterlo.
La storia inizia come un documentario su un preside che avverte dei genitori molto interessati di questa nuova piaga, nel parlare racconta la storia di due ragazzi (e qui inizia il film vero) che presi dal circuito della droga (un circuito molto pulito e perbene a dire il vero, sembrano incontri di preghiera con musica da ballo) arriveranno all'omicidio! Si conclude con la classica invocazione con sguardo fisso nella macchiando presa.
 
Di fatto il film è imbarazzante per l’ingenuità estrema (madre e figlia parlano di un ragazzo  madre“sono sicura che quel ragazzo non ha mai detto bugie”, figlia “È vero, sua madre dice che non ha mai mentito”, madre “Visto? che ti dicevo?!”). A livello puramente tecnico non c’è nulla di ragguardevole tranne un paio di inquadrature del pazzo alla fine. dal punto di vista documentaristico è esilarante in più punti. La versione colorizzata (quella che ho visto io) ha il valore aggiunto di colorare il fumo che esce dalla bocca dei personaggi di colore diverso in relazione a chi fuma.
Di fatto, oggigiorno, un divertissement.

lunedì 2 dicembre 2013

Machete kills - Robert Rodriguez (2013)

(Id.)

Visto al cinema.

Come già in molti hanno sottolineato, l’idea di una serie di film come Machete è giustissima, un po per Danny Trejo che si merita tutte le limonate che la trama gli concede, un po’ perché una parodia di quel cinema anni ’70 che già si prendeva poco sul serio può essere una gran cosa.
Purtroppo sembra che Rodríguez non sia interessato a fare un buon film. Il primo capitolo (quello raffazzonato sulle immagini presente nel falso trailer) l’ha lasciato a qualcun altro con un risultato al di sotto delle (mie) aspettative; per questo secondo capitolo si mette in campo direttamente, ma solo per ottenere un risultato di molto inferiore.
Certo ha 2.000 idee; caricature di topos anni ’70, mix di trashate e trovate che alzino il limite della decenza e in più ricicla pure qualche cosa dai suoi film precedenti. In tutto questo però ci mette tutta la svogliatezza possibile, accumula dee cazzare senza legarlo, motivarle o farle per bene, ci mette qualche lunga sequenza di spiegazioni enorme e lenta; decide ad un ceto punto che val la pena cambiare genere e ci infila un finale sci-fi tanto pretestuoso quanto assurdo e confeziona un prodotto che quelli della Asylum rifiuterebbero (loro fanno cagate perché i mezzi e/o tempi sono limitati; Rodriguez fa cagate perché è rimasto un ragazzino delle medie che ride quando sente dire la parola “tette”; e i più non c’ha voglia).
Mette insieme una carrellata di personaggi che riduce a soprammobili dando a tutti 3 minuti di scene (i più fortunati hanno pure una battuta) e poi li fa scomparire (qualche volta motivandone la scomparsa).
Vuole fare tutto, ma non vuole impegnarsi, vuole ottenere un film grandioso ma poi anche il CGI che mette in campo è a tirar via (non è che utilizzando effetti speciali squallidi dai l’idea degli anni ’70, ma dai solo un’idea di sciatteria), le scene d’azione… non ne ricordo una meritevole… beh a questo punto fai anche a meno di cominciare a girare.
Che poi quello che più da fastidio è che volendo le basi per ottenere qualcosa c’erano. Il personaggio del camaleonte era buono, l’idea di fare una sorta di “Fuga da New York” in Messico è molto buona, un cast notevole (Mel Gibson! E poi una Lady Gaga che meritava più minutaggio e un Banderas nel suo miglior personaggio da anni a questa parte) e poi Danny Trejo che da solo porta già in un clima anni ‘70 da far paura. Ecco, hai tutto questo e poi decidi di buttarla in caciare perché oggi sei stanco e comunque se dici “tette” poi si ride tutti assieme…

sabato 30 novembre 2013

Shall we dance? - Peter Chelsom (2004)

(Id.)

Visto in tv.

