venerdì 31 agosto 2018

Harry, un amico vero - Dominik Moll (2000)

(Harry, un ami qui vous veut du bien)

Visto in Dvx.

Due ex compagni di scuola si icontrano per caso in un autogrill; uno dei due neppure riconosce l'altro, ma il secondo lo ricorda bene essendo rimasto fortemente influenzato dal primo.
Il primo è imbottigliato in una vita insoddisfacente fatta di un lavoro normale, una moglie con figli e genitori ancora in vita; il secondo è ricco e si diverte. Il secondo si intrufolerà nella vita del primo e cercherà di fare di tutto per aiutarlo, fino alle estreme conseguenze del caso.

Thriller da camera francese che, partendo da un'idea ormai adeguatamente sfruttata decide di realizzarla in maniera estremamente credibile e rigorosa. L'inquietudine nei confronti di quest'uomo appiccicoso c'è fin da subito, il suo infiltrarsi nella vita della famiglia appena incontrata è costante, tuttavia non scade mai nel ridicolo, nella scena weird che, in una situazione verosimile, farebbe fuggire a gambe levate. Incredibile equilibrio che riesce perfettamente a rendere la storia senza sospendere mai la sospensione dell'incredulità.
Della verosimiglianza tutto il film ne fa una bandiera, con una fotografia molto realistica un cast normalissimo (donne belle, ma non bellissime, uomini con volti rassicuranti) e nessuna esplosione di violenza inquadrata. il film sfrutta solo la costante presenza di un individuo al limite e la suspense che questo crea.
Unico difetto, a mio avviso, il finale; incredibilmente trattenuto (dati i presupposti pensavo avrebbe deragliato verso un tentativo di gore maggiore) perde molto per l'eccessiva velocità e facilità di esecuzione.
Rimane comunque un ottimo prodotto, coerente e ben realizzato.

lunedì 27 agosto 2018

The purchase price - William Wellman (1932)

(Id.)

Visto in Dvx, lingua originale sottotitolato in inglese.

Una showgirl di Broadway si sostituisce a una sua sottoposta per sposare un uomo scelto da un'agenzia di cuori solitari. Lo fa per sfuggire alla sua vita e a una serie di spasimanti. Si troverà sperduta nelle innevate montagne (?) canadesi. Dopo una discussione durante la prima notte di nozze il rapporto fra i due coniugi andrà malissimo, mentre il suo inserimento tra gli abitanti del posto andrà benissimo.

Buffo e incomprensibile film di un Wellman particolarmente assente. Incomprensibile per le connessioni fra i vari momenti, per i motivi che spingono i personaggi e per l'idea produttiva che gli sta alle spalle; si so fosse voluto soltanto fare un film con la Stanwyck sulla neve e/o in Canada, sono sicuro che qualcosa di meglio si sarebbe potutto tirar fuori.
Gradevole comunque la primissima parte, meno interessante la seconda. Buono il cast che si impegna anche se talvolta le capacità sono limitate; sempre splendida la protagonista.
Direi che è solo per completisti della Stanwyck o di Wellman.

venerdì 24 agosto 2018

Hereditary: le radici del male - Ari Aster (2018)

(Id.)

Viato al cinema.

Alla sua prima prova sul lungometraggio Ari Aster non delude, anzi, continua il discorso iniziato nei suoi cortometraggi, lo amplifica e lo arricchisce.
Parte dalla solita idea della famiglia disfunzionale, la ammanta di un clima da tragedia greca incombente e (dalla metà in poi) scatena un horror devastante.
Si può paragonare a "Kill list" per l'incedere lento che accelera con il passare dei minuti (e per il finale "di accettazione"), si può paragonare a "The Babadook" per l'orrore che si infiltra in una famiglia spezzata che cerca di scendere a patti con il lutto, si può paragonare a "Rosmery's baby" per l'intero clima cospirativo e satanista (e per un certo interesse più sul dramma che sull'horror).
Ci sta tutto, di fatto però il film si muove più dalle parte di un Haneke (se vogliamo modernizzarci, dalle parti di un Lathimos), dove i propri personaggi vengono bistrattati senza un minimo di compassione e con un'insistenza quasi psicotica. L'intera prima parte è, di fatto, un piccolo dramma famigliare dove tutti sembrano voler sbranare tutti, dove tutti soffrono senza particolare possibilità di uscire dal loop e, soprattutto, dove il destino imperversa senza pietà. Ma, sempre in questa prima, magnifica, parte Aster si avvicina ai livelli di Cronenberg, crea un clima gloomy dove l'ansia è costante per un dramma che si respira chiaramente anche quando non succede nulla, dove un nonnulla (un'allergia, un hobby, un'espressione) hanno impatti devastante sui personaggi e sul pubblico.

