venerdì 31 marzo 2017

Piccole donne - George Cukor (1933)

(Little women)

Visto in DVD, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Una famiglia composta dalla madre e dalle quattro figlie (il padre sta combattendo la guerra di secessione) dovrà affrontale l'amore, l'amicizia, la malattia e la povertà, ma lo farà rimanendo sempre unita e amorevole.
Il semplice concetto che sta alla base del libro originario mi da l'orticaria, pertanto ho guardato questo film solo per i nomi in elenco e perché sull'internet viene considerato la versione cinematografica migliore.
Per come immagino il libro direi che il film rispecchia le aspettative: un film zuccheroso e scaldacuore dallo svolgimento lasso e scontato. La sceneggiatura si completa di alcuni scambi di battute che farebbero arrossire chiunque e imbarazzano lo spettatore.
D'altra parte siamo nell'epoca d'oro di Hollywood e la costante minima garantita viene rispettata con una messa in scena curatissima e molto bella e una fotografia di livello.
Il cast è ottimo, con una Hepburn sopra le righe che vince per vitalità più che per credibilità, ma illumina ogni scena in cui compare (nonostante sia proprio lei ad avere alcune delle battute più peregrine e alcuni dei momenti più stucchevoli).
Da dietro la macchina d apresa Cukor si muove senza enfasi, soccombendo alla trama e a un ritmo rilassato.
Di fatto trovo che questo film sia solo per completisti del regista o della protagonista (che riesce comunque a uscirne bene)

mercoledì 29 marzo 2017

Elle - Paul Verhoeven (2016)

(Id.)

Visto al cinema.

Una porzione di vita di una donna a partire dallo stupro che subisce a casa propria. Da quell'evento non sembra essere minimamente toccata, continua a incontrare l'amante, vedere il suo ex amico di cui è ancora innamorata, litigare con il figlio per via dell'arrogante nuora, lavorare con il pugno di ferro nella ditta che crea videogiochi violenti.
A quasi ottant'anni, Paul Verhoeven, crea un film atipico per struttura (quasi assenta una trama vera e propria), per genere (inizia come un thriller raffinato e ben giocato e continua come una commedia nera frigida) e per tema. Anzi il tema no, è un pò il solito tema di Verhoeven, la violenza, ma qui è declinato in maniera particolare e molto intelligente.
La lunga cavalcata nella vita di questa irritante e fortissima donna è un bignami della violenza nella vita; a partire dagli eventi più eclatanti (lo stupro e un massacro) si arriva ai rapporti famigliari (genitori e figli, coniugi, amanti), a quelli sociali (colleghi, sottoposti e vicini di casa), fino agli sconosciuti per la strada, tutto è giocato sulla violenza e sulla prevaricazione arrogante. Niente viene salvato, tutti i mezzi sono mostrati, l'atto fisico, le parole o i semplici sguardi, i rapporti sessuali e affettivi, i ricordi e i progetti futuri, tutto è intriso di rabbia e violenza.
Di fatto è un manifesto di un modo di percepire la vita che mostra che non l'atto violento non è una scazzottata in "Total recall", ma si annida in ogni ambito della vita senza possibilità di scampo.
Interessante e ben condotto, con una regia che rende tollerabili le oltre due ore di film e una fotografia e un gusto per gli interni e i vestiti alto borghesi assolutamente fantastici. Brava la sempre ottima Huppert che qui, e mi rendo conto di essere uno dei pochi, mi appare né più né meno ai suoi livelli standard, semplicemente si nota di più la sua arte dato che viene inquadrata in ogni singola scena essendo lei il centro di ogni vicenda.
Un film intelligente e ben realizzato che soffre solo per una ipertrofia e una tendenza alla non linearità che lo possono rendere, facilmente, indigesto (cosa che la visione nella sala cinematografica, per me, mitiga molto).

lunedì 27 marzo 2017

Piccolo grande uomo - Arthur Penn (1970)

(Little big man)

Visto in DVD, in lingua originale sottotitolato in inglese.