La trama non la scrivo neanche, è piuttosto prevedibile.
L’ho guardato perché mentre lavoravo al computer volevo avere un rumore di fondo che mi facesse compagnia… eppure tutto sommato ho dovuto seguirlo, almeno nel finale.
Diciamolo subito che non è una pietra miliare, ma un film riempitivo, che si può raggruppare con i film per la tv (davvero mi risulta difficile capire perché avrei dovuto pagare per guardarlo) ed in quest’ottica si fa apprezzare, anzi direi che batte i suoi colleghi senza troppo sforzo.
Una storia facile di riscatto e amore che si muove con ritmo, trova sfoghi comici (in realtà a volte eccessivi; mi fa male vedere il grande Tucci costretto in un ruolo così idiota) per sostenere l’inesorabile susseguirsi di tentativi goffi, piccoli successi, incomprensioni, inganni, grandi successi, riconciliazioni. Si sa che andrà così, ma una volta entrati nel mood e nel ritmo si attende con piacere il naturale sviluppo.
Richard Gere m’è pure sembrato in parte, uomo di mezz’età, un tempo sex symbol, che cerca di riciclarsi per riuscire a dare un senso alla sua vita e una scossa al matrimonio, una compagnia di ballerini le cui caratteristiche (nonché l’esito finale) è scritto in faccia e una serie di sequenze di ballo non enormi, ma accettabili. In tutto questo però, mi sconvolge dirlo, la Lopez non centra proprio niente; immagino sia stata messa per accontentare il folto gruppo di accompagnatori maschili al cinema, però ha un ruolo limitato, ininfluente nei confronti della trama e senza un reale peso (anche se nella sceneggiatura il peso glielo applicano a forza). Una regia decente e qualche dialogo molto bello (inutile, gli americani nei dialoghi sono ancora i migliori) chiudono la faccenda.
In poche parole, non è niente di che, ma per riempire un’ora e mezza questo è un ottimo tappabuchi che, se si è pronti al genere, non può lasciare insoddisfatti.

mercoledì 27 novembre 2013

Sharknado - Anthony C. Ferrante (2013)

(Id.)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato.

Una delle più grandi paure dell’uomo sono gli squali. Per fortuna è una paura autolimitante, si sta fuori dal mare e ogni problema è risolto… Era solo questione di tempo e prima o poi qualcuno avrebbe portato gli squali sulla terraferma; o meglio, il mare in città.
Un uragano si abbatte su Los Angeles con un carico di 20.000 squali. Un carico di 20.000 precisissimi squali, che ti piombano addosso con le fauci aperte e riescono a staccarti un braccio prima di schiantarsi sull'asfalto.

Filmaccio di serie B con effetti speciali ridicoli, ma dignitosi (no, non trovo che sia un controsenso); una regia di nome, ma non di fatto (tutto è costantemente sbagliato, dalle luci diverse da una scena all'altra, al montaggio). Quello che rimane è il gusto per l’idiozia che non si prende sul serio, ma anzi cavalca se stessa e propone esattamente quello che le si chiede; gambe staccate di netto, persone schiacciate da squali volanti, motoseghe dall'azione chirurgica, persone estratte vive (!), atti di inaudito (ma anche assurdo e scientificamente casuale) eroismo e giusto quel po’ di romanticismo e family drama che sono la base di ogni film made in USA. Insomma confeziona un film di serie B vero e proprio, non un omaggio canzonatorio, ma la materia prima cruda e onesta.

Se si ha un buon gruppo di amici e la birra giusta, la serata sarà un successo.

lunedì 25 novembre 2013

Il pane nudo - Rachid Benhadj (2005)

(El khoubz el hafi)

Visto al Festival di Cinema Africano (fuori concorso).

La storia tratta dal libro autobiografico di Choukri, una storia di un ragazzo nato nella povertà di un Marocco coloniale, con padre violento e fratelli che ad uno ad uno verranno persi; sfruttato ripetutamente, come forza lavoro e come prostituto, arriverà ad essere arrestato come sospetto contestatore anti-francese. In carcere incontrerà un uomo che gli insegnerà a scrivere dandogli al possibilità di divenire insegnante e poi scrittore.

Una storia che sarebbe stucchevole se fosse tutta li e se non fosse vera. In realtà il film dovrebbe essere un film duro, dove omicidi, violenza sulle donne, violenza psicologica e abusi sessuali sono reiterati e continui. Un film (sulla carta) duro.
Tuttavia, a mio avviso, non raggiunge il suo scopo.
Il regista sembra voler rendere chiare ed evidenti i personaggi ed i loro rapporti in troppo poco tempo; non c'è empatia con loro, non si intuiscono i sentimenti, anzi, le emozioni vengono sempre dichiarate; i personaggi non crescono e non comunicano, si prende atto che siano amici perché fin dall'inizio si comportano come se lo fossero, si prende atto di amore od odio perché il protagonista lo dice direttamente.
Se a questo si aggiunge una messa in scena bella, ma evidentemente finta (forse questo dettaglio è dovuto al fatto che si è visto su uno schermo [!] ad alta definizione); con alcuni degli usi peggiori del green screen; l'utilizzo di attori che non riescono neppure a fingere di morire senza prendere a piene mani dai cliché delle recite delle medie; infine ci si metta pure qualche inutile rallenty, un uso pornografico (ma comunque emotivamente nullo) delle musiche e delle luci; ecco se si aggiunge tutto questo si ha un'idea del tipo di film.
Ed è un peccato perché le tematiche in gioco sono tantissime.

Non è un film pessimo, ma una buona fiction televisiva; si fosse limitato a quello sarebbe assolutamente accettabile.

venerdì 22 novembre 2013

Something necessary - Judy Kibinge (2013)

(Id.)

