lunedì 28 luglio 2014

Baby face - Alfred E. Green (1933)

(Id.)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

La figlia del proprietario di un locale illegale, da sempre oggetto dei desideri degli uomini e talvolta usata come pagamento, decide di andarsene alla morte del padre.
Un suo amico appassionato di Nietzsche le inculca l'idea che per non farsi sfruttare bisogna sfruttare gli altri ai propri scopi ed in questo una donna è avvantaggiata, finché gli uomini comandano, le donne possono manipolarli (ci rendiamo conto? la protagonista di un film hollywoodiano che esplicita il suo nitzschanissimo comportamento!). Lei lo prende alla lettere e, una volta giunta a New York, comincia una rapida ascesa sociale seducendo e portandosi a letto chiunque, dal controllore si un treno merci al capo della banca in una scalata non priva di effetti collaterali. Due uomini moriranno, lei verrà allontanata; ma gelida e distaccata continuerà la sua intelligente opera di seduzione.

Il codice Hays era nato da poco e comincerà ad essere applicato in maniera aggressiva solo dall'anno successivo; questo dunque è un esempio della libertà di contenuti che la (poco) omologata Hollywood aveva prima dell'applicazione di quel regolamento. C'è da dire, ad onor del vero, che qui è già presente un finale moraleggiante e consolatorio... Hays non ha tutte le colpe di questo mondo.
Il film comunque è una epopea immorale di una self made woman in un mondo di fatto maschilista e settario. Il ritmo è enorme, la storia si svolge in maniera addirittura troppo rapida rendendo alcune delle possibili scene madri con un distacco innaturale che le svilisce; tutta questa velocità (ed il minutaggio contenuto) evitano però la noia della ripetizione in una storia i cui moduli non variano di molto.
Il cast è abbastanza abbastanza compassato, senza colpi di maestria si muove sotto dettatura; solo la Stanwyck riesce in almeno metà della sequenze a mangiarsi la scena in un misto di sensualità e stronzaggine davvero ben costruite, oltre a qualche momento di debolezza del suo personaggio; per il resto anche lei gioca a recitare con distacco con risultati altalenanti (ma spesso anempatici).

Un film più interessante che imperdibile... e poi comunque dura solo 75 minuti.

PS: Da sottolineare che nelle grinfie della Stanwyck ci cade pure un giovane John Wayne.

venerdì 25 luglio 2014

Hellraiser - Clive Barker (1987)

(Id.)

Visto in Dvx.

Un uomo con la sua nuova moglie si trasferisce nella vecchia casa di famiglia dove, pare, abbia soggiornato per un pò il di lui scapestrato fratello ormai scomparso. La nuova moglie scoprirà che il fratello si trova ancora in quella casa (ah si, i due avevano una relazione), ma a causa di una scatola che può aprire le porte dell'inferno è rimasto intrappolato fra le dimensioni; solo del sangue può fare in modo che dal cadavere si ricomponga un essere umano. Tutto questo però dovrà accadere prima che i supplizianti (qui ancora non si chiamano cenobiti) scoprano che lui è fuggito dall'inferno. A mettere i bastoni fra le ruote più che il molle marito sarà la figlia di primo letto Kristy.

Primo capitolo dell'ultima saga horror di rilievo (beh prima di Saw)... voglio dire subito che non c'è niente che invecchi come i film de paura; un pò perché l'evoluzione degli effetti speciali è rapidissima, un pò perché l'asticella dell'orrore e della suspense viene alzata continuamente.
Ecco questo lo dico subito per giustificare la mia seguente affermazione: questo film è bruttissimo.

Clive Barker, l'autore della storia originale e sceneggiatore aveva visto che cosa avevano fatto i cinematografari con due sue storie precedenti e decide che a sbagliare può riuscirci anche da solo e si mette alla regia. Peccato che le sue competenze siano nulle e si vede, ama lo splatter, ma non sa gestirlo, crea situazioni al limite, ma non riesce a finalizzarle e inanella una serie di sequenze da horror di serie B senza alcuna empatia. Il ritmo un poco lento non disturba neanche troppo, mentre la tendenza al casino del finale l'ho trovata sconfortante.

