lunedì 30 dicembre 2019

The witch. Vuoi ascoltare una favola? - Robert Eggers (2015)

(The VVitch: A New-England Folktale)

Visto in DVD.

Una famiglia di pellegrino americano troppo estremisti religiosi anche per la loro comunità di pellegrini viene scacciata ed esiliata nella foresta vergine.
Dovrà fare i conti per prima cosa con l'ambiente ostile, umido e malaticcio, con la scarsità di cibo e con le loro stesse regole sociali che opprimono la donna. In secondo luogo dovranno vedersela con una strega che abita in quel bosco e con Satana (ammesso che entrambi non siano che una leggenda).

Film spettacolare, costruito con un'attenzione per i dettagli estrema degna delle psicopatologie di Kubrick: vestiti cuciti a mano, inglese arcaico dell'epoca, luce naturale (che fra tutte queste apparenti minchiate è la scelta più evidente che da all'ambiente un aspetto lattiginoso).
Non è il primo film a perdersi dietro a una messa in scena autoriale, né il primo a parlare di come l'ambiente modifichi le persone; ma è quello che recentemente riesce meglio in questo campo e si permette di costruirci attorno un horror senza jump scare, ma pieno di tensione continua che deriva tanto dalla presenza incombente del maligno (mai mostrato, ma veicolata attraverso gli alberi che murano laa casa in una radura e attraverso gli animali che, però, si comportano da animali normali), quanto dai rapporti familiari che si allentano e degradano verso la follia più totale.

La struttura della trama è un lento, dieci piccoli indiani, un centellinare le scomparse e le morti immotivate fino allo showdown finale.
Il film è efficacissimo, e si appoggia su un cast incredibilmente e credibile, tutti in parte e tutti con le facce giuste, ma vanno sottolineate le prestazioni di Anya Taylor-Joy che si porta gran parte del film sulle spalle (è la figlia adolescente che ha la grave colpa di essere donna e adolescente) e di Harvey Scrimshaw che dura meno, ma la scena dell'invocazione (Gesù o il diavolo?) pre morte è credibile, dolente e sensuale nello stesso momento (e all'epoca aveva solo 14 anni!!!).

PS: sottotitolo italiano totalmente fuori contesto, credo che parta da quello originale, ma che l'abbiano scelto senza aver visto il film.

venerdì 27 dicembre 2019

Auf der Suche nach Ingmar Bergman - Margarethe von Trotta, Bettina Böhler, Felix Moeller (2018)

(AKA Searching for Ingmar)

Visto in aereo, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Il film inizia con la Von Trotta nella location della prima sequenza de "Il settimo sigillo" che ripercorre a memoria scena per scena quell'incipit. Il film inizia quindi con una regista che descrive l'opera di un regista dal suo punto di vista, non tecnico, ma emotivo.
Il documentario poi si sposta su un piano di genere; pochi registi hanno avuto un rapporto così stretto con le attrici feticcio delle loro opere e la Von Trotta fa parlare le dirette interessate su Bergman.
Infine la regista cerca di gettare un ponte fra il regista svedese e i nuovi (?) volti della regia internazionale.

Per me questo documentario piuttosto scontato nella messa in scena (campi lunghi con la regista come narratore e poi interviste a mezzo busto inframezzate a porzioni di film) semplicemente non sa che strada prendere. Parte dalla descrizione emotiva di quello che può essere il cinema di Bergman, ma la abbandona per il racconto del personaggio (indubbiamente interessante) fatto dalle attrici (dunque limitato) con qualche curiosità interessante; infine cerca l'apertura contemporanea, ma per farlo imbarca registi giovani e interessanti, ma che sono di seconda fascia e hanno ancora molto da dimostrare (discorso che non vale per Assays), niente di grave in questo, ma un pò poco per parlare di un lascito tangibile.

lunedì 23 dicembre 2019

Highwaymen. L'ultima imboscata - John Lee hancock (2019)

(The highwaymen)

Visto in tv.

