sabato 30 novembre 2013

Shall we dance? - Peter Chelsom (2004)

(Id.)

Visto in tv.

La trama non la scrivo neanche, è piuttosto prevedibile.
L’ho guardato perché mentre lavoravo al computer volevo avere un rumore di fondo che mi facesse compagnia… eppure tutto sommato ho dovuto seguirlo, almeno nel finale.
Diciamolo subito che non è una pietra miliare, ma un film riempitivo, che si può raggruppare con i film per la tv (davvero mi risulta difficile capire perché avrei dovuto pagare per guardarlo) ed in quest’ottica si fa apprezzare, anzi direi che batte i suoi colleghi senza troppo sforzo.
Una storia facile di riscatto e amore che si muove con ritmo, trova sfoghi comici (in realtà a volte eccessivi; mi fa male vedere il grande Tucci costretto in un ruolo così idiota) per sostenere l’inesorabile susseguirsi di tentativi goffi, piccoli successi, incomprensioni, inganni, grandi successi, riconciliazioni. Si sa che andrà così, ma una volta entrati nel mood e nel ritmo si attende con piacere il naturale sviluppo.
Richard Gere m’è pure sembrato in parte, uomo di mezz’età, un tempo sex symbol, che cerca di riciclarsi per riuscire a dare un senso alla sua vita e una scossa al matrimonio, una compagnia di ballerini le cui caratteristiche (nonché l’esito finale) è scritto in faccia e una serie di sequenze di ballo non enormi, ma accettabili. In tutto questo però, mi sconvolge dirlo, la Lopez non centra proprio niente; immagino sia stata messa per accontentare il folto gruppo di accompagnatori maschili al cinema, però ha un ruolo limitato, ininfluente nei confronti della trama e senza un reale peso (anche se nella sceneggiatura il peso glielo applicano a forza). Una regia decente e qualche dialogo molto bello (inutile, gli americani nei dialoghi sono ancora i migliori) chiudono la faccenda.
In poche parole, non è niente di che, ma per riempire un’ora e mezza questo è un ottimo tappabuchi che, se si è pronti al genere, non può lasciare insoddisfatti.

mercoledì 27 novembre 2013

Sharknado - Anthony C. Ferrante (2013)

(Id.)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato.

Una delle più grandi paure dell’uomo sono gli squali. Per fortuna è una paura autolimitante, si sta fuori dal mare e ogni problema è risolto… Era solo questione di tempo e prima o poi qualcuno avrebbe portato gli squali sulla terraferma; o meglio, il mare in città.
Un uragano si abbatte su Los Angeles con un carico di 20.000 squali. Un carico di 20.000 precisissimi squali, che ti piombano addosso con le fauci aperte e riescono a staccarti un braccio prima di schiantarsi sull'asfalto.

Filmaccio di serie B con effetti speciali ridicoli, ma dignitosi (no, non trovo che sia un controsenso); una regia di nome, ma non di fatto (tutto è costantemente sbagliato, dalle luci diverse da una scena all'altra, al montaggio). Quello che rimane è il gusto per l’idiozia che non si prende sul serio, ma anzi cavalca se stessa e propone esattamente quello che le si chiede; gambe staccate di netto, persone schiacciate da squali volanti, motoseghe dall'azione chirurgica, persone estratte vive (!), atti di inaudito (ma anche assurdo e scientificamente casuale) eroismo e giusto quel po’ di romanticismo e family drama che sono la base di ogni film made in USA. Insomma confeziona un film di serie B vero e proprio, non un omaggio canzonatorio, ma la materia prima cruda e onesta.

Se si ha un buon gruppo di amici e la birra giusta, la serata sarà un successo.

lunedì 25 novembre 2013

Il pane nudo - Rachid Benhadj (2005)

(El khoubz el hafi)

Visto al Festival di Cinema Africano (fuori concorso).

La storia tratta dal libro autobiografico di Choukri, una storia di un ragazzo nato nella povertà di un Marocco coloniale, con padre violento e fratelli che ad uno ad uno verranno persi; sfruttato ripetutamente, come forza lavoro e come prostituto, arriverà ad essere arrestato come sospetto contestatore anti-francese. In carcere incontrerà un uomo che gli insegnerà a scrivere dandogli al possibilità di divenire insegnante e poi scrittore.