La vita di un bambino sopravvissuto ad un massacro da parte degli indiani da cui verrà adottato; da ragazzo sopravviverà a un attacco da parte degli statunitensi e verrà riportato alla civiltà; la sue esistenza sarà un continuo cambio di residenza fra questi due mondi, fino alla battaglia di Little Big Horn.

Uscito lo stesso anno di "Soldato blu", "Piccolo grande uomo" condivide con quello il punto di vista inedito sugli indiani d'America. Non più i nemici senza volto che assaltano le diligenze nei film di John Wayne, ma dei personaggi a tutto tondo, con una certa dose d'attenzione maggiore verso le vessazioni subite. Certo, al giorno d'oggi è quasi banale l'immagine del vecchio capo indiano saggio e bonario, ma è nata in questo anno.
Personalmente non sono mai stato appassionato al genere declinato in questa ottica e ho impiegato molto tempo prima di vedere questo film; ed è stato uno sbaglio. Questo film aveva per me un'aura seriosa ed epica che in realtà non possiede. Questo film è una splendida satira nei confronti dell'epica del west sotto ogni punto di vista; nessuno si salva;  da Custer (che è un pallone gonfiato, buffo e arrogante coglione) agli indiani stessi (dove younger bear è il primo nemico del protagonista, ma si rivela un relief comico con picchi di assurdo) tutti sono sfottuti. Viene mantenuta un manto di serietà solo per il vecchio indiano e per i momenti maggiormente crudi del finale; ma fino a quel momento anche i massacri sono fatti con un piglio strafottente (si pensi all'assalto della diligenza iniziale).

Se si considera poi che questo è un film di oltre due ore che scorre senza mai stancarsi, significa che c'è una capacità di raccontare notevolissima; purtroppo Arthur Penn è uno di quei registi che, nonostante diversi tentativi, ho sempre evitato per pure fatalità; ora mi toccherà recuperarlo.
Belle alcune sequenze, soprattutto quelle di sesso (sempre nascosto, come quello della signora Pendrake di cui si vedono solo i piedi o i fade out con inquadrature dall'alto del protagonista che si concede alle tre sorelle della moglie) o di seduzione (tra cui la scena del re-incontro con Mrs Pendrake che cita "Il laureato").
Simaptico, divertente e regge ancora una visione.

venerdì 24 marzo 2017

L'Atalante - Jean Vigo (1934)

(Id.)

Visto in Dvx.

Un uomo sposa una donna, si conoscono da poco, ma decidono di condividere la vita insieme e partire con la chiatta di lui lungo la Senna; non sarà un viaggio di piacere, ma il lavoro del marito e, quindi, la loro vita insieme. Le aspirazioni presto prenderanno il posto della pazienza e la coppia si romperà.

Famoso per il suo naturalismo unito a scene surreali (di cui, comunque non mi pare ce ne fossero molte), si inserisce nel solco dei film sentimentali di quel periodo, con una grazia maggiore e meno luoghi comuni. Quello che però mi ha colpito maggiormente è la semplicità della storia, la sua tenerezza e levità, soffre per una trama un poco raffazzonata e un ritmo altalenante, ma si salva per la freschezza dei protagonisti.
A livello di regia mi hanno colpito le inquadrature dall'alto o quelle ribassate, non una profusione, ma abbastanza diffuse da definire un'embrione di stile.
Giustamente famosa la scena del marito che in acqua vede il volto della moglie (la sigla di "Fuori orario" che mi ha fatto conoscere "Because the night")  che assieme a quella del sonno disturbato dei due amanti lontani sono le due sequenze più belle e meglio realizzate.
Un buon film, dolce e funzionante, ma di cui non ho percepito la portata epocale e che (qualcuno prima o poi doveva dirlo) annoia parecchio.

mercoledì 22 marzo 2017

Frozen; Il regno di ghiaccio - Chris Buck, Jennifer Lee (2013)

(Frozen)

Visto in tv.

Due principesse, rimaste orfane, si trovano il giorno dell'incoronazione... ma siamo onesti, quasi ttuti sanno la storia del film. Per chi ancora la ignora, guardare qui.