Nella storia americana si è creato il mito di Bonny e Clyde, due criminali della depressione che canalizzarono la frustrazione di quella generazione. Ma due criminali erano e la spettacolarizzazione delle loro imprese (che tralasciano spesso la scia di sangue) e la mitizzazione della loro fine sono topos scolpiti sulla pietra.
Ecco che lì'originalità di questo film è tutta nel cambio di punto di vista. Per la prima volta i protagonisti (che sono ovviamente i buoni) sono i poliziotti (integerrimi e scalcinati nello stesso tempo) che danno la caccia a due rapinatori e assassini. L'intento è creare il mito opposto a quello classico, il mito delle forze dell'ordine contro due fuorilegge (che infatti rimangono quasi sempre fuori inquadratura). A dirla così sembrerà banale, ma è il punto più originale del film. per farlo, ovviamente, si punta sulla mitopoiesi classica hollywoodiana; Costner come protagonista (il buono per eccellenza degli ultimi 30 anni cinematografici), una messa ins cena pulitissima fino a sfiorare il museale (vestiti sempre a posto, fotografia nitida, ambientazioni dei bassifondi che trasudano ricostruzione pulite in ogni inquadratura).
Ecco, l'idea di base vince in originalità, ma per realizzarla ci si impegna nello scontato. Operazione corretta dal punto di vista formale (il mito si crea con l'ordine come ci insegnò John Ford e non con la polvere di un Sergio Leone), ma che riesce comunque stantio e stridente.
Il film viaggia bene e riesce in maniera perfetta nel finale rendendo in maniera, finalmente, completa, l'agguato finale (trasformando in tensione e coraggio quanto era stato raccontato finora come viltà).
Film gradevole, ma vittima del suo stesso intento.

venerdì 20 dicembre 2019

Storia di un matrimonio - Noah Baumbach (2019)

(Marriage story)

Visto in tv.

Ho evitato accuratamente ogni film di Baumbach finora per mero razzismo. Mi sono sempre aspettato film dall'estetica da Sundance, con piccoli loser molto consolatori e pretese intellettuali.
Questo film è presentato di Dio da tutti, gli attori sono ottimi... ed è su Netyflix, una comodità non indifferente.
Dopo averlo visto mi spiace aver sottovalutato il povero regista finora.

La tendenza a mettere dentro pretese intellettuali c'è eccome (di lavoro lui è un regista teatrale di New York, una delle cose più hipster che si possa pensare), ma è estremamente limitato, e tutto sommato si limita a fare da arredamento in una storia perfetta.
Il film parla del processo di divorzio fra una coppia con figli che non ha smesso di volersi bene, ma ha smesso di amarsi. Non siamo dalle parti de "Kramer contro Kramer", qui i due si faranno una guerra inevitabile a causa del sistema giudiziario che stritola che si avvicina, ma una volta che tutto sarà finito i sentimenti originali torneranno fuori. Nessuna consolazione, l'amore di coppia non c'è più, ma la vita può ricominciare e i rapporti possono essere mantenuti.

Al di là di diverse scene madri molto emotive e un poco ipocrite (lo showdown nel nuovo appartamento di lui, la lettera letta ad alata voce nel finale), che sono comunque splendide (adoro le scene madri) e permettono ai due protagonisti di candidarsi per gli Oscar con tutta tranquillità; al di là di quelle scene, dicevo, il film si muove sul binario dei piccoli sentimenti, dei cambiamenti giorno per giorno, dell'ansia che aumenta per piccole cose che diventano sempre più grandi. L'uomo, il vero protagonista, si accorgerà molto tardi di quanto siano definitive le cose con la moglie.

Ben condotto, con una fotografia lievemente desaturata figlia del Sundance, ma ormai sdoganata, riesce a conquistare senza nessun dubbio e riesce a portare avanti discorsi estremamente adulti senza sbracare troppo affidandosi a una coppia di attori magnifici (con spledide comparsate diella Dern sempre uguale, un Liotta che invecchiato meno peggio del previsto e il sempre vecchio Alda).

lunedì 16 dicembre 2019

Zindagi na milegi dobara - Zoya Akhtar (2011)

(Id.)