Una storia che sarebbe stucchevole se fosse tutta li e se non fosse vera. In realtà il film dovrebbe essere un film duro, dove omicidi, violenza sulle donne, violenza psicologica e abusi sessuali sono reiterati e continui. Un film (sulla carta) duro.
Tuttavia, a mio avviso, non raggiunge il suo scopo.
Il regista sembra voler rendere chiare ed evidenti i personaggi ed i loro rapporti in troppo poco tempo; non c'è empatia con loro, non si intuiscono i sentimenti, anzi, le emozioni vengono sempre dichiarate; i personaggi non crescono e non comunicano, si prende atto che siano amici perché fin dall'inizio si comportano come se lo fossero, si prende atto di amore od odio perché il protagonista lo dice direttamente.
Se a questo si aggiunge una messa in scena bella, ma evidentemente finta (forse questo dettaglio è dovuto al fatto che si è visto su uno schermo [!] ad alta definizione); con alcuni degli usi peggiori del green screen; l'utilizzo di attori che non riescono neppure a fingere di morire senza prendere a piene mani dai cliché delle recite delle medie; infine ci si metta pure qualche inutile rallenty, un uso pornografico (ma comunque emotivamente nullo) delle musiche e delle luci; ecco se si aggiunge tutto questo si ha un'idea del tipo di film.
Ed è un peccato perché le tematiche in gioco sono tantissime.

Non è un film pessimo, ma una buona fiction televisiva; si fosse limitato a quello sarebbe assolutamente accettabile.

venerdì 22 novembre 2013

Something necessary - Judy Kibinge (2013)

(Id.)

Visto al Festival di Cinema Africano (in concorso), in lingua originale sottotitolato.

A seguito degli scontri post elettorali del 2007/2008 in Kenya, una donna rimane vedova, con il figlio in coma, la casa (con fattoria) è stata bruciata e lei è incinta dei suoi aggressori. Nonostante tutto questo (e grazie al recupero del figlio) cerca di ricominciare a vivere ricostruendo la fattoria, ma i problemi saranno appena iniziati. Il figlio odia quel posto, lei inizierà ad avere un atteggiamento ossessivo (metterà carta di giornale sulle finestre, cercherà di ricostruire tutto in maniera dettagliata, si allontanerà dal mondo); contemporaneamente uno dei suoi aggressori pentito si ritroverà, involontariamente, a lavorare per la ricostruzione della casa, dato il senso di colpa l'aiuterà di nascosto in maniera rilevante, ma neanche lui sfuggirà al passato. Tutto questo si trascinerà avanti finchè la protagonista non andrà a parlare alla commissione d'inchiesta.

Film, diciamolo subito, piuttosto scontato nella trama, per entrambe le storie. Però ha il suo punto di forza nella fattura. Se la fotografia non offre niente di che, la regia è buona; piani sequenza fatti per creare dinamismo (tutti con macchina a mano, ma direi che è comprensibile il motivo), un modo di raccontare il passato e le ossessioni della protagonista tutto per immagini, inquadrature sempre molto ampie dove gli uomini sofferenti vengono messi in rapporto con una natura immobile e rigogliosa.
Il lavoro nella regia è decisamente buono e rende più che positivo l'intero film. Un cast assolutamente adeguato evita di affossarlo in maniera indecorosa.
Niente di eccezionale, ma è una bella sorpresa.


Il film è stato preceduto da un corto "Olongo (Le ciel)" di Clarisse Muvuba. In Congo, un uomo che si mantiene facendo il cantante nei funerali immagina il casino che potrebbe succedere alla sua morte... e decide di provare a vedere la cosa dal vivo... Commediola grottesca e nera, interessante per la trama e i sottointesi, ma alla fin fine i tempi dilatati e la scrittura approsimativa l'affossano.

mercoledì 20 novembre 2013

Les enfants de Troumaron - Harrikrisna Anenden, Sharvan Anenden (2012)

(Id.)

Visto al Festival di Cinema Africano (in concorso), in lingua originale sottotitolato.

La storia parte presentando 4 personaggi, 4 giovani accomunati dalla voglia (per alcuni la necessità) di fuggire, ma tutti egualmente bloccati nella città di Troumaron, isole Mauritius.
Dei quattro al protagonista assoluta è Eve, diciassettenne che si prostituisce come unico modo di sfruttare a proprio vantaggio l'ambiente maschilista e coercitivo, di lei si innamora una ragazza che, a causa di una delle storie di Eve verrà uccisa; del delitto verrà accusato il quarto ragazzo. Il secondo personaggio principale è Sad, compagno di classe di Eve e suo innamorato, cerca di avvicinarsi a lei e, solo a parole, di proteggerla.