Visto al Festival di Cinema Africano (in concorso), in lingua originale sottotitolato.

A seguito degli scontri post elettorali del 2007/2008 in Kenya, una donna rimane vedova, con il figlio in coma, la casa (con fattoria) è stata bruciata e lei è incinta dei suoi aggressori. Nonostante tutto questo (e grazie al recupero del figlio) cerca di ricominciare a vivere ricostruendo la fattoria, ma i problemi saranno appena iniziati. Il figlio odia quel posto, lei inizierà ad avere un atteggiamento ossessivo (metterà carta di giornale sulle finestre, cercherà di ricostruire tutto in maniera dettagliata, si allontanerà dal mondo); contemporaneamente uno dei suoi aggressori pentito si ritroverà, involontariamente, a lavorare per la ricostruzione della casa, dato il senso di colpa l'aiuterà di nascosto in maniera rilevante, ma neanche lui sfuggirà al passato. Tutto questo si trascinerà avanti finchè la protagonista non andrà a parlare alla commissione d'inchiesta.

Film, diciamolo subito, piuttosto scontato nella trama, per entrambe le storie. Però ha il suo punto di forza nella fattura. Se la fotografia non offre niente di che, la regia è buona; piani sequenza fatti per creare dinamismo (tutti con macchina a mano, ma direi che è comprensibile il motivo), un modo di raccontare il passato e le ossessioni della protagonista tutto per immagini, inquadrature sempre molto ampie dove gli uomini sofferenti vengono messi in rapporto con una natura immobile e rigogliosa.
Il lavoro nella regia è decisamente buono e rende più che positivo l'intero film. Un cast assolutamente adeguato evita di affossarlo in maniera indecorosa.
Niente di eccezionale, ma è una bella sorpresa.


Il film è stato preceduto da un corto "Olongo (Le ciel)" di Clarisse Muvuba. In Congo, un uomo che si mantiene facendo il cantante nei funerali immagina il casino che potrebbe succedere alla sua morte... e decide di provare a vedere la cosa dal vivo... Commediola grottesca e nera, interessante per la trama e i sottointesi, ma alla fin fine i tempi dilatati e la scrittura approsimativa l'affossano.

mercoledì 20 novembre 2013

Les enfants de Troumaron - Harrikrisna Anenden, Sharvan Anenden (2012)

(Id.)

Visto al Festival di Cinema Africano (in concorso), in lingua originale sottotitolato.

La storia parte presentando 4 personaggi, 4 giovani accomunati dalla voglia (per alcuni la necessità) di fuggire, ma tutti egualmente bloccati nella città di Troumaron, isole Mauritius.
Dei quattro al protagonista assoluta è Eve, diciassettenne che si prostituisce come unico modo di sfruttare a proprio vantaggio l'ambiente maschilista e coercitivo, di lei si innamora una ragazza che, a causa di una delle storie di Eve verrà uccisa; del delitto verrà accusato il quarto ragazzo. Il secondo personaggio principale è Sad, compagno di classe di Eve e suo innamorato, cerca di avvicinarsi a lei e, solo a parole, di proteggerla.

Il film è uno stupefacente esempio di buon cinema. Tecnicamente parlando è impeccabile. Una fotografia da urlo e un uso della regia sobrio (quasi sempre), ma che si concede dettagli (tanti) e camera a mano nei momenti di maggior enfasi, con alcuni squarci postmoderni all'interno delle presentazioni dei personaggi. Considerando che dei due registi (padre e figlio) uno viene dai documentari e si cimenta per la prima volta con un film di fiction, mentre l'altro è alla sua opera prima, direi che c'è da ben sperare per il futuro.

La storia è un drammone enorme, con una base adolescenziale (in senso buono) nella fuga come necessità per vivere, ma in realtà mostra molto di più. Mostra, come si diceva, un mondo dove la violenza è pervasiva, ma mutuata unicamente dagli uomini (ma attuato praticamente da tutti i maschi che compaiono sullo schermo), dove le donne subiscono e basta (ecco quindi il perché della prostituzione come unico mezzo di affermazione sociale, come se il sesso fosse l'equivalente della violenza messo a disposizione della protagonista; ecco il perché dell'amore saffico; ed infine ecco il perché del taglio dei capelli finali della protagonista prima che anche lei ceda alla violenza); ma viene anche descritto un ambiente dove tutti (per prima Eve stessa) si sfruttano a vicenda, dove gli unici sentimenti autentici sono costretti ad essere eternamente frustrati; ma c'è anche una visione fritzlanghiana dell'uomo comune che si macchia di un delitto quasi per caso (anzi, quasi per colpa d'altri), mentre un innocente viene preso come capro espiatorio; ma c'è anche l'arte (la poesia) come tentativo di fuga pur rimanendo nello stesso posto, ma dato che ci si trova in uno dei drammi più cupi possibile, sarà un mezzo che non porterà da nessuna parte.
Come dicevo gli elementi messi in gioco sono innumerevoli, non tutti equamente distribuiti, su tutti infatti giganteggia la questione della violenza, messa in un ambiente ad un tempo comune (potrebbe essere qualunque città del mondo) e disperatamente tetro.

