venerdì 29 agosto 2014

Hellraiser III, Inferno sulla città - Anthony Hickox (1992)

(Hellraiser III: hell on earth)

Visto in Dvx.

Pinhead risulta intrappolato in una scultura (è la colonna delle torture dei primi due film, al cui interno, oltre a Pinhead è contenuta anche la scatola e alcune vittime); una volta venuto in contatto con del sangue prende vita e fa un accordo con un ricco balordo per avere delle vittime; una volta ottenuto il necessario torna in vita sulla terra; il suo progetto è distruggere la scatola per non dover tornare nel labirintico inferno e fare il bello ed il cattivo tempo sulla terra degli anni '90. A mettergli i bastoni fra le ruote sarà.. sè stesso. Il sè stesso umano infatti apparirà in sogno alla protagonista di turno per spiegarle come battere il mostro.

Sputtanate le credenziali dei cenobiti nel capitolo precedente, Barker (ancora una volta alla scrittura non più alla regia), decide che se deve mandare in vacca tanto vale farla grossa; violenta completamente l'idea originale (la seconda dimensione, il fatto che debbano essere chiamati, la loro sostanziale onestà nel perseguire solo chi ha penetrato i segreti della scatola) e decide di scrivere un horror consueto (se al posto di Pinhead ci fosse stato Freddy Kruger nessuno si sarebbe accorto della differenza).
La regia più funzionale e snella del solito non è così geniale (ed è troppo anni '90) per risolevvare da sola le sorti di una vaccata. paura zero, ritmo stentoreo, interesse ai minimi Introduzione degli effetti speciali al computer (pessimi, come anche sono pessimi, in questo caso, quelli fatti artigianalmente)

Forse vi ricorderete di me per scene come.... che poi Nightmare ne aveva sempre di interessanti... qui invece. Mah i nuovi cenobiti creati da Pinhead sono di un buffo fetish che si fa ricordare, ma non ha attinenza con l'horror. La donna uccisa dalla fellatio con il ghiaccio è un attimo di pessimo CGI che ricordo ancora...

lunedì 25 agosto 2014

Hellbound: Hellraiser II; prigionieri dell'inferno - Tony Randel (1988)

(Hellbound: Hellraiser II)

Visto in Dvx.

A seguito del massacro del primo episodio Kirsty viene internata in un reparto di psichiatria per poter superare il trauma... purtroppo però l'ineffabile psichiatra che l'ha in cura è da anni alla ricerca del modo per far funzionare le scatole dei cenobiti (si, da questo episodio li chiamiamo cenobiti).
Lo psichiatra riporterà in vita la matrigna di Kirsty e, con un colpo da maestro, entrerà nel labirintico mondo dei cenobiti (l'inferno?) con altre 3 persone.

L'idea di base di questo film è prendere gli ultimi incasinati 10 minuti del capostipite e dilatarli per tutta la durata del film. Una volta entrati nel mondo dei cenobiti non c'è più nulla che abbia senso, i personaggi fanno cose casuali, gli avvenimenti (che dovrebbero spiegare qualcosa) sopraggiungono senza che ne venga detto il motivo; si ha quindi l'indubbio svantaggio di avere uno spiegone senza che nulla venga realmente spiegato affossando la trama.
Il ritmo che nel primo era sempre a rischio, ma alla fine teneva, qui viene completamente mandato a cagare almeno da metà film in poi.
In mezzo a questa diarrea di idee idiote c'è pure uno scontro fra i 4 cenobiti classici contro quello nuovo; una scena che urla vendetta, perché distrugge il mito dei cenobiti, non crea una reale alternativa e riesce comunque a non regalare neanche un'oncia di pathos.

Sappiamo tutti ormai che Barker (qui solo alla scrittura) non aveva idea di dover fare un seguito dopo la fine del primo, sennò si sarebbe preparato meglio il terreno... tuttavia non capisco perché mandare in vacca in maniera così sfacciata.
Il fatto poi di fare un horror adulto è già stata abbandonata; la sensualità esplicita del primo qui viene sostituita da una sua rappresentazione pacchiana messa li solo per eccitare dei 12enni, il resto è tutto in mano a due regazzine. (che poi se è vero che negli anni '80 i regazzi toccavano sangue e altri fluidi biologici con questa frequenza e questa noncuranza, non mi sorprende l'ondata di AIDS).