Visto su Netflix.

Tre amici di lunga data (ormai divisi dalle rispettive vite) si ritrovano in Spagna per l'addio al celibato di uno di loro. Neanche da dire che questo diventerà il viaggio di una vita, che darà loro un senso nuovo per andare avanti e la forza di affrontare i loro scheletri negli armadi (una vita sacrificata al lavoro, l'abbandono di un padre e un matrimonio per sbaglio).

Filmetto indiano piuttosto distante dallo stile barocco di Bollywood, pur tenendone una parte, con un piglio (e una location) più internazionali per potersi vendere meglio in Europa.
Diciamolo subito, è un film con molti difetti e pretese assurde per quello che offre; c'è agnizione all'acqua di rose, prove da affrontare ridicolmente gonfiate, un'eccesso di poesia messa a forza e non integrata (al solito, le poesie vengono recitate e non traspaiono dalla trama) e un product placement bestiale (e il prodotto è la Spagna).
Al netto di tutto questo il film dura oltre le due ore e mezzo (con una trama già vista centinaia di volte) e riesce comunque a mantenere sveglia l'attenzione, gli irritantissimi protagonisti (uno più insopportabile dell'altro) diventano, pian piano, sempre più tollerabili (anche se rimangono tutti macchiettistici), le incursioni musicali che ci si aspetterebbe sono poche e molto modernizzate (sequenze con canzoni complete, ma senza balli, solo giochi di montaggio che mandano avanti la trama; solo due sono i momenti più canonici, ma nel primo c'è un crossover indio-spagnolo e il secondo è dopo i titoli di coda e conclude la vicenda lasciata in sospeso nel finale).
Il tutto viene veicolato dal classico pacchetto ben fatto del cinema indiano, con una fotografia ben curata (e, come già detto, con particolare attenzione per le location), degne di Bollywood.

Di fatto ci si trova davanti a un film scontato ben realizzato ed efficace a colpire il gusto e l'occhio di un occidentale senza mai sviare troppo l'attenzione dall'origine indiana del prodotto.

PS: il titolo si traduce con qualcosa come "Non avrai una seconda possibilità", "Si vive una volta sola".

venerdì 13 dicembre 2019

I predatori dell'arca perduta - Steven Spielberg (1981)

(Raiders of the lost ark)

Visto in tv.

Poi Spielberg decise di mettere in piedi una baracconata d'avventura basata su fumetti dozzinali di quando era lui il regazzino, di ambientarla negli anni d'oro del fumetto (i '30s) così da avere la scusa pure per ammazzare qualche nazista; infarcire il tutto di pseudoarcheologia e misticismo ebraico. Un mix sostanzialmente mortale per chiunque, ma il nostro adorato regista realizza uno dei picchi di una carriera... ricca di picchi.

Al di là del lavoro muscolare di ricostruzione di un mondo (mai esistito) dettagliato e variegato, al di là dello sforzo di creare personaggi interessanti e a 360 gradi pur mantenendo i buoni buonissimi e i cattivi... beh sono nazisti. Al di là di tutto questo, quello che più mi impressiona ogni volta che vedo un filmd ella trilogia di Indiana Jones è quanto regga da dio gli anni e le età dello spettatore. Questo è un film che ho adorato da giovanissimo e continuo ad apprezzare.
Spielberg mette in piedi una sana storia d'avventura e per portarla avanti decide che l'azione dovrà essere determinante. Verrà fatto di tutto, scazzottate, fughe dalle fiamme, fughe dentro ceste, battaglie d'auto, ecc.. tutto senza perdere mai un colpo e riuscendo anche mandare avanti la trama mentre si fugge (il capolavoro in questo senso sarà però "Il sacro graal").
Il lavoro riesce talmente bene e l'adrenalina si mantiene a buoni livelli tanto da far accettare i dettagli mistici anche al pubblico più esigente.