Da alcuni anni la coppia Pixar e Disney, si sono divise in base al target. La Pixar crea le innovazioni, la Disney si mantiene nel solco della classicità... questo, almeno era quanto ritenevo. Che la Pixar si sia fin da subito distinta per aver spezzato le regole auree dei cartoni della Disney (niente canzoni, tematiche più adulte, spesso un antagonista che non è il cattivo classico, anzi, talvolta addirittura inesistente); la compagnia di Walt però non è rimasta radicata agli anni '50. Da anni la Dinsey mantiene il solito pacchetto cambiando la struttura interna, in maniera talmente delicata da apparire impercettibile. Fino a questo film.
Per la prima volta le protagoniste sono due sorelle, due donne, che causano i loro problemi e se li risolvono; per la prima volta il principe azzurro non serve a nulla e fa solo da spalla, per la prima volta l'antagonista è uno dei buoni vittima solo di sé stesso (si ok, c'è un antagonista vero e proprio, ma è utile solo per allungare la storia a fine film). Di fatto un cambiamento radicale pur mantenendo una struttura inalterata rispetto a quella degli ultimi decenni.

Detto ciò il difetto è quello di offrirsi a un target meno ampio dei film Pixar; tenendo presenti soprattutto i bambini il film si può permettere canzoni poco catchy, personaggi poco originali e simpatici (ma infantili) comprimari con poco spazio. La struttura classicheggiante rallenta l'inizio della vicenda rendendo un poco noioso l'inizio. Buono per un pubblico di bambini, meno per gli adulti.

Un film importante... più importante che bello.

lunedì 20 marzo 2017

Man on the moon - Miloš Forman (1999)

(Id.)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

La vita di Andy Kaufman dalla sua scoperta da parte del suo futuro impresario in un cabaret di provincia fino alla morte, ritenuta da tutti il suo ennesimo scherzo.

Personalmente non ho passione per i biopic perché spesso riducono la vita a una galleria di fatti salienti disgiunti, ma tutti che contengono in nuce la dote fondamentale di quel personaggio (a esempio se è un cantante fin da bambino ha questa passione per la musica, o un orecchio particolarmente portato o qualche altro fatto inerente), riducendo tutto a una sorta di predestinazione (come se tutto fosse deciso e non ci fosse necessità di nessuno sforzo da parte del protagonista); spesso senza riuscire a far capire davvero cos'ha rappresentato.
Questo film non esce dal tracciato. E in un racconto fatto d'episodi non si fa mancare nulla, un occhio rapido sull'infanzia dove già si capisce chi è Kaufman, gli esordi complicati, il successo, l'amore e la morte.
Il film è comunque ben girato, ben condotto, il ritmo giusto e tutto funziona alla perfezione. Gli attori sono sul pezzo; Carrey gigioneggia quanto vuole, tanto Kaufman faceva pure di peggio (ottimo il lavoro dei doppiatori italiani, ma la lingua originale la spunta comunque, riuscendo a essere più ficcante).
Il film però riesce a interessare oltre la media dei suoi simili per la storia. Per quanto ogni biopic è un film che vive solo per la trama raccontata più che per la forma, in questo caso la totale ignoranza nei confronti del personaggio e la sua estrema particolarità ne fanno il motivo principale per interessarsi al film  (anche l'unico volendo). Se anziché realizzare un biopic ne avessero tratto un film di pura finzione (senza quindi essere obbligati a mostrarne il genio, le rapide tappe i semi del suo futuro nel suo passato i colpi di genio improvvisi) sarebbe potuto venirne fuori qualcosa di grandioso. Fosse stato un prodotto televisivo sarebbe stato fenomenale.

venerdì 17 marzo 2017

Il ritorno dello Jedi - Richard Marquand (1983)

(Star Wars: Episode VI - Return of the Jedi)

Visto in VHS.

Per la storia e tutto il resto, qui va benissimo.