Al di là che siamo davanti ad un film horror senza orrore, incasinato e senza ritmo; al di là di tutto questo le cose che più mi hanno dato fastidio sono state due:

1- Non c'è un'idea visiva decente. Considerando che uno dei pochi punti positivi del primo film era l'estetica generale dei mostri direi che qui c'è un notevole passo indietro. Barker (o chi per lui) accumula facce brutte, clown in ambienti inquietanti, traumi infantili e strumenti chirurgici sperando che questo possa bastare. Peccato che no; non basta far grondare sangue da un mobile per aver creato un'immagine indelebile.

2- I cenobiti vengono distrutti; e questo nel senso più allargato possibile. Trovo sconvolgente che si ammazzi così l'idea determinante della serie. I cenobiti sono creature ambigue, perché non fanno nulla di testa loro, vengono attivamente evocati da chi desidera diventare una loro vittima, quindi loro si muovono con un distacco ed una noncuranza degne di un dentista davanti al paziente nel panico per il trapano che deve curargli la carie; se a queste figure dai un briciolo di umanità e la possibilità di contrattare una via di fuga (o peggio una rivolta interna) hai ammazzato completamente la loro credibilità. Altro dettaglio importante, i cenobiti apparivano imbattibili, onnipotenti ed onnipresenti, far succedere quel che succede (senza neppure spiegare nulla) è un atto criminale.

Sappiamo tutti che i seguiti (soprattutto dei film horror) sono spesso indecenti, ma questo veramente mi apre esagerato... almeno Nightmare 2 vinceva per le idee cazzare talmente idiote da essere divertenti, qui non si riesce ad avere neppure questo...

Forse vi ricorderete di me per scene come:
I paesaggi disegnati che potrebbero stare bene pure in un film Disney? no dai questo no.
La casa dello psichiatra tesa fra il razionalismo anni '60 e una wunderkammer? no, non credo.
La scena della rinascita della matrigna sanguinolenta dal materasso...? ...no ha fatto il suo tempo
...l'uomo senza pelle che scrive, col proprio sangue, sul muro di essere all'inferno e di aver bisogno di aiuto... diciamo quello... massì dia diciamo quello...

venerdì 22 agosto 2014

Shin Jingi no hakaba - Takashi Miike (2002)

(Id. aka Graveyard of honor... La tomba dell'onore)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Remake dell'omonimo film di Fukasaku ne ricalca la trama in maniera piuttosto precisa... D'altra parte vedendo nell'opera capostipite un protagonista che da di matto, ammazzando anche i suoi e si mangia le ossa dell'amata, chiunque avrebbe subito pensato a Miike.

Le differenze sono però tra le pieghe della storia. Esattamente come nel precedente il protagonista violenta una ragazza che poi si innamorerà di lui, attaccabrighe arriva ad eliminare i suoi protettori, viene messo in prigione, si da alla droga, muore suicida (lo posso dire con tranquillità, c'è nella scena d'apertura). Ma se il protagonista del film di Fukasaku era un coglioncello, che rimaneva bloccato in situazioni pericolose e ne usciva senza pensare compiendo ogni sorta di idiozia (la ragazza non progetta di violentarla fin dall'inizio, la droga era solo un modo per far soldi, lui inizialmente reagisce in maniera violenta per proteggere il suo clan); il protagonista di Miike invece è un pazzo senza una regola (chiede alla ragazza di andare con lui al karaoke solo per poterla violentare, attacca chi lo sta proteggendo dal boss che lo cerca solo perché si annoia, si da alla droga per lo stesso motivo), assolutamente senza pudore e morale, quello che ci si aspetterebbe da un personaggio miikiano. La differenza fra i due è di sostanza, ma forse riesce anche a dire qualcosa sullo zeitgeist; il film di Fukasaku fu u involontario manifesto della generazione post-bellica, quella cresciuta con un Giappone ex imperiale, ora ridotto a provincia degli USA, senza un esercito, senza un leader, senza più la famiglia reale-divinità, cresce indipendente ed insofferente nei confronti di ogni autorità (l'unica a cui si obbedisce è una potenza esterna) e senza più quei concetti di lealtà e obbedienza bruciati dalla guerra. Il film di Miike potrebbe essere letto come un involontario manifesto post esplosione (esplosione della bolla economica degli anni '90, "esplosione" della città di Kobe a causa di un terremoto [eventop enorme per un Giappone che si scopriva debole nei confronti dei terremoti e nei confronti dell'illegalità visto che molte strutture "anti-sismiche" erano stata costruite con materiali scadenti], "esplosione" della metropolitana di Tokyo ad opera di Shoko Asahara), il Giappone (ormai senza valori tradizionali fatti fuori negli anni '70) si scopre vulnerabile a tutto, senza più un appoggio solido, una speranza concreta; se tanto si rischia costantemente di morire, chissenefrega delle autorità, le istituzioni (come la yakuza) o delle altre persone.