Per la prima volta un ottimo cast (nonostante siano tutti esordienti) condotto da un'ottimo apparato tecnico per una storia forte.

lunedì 18 novembre 2013

Le président - Jean-Pierre Bekolo (2013)

(Id.)

Visto al Festival di Cinema Africano (in concorso), in lingua originale sottotitolato.

Il dittatore del Camerun, al governo da 40 anni improvvisamene scompare, i media locali tentano di seguirne le tracce, ma le segnalazioni sono troppe e le motivazioni sconosciute; nello stesso momento il film segue il presidente stesso, il suo peregrinare in cerca di un successore, gli incontri con un rapper e con il capo dell'opposizione fino allo showdown con la sua ex moglie.

Prima parlo dei difetti perché dopo potrei sembrare troppo entusiasta. Prima di tutto è un film esteticamente dozzinale, evidentemente low budget, anzi lower. Poi è un film a tesi, dove la tesi è urlata in faccia ogni 15 minuti circa, non proprio una buona partenza insomma. Inoltre il film ha un po' il limite delle produzioni low budget soprattutto per la fotografia e la recitazione di parte dal cast (i giornalisti), anche se la critica maggiore va fatta sulla verosimiglianza delle scene di fiction e la totale non credibilità dei tg e degli inviati che si vede stanno recitando. Inoltre, pur essendo un fil di 60 minuti, riesce ad essere rallentato dalla forma (che è anche il punto vincente), soprattutto all'inizio quando ancora deve ingranare. Ultimo neo i dialoghi, se tutto sommato si salvano quasi sempre, i giornalisti appaiono particolarmente vacui (ok era l'intento, però potevano essere comunque scritti meglio) e, soprattutto, il discorso del rapper Valsero dovrebbe essere un punto di svolta importante mostrando come un uomo del popolo (un artista però) sia molto più lucido del presidente, tuttavia il discorso è fumoso, vacuo, è evidente la veemenza positiva, ma non è chiarissimo il concetto al di la del fatto che tutto quello fatto dal dittatore fosse uno sbaglio. Ah già chioso solo sulla paraculaggine del finale dove come nuovo presidente viene "eletta" una donna...

Un film particolarissimo nella costruzione, non è un mockumentary tout court, ma neppure è solo fiction; è più dalle parti di un "La seconda guerra civile americana", anche nel mostrare l'umanità dietro ai "grandi" personaggi e ovviamente nello sfottere l'idiozia dei media. Tuttavia non è solo quello.
Il presidente è una figura ironica che si trova però a metà strada fra i dittatori di Sokurov e "Il posto delle fragole" (nessuno me ne voglia per i paragoni iperbolici), un uomo solo vittima del suo sistema (le guardie del corpo che vorrebbero ucciderlo) che ripercorre un percorso fisico che è soprattutto un viaggio psicologico (la strada che continuano a ripercorrere, l'ex moglie nel finale); il tutto, come si diceva diluito in una ironia leggera. Oddio non ci si aspetti un film profondo come quelli citati, qui siamo ci sono solo 60 minuti, li nomino solo per cercare di inquadrare il mood del film.

Inoltre è un film demagogico, ma girato in una dittatura, dunque il popolusmi diventa un atto di coraggio. Se a questo si somma il fatto che i discorsi spesso diretti sono realizzati in maniere sempre nuove (pensieri esposti con voci fuori campo, personaggi che parlano direttamente in camera durante false soggettive, tre momenti musicali dove il testo della canzone veicola concetti, dichiarazioni di comodo, il depistaggio involontario dei tg, ecc...), anche il logorante (e logorato) film di denuncia assume un fascino e delle possibilità nuove.

In poche parole, considerando la pesante opinione del regista che viene veicolata in ogni inquadratura, considerando che ne escono bene quei personaggi (il rapper) che non ci si aspetterebbe fossero più sul pezzo della classe politica, considerando la paraculaggine di certi momenti, la ricerca di linguaggi sempre diversi e il preciso intento di dire qualcosa al potere costituito mentre si cerca anche una sollevazione del popolo, questo è un po' un film alla Michael Moore, se Moore facesse mockumentary.

Interessante sottolineare l'ovvia censura avvenuta in Camerun; ma ancora più interessante il fatto che il Goethe Institut (che ha coprodotto) abbia poi rifiutato di distribuirlo in Germania e che ci siano stati problemi nel portarlo anche in Francia, tanto che il regista l'ha reso disponibile gratuitamente su una piattaforma on demand keniota.