Ovviamente dietro la amcchina da presa Spielberg lavora su più piani e costruisce un film in cui le due sequenze iniziali (quella nella foresta e quella all'università) che facendo molto, ma dicendo poco (le scene dell'idolo d'oro potrebbero anche essere mute e cambierebbe di un nulla) descrivono in maniera completa il personaggio appena introdotto.
Il resto del film è un gioco continuo di mostrare in maniera non banale, sfruttando spessissimo le ombre o i tagli di luce quasi noir per un film ttuto sommato molto soleggiato.

Un film che riesce a coniugare una storia a più livelli che può accontentare quasi ogni pubblico, uno sviluppo avventuroso che tiene attacati allos chermo e una tecnica enomre. Un mix che, per fortuna Spielberg ci riproporrà almeno un altor paio di volte...

lunedì 9 dicembre 2019

Smetto quando voglio: Ad honroem - Sydney Sibilia (2017)

(Id.)

Visto in tv.

Ultimo capitolo della trilogia di Sibilia che conclude il ciclo in grande stile.
Cominciando esattamente dove finiva il precedente e mostrando nuovamente alcune sequenze del secondo capitolo che, là, risultavano un poco slegate, il film riparte sul già noto nella trama, ma fa un salto importante nel tono. La comicità rimane, ma viene molto ridimensionata e nella seconda parte sostanzialmente abolita a favore di un film un poco d'azione (decisamente meno dinamico del precedente) e molto di tensione.
Altro grande cambiamento è lo status dei suoi protagonisti. Indubbiamente rimangono gli stessi sfigati dei due film precedenti, ma in questo sono efficienti e ben organizzati nonché aiutati dalla fortuna, in una parola diventano eroi. Ecco, la differenza principale con il resto della saga è tutta qua; i primi due capitoli erano commedie all'italiana, con dei perdenti che ci provano e falliscono (calati in una critica sociale divertente), qui diventano eroi che salvano il mondo (e la critica diventa più marginale e... populista). Niente di grave, ma il genere ha un piccolo scarto che spiace a me personalmente, ma non fa perdere nulla in godibilità.

Per il resto il lavoro di regia rimane sostanzialmente identico, mentre la trama deve necessariamente ritornare sugli eventi passati per incastrarli (un buon lavoro), ma soprattutto deve gestire ancora una volta un cast corale enorme (si aggiunge di nuovo Marcorè) in maniere equilibrata lasciando molto spazio a Leo nel finale. L'esercizio circense riesce miracolosamente alla perfezione. Fatto salvo il finale tutto in mano al protagonista principale (come è giusto per concludere la trama orizzontale) il resto, a partire dall'incontro nella doccia, il piano di fuga, la metropolitana e l'ingresso alla Sapienza è un incredibile capolavoro di scrittura dove c'è spazio per tutti in maniera quasi identica (per realizzarlo si è dovuto ridimensionare l'ottimo Fresi che era il coprotagonista principale dei film precedenti).

Ovviamente non è il migliore della trilogia, ma è una chiusura che nond elude le grandissime premesse iniziali. Non male.

venerdì 6 dicembre 2019

The irishman - Martin Scorsese (2019)

(Id.)

Visto in tv in lingua originale sottotitolato.

Questo Irishman parte come una versione aggiornata di "Quei bravi ragazzi" (eliminando glamour e spettacolarità, ma continuando a mostrare i dettagli pratici della vita della mala) fino all'arrivo del personaggio di Hoffa, momento in cui vira verso il racconto storico americano (o meglio la mitopoiesi americana) unendo in uno stesso film i due argomenti più caratteristici della filmografia scorsesiana. Nella terza parte però vira di nuovo diventando qualcos'altro, qualcosa di nuovo.