Certo, la storia è la cosa vincente, Barker da vita ad un mondo dell'horror originale, intelligente e (finalmente) adulto. Qui sangue e sesso sono strettamente legati, l'adolescentella finale è solo lo strumento per lo showdown, ma qui a gestire le cose sono gli adulti (fatto quesot in controtendenza con l'horror dagli anni '7 in poi); qui la responsabilità di quello che accade è sempre della vittima che vuole richiamare i supplizianti, salvo poi pentirsene; qui l'inferno è un luogo sadomasochistico dove il dolore provoca piacere e viceversa.
Poi soprattutto Barker creare un immaginario visivo da urlo. La scatola dell'evocazione è ormai un oggetto pop e la figura di Pinhead è archetipica (pure gli altri supplizianti sono ragguardevoli; tranne butterball).
Barker crea un mondo e delle immagini enormi, però non le sa gestire.

Forse vi ricorderete di me per scene come: I CENOBITI, sempre. Devo dirlo di nuovo? (tranne butterball, l'ho già detto, quello si che è idiota).
Ma anche il mostro con 4 braccia e due teste è notevole. La rinascita dello zio dal pavimento poi è un piccolo gioiello di effetti speciali low cost anni '80 perfettamente riuscito.

lunedì 21 luglio 2014

Il grande match - Peter Segal (2013)

(Grudge match)

Visto in DVD.

Due campioni dei pesi medi anni '80 che si incontrarono solo in due match finiti con una vittoria per uno vengono ingaggiati per fare lo spareggio... 30 anni dopo. Un'operazione nata solo per soldi riapre vecchie ferite e li mette di fronte ad un tentativo di famiglia mai riconosciuto (una vecchia fiamma per uno ed un figlio mai conosciuto per l'altro.

Il film che imita la vita, per i due protagonisti credo che questa fosse solo un'operazione alimentare per arrotondare la pensione (dorata per uno Stallone che sta tornando con prepotenza; sempre più grigia per un De Niro rantolante). Diciamoci la verità, chi negli ultimi 30 anni si è chiesto "Quando si decideranno a fare un Rocky vs Toro scatenanto?!".
L'idea alla base comunque è una commedia geriatrica. Peter Segal di fatto è un mestierante di film smaccatamente comici, o se proprio, commediole romantiche; per non parlare di Kevin Hart.
La nicchia di film per anziani sta diventando un genere a sé sempre più importante; quindi il fatto che in questo film ci siano vecchi che riescano in prove fisiche imbarazzanti per dei giovani, ma soprattutto stendano a ripetizione pugili e atleti di octagon nel pieno delle forze.
Il pugilato poi è solo un mezzo per arrivare a Rocky, la storia americana definitiva. Da Rocky si prendono gli uomini che si fanno da soli, gli outsider che hanno perso tutto (nella vita), ma che riescono a recuperare con le proprie forze, uno showdown finale dove la vittoria effettiva è solo un rumore di fondo visto che la vittoria morale è la cosa che conta. Da Rocky prendono il cuore... e poi sfruttano uno Stallone invecchiato che in maniera scientifica sfotte il mito da lui stesso creato.
La boxe in realtà non c'è; l'incontro finale è inesistente.

Di fatto una commedia agrodolce sul tempo che passa che butta in mezzo diverse ottime battute, qualche buon personaggio, tanto intrattenimento, alcune cadute di stile. Un film alimentare che si lascia guardare se non si hanno pretese.

venerdì 18 luglio 2014

Angeli perduti - Wong Kar Wai (1995)

(Duo luo tian shi)

Visto in DVD.

Le vite di due uomini hongkongesi sfilano l'una accanto all'altra con pochi punti di contatto. Il primo è un killer su commissione che tenta di trattenere la sua socia, non riuscendoci cercherà rifugio fra le braccia di una sconosciuta. Il secondo è un ragazzo muto fin da bambino dopo aver mangiato dell'ananas scaduto (ben ritrovato Hong Kong Express), ora vive di espedienti, rubando nei negozi e costringendo dei passanti casuali ad accettare i suoi servigi come barbiere o gelataio in base al giorno; anche lui finirà ad aiutare una ragazza di cui si innamorerà.

Era da tantissimo tempo che non vedevo un film di Wong Kar Wai e con questo "Angeli perduti" ritrovo esattamente quello che avevo lasciato con "Hong Kong Express" (di cui questo è un seguito ideale). Regia videoclippara (sarà uno degli ultimi film con questa costruzione adrenalinica) con macchina da presa mobilissima, spesso a mano, spesso ad inseguire o anticipare i personaggi, grandangoli eccessivi e deformanti, ambienti notturni e tetri, colori acidi (ma qui ho notato pochi neon...), colonna sonora pervasiva, ralenty e accelerazioni, montaggio pro-epilettico... insomma il campionario completo.