Nella seconda parte invece, il film parte per la fase schiettamente horror. Il sovrannaturale entra all'improvviso e si espande gradualmente, ma quello che più conta saranno le reazioni dei personaggi. Il primo incontro con lo spirito del bambino la co-protagonista avrà una delle reazioni più credibili di sempre, il sovrannaturale non è un'evento scontato, quando arriva erode tutto. L'orrore non mancherà (decapitazioni, persone in fiamme, cadaveri decomposti), ma sarà sempre filtrato attraverso le reazioni dei personaggi che rimarranno il centro della vicenda (il lungo primissimo piano del figlio dopo la prima decapitazione è splendido).

Affascinante anche l'uso perfetto degli interni (già accennato nel primo cortometraggio di Aster), luoghi normali e austeri, ma immacolati come un diorama e, altrettanto, misteriosamente inquietanti (tutto le scene vengono incastrate in uno sfondo chiuso che è gabbia e cornice). Da ammirare anche l'intricato utilizzo dei personaggi, in un film in cui il protagonista sembra cambiare 2 o 3 volte.
Finale tecnicamente stupendo.

Ovviamente il film ha anche dei difetti e, su tutti, a mio avviso c'è l'incapacità di utilizzare tutte le suggestioni suggerite (i diorami della madre veicolano pochissime informazioni, la figura della nonna è utilizzata meno di quanto avrebbe potuto offrire) e la disonestà di aver realizzato un dramma famigliare sovrannaturale che di horror ha solo un lungo lunghissimo) finale.

Ottimo tutto il cast con la solita Collette che si porta a casa il risultato con facilità, un grandioso Wolff che è la vera scoperta, l'inquietante Shapiro e il Gabriel Byrne più vecchio di sempre (ok, mi ha stupito scoprire che l'anziano marito fosse lui!).

mercoledì 22 agosto 2018

Munchausen - Ari Aster (2013)

(Id.)

Visto qui.

Il secondo cortometraggio di Aster che vedo è, nel tema, meno estremo (ma sempre sulla scia) del primo, ma a livello di regia decisamente più impegnativo.
L'intero film non è parlato, giusto un paio di scritte (un articolo di giornale e delle etichette di alcuni farmaci) aiutano la trama che, comunque, riesce a sostenersi perfettamente da sola.
La regia si muove con una libertà impensabile prima e si prodiga in costruzione ardite che danno il loro meglio negli stacchi tra una scena e l'altra (i migliori sono quelli interconnessi e rapidi della sequenza dell'arrivo al college).
A livello tematico siamo dalla parti dei "Johnsons", l'inferno è la famiglia e qui una madre che teme di soffrire troppo per la perdita del figlio (che parte per il collage e quindi formerà una sua famiglia) decide di trattenerlo con ogni mezzo. Curioso come, in entrambi i cortometraggi, i problemi familiari siano dovuti all'amore...

Aster si dimostra continuamente interessante per le tematiche e sempre più in grado di gestire una regia complessa.

The strange thing about the Johnsons - Ari Aster (2011)

(Id.)

Visto qui.

Il furbo cortometraggio (il primo) di Aster è un thriller che parte da presupposti shockanti (SPOILER: l'amore incestuoso del figlio per il padre che diventa ossessione) per colpire il pubblico e far parlare di sé, ma anche per un'idea di famiglia come centro delle problematiche e della agnizioni sociali (l'inferno, non sono gli altri, è la famiglia). Il video, ovviamente, divenne virale.

Aster però utilizza il corto per una prova muscolare di regia. Gestisce le scene con libertà di movimento (piani sequenza interni), costruendo scene classicheggianti (luci e ombre lunghe come nei film anni '40), interni e abbigliamenti perfetti che stridono enormemente con quanto succede dentro di loro (ma seriosi e verosimili, lontani dai pastelli di Tim Burton) che diventano parte della vicenda.