Ecco, secondo me, qui si salta lo squalo. Qui è l'inizio della fine.
Tutti si scagliano sull'idiozia della seconda trilogia e su scelte imbarazzanti come Jar Jar Binks (giustamente), ma una seconda trilogia del genere è il minimo se si tollera un episodio VI come questo. Si, certo, sto parlando anche degli Ewok, dei pedobear con la passione dell'intifada che nessuno ha mai voluto commentare in maniera positiva; ma quello che più mi ha sconvolto è la sequenza da Jabba. In quella lunga serie di scene sembra di assistere a un ipotetico film intitolato "A nightmare on Sesama Street" con personaggi alla "Labyrinth" (se l'avesse girato Cronenberg) con pupazzi imbarazzanti e una scena canora totalmente inutile con uno dei CG più brutti di sempre.

Escluso tutto ciò quello che rimane è un film che regge benissimo, un ritorno a un avventuroso più action, più ritmato rispetto al precedente, avvicinandosi al primo film. La sequenza dell'inseguimento nella foresta della luna Endor è appesantita da effetti speciali datati, ma è ancora all'altezza della sua fama.
Una buona conclusione, ammazzata dal restyling voluto da Lucas con il CG più che gli altri capitoli, ma comunque di per sé il terribile ammonimento per ciò che sarebbe accaduto 20 anni dopo.

mercoledì 15 marzo 2017

Hold your breath - Jared Cohn (2012)

(Id.)

Visto in tv.

Un gruppo di amici decide di partire per un campeggio isolato; nel farlo passano davanti a un cimitero in cui è sepolto un uomo cattivissimo il cui spirito possiede il fattone del gruppo. Mentre il fattone sevizia un poliziotto gli altri decidono di esplorare un ex ospedale e perdono tempo facendo del sesso o degli scherzi stupidi. Riuniti verranno massacrati a uno a uno dallo spirito dell'uomo malvagio

Un film dozzinale. Nient'altro. La realizzazione è superficiale, sfrutta degli attori mediocri e un CG totalmente ingiustificabile (c'è la peggiore esplosione della storia del cinema e quello che da da pensare è che non serviva ai fini della storia; se non c'hai i mezzi per farla esplodere bene quella macchina perché hai dovuto farla esplodere?! perché!). Ma il problema è la mancanza di idee.
Non sapendo cosa fare vengono messi in campo tutti i topos del cinema horror: camping isolato, cimitero abbandonato, prigione/ospedale/manicomio, possessione, casa infestata, scontro tra poltergeist, maniaco omicida. Viene fatto tutto e tutto viene fatto alla rinfusa, senza un logica, ma sperando che accumulando idee rubate ad altri salti fuori qualcosa di minimamente efficace.
Un film horror che non spaventa, dalla struttura imbarazzante con un effetto finale dozzinale. E dire dozzinale è comunque un eufemismo.
Ne parlo solo perché sono rimasto sconvolto dalla totale assenza di capacità di fare paura o di quell'ingenuità che comunque mi fa apprezzare i goffi tentativi d'imitazione (negli anni mi sono affezionato a diversi brutti film horror per il loro tentativo di essere significativi nonostante le mancanze). Speravo che il cinema horror medio fosse migliore.

lunedì 13 marzo 2017

La cagna - Jean Renoir (1931)

(La chienne)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in italiano.

Un uomo mite, vessato da una moglie oppressiva e che trova sfogo nella pittura conosce una giovane donna che sembra interessata a lui; nonostante i soldi non siano tantissimi, intreccia una relazione con la ragazza, affittandole un appartamento e regalandole i propri quadri. Quello che non sa è che la ragazza lo sta sfruttando pensando che lui abbia molti soldi da parte e con il suo vero amante vende di nascosto i quadri facendoli passare per quelli di un autore estero. Quando i nodi verranno al pettine arriverà la tragedia, ma la giustizia umana saprà punire un innocente, mentre il karma colpirà il vero colpevole.