La storia è al solito un insieme di storie il cui tratto comune non sono gli avvenimenti o i personaggi quanto il mood da solitudine urbana che pervade ogni scena e ogni attore; e poi la solita storia d'amore sospesa. Ci sono anche un paio di momenti divertenti.
Tutto sommato però stavolta delude; il film non regge il colpo del già visto (cosa strana dato che Kar Wai rifà ogni volta lo stesso film come Woody Allen e, proprio come il regista newyorkese, riesce sempre ad aggiungere qualcosa di nuovo tanto da rendere ogni opera avvincente), ma soprattutto perde del tutto il ritmo in meno di mezzora trascinando gran parte della storia in maniera agonizzante.

lunedì 14 luglio 2014

Cabiria - Giovanni Pastrone (1914)

(Id.)

Visto qui. Su internet si trova, scaricabile, una versione di circa 100 minuti, quella di youtube è di 126 minuti (purtroppo con i cartelli tradotti in inglese), circa 40 in meno rispetto alla versione originale.

Le guerre puniche, Annibale che attraversa le Alpi; la storia romana si incrocia con quella della piccola Cabiria, bambina di famiglia patrizia romana che vive alle pendici dell'Etna, verrà rapita da pirati fenici che verrà portata a Cartagine dove diverrà la predestinata vittima del culto omicida del Moloch; verrà salvata grazie al provvidenziale intervento di due spie romane (uno dei due è Maciste alla sua prima apparizione) che la rapiranno e la nasconderanno nel palazzo reale di Cartagine; Maciste verrà arrestato, l'altra spia fuggirà in Italia. Dieci anni dopo le battaglie hanno portato Roma alla supremazia e la vecchia spia romana torna sui suoi passi per cercare chi è rimasti indietro.

Cento anni fa venne dato alle sale italiane "Cabiria", il primo Kolossal del cinema. Aneddotiche ormai le influenze che ebbe sul cinema muto internazionale dalla citazione del Moloch di "Metropolis" al fatto che Griffith dopo la visione trasformò il film che stava realizzando nell'"Intolerance" che oggi conosciamo.
Di fatto ci si trova di fronte ad un'opera colossale (riconosciuto come il secondo kolossal del cinema), con ricostruzioni in studio di scenografie memorabili (la statua del Moloch conservata a Torino e l'ingresso del tempio sono tutt'ora emblematiche, ma anche le mura esterne scalate dall'esercito romano non scherzano) con esterni realizzati in Sicilia, sulle Alpi ed in Tunisia; un dispendio di risorse mostruoso. Ma anche una cura maniacale del dettaglio, costumi entusiasmanti (nell'ottica dell'opera d'arte totale) in un ottimo stile liberty. Come script doctor (di fatto marginale) c'è pure lo zampino di D'Annunzio (il cui nome permise il grande successo in Italia) che scrisse tutti i cartelli e introdusse la figura di Maciste (tendenzialmente da commedia).
La cosa che però vorrei sottolineare è come il film regga bene (nonostante ridotto di minutaggio non si notano le mancanze, la storia non ha salti improvvisi); pochi i momenti di stanca, più che altro qualche scena tenuta un po troppo, ma per il resto le oltre due ore di film muto non pesano, scorrono rapide e, nella prima metà (quella di Cabiria bambina), riesce a mantenere un ritmo impeccabile.

Infine, e lo metto alla fine anche se fu parte integrante dell'impatto storico del film, la regia di Pastrone. Costruisce immagini evocative, utilizza (poco, ma in maniera oculata) i dettagli come fonte di emozioni, si diletta in un paio di sovrapposizione tecnicamente impeccabili, usa lo zoom e brevi (ma frequenti) carrelli laterali e anteriori dettando la linea che il cinema più innovativo seguirà nel decennio successivo (e che, come detto ispirerà Griffith e costringerà Dwan a creare macchine ad hoc).

venerdì 11 luglio 2014

Duplex, Un appartamento per tre - Danny DeVito (2003)

(Duplex)

Visto in tv.

Una coppia decide di comprare in nuda proprietà una appartamento a Brooklyn; coabitando con l'anziana proprietaria precedente fino alla di lei morte. La delicata vecchina si dimostrerà essere una stronza pazza e piena di salute. L'anziana rovinerà a poco a poco la loro vita sotto ogni punto di vista (soprattutto lavorativo). Arrivati allo stremo della sopportazione decideranno di ucciderla; prima in autonomia (ma ovviamente la vecchietta si dimostrerà, abile, pericolosa e fortunata) poi rivolgendosi ad uno specialista.