Il film è uno stupefacente esempio di buon cinema. Tecnicamente parlando è impeccabile. Una fotografia da urlo e un uso della regia sobrio (quasi sempre), ma che si concede dettagli (tanti) e camera a mano nei momenti di maggior enfasi, con alcuni squarci postmoderni all'interno delle presentazioni dei personaggi. Considerando che dei due registi (padre e figlio) uno viene dai documentari e si cimenta per la prima volta con un film di fiction, mentre l'altro è alla sua opera prima, direi che c'è da ben sperare per il futuro.

La storia è un drammone enorme, con una base adolescenziale (in senso buono) nella fuga come necessità per vivere, ma in realtà mostra molto di più. Mostra, come si diceva, un mondo dove la violenza è pervasiva, ma mutuata unicamente dagli uomini (ma attuato praticamente da tutti i maschi che compaiono sullo schermo), dove le donne subiscono e basta (ecco quindi il perché della prostituzione come unico mezzo di affermazione sociale, come se il sesso fosse l'equivalente della violenza messo a disposizione della protagonista; ecco il perché dell'amore saffico; ed infine ecco il perché del taglio dei capelli finali della protagonista prima che anche lei ceda alla violenza); ma viene anche descritto un ambiente dove tutti (per prima Eve stessa) si sfruttano a vicenda, dove gli unici sentimenti autentici sono costretti ad essere eternamente frustrati; ma c'è anche una visione fritzlanghiana dell'uomo comune che si macchia di un delitto quasi per caso (anzi, quasi per colpa d'altri), mentre un innocente viene preso come capro espiatorio; ma c'è anche l'arte (la poesia) come tentativo di fuga pur rimanendo nello stesso posto, ma dato che ci si trova in uno dei drammi più cupi possibile, sarà un mezzo che non porterà da nessuna parte.
Come dicevo gli elementi messi in gioco sono innumerevoli, non tutti equamente distribuiti, su tutti infatti giganteggia la questione della violenza, messa in un ambiente ad un tempo comune (potrebbe essere qualunque città del mondo) e disperatamente tetro.

Per la prima volta un ottimo cast (nonostante siano tutti esordienti) condotto da un'ottimo apparato tecnico per una storia forte.

lunedì 18 novembre 2013

Le président - Jean-Pierre Bekolo (2013)

(Id.)

Visto al Festival di Cinema Africano (in concorso), in lingua originale sottotitolato.

Il dittatore del Camerun, al governo da 40 anni improvvisamene scompare, i media locali tentano di seguirne le tracce, ma le segnalazioni sono troppe e le motivazioni sconosciute; nello stesso momento il film segue il presidente stesso, il suo peregrinare in cerca di un successore, gli incontri con un rapper e con il capo dell'opposizione fino allo showdown con la sua ex moglie.

Prima parlo dei difetti perché dopo potrei sembrare troppo entusiasta. Prima di tutto è un film esteticamente dozzinale, evidentemente low budget, anzi lower. Poi è un film a tesi, dove la tesi è urlata in faccia ogni 15 minuti circa, non proprio una buona partenza insomma. Inoltre il film ha un po' il limite delle produzioni low budget soprattutto per la fotografia e la recitazione di parte dal cast (i giornalisti), anche se la critica maggiore va fatta sulla verosimiglianza delle scene di fiction e la totale non credibilità dei tg e degli inviati che si vede stanno recitando. Inoltre, pur essendo un fil di 60 minuti, riesce ad essere rallentato dalla forma (che è anche il punto vincente), soprattutto all'inizio quando ancora deve ingranare. Ultimo neo i dialoghi, se tutto sommato si salvano quasi sempre, i giornalisti appaiono particolarmente vacui (ok era l'intento, però potevano essere comunque scritti meglio) e, soprattutto, il discorso del rapper Valsero dovrebbe essere un punto di svolta importante mostrando come un uomo del popolo (un artista però) sia molto più lucido del presidente, tuttavia il discorso è fumoso, vacuo, è evidente la veemenza positiva, ma non è chiarissimo il concetto al di la del fatto che tutto quello fatto dal dittatore fosse uno sbaglio. Ah già chioso solo sulla paraculaggine del finale dove come nuovo presidente viene "eletta" una donna...