Il film è stato anticipato da un corto "Accusé de reception" di Djibril Saliou Ndiaye. La storia è quella di un uomo in crisi economica che decide di scrivere a Dio, la lettera ovviamente si fermerà all'ufficio postale dove verrà aperta dal personale che deciderà di aiutare l'uomo; ma il protagonista troverà comunque il modo di lamentarsi ancora. Un filmetto senza qualità, girato in maniera minimamente dignitosa, co una lungaggine eccessiva per un corto del genere con una storia che al massimo si può definire carina. Il vero problema è che è un film senegalese; uno degli stati africani con più storia cinematografica alle spalle... ci si aspetterebbe di più...

domenica 17 novembre 2013

Millefeuille - Nouri Bouzid (2013)

(Id.)

Visto al Festival di Cinema Africano (in concorso), in lingua ufficiale sottotitolato.

Nella Tunisi ancora scossa dalle proteste di piazza, dalle incarcerazioni facili e da un governo traballante, due amiche devono fronteggiare la vita di tutti giorni, fatta di famiglie oscurantiste, promesse di matrimonio e vite all'estero, di datori di lavoro troppo espansivi e di sorelle da mantenere. In tutto questo la questione del velo (e della religiosità) diventa insidiosamente centrale. Una delle due amiche, su insistenza della futura suocera e da un fratello ortodosso, viene obbligata dalla famiglia ad indossare il velo e a smettere di lavorare come cameriera; l'altra, che invece il velo lo porta volontariamente, viene insidiata dal datore di lavoro che la vuole obbligare a togliere il velo per essere più carina con i clienti.

Bouzid sa come si fa un film. Fin da subito utilizza il ritmo giusto e la trama ne giova tantissimo. Si muove con sicurezza dietro la macchina da presa, senza svolazzi eccessivi, ma tentando sempre l'inquadratura giusta per dare chiarezza alla scena.
Bravissime le due protagoniste che, nonostante siano sostanzialmente digiune di cinema sono credibili e rappresentano il vero punto di forza del film.
Religione, politica e vita privata (anzi, le libertà personali) si mischiano in maniera spesso ovvia in un film sull'islam in evoluzione, ma in certi momenti del finale danno qualche squarcio, non dico originale, ma tremendamente sincero (su tutti l'ovvietà, mai espressa direttamente "la religione è politica").

Detto ciò il film si perde nel finale, troppe lungaggine, troppo girare attorno alla tortura psicologica della ragazza progressista, troppa insistenza nel rapporto fra sorelle dell'altra ragazza (che per tutta la prima parte rimane sullo sfondo e non ha un'utilità evidente). Tutto questo affossa il ritmo e mi ammazza la godibilità di un film altrimenti molto buono.

Il film è stato anticipato dal corto "Paper boat" dell'egiziano Helmy Nouh. Un corto su un ragazzo egiziano che vaga per le deserte strade del Cairo durante la notte, in un bar incontra una ragazza con cui ha un breve dialogo sui desideri, il passato e il rapporto con una società chiusa. Corto ben realizzato, ma senza idee fondamentali che si piega tutto sull'esposizione di una tesi abbastanza ovvia. Buono, ma non aggiunge nulla.

venerdì 15 novembre 2013

Restless city - Andrew Dusunmu (2011)

(Id.)

Visto al Festival di Cinema Africano (fuori concorso), in lingua originale sottotitolato.

In una New York irriconoscibile vive un immigrato senegalese che prova a sfondare come cantate mentre si mantiene come venditore di cd pirata, cerca di rimanere a galla, smarcarsi dal lato b della sua vita e di salvare anche la ragazza di cui è innamorato.

Una trama che più che canonica è caotica. Se la sinossi sembra banale è perché è difficile da seguire; il regista sembra preso a cercare una via autoriale a come mostrare le cose più che alla trama (e la cosa non sarebbe negativa), ma si perde velocemente, dimentica la chiarezza, i fatti si susseguono in una noia soporifera e confusa.
L'utilizzo di filtri colorati (alcune delle scene più belle sono quelle virate in rosso, alcune di quelle più stucchevoli sono quelle virate su colori terrei), la camera a mano, primi piani e dettagli sono solo un corollario inutile se un film non riesce a veicolare né una storia né un messaggio, soprattutto se l'intento è quello di mostrare la vita di un esule. Interessante invece l'ambientazione newyorkese resa indefinibile dalla scelta di non mostrare niente di noto.

Il pianeta delle scimmie - Franklin J. Schaffner (1968)

(Planet of the apes)

Visto in DVD.

Un gruppo di astronauti fa rotta verso la terra dopo una missione durata qualche secolo (per il tempo della terra, sei mesi per loro che viaggiano alla velocità della luce). Succede qualcosa, un qualche incidente durante il sonno indotto per gli ultimi anni luce di viaggio e si risvegliano lontani dalla terra, nel tempo e nello spazio che riescono a calcolare. Se questo potrebbe turbare i più quel che è peggio è che si ritrovano su un pianeta dove l’evoluzione sembra aver favorito le scimmie, che hanno creato una civiltà dove gli umani (che esistono, ma allo stato primitivo), sono animali piuttosto disprezzati.