La regia di Miike è sempre lei, decisamente agli antipodi rispetto a quella di Fukasaku, predilige la precisione nelle inquadrature, alcuni piani sequenza, la bellezza delle immagini, un copioso uso del sangue (ok, questo c'era pure in Fukasaku) e una violenza esposta. Bellissimo il finale, una versione moderna ed esagerata dello spargimento di sangue del film capostipite, come se il protagonista fosse un otre pieno di tutto il sangue versato durante la vita.
Seppure la sceneggiatura risulti molto più solida del precedente muore dello stesso male, la ripetitività, qui spalleggiata anche da qualche momento di noia in più.

In definitiva, pregi simili e stessi difetti per quella che è una delle migliori operazioni di attualizzazione di un film mantenendone la spirito che abbia visto finora.

lunedì 18 agosto 2014

La tomba dell'onore - Kinji Fukasaku (1975)

(Jingi no hakaba)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Una testa calda affiliato ad un clan yakuza reagisce in maniera troppo sconsiderata a ciò che gli succede, questo provocherà guai per il suo clan e di conseguenza anche a lui; verrà piacchiato, minacciato, arrestato, bannato, esiliato, ma lui continuerà a tornare nei suoi quartieri a rapinare (di soldi e di droga) i suoi ex colleghi.

Film estremo per contenuti di un Fukasaku al suo picco.
A livello contenutistico questa è un'opera esemplare nella nicchia delle storie di antieroi. Il protagonista è uno stronzo che non ragiona, diventa tossicodipendente, viene aiutato da una donna che poi violenterà, mangerà le ossa della sua amata morta... di tutto. La sua storia viene mostrata senza dare giudizi, semplicemente in maniera discorsiva. Questo personaggio, d'altronde, rappresenta i nuovi giapponesi post bellici, quelli in cui i principi del passato (tra cui il tanto pompato "onore" yakuza) non rappresentano nulla, sono solo dei cani sciolti fedeli solo a sé stessi... ma anche li fino ad un certo punto, dato il voto alla (auto)distruzione che sembra essere la cifra dominante.
Di fatto un bello strappo nei confronti dei pacati e superomistici film di mafia orientale a cui ci si è abituati.
A livello estetico Fukasaku è il solito, violenza esposta, macchina da presa mobilissima (si scrivoltola con i personaggi, compiei giri di quasi 360 sul piano frontale, insegue e si ritira), colore alternato ad un bianco e nero virato in seppia; tutto quello che ci si può aspettare dal nostro. Tutto questo utilizzato con sapienza per rendere dinamicissime le scene d'azione senza perdere troppo nella confusione.

Tuttavia non ne sono rimasto pienamente soddisfatto. Il ritmo c'è, ma la trama tende al ripetitivo rendendo inutili molti degli sforzi per tenere viva l'attenzione. Inutile negarlo, dalla metà in poi ogni tanto ho guardato quanti minuti mancavano...

venerdì 15 agosto 2014

Overlook Hotel, Stanza 237 - Rodney Ascher (2012)

(Room 237)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Un documentario che mostra una manciata di teorie sulle sottotrame presenti in "Shining".
Si va dall'idea che il film sia un'atto d'accusa contro il genocidio degli indiani d'America, ad un film sulla Shoa rappresentata a livello emotivo e non visuale; dalla riproposizione moderna del mito del Minotauro, ad un film sul "passato" come entità o sulla storia; dal film di fantasmi ingrifati che cercano di farsi gli uomini, al film che mostra le motivazioni che avrebbero spinto Kubrick a realizzare il filmato del finto allunaggio dell'Apollo 11 (!!!).
C'è di tutto a ribollire in questo calderone.
Il comparto visivo (l'idea del documentario quindi) è genialmente semplice; tutto (con pochissime eccezioni) quello che viene mostrato o sono immagini di "Shining" o di altri film dello stesso Kubrick (con in aggiunta pochi spezzoni di altri film sparsi).