Il vero problema del film non è la pretestuosità dell'assunto iniziale o di alcune scene specifiche (quello che viene visto dalla madre durante il matrimonio), ma nella scrittura, claudicante, improvvisa nei picchi, scarsa nel creare tensione dove pretende che debba essercene, ma sopratutto inverosimile nei sentimenti estremi che muovono i personaggi. Tutto è possibile al cinema, anche un omicidio interno a una famiglia da parte di una persona equilibrata a causa del dolore e dello "stress", ma bisogna arrivarci bene e non farlo cadere addosso.

In ogni caso un'opera prima buona che  mostra quello che avverrà in futuro.

lunedì 20 agosto 2018

O lucky man! - Lindsay Anderson (1973)

(Id.)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Uscito da scuola il Travis di "Se...", cerca di inserirsi nel mondo del lavoro. La sua attività di venditore lo porterà ad andare a letto con donne molto diverse, andare in prigione, in una base militare, in un ospedale dove vengono fatti esperimenti, lavorare per uomini d'affari e per il cinema.

Film fiume di 3 ore, seguito ideale del precedente film della coppia Anderson/McDowell di cui riprende il protagonista, lo stile complessivo di mezza in scena, ma poi parte per conto proprio.
Qui a essere giudicata e condannata è l'intera società presa di petto in una serie infinita di scenette indipendenti le une dalle altre che cercano di coprire tutte le situazioni della vita (o meglio, tutte le istituzioni sociali) cercando con l'iperbole e la farsa (tutti gli attori interpretano due o tre personaggi diversi) il senso di critica stemperato di ironia, ma perdendo completamente la metafora in favore di un lungo spiegone su chi è il cattivo. Per essere chiari, a livello di critica sociale, il precedente film, si concentrava su una scuola come rappresentativa di un sistema e l'effetto risultava funzionante, qui invece volendo colpire tutti descrivendoli a uno a uno (colpendo anche sé stesso) l'effetto contestataria è stemperato e inefficace.
Quello che però viene fuori da questo film è l'incredibile capacità di raccontare di Anderson; un film di 3 ore di "critica" (anche se estremamente ironico), fatto di gag disgiunte intervallate da sequenze musicali dove la band che si occupa della colonna sonora suona dal vivo (un ottimo pop realizzato dalla band di Alan Price) è un'impresa titanica per tutti (spettatore compreso); ma il regista lo rende leggero, spensierato, divertente e totalmente digeribile. Più di così lo poteva fare solo Lynch, ma non sarebbe stato così spensierato.

venerdì 17 agosto 2018

La ragazza nella nebbia - Donato Carrisi (2017)

(Id.)

Visto in un cineforum.

Un ragazza viene rapita in una comunità montana con problemi religiosi. Per risolvere il caso viene inviato un ispettore "dalla città" che sfrutta la morbosità della stampa come un vantaggio per ricadute d'immagine, ma anche per mettere alle strette l'assassino o i sospetti.

Il classico giallo all'americana realizzato in Italia con un personaggio ambiguo, ma estremamente competente, che si muove in un mondo oscuro quanto lui è già di per sé qualcosa di interessante; la costruzione di una storia precisa e debitamente complicata (il regista e sceneggiatore è anche lo scrittore del libro e la tendenza alla scrittura complessa la si intuisce subito). Le cose però cambiano repentinamente con l'identificazione di un sospetto, il protagonista cambia e si torna indietro ai giorni del delitto e si prosegue per assistere agli stessi eventi dal punto di vista del nuovo personaggio. A fine film il punto di vista cambia nuovamente sempre l'ispettore, ma il tono è diverso di nuovo.
Il cambio di tono sembra essere il vero intento di un film che fa di tutto per non essere classico, anzi, per smarcarsi dal giallo consueto fino ad arrivare a un finale che è l'opposto dello scioglimento classico.
Il vero valore dell'opera, però, è tutto nella già ricordata scrittura. La vicenda inizia in media res, senza preamboli e senza presentazioni dei personaggi, le cose vengono mostrare senza aiuti e i vari protagonisti sono descritti minuziosamente.
La regia fa, invece,. quello che può. Affida il personaggio più complesso a Servillo (unico che possa dare carisma e fascino un personaggio ambiguo, ma dalla parte del "bene"), che però viene lasciato troppo spesso da solo a fare quello che vuole; il contraltare è dato a Boni che, più contenuto e rigido, porta a casa un risultato decisamente positivo (anche se più contenuto).
Un film imperfetto, che comincia molto bene si muove con difficoltà tra diverse imprecisioni, ma che conclude senza deludere e portando a casa un ottimo risultato.