Un film particolarissimo nella costruzione, non è un mockumentary tout court, ma neppure è solo fiction; è più dalle parti di un "La seconda guerra civile americana", anche nel mostrare l'umanità dietro ai "grandi" personaggi e ovviamente nello sfottere l'idiozia dei media. Tuttavia non è solo quello.
Il presidente è una figura ironica che si trova però a metà strada fra i dittatori di Sokurov e "Il posto delle fragole" (nessuno me ne voglia per i paragoni iperbolici), un uomo solo vittima del suo sistema (le guardie del corpo che vorrebbero ucciderlo) che ripercorre un percorso fisico che è soprattutto un viaggio psicologico (la strada che continuano a ripercorrere, l'ex moglie nel finale); il tutto, come si diceva diluito in una ironia leggera. Oddio non ci si aspetti un film profondo come quelli citati, qui siamo ci sono solo 60 minuti, li nomino solo per cercare di inquadrare il mood del film.

Inoltre è un film demagogico, ma girato in una dittatura, dunque il popolusmi diventa un atto di coraggio. Se a questo si somma il fatto che i discorsi spesso diretti sono realizzati in maniere sempre nuove (pensieri esposti con voci fuori campo, personaggi che parlano direttamente in camera durante false soggettive, tre momenti musicali dove il testo della canzone veicola concetti, dichiarazioni di comodo, il depistaggio involontario dei tg, ecc...), anche il logorante (e logorato) film di denuncia assume un fascino e delle possibilità nuove.

In poche parole, considerando la pesante opinione del regista che viene veicolata in ogni inquadratura, considerando che ne escono bene quei personaggi (il rapper) che non ci si aspetterebbe fossero più sul pezzo della classe politica, considerando la paraculaggine di certi momenti, la ricerca di linguaggi sempre diversi e il preciso intento di dire qualcosa al potere costituito mentre si cerca anche una sollevazione del popolo, questo è un po' un film alla Michael Moore, se Moore facesse mockumentary.

Interessante sottolineare l'ovvia censura avvenuta in Camerun; ma ancora più interessante il fatto che il Goethe Institut (che ha coprodotto) abbia poi rifiutato di distribuirlo in Germania e che ci siano stati problemi nel portarlo anche in Francia, tanto che il regista l'ha reso disponibile gratuitamente su una piattaforma on demand keniota.


Il film è stato anticipato da un corto "Accusé de reception" di Djibril Saliou Ndiaye. La storia è quella di un uomo in crisi economica che decide di scrivere a Dio, la lettera ovviamente si fermerà all'ufficio postale dove verrà aperta dal personale che deciderà di aiutare l'uomo; ma il protagonista troverà comunque il modo di lamentarsi ancora. Un filmetto senza qualità, girato in maniera minimamente dignitosa, co una lungaggine eccessiva per un corto del genere con una storia che al massimo si può definire carina. Il vero problema è che è un film senegalese; uno degli stati africani con più storia cinematografica alle spalle... ci si aspetterebbe di più...

domenica 17 novembre 2013

Millefeuille - Nouri Bouzid (2013)

(Id.)

Visto al Festival di Cinema Africano (in concorso), in lingua ufficiale sottotitolato.

Nella Tunisi ancora scossa dalle proteste di piazza, dalle incarcerazioni facili e da un governo traballante, due amiche devono fronteggiare la vita di tutti giorni, fatta di famiglie oscurantiste, promesse di matrimonio e vite all'estero, di datori di lavoro troppo espansivi e di sorelle da mantenere. In tutto questo la questione del velo (e della religiosità) diventa insidiosamente centrale. Una delle due amiche, su insistenza della futura suocera e da un fratello ortodosso, viene obbligata dalla famiglia ad indossare il velo e a smettere di lavorare come cameriera; l'altra, che invece il velo lo porta volontariamente, viene insidiata dal datore di lavoro che la vuole obbligare a togliere il velo per essere più carina con i clienti.

Bouzid sa come si fa un film. Fin da subito utilizza il ritmo giusto e la trama ne giova tantissimo. Si muove con sicurezza dietro la macchina da presa, senza svolazzi eccessivi, ma tentando sempre l'inquadratura giusta per dare chiarezza alla scena.
Bravissime le due protagoniste che, nonostante siano sostanzialmente digiune di cinema sono credibili e rappresentano il vero punto di forza del film.
Religione, politica e vita privata (anzi, le libertà personali) si mischiano in maniera spesso ovvia in un film sull'islam in evoluzione, ma in certi momenti del finale danno qualche squarcio, non dico originale, ma tremendamente sincero (su tutti l'ovvietà, mai espressa direttamente "la religione è politica").