Commedia grottesca, cinica e velata di nero; genere in cui DeVito (qui regista) ci sguazza ampiamente (è evidente che deve avere accettato questa sceneggiatura con gioia). Ricca di situazioni al limite dell'assurdo, del già citato grottesco, ma anche dello schifo; ci si sguazza qui a maltrattare i protagonisti, come se fossimo in un film comico girato da Haneke.
Di fatto DeVito si dimostra un serio e originale mestierante; inquadra con dovizia di originalità, non lascia niente al sottinteso (che sarebbe sembrata mancanza di palle più che buon gusto) nell'umiliare Stiller e azzecca perfettamente il ritmo.
Quello che manca, purtroppo, è la comicità. Il film si segue bene, intrattiene e personalmente ero molto curioso di vedere come poteva concludersi senza scadere nel politicamente corretto, nell'accomodante o nel già visto (in questo senso il finale non è sensazionale, ma devo dire che ha scartato con stile tutte le mie preoccupazioni); però non si ride, ci si diverte, ma in un film comico la risata conta.

La Barrymore è una buona spalla, ma niente di più; Stiller fa se stesso come al solito, forse con il pilota automatico...

lunedì 7 luglio 2014

In trance - Danny Boyle (2013)

(Trance)

Visto al cinema.

Un dipendente di una compagnia d'aste aiuta un gruppo di balordi a rubare un quadro di Goya; prima che il piano giunga a conclusione però sfila la tela dal supporto, la nasconde da qualche parte e... prende una botta in testa che gli causa un'amnesia totale sul quell'episodio. Andrà da una ipnotista per poter recuperare il ricordo; però l'ipnotista è superintelligente e scopre l'ampio piano che ci sta dietro...

Danny Boyle costruisce un classico film alla Danny Boyle come se fossimo negli anni '90; inquadrature sghembe, colori flou, luci in faccia, macchina mobilissima e musichette pop (o dance) utilizzate come Scorsese usa il rock d'altri tempi; tutto ciò con una iniezione di soldi che il Danny Boyle anni '90 si sognava, quindi si va giù pesanti con interni di design e vestiti firmati.
Tutto questo esercizio di stile per una trama che comincia come uno scanzonato heist movie, vira verso la confusione su ciò che è reale e ciò che è immaginato per concludere dalle parte di un "Eternal sunshine" all'acqua di rose.
Tutto questo con un giunonico e succulento nudo integrale frontale di Rosario Dawson integrato nella storia, ma in maniera talmente patetica da risultare pretestuoso (credo che Danny Boyle si stia ancora vantando con gli amichetti del pub per la scusa con cui è riuscito a spogliare la Dawson... in ogni caso chapeau).

Per carità tutto bello, tutto buono, tutto ben fatto... però molto fine a sé stesso; un esercizio di stile perfettino, ma vuoto; a parte il nudo della Dawson il resto si fa dimenticare molto velocemente. Assomiglia a "Trainspotting", ma non ne ha la forza, la volontà, il contenuto, o semplicemente si sta solo sfruttando un (vecchio) trend vincente... è solo sfruttamento.

venerdì 4 luglio 2014

Le 5000 dita del Dr. T - Roy Rowland (1953)

(The 5000 fingers of Dr. T)

Visto in Dvx, in lingua originale.

Un bambino costretto da un odioso insegnate di piano ad allenarsi per un saggio che dovrà dare lustro al maestro più che motivazioni all'alunno sogna di essere tenuto prigioniero dal temibile Dr T (il maestro stesso), il quale vuole portare 500 bambini a suonare contemporaneamente una musica da lui composta, per fare questo ha ipnotizzato la madre del protagonista. Il bambino si farà aiutare dall'idraulico suo amico a sventare il piano e a fuggire con la madre.