Il documentario rasenta alcuni picchi di idiozia notevoli, ma è evidente che Ascher non si prende sul serio e, nel finale, mostra come persone differenti vedano nella stessa scena indizi di teorie diversissime.
Di fatto l'operazione fatta da questo documentario ha una serie di valori: mostra (come viene anche detto direttamente) che l'osservazione deformi ciò che viene osservato; mostra la ricchezza di dettagli contenuti in un film di Kubrick (sottolineandone anche alcuni errori di montaggio...); ma soprattutto fa quell'operazione che da secoli viene fatta su capolavori della letteratura (come la opere di Shakespeare), se ci si trova davanti ad un'opera larger than life, tutti vi cercano, e vi trovano, significati ben al di là dell'idea originale del suo realizzatore, aumentando indirettamente il valore dell'opera stesso (e se non il valore, almeno il significato e l'universalità).

Rimane comunque un documentario per appassionati di "Shining" o amanti delle teorie complottistiche.

lunedì 11 agosto 2014

Ombre ammonitrici - Arthur Robison (1923)

(Schatten - Eine nächtliche Halluzination)

Visto in Dvx.

Una coppia invita quattro giovani ad una cena; per un gioco d'ombre il padrone di casa crede che la moglie lo tradisca... con almeno tre di loro; consumato dal dubbio e dalla rabbia mal gestisce la serata misinterpretando tutto quello che accade. Durante la cena arriva un ambulante con un teatrino di ombre cinesi; durante lo spettacolo l'ambulante proietta quello che accadrebbe se i presenti si lasciassero andare ai propri istinti (quelli sessuali degli invitati così come della moglie, la rapacità del servo e la rabbia del marito) in un dramma ferocissimo.

Film muto sostanzialmente perfetto per la totale assenza di cartelli; l'intera vicenda viene mostrata senza bisogno di sottolineature trascritte. Questo edulcora in parte l'impressione di eccessivo macchiettismo dei personaggi, forse costretti ad eccedere con le pose e le espressioni drammatiche per evitare i cartelli (o forse semplicemente sono io che sono a digiuno di film muti da troppo tempo e non ci sono più abituato).
Se la storia è affascinante di per se, il vero colpo vincente del film è l'uso delle luci; anzi, delle ombre. Mi pare ovvio che un film con questo titolo e in pieno espressionismo tedesco utilizzi le ombre in maniera continuativa, tuttavia la vera idea del film è utilizzare le ombre per mostrare ciò che avviene al posto di un'inquadratura dirette della scena. In questo film le ombre ingannano (il sospetto di tradimento), mostrano ciò che è nascosto (le ombre delle mani strette sotto al tavolo), evitano di dover mostrare il dramma pur facendo vedere ciò che accade (l'uccisione a fil di spada) e diventano sostituti dirette dei personaggi per aumentarne il senso drammatico.

Un esperimento affascinante.

PS: belli i titoli di testa realizzati "all'interno" del teatrino delle ombre cinesi.

venerdì 8 agosto 2014

La jetée - Chris Marker (1962)

(Id.)

Visto qui.

Un uomo abita in una Parigi postapocalittica dove gli uomini sono costretti a stare nel sottosuolo per le radiazioni; lui ha un solo ricordo chiaro del passato, di quando da bambino si trovava all'aeroporto di Orly. Per riuscire ad avere supplementazioni di energia, ma anche cibo, gli scienziati stanno testando i viaggi nel tempo, ma sono viaggi incredibilmente sconvolgenti e utilizzano solo persone con un chiaro ricordo del passato per poterli inviare in quel periodo. Ovviamente il protagonista sarà scelto, incontrerà una donna (di cui ricordava il volto), se ne innamorerà; ma una volta abituato ai viaggi nel tempo verrà mandato nel futuro per avere un aiuto dai proprio pronipoti... il finale è assolutamente a sorpresa.

Film (cortometraggio) estremamente ben costruito nella trama che però si fa ricordare per la realizzazione. Tutto il film è una sequenza di immagini fisse, di foto; e tutta la storia è raccontata da una voce fuori campo. Direi che sulla carta avrebbe tutti i motivi per essere disprezzato (almeno da me).
Invece il film regge magnificamente; per due pregi essenziali.
Il primo è la storia, l'ho già detto, ma merita di essere sottolineato; la trama è molto breve, ma ben costruita, drammaticissima e senza speranza con quel senso di leggera ineluttabilità dei film francesi dell'epoca.
La seconda è che un film non è fatto solo di movimenti di macchina da presa, ma di luci ed ombre, di inquadrature diverse e di montaggio; e tutte queste parti di un film ci sono e sono anche notevoli. Le luci sono intense quanto le ombre, un sistema facile, ma espressivo; le inquadrature sono multiple per le stesse scene e mai banale; ma è il montaggio che vince, accelera o rallenta il ritmo a piacere e crea effetti magnifici (su tutte la sequenza della donna a letto che con una serie di foto in rapida successione con gesti simili e con una dissolvenza continua crea un effetto simile al movimenti, ma più leggero, dolce e luminoso).
L'unico dettaglio che continuo a non sopportare è la voce fuori campo; lo ammetto qui era necessaria, ma comunque odiosa.