Parte nel suo giocando el carte che ormai sa gestire ad occhi chiusi creando un mondo costellato da un'infinità di personaggi che vive di regole e relazioni proprie, ma nel momento in cui lo spettatore più abituato a Scorsese sta comincia a chiedersi perché ritornare nel seminato viene introdotto il personaggio di Pacino (che è un personaggio alla Pacino) che porta avanti la parte storica mangiandosi tutta quella porzione di film con la sua presenza carismatica e dialoghi al limite del tarantinismo. Dopo la sequenza del "Che tipo di pesce" il film diventa più intimo, molla la storia per tornare sul personale, se fossimo agli inizi della carriera del regista ci sarebbe un vero e proprio rapporto con la religione a condurre il gioco, ma questo è un film più cinico e nichilista, la religione (e quindi la speranza e la colpa) è marginalizzata e l'ultima mezzora è la presa di coscienza che tutto è stato inutile, che una vita di lealtà e affetti non detti è stata sprecata e che essere integerrimo non era una dota, ma una condanna. Un finale glaciale senza alcuna speranza (la sequenza finale è così metaforica e gestita con freddezza da sembrare dei fratelli Coen) che non può sorprendere lo spettatore abituato a Scorsese.
In una parola questo è un film gigantesco efficace in ogni sua parte che prende i canoni che tutti attribuiamo al regista per portare oltre il suo discorso. Se questo fosse il suo ultimo film sarebbe perfetto (spero però che ne realizzi ancora molti).

La regia non dovrebbe più essere neanche commentata, Scorsese è l'unico regista che invecchiando migliora e non molla nulla dei sui stilemi (ma quanto sono gustosi i suoi rallenty? che se li usasse chiunque altro in queste quantità si potrebbe denunciare per tortura), dei suoi dinamismi e dell'uso delle musiche aiutando la storia a progredire per quasi 4 ore senza cedere mai nel ritmo; senza annoiare mai.

Cast enorme che permette a Joe Pesci di non fare il solito Joe Pesci, ma di recitare più di fino, permette a De Niro di non fare il solito De Niro e nella seconda parte anche di recitare, cosa che non faceva da anni (nella prima... beh recita meno; sarà il personaggio che deve evolvere o il ringiovanimento, ma nella prima metà De Niro nicchia come nelle solite commediole senza pretese a cui ci ha abituati di recente) e regala a Pacino l'ennesimo personaggio da mettere nella galleria dei fumantini tutti scene madri (magnificamente gestite) e ironia... mi è appena venuta voglia di riveder "L'avvocato del diavolo".

La questione ringiovanimento mediante CGI... inutile fingere che sia perfetta, non lo è. Nella prime scene in cui compare (sopratutto nei primi piani o in pieno sole) c'è uno strano senso di disagio (e quella stati che non so se imputare al computer o all'attore). Tuttavia io nei film in 3D noto la tridimensionalità per i primi 15 minuti e poi non la scotomizzo; anche qua dopo poche scene tutto il fastidio scompare schiacciato dal peso della storia che sto vedendo.

lunedì 2 dicembre 2019

Project X. Una festa che spacca - Nima Nourizadeh (2012)

(Project X)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato.

Tre amici delle superiori, facilmente catalogabili come sfigati (come chiosa con delicatezza il padre del protagonista), organizzano una festa di compleanno per uno di loro nella sua casa sgombra per il weekend. gestiranno in maniera intelligente gli inviti e porteranno le cose così oltre da distruggere tutto e realizzare la festa più memorabile di sempre.

Sgombriamo subito il tavolo dai problemi più evidenti. Il found footage; ogni buon cristiano dovrebbe odiarlo con tutto il cuore e io mi associo subito. In questo caso viene utilizzato in maniera coerente (e sorprendentemente non fastidiosa) nella primissima parte; quando comincia la festa il found footage va a ramengo (ralenty, inquadrature impossibili, etc...) e si rivela per quello che è, solo un sistema di regia per creare più interesse con mezzi semplici.