Film iconico di un certo tipo di fantascienza, che continua ancora oggi ad essere metro di misura e fonte di ispirazione. L’incipit (così come l’eccezionale, anche se enfatico, finale) deve tutto alla presenza di Rod Serling creatore di “Ai confini della realtà” (ci si trova nel bel mezzo di qualcosa che non viene spiegato o giustificato, se ne prende atto; ci si trova sperduti in un ambiente sconosciuto; le reazioni emotive sono piuttosto anempatiche perché quel che conta è l’ambiente ed il modo di rapportarsi con esso; infine c’è il finale a sorpresa tipico della serie tv.
Detto ciò si è detto poco. Come dimostrò anni dopo il film tratto da “Ai confini della realtà”, non bastano questi quattro elementi per fare un lungometraggio sulla falsariga della serie tv. Questo “Pianeta delle scimmie” vince e convince perché ci aggiunge quel poco d’azione che serve, crea qualche bel personaggio; ma soprattutto crea un mondo completo, una cosmogonia fatta di religione, scienza e strutture sociali parallele alle nostre, che le imitano senza sovrapporcisi del tutto e la cui costituzione risulta vitale sia per la trama del film, sia per una critica sociale sempre buona.

Il trucco ottimale vinse l’oscar, mentre i costumi e le location non ebbero la stessa fortuna pur meritando gli stessi encomi. La regia dinamica riesce a stare in bilico tra il caos tipico di fine ’60 e uno stile più asciutto a cui il film deve parecchio.

Alla prova del tempo forse gli si può imputare solo un po di lentezza, tutti gli altri difetti sono una caratteristica che si può disprezzare, ma che ha il suo perché. In ogni caso, un must ancora godibilissimo.

mercoledì 13 novembre 2013

Donne sull'orlo di una crisi di nervi - Pedro Almodovar (1988)

(Mujeres al borde de un ataque de nervios)

Visto in Dvx.

Qui l'intricata trama del film.

La commedia chiassosa ed estrema (più nella parte visiva che non nel contenuto) di Almodovar qui raggiungi picchi di bellissimo kitsch che a tentare di ripeterlo si riuscirebbe solo a rovinare tutto.

Una commedia sui generis, che inizia come gioco degli equivoci per poi passare alla screwball comedy, per aggiungerci qualcosa della commedia dei sessi con un solo sesso come protagonista. Almodovar prende tutto quello che riesce dalle commedie americane classiche, le mixa con uno stile irriverente e colori eccessivi e quello che viene fuori ha del miracoloso.

La storia è assurda, divertente e perfettamente congegnata. Ogni elemento della sceneggiatura, anche il più infimo, ha un motivo d’esistere e viene ripreso in scene successive della pellicola in un gioco a incastri perfetto.

In più dietro alla macchina da presa c’è un tizio che sa come fare un film. Il fatto che la coppia non comunichi mai direttamente se non nel finale (solo tramite la segreteria, il telefono o nel geniale dialogo a distanza della sala doppiaggio; vero colpo di genio) o la bellissima conversazione telefonica tra le due donne che guardano in camera mentre dialogano in una versione riaggiornata della lettera recitata da chi la scrive di Bergman; ecco questi sono solo due esempi di un film densissimo sotto ogni punto di vista.

lunedì 11 novembre 2013

Cado dalle nubi - Gennaro Nunziante (2009)

(Id.)

Visto in tv

A me Checco Zalone piace. Piace perché banalmente fa ridere; perché ha creato un personaggio divertente che è uno sfigato assoluto, ma pieno di se abbastanza per non rendersi conto che è lui il freak e tratta gli altri con un’arroganza invidiabile.
Quindi beccando il tv il film mi ci sono soffermato.

Un alto positivo il film ce l’ha. Per quanto non innovativa, ma una storia c’è. Non si limita, come spesso nei comici della tv riciclati al cinema, a mettere insieme una serie di gag, ma da vita ad una storia autonoma che potrebbe reggere anche senza la presenza di Zalone.

Il lato negativo è che il film è brutto. La trama esile, come si è detto, deve quindi trovare motivi di interesse nel protagonista; Zalone però esagera nel non fare gag, pochi i momenti davvero divertenti e poche comunque i tentativi di far ridere (senza riuscirci).

Se proprio devi fare un film comico, dovresti far ridere… peccato.

sabato 9 novembre 2013

Omicidio in diretta - Brian De Palme (1998)

(Snake eyes)

Visto in tv.