Vedendolo mi ripetevo quanto questo film fosse perfetto per un Fritz Lang... solo dopo averlo finito mi sono reso conto che in effetti Fritz Lang lo fece suo; è, infatti, il film da cui è tratto "La strada scarlatta".
Consapevole dell'inevitabile paragone che viene spontaneamente questo film perde. Meno drammatico del suo remake gioca di più con il sentimentalismo del protagonista (scelta più coraggiosa che non spingere sul dramma), purtroppo il limite sta proprio li, il protagonista non riesce mai ad avere un reale spessore, ci arriva vicino senza però raggiungere la tridimensionalità e in un film come questo che vive di macchiette (la moglie del protagonista su tutti) è un limite rilevante.
Indubbiamente questo film risplende anche di una serenità che l'oscuro remake non ha; c'è una rassegnazione positiva agli eventi che mostra una visione originale difficilmente ripetuta nel cinema successivo.

Dal punto di vista della regia il lavoro è grandioso. La macchina da presa mobile da vita ad alcune sequenze memorabili (su tutte la scena di ballo dove la macchina a mano segue i due danzatori); inoltre c'è un insistenza nell'inquadrare alcune scena attraverso i vetri (finestre o vetrine), un discorso interno/esterno lungamente discusso nel web (se arrivano a discuterne qui...), che raggiunge il parossismo nella scena in cui dal salotto del protagonista la macchina da presa guarda l'esterno da una finestra per inquadrare un'altra finestra dove una ragazzina prende lezioni di pianoforte.
Ottime le scene in notturna, appesantite da una versione del film piuttosto danneggiata.

venerdì 10 marzo 2017

The zero theorem - Terry Gilliam (2013)

(Id.)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Il dipendente di una enorme azienda informatica attende da tutta la vita una telefonata; per poter essere sicuro di riceverla continua  richiedere all'azienda di poter lavorare da casa. Incontrando, per caso, a una festa della ditta il capo assoluto riesce a ottenere il lavoro a domicilio, come contrappasso però verrà posto a dover risolvere la Zero theorem del titolo (un complicatissimo problema matematico che si dimostrerà ancora più difficile del previsto). Nel mentre dovrà essere affiancato dal giovane figlio del capo e si innamorerà di una prostituta.

Con questo film Gilliam dimostra, di nuovo, di essere il migliore a creare distopie dettagliate e coerenti basate sull'eccesso. La prima cosa che colpisce di questo film è proprio il mondo ipercolorato in cui vive il protagonista. Non ci sono radicali differenze con il mondo attuale, ma dimostra di esserne una versione ipertrofica (e sotto acido) della società contemporanea, Certamente viene aggiunta una enorme dose di ironia, ma l'effetto finale riesce ad essere godibile e inquietante nello stesso tempo.
Come in "Brazil" Gilliam torna alla fantascienza fiabesca che rappresenta l'anelito verso qualcosa di più della concretezza consumistica, torna all'allegoria di una società dove si vive per lavorare, ma il cui senso ultimo sfugge. Come in "Brazil" la soluzione finale che viene proposta non è positiva; ma se là era la società che si difendeva dagli outsider, qui quello che si scopre è che non esiste altro al di fuori della società e l'unica fuga è una fuga dalla realtà.
Il pessimismo dilaga, ma il tono faceto rimane in primo piano riuscendo a stemperare il nulla che viene proposto.
Infine fa enorme piacere vedere Waltz in una parte diversa da... quasi qualunque parte abbia ricevuto negli ultimi anni.

Questo è un film decisamente più dodecafonico dei precedenti, meno pulito e immediato, ma dimostra che Gilliam c'è ancora.


mercoledì 8 marzo 2017

Ombre - John Cassavetes (1959)

(Shadows)

Visto in DVD.

Tre fratelli afroamericani, ma con la carnagione estremamente diversa, devono affrontare le difficoltà della isterica vita newyorkese, con in aggiunta il razzismo strisciante.