Incredibile musical per bambini anni '50 che sembra totalmente in stile anni '70 (credo a questo punto che abbia funzionato come base per il primo Willy Wonka) con una serie di idee visive invidiabili.
Ma diciamo le cose con ordine.
La storia è abbastanza idiota e si muove in maniera claudicante, ma d'altra parte quale musical primeggia per originalità della trama?
Le canzoni sono invecchiate tantissimo ( e comunque sono adatte ai bambini) e le coreografie sono appena abbozzate, molto minimal e tutt'altro che impeccabili (la migliore è assolutamente quella sulla musica senza testo nelle prigioni sotterranee). La questione della musica è decisamente più importante, ma bisogna ammettere che le canzoni sono abbastanza poche (siamo dalle parti di Dancer in dark piuttosto che di Jesus Christ superstar).
Gli attori sono detestabili per le loro facce incredibilmente anni '50. Salvo solo il villain e il giovane protagonista, macchiettistici, cartooneschi, ma fanno lo sporco lavoro che è richiesto loro. I due personaggi principali quindi passano il turno.
Infine le scenografie. Qui c'è la vera vittoria. La presenza di Suess (oltre che nello script) nella gestione delle scenografie. Le idee visive di questo film sono continue ed enormi, la creazione di un mondo fantastico che ubbidisce unicamente alle regole fisiche del cartoni animati, con spazi metafisici, pareti e scale scippate all'espressionismo tedesco, edifici surreali, colori chiassosi degni almeno dei sixties. Il vero valore aggiunto, l'idea innovativa encomiabile, nonché il motivo principale per cui vale la pena di ritrovare questo film (e riguardarlo) è per l'appagante reparto estetico, tutto improntato all'anarchia fantasiosa che solo un bambino geniale avrebbe potuto avere. Spettacolare.

martedì 1 luglio 2014

Synecdoche, New York - Charlie Kaufman (2008)

(Id.)

Visto al cinema.

Per prima cosa va detto: finalmente questo film è uscito pure da noi; considerando anche le enormi difficoltà che ho avuto per riuscire a vederlo per vie alternative...

Un regista teatrale (Hoffman) impegnato nella messa in scena de "Morte di un commesso viaggiatore" in cui sostituisce i personaggi anziani con dei giovani per scelta stilistica si ritrova ad avere una serie di sintomi sempre più inquietanti, il senso della malattia in avanzamento e della morte imminente cominciano a prenderlo. nel mentre la moglie pittrice sembra allontanarsi da lui, fino alla fuga in Germania con la figlia per una personale, non farà più ritorno.
Il protagonista vincerà un importante premio teatrale e deciderà di utilizzare il guadagno per la messa in scena di un lavoro originale che imiti il più possibile la vita; farà ricostruire una New York a grandezza naturale dentro ad un'enorme capannone, al cui interno ci sarà anche la copia del capannone stesso con un'altra New York in miniatura. sostituirà tutti i personaggi da lui incontrati con degli attori che li interpretino (l'idea è mettere in scena una giornata reale); a loro volta però questi personaggi sono interpretati da persone autentiche che prenderanno scelte autonome e dovranno pertanto divenire personaggi a loro volta; le sostituzioni verranno fatte in maniera sempre più spirituale (se mi si passa il termine) e meno realistica, sostituendo uomini con donne e viceversa. Nel frattempo il tempo stesso subisce variazioni, il protagonista non percepirò il fluire del tempo in maniera corretta e l'invecchiamento dei personaggi sarò a velocità diverse. Infine, la morte, sempre presente si farà sempre più addosso al protagonista, prima come idea (ossessione o volontà di rappresentazione), poi come reale decesso delle persone a lui vicine.

Film complessissimo di cui si può dire subito un paio di cose.
Regia inutile, non fa scelte eclatanti, non sottolinea in maniera impeccabile uno script enorme come era successo con i precedenti scritti di Kaufman. Purtroppo l'unico difetto da sottolineare è il ritmo a volte col freno a mano, che un regista migliore avrebbe, probabilmente, evitato.
Il cast è perfetto, tutti sono al loro meglio, credibili in ogni sequenza.