Detto ciò il film si perde nel finale, troppe lungaggine, troppo girare attorno alla tortura psicologica della ragazza progressista, troppa insistenza nel rapporto fra sorelle dell'altra ragazza (che per tutta la prima parte rimane sullo sfondo e non ha un'utilità evidente). Tutto questo affossa il ritmo e mi ammazza la godibilità di un film altrimenti molto buono.

Il film è stato anticipato dal corto "Paper boat" dell'egiziano Helmy Nouh. Un corto su un ragazzo egiziano che vaga per le deserte strade del Cairo durante la notte, in un bar incontra una ragazza con cui ha un breve dialogo sui desideri, il passato e il rapporto con una società chiusa. Corto ben realizzato, ma senza idee fondamentali che si piega tutto sull'esposizione di una tesi abbastanza ovvia. Buono, ma non aggiunge nulla.

venerdì 15 novembre 2013

Restless city - Andrew Dusunmu (2011)

(Id.)

Visto al Festival di Cinema Africano (fuori concorso), in lingua originale sottotitolato.

In una New York irriconoscibile vive un immigrato senegalese che prova a sfondare come cantate mentre si mantiene come venditore di cd pirata, cerca di rimanere a galla, smarcarsi dal lato b della sua vita e di salvare anche la ragazza di cui è innamorato.

Una trama che più che canonica è caotica. Se la sinossi sembra banale è perché è difficile da seguire; il regista sembra preso a cercare una via autoriale a come mostrare le cose più che alla trama (e la cosa non sarebbe negativa), ma si perde velocemente, dimentica la chiarezza, i fatti si susseguono in una noia soporifera e confusa.
L'utilizzo di filtri colorati (alcune delle scene più belle sono quelle virate in rosso, alcune di quelle più stucchevoli sono quelle virate su colori terrei), la camera a mano, primi piani e dettagli sono solo un corollario inutile se un film non riesce a veicolare né una storia né un messaggio, soprattutto se l'intento è quello di mostrare la vita di un esule. Interessante invece l'ambientazione newyorkese resa indefinibile dalla scelta di non mostrare niente di noto.

Il pianeta delle scimmie - Franklin J. Schaffner (1968)

(Planet of the apes)

Visto in DVD.

Un gruppo di astronauti fa rotta verso la terra dopo una missione durata qualche secolo (per il tempo della terra, sei mesi per loro che viaggiano alla velocità della luce). Succede qualcosa, un qualche incidente durante il sonno indotto per gli ultimi anni luce di viaggio e si risvegliano lontani dalla terra, nel tempo e nello spazio che riescono a calcolare. Se questo potrebbe turbare i più quel che è peggio è che si ritrovano su un pianeta dove l’evoluzione sembra aver favorito le scimmie, che hanno creato una civiltà dove gli umani (che esistono, ma allo stato primitivo), sono animali piuttosto disprezzati.

Film iconico di un certo tipo di fantascienza, che continua ancora oggi ad essere metro di misura e fonte di ispirazione. L’incipit (così come l’eccezionale, anche se enfatico, finale) deve tutto alla presenza di Rod Serling creatore di “Ai confini della realtà” (ci si trova nel bel mezzo di qualcosa che non viene spiegato o giustificato, se ne prende atto; ci si trova sperduti in un ambiente sconosciuto; le reazioni emotive sono piuttosto anempatiche perché quel che conta è l’ambiente ed il modo di rapportarsi con esso; infine c’è il finale a sorpresa tipico della serie tv.
Detto ciò si è detto poco. Come dimostrò anni dopo il film tratto da “Ai confini della realtà”, non bastano questi quattro elementi per fare un lungometraggio sulla falsariga della serie tv. Questo “Pianeta delle scimmie” vince e convince perché ci aggiunge quel poco d’azione che serve, crea qualche bel personaggio; ma soprattutto crea un mondo completo, una cosmogonia fatta di religione, scienza e strutture sociali parallele alle nostre, che le imitano senza sovrapporcisi del tutto e la cui costituzione risulta vitale sia per la trama del film, sia per una critica sociale sempre buona.