Un poliziotto (Cage) viene invitato ad un incontro di boxe da un suo amico (Sinise) che si occupa della sicurezza della serata (dato che ci sarà anche… non ricordo esattamente la carica, ma diciamo il segretario di stato degli USA). Ovviamente le cose non potranno andare bene; ci sarà un attentato, proprio mentre Sinise veniva distratto da una terza abbondante. Le porte verranno chiuse e Cage si metterà ad indagare per salvare le chiappe all'amico.
La prima volta che vidi questo film mi sembrò un film perfetto rovinato da un finale eccessivamente inverosimile. A distanza di anni, rivedendolo mi sembra un classico film di De Palma con tanti difetti dall'inzio alla fine.

Questo film viene ricordato per lo sconcertante piano sequenza iniziale di più di dieci minuti (di fatto è un falso, anche se sono due piani sequenza uniti… comunque ragguardevole) e viene spesso indicato come un film vuoto, pieno di virtuosismi fini a se stessi, come se De Palma volesse solo mostrare cosa di può fare senza considerare altro.
A mio avviso questo non è un esercizio di stile vuoto. Semplicemente è un film di De Palma. Tutti i film del regista americano sono zeppi di virtuosismi spesso inutili, ma esteticamente molto (molto) appaganti. Qui ci sono una lista dei cliché preferiti d De Palma, due piani sequenza enormi (l’incipit come si è detto, ma anche i titoli di cosa, entrambi perfetti per organizzazione e coordinamento, ma è l’ultimo che è realmente utile, dando una informazione in più), soggettive prolungate, inquadrature dall'alto perpendicolari al suolo, dolly come se piovessero, split screen e tutto quello che ci si può aspettare dal Brian.

In questo caso l’uso che vien fatto di tutti questi luoghi comuni è bellissimo e il fatto che venga tacciato di inutilità mi pare pretestuoso (il tanto rinomato PS all'inzio de “Il falò delle vanità” ha un’utilità maggiore?). quello che è certo è che il film viene affossato da troppi difetti, una trama che sfocia nell'inverosimile; un cast che non recita mai (fatto salvo per un Nicolas Cage con un personaggio ritagliato esattamente su di lui e che gli permette di essere un vero mattatore); personaggi disegnati un tanto al chilo e alcuni punti lasciati troppo verso l’oscurità.

In poche parole ora come ora non vedo in questo film il grande capolavoro di De Palma e ci vedo piuttosto un tentativo mal condotto; ma chi ama (come me) la libertà registica e l’arroganza del regista americano non potrà non apprezzarlo.

mercoledì 6 novembre 2013

Battle royale II: Requiem - Kinji Fukasaku, Kenta Fukasaku (2003)

(Batoru rowaiaru II: Chinkonka)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

L’ultimo film di Kinji Fukasako non è un suo film. Il regista morì durante le riprese, non so francamente a che punto fossero (ma vedendo il film credo/spero molto all’inizio), ma difficile poter attribuire la paternità dell’opera ad un regista se nemmeno e girato tutto il materiale (in Eyes wide shut mancava parte del montaggio, ma il più era fato). Alla regia si sostituì Kenta il figlio di Kinji, di fatto un esordiente.

A questo punto viriamo sulla trama. Dopo gli avvenimenti del primo film i giochi d morte coi regazzini continuano, ma i due sopravvissuti del primo episodio fondano una rete di terrorismo che intende… combattere tutti gli adulti (perché i bambino sorridono anche in tempo di guerra...)… non ho più puntini di sospensione per sottolineare il mio rassegnato stupore. Lo stato centrale pertanto decide di cambiare le regole del gioco, anziché ammazzarsi tra loro perché non costringiamo i regazzini ad andare a massacrare i ribelli? Sai che ironia?

Il film, data la trama ha un taglio decisamente diverso dal precedente; si avvicina, per temi e cattiveria solo nell'incipit in cui il gioco viene spiegato; ma nel momento in cui tutto ha inizio il film vira. Indicativo che il gioco inizi con uno sbarco che riprende smaccatamente l’inizio di “Salvate il soldato Ryan”, senza averne le capacità, i mezzi o anche solo le ragioni del film di Spielberg (mai citazione fu più irritante). Ma è a partire dall'incontro fra i partecipanti del gioco coi ribelli (a cui si uniranno) che inizia il tracollo vero e proprio. Una trama sempre più inverosimile (e dire che non si partiva con un documentario), personaggi sempre più banali (gli studenti sono fatti con lo stampino, mentre l’insegnate è un pessimo attore nella parte del folle standard del cinema… ci manca tanto Kitano) e una deviazione intellettual-adolescenziale inquietante rovinano tutto. Se poi si passa un’ora e mezza di film a urlare e sparare si rischia pure di rimpiangere la profondità psicologica e la complessità di “Black hawk down”.

La parte più insopportabile rimane comunque la paraculaggine del plot, adolescenziale in maniera assurda, banale ed enfatico, pretenzioso in maniera infantile con una serie di personaggi che (oltre ad urlare e sparare) dichiarano sentimenti di BFF ed amore prima di morire tutti in maniera eroica, incoraggiando chi rimane vivo ad andare avanti. Si fosse limitato ad essere cerchiobottista (cosa che comunque è, dato che tutti i personaggi hanno i loro motivi per comportarsi in quel modo) l’avrei anche tollerato.