Detto ciò c'è da affrontare la storia. Perché Kaufman è un regista mediocre (viaggia nel mezzo senza enfasi), ma è uno scrittore titanico.
La storia è un continuo sostituire, personaggi, età, identità, gusti sessuali, parole e significati. Gli esempi sono innumerevoli e pervadono l'intero film; nonostante il tema inquietante e deprimente (perfetto il mood dell'incipit del film in cui la tensione, la paura della morte e della malattia sono di una densità palpabile) si trovano molti momenti ironici veramente divertenti.
La vera questione è: il film di cosa parla esattamente? Perché pur funzionando in maniera ottimale come veicolo di emozioni il senso ultimo del film sfugge. (apro una parentesi, il senso di un film a mio avviso non è necessario, come Lynch ci insegna, molto più utile è l'empatia che il film offre [la capacità di veicolare emozioni] e la fluidità di narrazione; tuttavia in un film del genere, dove gli stimoli sono multipli e molto particolareggiati, dove il film stesso si interroga sul senso di quello che viene fatto e, in cui l'autore è un noto scrittore di opere surreali, ma con un profondo senso dichiarato, ecco, in un film del genere, il fatto che ci sia un senso unico che racchiuda tutto questo è per me quasi una certezza).
Almeno quattro sono le ipotesi fattibili; che ordino qui dalla meno verosimile (per me), alla più realistica.
(ci sono alcuni spoiler, ma per la natura del film credo che non facciano perdere nulla del gusto della prima visione)

1- Si parla del solito (per Kaufman) viaggio nella mente di un personaggio, o del solito (per il cinema americano) viaggio all'interno di un sogno. Questo è la prima sensazione che il film mi ha dato. I continui lavori di sostituzione di persone, confusioni sul sesso e sulla sessualità dei protagonisti, i giochi di parole che rappresentano anch'essi delle sostituzioni di senso, la cronologia alterata, singoli dettagli simbolici senza alcuna spiegazione (su tutti l'appartamento in fiamme della Morton) sembrano propendere verso questa spiegazione e, di fatto, motiverebbero ogni evento con un meccanismo mentale di difesa della psiche umana che cerca di confondere le acque dei propri ricordi (di fatto il protagonista si trova in analisi).

2- Simile al precedente, ma con sostanziali differenze; sempre un viaggio nella mente di una persona, ma più esattamente un viaggio nella sua malattia. Il protagonista si chiama Cotard come l'omonima sindrome psichiatrica (chi ne è affetto può ritenere di essere già morto), così come l'evidente ipocondria della prima parte del film ed il riferimento alla psicosi (e la figlia del protagonista che gli chiede se lui può averla). La presenza della terapeuta con i riferimenti al suicidio, la tendenza a sostituire le persone con altre fittizie, la tendenza al controllo e quegli stessi meccanismi mentali che possono valere per il sogno (quindi il simbolismo e le sostituzioni) possono essere riportati anche in questa teoria. Non la storia di una psiche, ma le dinamiche tortuose di una malattia psichiatrica.

3- La storia della morte del protagonista. Che sia l'intera vita che passa di fronte agli occhi del moribondo (piuttosto confusa, ma di fatto devono essere concentrati molti anni nel breve periodo di un decesso) piuttosto che un limbo dove un uomo tira le somme di quanto accaduto la cosa impronta poco. I riferimenti alla morte sono continui, la paura del protagonista che lo contagia fin dall'inizio, la domanda diretta della psicoanalista (parlando di un suicidio gli chiede "e tu perché lo hai fatto?"), la morte come presenza inquietante (l'articolo del Nobel a Pinter viene per prima cosa interpretato come un coccodrillo; al protagonista vengono consegnate riviste mediche; le malattie da consunzione che sembrano affliggere un Hoffman sempre più anziano e consunto, la stessa consunzione che sembra affrotnare la città), infine l'incoraggiamento/indicazione finale a Hoffman stesso di morire data da una persona irreale, ma onnisciente dopo che per più di due ore il protagonista sembra aver ripercorso la sua esistenza e sembra essere sceso a patti con le proprie scelte del passato.

4- Che sia una storia surreale che tenti di veicolare un mood e basta (condizione che ho escluso all'inziio) o che parli della antura umana senza un'indirizzo più specifico... beh c'è sempre la possibilità. I riferimenti alle opere di Pinter e Kafka, le simbologie dense, ma poco correlate ad un'idea più definita, il gioco ad incastri nel finale, l'andamento tortuoso... la possibilità c'è e non la si può escludere.

5- La sineddoche è la figura retorica che indica la parte per intendere il tutto, è quindi logico che un film che parla del tentativo di un'opera d'arte di rappresentare la vita con tutti i dolori, le assurdità e le difficoltà (ma anche con i dettagli da poco, le tortuosità e con le storielle inutile) parli effettivamente della vita cercando di rappresentarla con tutti i dolori, le assurdità e le difficoltà (ma anche con i dettagli da poco, le tortuosità e con le storielle inutile).

PS: consiglio questo ottimo articolo sul film, non spiega molto di più, ma accumula ancora più dettagli.