Il trucco ottimale vinse l’oscar, mentre i costumi e le location non ebbero la stessa fortuna pur meritando gli stessi encomi. La regia dinamica riesce a stare in bilico tra il caos tipico di fine ’60 e uno stile più asciutto a cui il film deve parecchio.

Alla prova del tempo forse gli si può imputare solo un po di lentezza, tutti gli altri difetti sono una caratteristica che si può disprezzare, ma che ha il suo perché. In ogni caso, un must ancora godibilissimo.

mercoledì 13 novembre 2013

Donne sull'orlo di una crisi di nervi - Pedro Almodovar (1988)

(Mujeres al borde de un ataque de nervios)

Visto in Dvx.

Qui l'intricata trama del film.

La commedia chiassosa ed estrema (più nella parte visiva che non nel contenuto) di Almodovar qui raggiungi picchi di bellissimo kitsch che a tentare di ripeterlo si riuscirebbe solo a rovinare tutto.

Una commedia sui generis, che inizia come gioco degli equivoci per poi passare alla screwball comedy, per aggiungerci qualcosa della commedia dei sessi con un solo sesso come protagonista. Almodovar prende tutto quello che riesce dalle commedie americane classiche, le mixa con uno stile irriverente e colori eccessivi e quello che viene fuori ha del miracoloso.

La storia è assurda, divertente e perfettamente congegnata. Ogni elemento della sceneggiatura, anche il più infimo, ha un motivo d’esistere e viene ripreso in scene successive della pellicola in un gioco a incastri perfetto.

In più dietro alla macchina da presa c’è un tizio che sa come fare un film. Il fatto che la coppia non comunichi mai direttamente se non nel finale (solo tramite la segreteria, il telefono o nel geniale dialogo a distanza della sala doppiaggio; vero colpo di genio) o la bellissima conversazione telefonica tra le due donne che guardano in camera mentre dialogano in una versione riaggiornata della lettera recitata da chi la scrive di Bergman; ecco questi sono solo due esempi di un film densissimo sotto ogni punto di vista.

lunedì 11 novembre 2013

Cado dalle nubi - Gennaro Nunziante (2009)

(Id.)

Visto in tv

A me Checco Zalone piace. Piace perché banalmente fa ridere; perché ha creato un personaggio divertente che è uno sfigato assoluto, ma pieno di se abbastanza per non rendersi conto che è lui il freak e tratta gli altri con un’arroganza invidiabile.
Quindi beccando il tv il film mi ci sono soffermato.

Un alto positivo il film ce l’ha. Per quanto non innovativa, ma una storia c’è. Non si limita, come spesso nei comici della tv riciclati al cinema, a mettere insieme una serie di gag, ma da vita ad una storia autonoma che potrebbe reggere anche senza la presenza di Zalone.

Il lato negativo è che il film è brutto. La trama esile, come si è detto, deve quindi trovare motivi di interesse nel protagonista; Zalone però esagera nel non fare gag, pochi i momenti davvero divertenti e poche comunque i tentativi di far ridere (senza riuscirci).

Se proprio devi fare un film comico, dovresti far ridere… peccato.

sabato 9 novembre 2013

Omicidio in diretta - Brian De Palme (1998)

(Snake eyes)

Visto in tv.

Un poliziotto (Cage) viene invitato ad un incontro di boxe da un suo amico (Sinise) che si occupa della sicurezza della serata (dato che ci sarà anche… non ricordo esattamente la carica, ma diciamo il segretario di stato degli USA). Ovviamente le cose non potranno andare bene; ci sarà un attentato, proprio mentre Sinise veniva distratto da una terza abbondante. Le porte verranno chiuse e Cage si metterà ad indagare per salvare le chiappe all'amico.
La prima volta che vidi questo film mi sembrò un film perfetto rovinato da un finale eccessivamente inverosimile. A distanza di anni, rivedendolo mi sembra un classico film di De Palma con tanti difetti dall'inzio alla fine.

Questo film viene ricordato per lo sconcertante piano sequenza iniziale di più di dieci minuti (di fatto è un falso, anche se sono due piani sequenza uniti… comunque ragguardevole) e viene spesso indicato come un film vuoto, pieno di virtuosismi fini a se stessi, come se De Palma volesse solo mostrare cosa di può fare senza considerare altro.
A mio avviso questo non è un esercizio di stile vuoto. Semplicemente è un film di De Palma. Tutti i film del regista americano sono zeppi di virtuosismi spesso inutili, ma esteticamente molto (molto) appaganti. Qui ci sono una lista dei cliché preferiti d De Palma, due piani sequenza enormi (l’incipit come si è detto, ma anche i titoli di cosa, entrambi perfetti per organizzazione e coordinamento, ma è l’ultimo che è realmente utile, dando una informazione in più), soggettive prolungate, inquadrature dall'alto perpendicolari al suolo, dolly come se piovessero, split screen e tutto quello che ci si può aspettare dal Brian.