Un esperimento interessante che, giustamente, ha avuto la sua versione cinematograficamente più canonica un trentennio dopo.

lunedì 4 agosto 2014

Vincent - Tim Burton (1982)

(Id.)

Visto qui; o qui per l'italiano.

Un bambino di 7 anni è un fan sfegatato di Vincent Price (e come dargli torto!); vorrebbe essere lui e vivere le sue angoscianti avventure; si immagina nei panni dello scienziato folle o della vittima di una tragedia gotica. Tutto viene raccontato con una voce fuori campo (dello stesso Price!) che declama un poema in rima

L'opera prima di Burton è un cortometraggio a passo uno realizzato mentre ancora lavorava per la Disney, ma dentro ci si può trovare tutto quello che verrà dopo.
Al di la dell'amore per Vincent Price e quel tipo di cinema alla Corman che lui ha rappresentato (Price collaborerà anche per uno dei primi lungometraggi di Burton come padre di Edward mani di forbice), ci sono continue citazioni dirette di Edgar Allan Poe; ci sono gli stilemi del cinema espressionista tedesco degli anni '20; ma soprattutto c'è quel tratto antinaturalistico che caratterizza Burton nei suoi film di animazione.
Inoltre la realizzazione è quasi impeccabile, se ci si rende conto che si tratta del primo film in autonomia le piccole sbavature riscontrabili sono sostanzialmente invisibili.
Il ritmo mantenuto ed il finale estremo, poi, sottolineano di cosa sarebbe capace Burton se si interessasse meno del botteghino.

venerdì 1 agosto 2014

Il pezzo mancante - Giovanni Piperno (2010)

(Id.)

Visto in DVD.

La storia della famiglia Agnelli, dal fondatore della FIAT fino ai recenti Elkann.
per raccontare questo film basterebbe una frase, ma in realtà parla di molto altro. Parla si degli Agnelli, famiglia riservata che per questo documentario non ha voluto o po tutto partecipare in alcun modo, ma lo fa arrivando a parlare soprattutto dei rami dimenticati della famiglia, la capostipite Virginia, la moglie dell'avvocato Giovanni ed Edoardo il loro figlio, ma soprattutto Giorgio il terzo fratello di Giovanni. Parla di loro, li descrive per quanto possibile, ne segnala il vuoto che li circonda ed il lavoro di rimozione che ne è stato fatto (strepitosa la porzione di intervista in cui Giovanni Agnelli afferma di avere un solo fratello maschio). Descrive la famiglia in base al loro rapporto con i pezzi mancanti. Descrive la famiglia come la vera nobiltà (il vero casato regnante) d'Italia, ma anche come vittime di una malattia, come se la catena di montaggio e le macchine, da sempre considerate come fonte di oppressione per gli operai, abbiano oppresso soprattutto i padroni (impagabili in questo senso i pochi commenti fatti attorno a John Elkann).

Complessivamente poi ci si trova davanti ad un film, non un documentario, ma un vero e proprio film, per linguaggio e perfezione delle immagini.
Una fotografia impeccabile difficile da trovare nel film di fiction medio italiano. Una regia enorme, che insegue i protagonisti come fosse Aronofski; li inquadra in posizione statiche mentre la loro voce fuori campo; corre in lunghe carrellate laterali a mostrare i luoghi storici della famglia; inquadra oggetti apparentemente inutili senza dare speigazioni per farli poi tornare nel finale a dare significato ad intere vicende; utilizza documentari, intervisti televisive e i filmati interni della fabbrica (così come anche convengi ed incontri pubblici) come fossero interventi fatti per il documentario o filmini personali della famiglia; brevis equenze animate alcune senza nessuno scopo contenutistico, ma solo. Un lavoro enorme che si articola in un film corto (meno di un'ora e mezza) con lunghi silenzi, parafrasi, immagini di repertorio e personaggi improbabili, ma su tutto le immagini delle automobili, delle industrie storiche e delle macchine per la produzione.
Bellissimo.