Diciamolo subito che io ho un'idiosincrasia per Cassavetes. Disprezzo con distacco tutti gli obblighi programmatici a realizzare una sorta di naturalismo cinematografico dopo il neorealismo italiano, perché nove volte su dieci, chi si impegna nel raccontare il contesto sociale con verosimiglianza, si dimentica del ritmo (o più spesso si dimentica che il cinema è una delle arti che più ha nel DNA l'intrattenimento); in definitiva disprezzo gli intellettualismi segaioli che si limitano ad ammazzare il linguaggio cinematografico in favore di una pretesa profondità. Detto ciò, Cassavetes lo conosco molto poco, ma quel poco lo incasello in quella nicchia.

Per fortuna però "Shadows" è stato una bella sorpresa. Questa è la seconda versione di un omonimo film precedente basato sull'improvvisazione totale; questo auto-remake è stato ripulito dai tempi morti e da quegli intellettualismi fini a sé stessi (attirando sul regista gli strali dei fanatici).
Non siamo davanti a un film impeccabile e certamente lo stile è acerbo, ma è evidente che questo è un film tout court.

La storia è piena di elucubrazione che rallentano l'andamento della storia (ma questo è figlio del suo tempo); ma questo non limita di apprezzare la regia. Cassavetes dimostra di avere un occhio magistrale  costruisce ottime inquadrature rendendo godibile una fotografia molto sgranata e primissimi piani continui, costruendo scene a incastro su più piani e muovendosi fra tagli di montaggio, il tutto in quella che può, comunque, essere considerata un'opera prima.

Come elemento storico è inoltre importante identificarlo come un film anti-hollywoodiano per storia produttiva e andamento; ma a mio avviso rimane più rilevante la trama stessa. Che io abbia in mente, questo è il primo film USA con protagonisti degli afroamericani (tutti i protagonisti) che soffrono delle stesse crisi e degli stessi problemi dei bianchi, indipendentemente dal lavoro, dal sesso e dall'origine sociale; solo in un secondo momento subentra il tema della discriminazione.

Questo è un film che mi riappacifica, in parte, con Cassavetes, ma che rimane ancora più interessane che godibile.

lunedì 6 marzo 2017

Bread and roses - Ken Loach (2000)

(Id.)

Visto in Dvx.

Una ragazza messicana riesce a passare il confine illegalmente grazie all'aiuto della sorella (da anni sposata a un americano) e, sempre grazie a lei, riesce anche a ottenere un lavoro (sottopagato) come donna delle pulizie in uno stabile di Los Angeles. I rapporti con la sorella e con i colleghi si faranno più tesi quando entreranno in contatto con un giovane sindacalista che cercherà di far prendere coscienza dei loro diritti. Ovviamente la lotta per un trattamento più equo non sarà facile.

A me Ken Loach piace maggiormente quando la politica nei suoi film non prende il sopravvento mangiandosi tutto; a me, in poche parole, Ken Loach piace quando fa il sentimentale. Se "Looking for Eric" è decisamente una mosca bianca per la totale mancanza di politica (e quindi non posso pretendere che i suoi film li faccia tutti su quel modello), credo che lo standard ottimale per il regista sia quello realizzato qui.
La lotta sindacale è il motore che innesca tutti fatti salienti di questa storia, determina la costruzione (o la distruzione) di rapporti e lo svelamento di segreti indicibili, ma rimane solo un tema determinante in un film che, in definitiva è un melodramma allegro.
I rapporti esposti, l'innamoramento improvviso e l'impossibilità di amarsi, i segreti del passato che inquinano il presente, sono tutti i componenti più gustosi di questo film, ma la vera forza non è neppure quella essere riuscito a gestire con empatia e poca enfasi questi sentimenti; la vera forza è al vitalità della protagonista. Nonostante succeda di tutto il tono rimane solare, nonostante molte certezze crollino, la freschezza della protagonista rimangono inalterate (su tutto si prenda il finale, assolutamente non positivo, ma di un agrodolcezza piena di speranza). Il film è un film politico, ma per fortuna c'è molto di più.

Non un film indimenticabile, e neppure fondamentale, ma questo è il Loach che mi piace, quello che alla guerriglia cinematografica non subordina l'intrattenimento.


venerdì 3 marzo 2017

La diabolica invenzione - Karel Zeman (1958)

(Vynález skázy)

Visto in DVD.