In questo caso l’uso che vien fatto di tutti questi luoghi comuni è bellissimo e il fatto che venga tacciato di inutilità mi pare pretestuoso (il tanto rinomato PS all'inzio de “Il falò delle vanità” ha un’utilità maggiore?). quello che è certo è che il film viene affossato da troppi difetti, una trama che sfocia nell'inverosimile; un cast che non recita mai (fatto salvo per un Nicolas Cage con un personaggio ritagliato esattamente su di lui e che gli permette di essere un vero mattatore); personaggi disegnati un tanto al chilo e alcuni punti lasciati troppo verso l’oscurità.

In poche parole ora come ora non vedo in questo film il grande capolavoro di De Palma e ci vedo piuttosto un tentativo mal condotto; ma chi ama (come me) la libertà registica e l’arroganza del regista americano non potrà non apprezzarlo.

mercoledì 6 novembre 2013

Battle royale II: Requiem - Kinji Fukasaku, Kenta Fukasaku (2003)

(Batoru rowaiaru II: Chinkonka)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

L’ultimo film di Kinji Fukasako non è un suo film. Il regista morì durante le riprese, non so francamente a che punto fossero (ma vedendo il film credo/spero molto all’inizio), ma difficile poter attribuire la paternità dell’opera ad un regista se nemmeno e girato tutto il materiale (in Eyes wide shut mancava parte del montaggio, ma il più era fato). Alla regia si sostituì Kenta il figlio di Kinji, di fatto un esordiente.

A questo punto viriamo sulla trama. Dopo gli avvenimenti del primo film i giochi d morte coi regazzini continuano, ma i due sopravvissuti del primo episodio fondano una rete di terrorismo che intende… combattere tutti gli adulti (perché i bambino sorridono anche in tempo di guerra...)… non ho più puntini di sospensione per sottolineare il mio rassegnato stupore. Lo stato centrale pertanto decide di cambiare le regole del gioco, anziché ammazzarsi tra loro perché non costringiamo i regazzini ad andare a massacrare i ribelli? Sai che ironia?

Il film, data la trama ha un taglio decisamente diverso dal precedente; si avvicina, per temi e cattiveria solo nell'incipit in cui il gioco viene spiegato; ma nel momento in cui tutto ha inizio il film vira. Indicativo che il gioco inizi con uno sbarco che riprende smaccatamente l’inizio di “Salvate il soldato Ryan”, senza averne le capacità, i mezzi o anche solo le ragioni del film di Spielberg (mai citazione fu più irritante). Ma è a partire dall'incontro fra i partecipanti del gioco coi ribelli (a cui si uniranno) che inizia il tracollo vero e proprio. Una trama sempre più inverosimile (e dire che non si partiva con un documentario), personaggi sempre più banali (gli studenti sono fatti con lo stampino, mentre l’insegnate è un pessimo attore nella parte del folle standard del cinema… ci manca tanto Kitano) e una deviazione intellettual-adolescenziale inquietante rovinano tutto. Se poi si passa un’ora e mezza di film a urlare e sparare si rischia pure di rimpiangere la profondità psicologica e la complessità di “Black hawk down”.

La parte più insopportabile rimane comunque la paraculaggine del plot, adolescenziale in maniera assurda, banale ed enfatico, pretenzioso in maniera infantile con una serie di personaggi che (oltre ad urlare e sparare) dichiarano sentimenti di BFF ed amore prima di morire tutti in maniera eroica, incoraggiando chi rimane vivo ad andare avanti. Si fosse limitato ad essere cerchiobottista (cosa che comunque è, dato che tutti i personaggi hanno i loro motivi per comportarsi in quel modo) l’avrei anche tollerato.