lunedì 13 agosto 2018

22 Jump Street - Phil Lord, Cristopher Miller (2014)

(Id.)

Visto in DVD.

I due poliziotti del film precedente vengono riconfermati in un progetto simile a quello, dovranno infiltrarsi all'università per trovare un nuovo trafficante di droghe sintetiche. Alla stregue del primo film il rapporto a due (una dei bromance più sfacciati di sempre) subirà alti a bassi per essere infine riallacciato.

Ovviamente l'operazione è identica a quella del primo film. Rimane, per fortuna, tutta l'autoironia, anche potenziata, rimangono gli inside jokes con continui riferimenti al concetto di sequel e a come si sviluppi con budget più alti che vengono sprecati.
Rimangono (per fortuna) i registi, Lord e Miller, vero motore immobile del successo del primo. La loro regia estremamente dinamica e perfettamente condotta perde qualche colpo nelle scene action sulla spiaggia, ma le idee messe in campo rimangono tante e continuano a confermarsi i migliori nel gestire con piglio sicuro un film totalmente anarchico.
Rimane il ritmo, adeguatamente rapido, adeguatamente lento (ma senza noia) nelle scene più sentimentali.

Quello che però manca è l'originalità. Certo questo è un seguito fotocopia consapevole di esserlo, ma cercare di riprodurre in maniera programmatica l'anarchia ne stempera per forza gli effetti. Mentre il primo film esponeva in maniera enfatica uno stereotipo, sottolineando un'aspettativa, solo per distruggere tutto con colpi di spugna improvvisi (con una invidiabile capacità di sorprendere); qui il lavoro è fatto al contrario, l'ironia è continuamente rivolta agli stereotipi senza cercare di romperli; li sfotte, ma non li rovescia; non frustra le aspettative del pubblico cambiando le carte in tavola, anzi le asseconda (solo nel finale, finalmente, ritorna lo spirito eversivo del primo film).
In definitiva il film è di ottima fattura, ma meno intelligente, meno graffiante e, cosa più grave, si ride meno.
Attendo comunque l'inevitabile seguito.

giovedì 9 agosto 2018

Ocean's 8 - Gary Ross (2018)

(Ocean's eight)

Viato al cinema.

Per la trama vedere quella di "Ocean's eleven", ma declinarla al femminile, oppure vedere qui (e si, se verrà declinata al maschile sembrerà incredibilmente quella di "Ocean's eleven").

Il remake del remake di Soderbergh ha l'incredibile dote di cambiare praticamente nulla della struttura del film, partendo da un rilascio di prigione, l'incontro con il partner di una vita, la costruzione di una banda per un colpo gigantesco e fighissimo e il colpo nel colpo che si trasforma in un colpo elevato alla terza. Il tutto con un cast stellare messo li per ingolosire il pubblico e che gioca tutto sulla simpatia, sull'affiatamento e una figaggine (noi giovani diciamo coolness) che dovrebbe spettinare lo spettatore.

Se il piano è solo quello il film funziona abbastanza; la trama scorre via rapida senza troppi intoppi (riempiendo le fantasmagorie poco credibili, ma accettabili del film originale con buchi di trama, diluizioni o incongruenze un poco fastidiose, ma poco significative) intrattenendo il giusto.
Il cast fa il suo lavoro magnificamente, permettendo a tutte allo stesso modo (almeno alle attrici di peso) di sfogarsi e prendere il proprio minutaggio (unica che mi è sembrata più sacrificata è stata la Blanchett) e dimostrando un affiatamento sufficiente pur senza arrivare al buddy movie estremo della coppia Clooney/Pitt. Meno ficcante il contributo ironico, diverte, ma senza iperbole; meno cesellata anche la coolness che rimane più la location in cui far muovere la storia che non essa stessa parte dei personaggi.