Finale assurdo, con una punta di surrealismo (l’insegnante con la palla da rugby), paraculaggine antiamericana che pervade tutto il film e un’inaspettata apologia (indiretta) dei bambini soldato…


Detto ciò torno al tema iniziale. Di Kinji Fukasako si vede ben poco, per non dire nulla. Neppure in inquadrature o movimenti di macchina. No so quanto avesse già girato ma credo/spero poco. Credo/spero che in mano sua il film avrebbe potuto almeno dire qualcosa a livello di regia che qui latita in maniera assoluta (salvo quando deve copiare Spielberg). Temo comunque che il problema fosse alla fonte, in una sceneggiatura orribile che neanche Kinji avrebbe potuto salvare.

lunedì 4 novembre 2013

Espiazione - Joe Wright (2007)

(Atonment)

Visto in DVD, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Storia di espiazione (CON SPOILER!).
Un film sul senso di colpa che impiega metà del tempo a mostrare da cosa nasce il fatale errore (se così si può chiamare); e nasce da un misto di amore e stupidità di una ragazzina preadolescente, in definitiva, nasce dal caso; poi si prende il resto del tempo per mostrare a che cosa portò il senso di colpa, al tentativo di espiazione e al tentativo di essere perdonata. Infine il tutto si chiude sull'ammissione di aver ingannato lo spettatore; il tentativo di espiazione ci fu, ma fu fatto a vuoto. Il finale lasciato alla Redgrave ammanta il tutto di un dolore senza speranza che non sarebbe stato possibile esprimere meglio; e la Redgrave si conferma una grande.
Il film però si fa notare soprattutto per la regia di Wright. Tutti citano (non a torto) il piano sequenza centrale sulla spiaggia; una carrellata geograficamente enorme (gli attori, ma anche la macchina da presa camminano per centinaia di metri), curato nei dettagli (visivi, sonori, di disposizione di attori ed oggetti) in maniera maniacale. Tuttavia, pur essendo un estimatore dei piani sequenza come vera caratteristica distintiva del cinema come arte a se; in questo caso non ci sta. L’ho molto apprezzato, ma è proprio privo di significato, non dice nulla, non mostra nulla di importante, non aggiunge significato a niente. Si tratta solo di una, bellissima, prova di forza di Wright.

La regia che più conta, a mio avviso, si concentra soprattutto nella prima metà. Li c’è tutto quello che si può volere da un regista. Fotografia impeccabile; punti di vista multipli (le scene vista vissute dai diversi personaggi si affiancano l’una all'altra senza che ne venga evidenziato il passaggio); carrelli come se piovessero; disposizione dei personaggi  sempre ragionata; ma su tutto regna l’utilizzo del sonoro. I suoni qui fanno la differenza; su tutti il rumore della macchina da scrivere è pervasivo (perché il film si apre con la protagonista che scrive, da grande diventerà scrittrice e racconterà proprio questa storia; perché la lettera galeotta sarà scritta a macchina) e da elemento del sonoro (espresso a volume aumentato rispetto al resto) diviene continuamente elemento musicale; è quel suono, il battere sui tasti, che fa da legante dell’intera vicenda, delle sequenze più distanti e di tutti i personaggi. Anche il rumore di colpi sull'auto della polizia avranno il loro momento di gloria, ma solo perché quell'episodio determina il passaggio dalla prima alla seconda metà.

venerdì 1 novembre 2013

L'assalto dei granchi giganti - Roger Corman (1957)

(Attack of the crab monsters)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato.

A seguito di un esperimento nucleare un gruppo di scienziati viene mandato su un atollo a studiare gli effetti delle radiazioni. Ovviamente scompariranno. Una seconda squadra viene mandata alla ricerca della prima. Sull'atollo si inizierà male, con morti violente, continue scosse di terremoto e voci fantasma. Ma l’orrore, inevitabile, non sarà quello che ci si può aspettare.

Che dire, un filmaccio di serie B degli anni ’50, ma dietro al macchina da presa c’è Corman, che se non è per forza sinonimo di qualità, almeno tenta sempre di dare il meglio col poco che ha.

Di fatto qui riesce benissimo a creare un’atmosfera di malsana inquietudine e di pericolo imminente nella prima parte; per carità niente di enorme, ma le continue scosse, il girare in interni angusti e in esterni disabitati riesce nello scopo di inquietare (all'epoca, immagino, in maniera esponenziale). Lo sviluppo è sospeso fra l’idiota e l’intelligente (idiota il mostro, intelligente l’idea di fondo); se a questo si aggiunge che il granchio gigante sempre un incazzoso signore calvo con delle enormi chele il divertimento è servito.