Finale assurdo, con una punta di surrealismo (l’insegnante con la palla da rugby), paraculaggine antiamericana che pervade tutto il film e un’inaspettata apologia (indiretta) dei bambini soldato…


Detto ciò torno al tema iniziale. Di Kinji Fukasako si vede ben poco, per non dire nulla. Neppure in inquadrature o movimenti di macchina. No so quanto avesse già girato ma credo/spero poco. Credo/spero che in mano sua il film avrebbe potuto almeno dire qualcosa a livello di regia che qui latita in maniera assoluta (salvo quando deve copiare Spielberg). Temo comunque che il problema fosse alla fonte, in una sceneggiatura orribile che neanche Kinji avrebbe potuto salvare.

lunedì 4 novembre 2013

Espiazione - Joe Wright (2007)

(Atonment)

Visto in DVD, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Storia di espiazione (CON SPOILER!).
Un film sul senso di colpa che impiega metà del tempo a mostrare da cosa nasce il fatale errore (se così si può chiamare); e nasce da un misto di amore e stupidità di una ragazzina preadolescente, in definitiva, nasce dal caso; poi si prende il resto del tempo per mostrare a che cosa portò il senso di colpa, al tentativo di espiazione e al tentativo di essere perdonata. Infine il tutto si chiude sull'ammissione di aver ingannato lo spettatore; il tentativo di espiazione ci fu, ma fu fatto a vuoto. Il finale lasciato alla Redgrave ammanta il tutto di un dolore senza speranza che non sarebbe stato possibile esprimere meglio; e la Redgrave si conferma una grande.
Il film però si fa notare soprattutto per la regia di Wright. Tutti citano (non a torto) il piano sequenza centrale sulla spiaggia; una carrellata geograficamente enorme (gli attori, ma anche la macchina da presa camminano per centinaia di metri), curato nei dettagli (visivi, sonori, di disposizione di attori ed oggetti) in maniera maniacale. Tuttavia, pur essendo un estimatore dei piani sequenza come vera caratteristica distintiva del cinema come arte a se; in questo caso non ci sta. L’ho molto apprezzato, ma è proprio privo di significato, non dice nulla, non mostra nulla di importante, non aggiunge significato a niente. Si tratta solo di una, bellissima, prova di forza di Wright.

La regia che più conta, a mio avviso, si concentra soprattutto nella prima metà. Li c’è tutto quello che si può volere da un regista. Fotografia impeccabile; punti di vista multipli (le scene vista vissute dai diversi personaggi si affiancano l’una all'altra senza che ne venga evidenziato il passaggio); carrelli come se piovessero; disposizione dei personaggi  sempre ragionata; ma su tutto regna l’utilizzo del sonoro. I suoni qui fanno la differenza; su tutti il rumore della macchina da scrivere è pervasivo (perché il film si apre con la protagonista che scrive, da grande diventerà scrittrice e racconterà proprio questa storia; perché la lettera galeotta sarà scritta a macchina) e da elemento del sonoro (espresso a volume aumentato rispetto al resto) diviene continuamente elemento musicale; è quel suono, il battere sui tasti, che fa da legante dell’intera vicenda, delle sequenze più distanti e di tutti i personaggi. Anche il rumore di colpi sull'auto della polizia avranno il loro momento di gloria, ma solo perché quell'episodio determina il passaggio dalla prima alla seconda metà.

venerdì 1 novembre 2013

L'assalto dei granchi giganti - Roger Corman (1957)

(Attack of the crab monsters)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato.

A seguito di un esperimento nucleare un gruppo di scienziati viene mandato su un atollo a studiare gli effetti delle radiazioni. Ovviamente scompariranno. Una seconda squadra viene mandata alla ricerca della prima. Sull'atollo si inizierà male, con morti violente, continue scosse di terremoto e voci fantasma. Ma l’orrore, inevitabile, non sarà quello che ci si può aspettare.

Che dire, un filmaccio di serie B degli anni ’50, ma dietro al macchina da presa c’è Corman, che se non è per forza sinonimo di qualità, almeno tenta sempre di dare il meglio col poco che ha.

Di fatto qui riesce benissimo a creare un’atmosfera di malsana inquietudine e di pericolo imminente nella prima parte; per carità niente di enorme, ma le continue scosse, il girare in interni angusti e in esterni disabitati riesce nello scopo di inquietare (all'epoca, immagino, in maniera esponenziale). Lo sviluppo è sospeso fra l’idiota e l’intelligente (idiota il mostro, intelligente l’idea di fondo); se a questo si aggiunge che il granchio gigante sempre un incazzoso signore calvo con delle enormi chele il divertimento è servito.