In ogni caso, il difetto principale di questo buon film medio è il fatto di non dire nulla, non aggiungere niente, non aver guadagnato nulla dal cambio di genere e di risultare, alla fine della visione, meno dirompente dell'originale.

lunedì 6 agosto 2018

Bad Milo! - Jacob Vaughan (2013)

(Id.)

Visto in Dvx.

Un mostro vive nell'intestino di un uomo e si imbizzarrisce nei momenti di stress, esce e uccide qualcuno.... beh la trama è tutta qui, più qualcosa di freudiano.
Film bislacco che, come ai vecchi tempi di "Black sheep" o "Rubber" o simili pensa che basti avere una bislacca idea originale (mediamente divertente) per poter portare a casa un film ben fatto.
Purtroppo l'inesperto Vaughan (ma in realtà la colpa dev'essere condivisa, lo prendo solo da capro espiatorio) pensa che mostrando 40 minuti del protagonista che si contorce tra i dolori addominali e un paio di scene di pallido splatter (di cui una in cui il mostrillo strappa l'uccello a morsi a un personaggio) sia sufficiente. Per riempire il resto del minutaggio si inventa un pò di psicoanalisi spicciola, un wannabe twist plot e delle scene che vorrebbero essere di comicità dissacrante (la madre imbarazzante, dove di imbarazzante c'è solo un'idea buttata con tutti i tempi comici sbagliati e la mancanza di capacità di portarla fino in fondo).
Unica nota positiva il mostro è una versione di ET ricoperto di colon e con la possibilità di diventare incazzosissimo.
Pure il cast è imbarazzante, ma considerando quanto è inguardabile, il solitamente bravo, Peter Stormare (tra l'altro nella solita parte del fuori di testa dove riesce a sguazzare), facile che il problema del cast è di essere stato usato malissimo dal regista.
Unico momento realmente positivo il sobbalzo nella scena della colonscopia che sembra voler fare il verso ai found footage.

venerdì 3 agosto 2018

Gli eredi di King Kong - Ishirô Honda (1968)

(Kaijû sôshingeki)

Visto qui, doppiato in inglese.

Nel 1999 tutti i kauiju sono stati portati su un isola nel Pacifico e trattenuto dall'avanguardistica tecnologia raggiunta. Purtroppo gli alieni ci mettono (di nuovo) lo zampino; si impossessano dei tecnici che lavora sull'isola e, controllando le fiere, distruggono le capitali mondiali.

Film reunion di tutti (letteralmente tutti) i kaiju della Toho sin qui creati, dove quelli in primo piano saranno Godzilla, Angilas e Gorosaurus che si scontreranno con l'eterno cattivo Ghidorah.
Pensato come capitolo finale del franchise mostra, infatti, lo showdown definitivo con uno scontro non particolarmente dinamico, ma tra i più violenti di sempre (ricordandoci sempre che stiamo parlando di mostri di gommapiuma) con colpi efferati dati per fare del male e non per temporeggiare, la presenza (per la prima volta!) di sangue e con la conclusione sulla morte dell'antagonista.

Tutto questo viene realizzato rimasticando la vecchia idea degli alieni che controllano umani e mostri, senza inventare nulla, ma cercando di cavalcare l'avventura come nei due capitoli precedenti.
Già, perché il cambiamento più importante è il ritorno alla regia di Honda dopo la doppietta di Fukuda. Al cambio dietro la macchina da presa segue anche un maggior interesse sui mostri e i loro effetti distruttivi più che l'occhio agli esseri umani e le loro avventure (che comunque sono almeno il 50% del film), ma soprattutto fa seguito un cambio di ritmo importante.
A onor del vero devo ammettere di non aver seguito perfettamente il film a causa della noia; tolta l'esaltazione iniziale di vedere tutti i kaiju insieme il resto mi è sembrato un soporifero viaggio nel già visto; potrei eccedere in negatività dato che con il progredire del minutaggio mi sono ritrovato sempre più distratto.

Film pensato per essere la conclusione, fu invece un tale successo (!) da convincere la Toho a proseguire nella serie.

PS: il King Kong del titolo italiano è un MacGuffin per attirare spettatore, ovviamente non compare.