Una storia d'ambientazione verniana; in un '800 piuttosto steampunk, uno scienziato viene rapito da alcuni pirati che lo portano su un'isola remota dove, il loro capo, sta progettando la conquista del mondo, ma per farlo deve avere l'arma definitiva.

Un film visivamente magnifico; lo stile dominante è quello che riprende (per toni, linee e impatto visivo) le incisioni letterarie del 1800 con linee ovunque ad imitare il metodo della incisura (sui fondali, sui vestiti, sugli oggetti); i luoghi, le costruzioni o i fondali hanno un misto di cartoonesco e di concreto con linee quasi espressioniste, che è la cifra di tutto il film. Questo infatti è un mix fra live action classica e qualunque altra tecnica (stop motion, animazone disegnata classica, burattini, sovrapposizioni, fondali disegnati e oggetti bidimensionali) con un effetto che riprende lo stile dei film di Méliès, ma con consapevolezza e molta raffinatezza (una raffinata ingenuità che fa impallidire i tentativi di Gondry).

Il film si risolve in un godibile romanzo d'avventura moraleggiante abbastanza godibile, soprattutto per i ragazzi; il ritmo purtroppo latita in diverse occasioni e l'eccesso di avvenimenti rischia di far perdere interesse.
Ma l'effetto finale complessivo lascia comunque a bocca aperta.

mercoledì 1 marzo 2017

Lichtspiel Opus 1. - Walter Ruttmann (1921)

(Id.)

Visto in DVD.

Primo esempio (se non sbaglio) di film completamente astratto. Di fatto un'opera d'arte visuale totale che, nelle intenzioni del regista doveva effettivamente avere questosenso: il senso, cioè, di utilizzare la pellicola come una tela e la luc ecome pennello e colore.

Con uno score composto ad hoc (anche questa caratteristica interessante) quello che ne viene fuori è una sorta di "Fantasia" realizzata da Kandinsky.
Molto semplice la fantasia utilizzata, ha solo figure geometriche, che si "muovono" al ritmo della musica.

A questo primo esperimento rivoluzionario di video art fine a sé stessa, seguirono almeno altri 3 Opus, sempre a opera di Ruttmann..

Berlino: Sinfonia di una grande città - Walter Ruttmann (1927)

(Berlin: Die Sinfonie der Grosstadt)

Visto in Dvx.

Questo film è la descrizione di una giornata nella città di Berlino; partendo dal mattino con l'arrivo del treno; il lavoro in fabbrica, per finire la sera nei locali.

Al di là del valore documentaristico di un film del genere realizzato nel 1927 (!) quello a cui si assiste è una via di mezzo fra un film di intrattenimento, il documentario, la sperimentazione cinematografica e quella artistica.
Ovviamente debitore di Dziga Vertov (ma solo in parte) per il ritmo (specie nelle scene dell'industria dove sembra di essere davanti a una perfetta opera di video arte, o per dirla in altri termini, sembra un "Balletto meccanico"), ma meno per la porzione ambientata fra le vie della città, dove Vertov viene accantonato in favore di un sentimento più prettamente documentaristico, o per dirla in altro modo, per un occhio più realistico, ma sentimentale.
Il film si protende fra parti più arty (le sequenze dei lavori, con le macchina da scrivere e i telefoni) a quelle più politiche (il pranzo); l'intento complessivo non è chiaro; inizialmente sembra voler mostrare realmente la città, dove gli esseri umani, seppur presenti, sono trattati come sangue che si muove nelle arterie, più che creature a sé (si ha l'impressione che non siano gli uomini a far muovere i treni, ma che siano i treni a far muovere gli uomini), mentre nella seconda il documentario si concentra sulle sequenze più festaiole dove gli umani sono i protagonisti.

Qualunque fosse l'intento e qualunque sia il significato che gli si vuole dare, quello che rimane a livello oggettivo è un enorme lavoro di ritmo e montaggio di cui faranno tesoro i decenni successivi.