Il film però è ottimo. La storia di tre sfigati che realizzano una festa che sfugge di mano in un climax di follia che porta a incendiare l'intero quartiere è la rappresentazione iperbolica dell'ossessione per il divertimento(fino all'autodistruzione) mutuato dalla cultura di massa di questo paio di decenni; sulla stessa linea del contemporaneo "Spring breakers", ma puntando su un concetto più semplice e con una trama estremamente lineare e pulita, Nourizadeh porta a casa un risultato di tutto rispetto per messa in opera e attualità.
Found footage a parte, l'unico difetto evidente è l'insicurezza di registro; cominciato come un buffo film serio (i personaggi di Costa e JB sono buffe spalle comiche, ma il film rimane con i piedi per terra) nel finale devia verso la farsa (il lanciafiamme) ancora sopportabile per il modo in cui ci arriva per chiudersi con sequenze apertamente comiche (divertenti, ma fuori tema rispetto al resto del film).

venerdì 29 novembre 2019

Parasite - Bong Joon Ho (2019)

(Gisaengchung)

Visto al cinema in lingua originale sottotitolato.

Una famiglia povera costretta a vivere nei bassifondi (letteralmente) riesce a sfruttare con l'inganno una famiglia ricca e a farsi assumere, uno per volta per ricoprire mansioni d'insegnate, autista e tuttofare. Dire di più sarebbe uno spoiler imperdonabile.

Bong Joon Ho deve essere al settimo cielo, fino a 10-15 anni fa se lo filavano in due, ora tutto si sperticano in complimenti. Obiettivamente però siamo di fronte al suo miglior film dai tempi di "Memories of murder" (ok, non ho visto "Snowpiercer") e le lodi sono meritate.
Supportato dall'eternamente in parte Song Kang Ho (mamma com'è invecchiato) che lavora di profilo basso per 2/3 del film per poi dare il meglio nel finale e da un cast affiatatissimo e con poche sbavature, Joon Ho firma il suo film di critica sociale (la lotta di classe nominata da molti è, però, un'altra cosa) più metaforico e diretto nello stesso tempo.
Ecco l'eccesso di metafora avrebbe potuto essere un difetto, ma Joon Ho la prende e la rende, non solo un'allegoria che sta sullo sfondo, ma un personaggio: le eterne scale (come le salite e le discese) che esemplificano il livello sociale, sono parte integrante della trama, sono il luogo dove ci si nasconde, la via di fuga o la via da cui arrivano i nemici, sono i determinanti di insuccesso di un piano di risoluzione dei problemi, il luogo dove si mostra l'animalità di un personaggio e soprattutto sono l'ambiente della scena thriller migliore del film. Assieme alle scale anche le finestre (quella sul vicolo dove pisciano gli ubriachi o quella sul calmissimo giardino interno) come schermo della realtà di cui si fa parte e l'architettura in toto delle case (minuscola e senza senso quella della casa povera, razionale, estetizzante quella della casa ricca) che diventa parte del gioco del gatto col topo della metà film in poi.

Ma al di là di utilizzare il limite del film per renderlo migliore, Joon Ho azzarda anche un continuo cambio di genere riuscendo a gestirlo in maniera quasi impeccabile.
Il film parte un po heist movie, un poco commedia all'italiana, comunque molto divertente e leggero, per poi virare nell'inquietudine con venature thriller e una lunga sequenza da home invasion al contrario. l'ultima parte però cambia ancora e diventa dramma, quasi tragedia greca con un'illusione di risoluzione positiva.
L'effetto è straniante, ma ben condotto e ogni momento è perfettamente calibrato.
Da vedere.

lunedì 25 novembre 2019

La favorita - Yorgo Lanthimos (2018)

(The favourite)

Visto in aereo.

Io e Lanthimos abbiamo un rapporto contrastato. Lui fa film shockanti che sulla carta non possono non piacermi, ma spesso si limita a espandere l'idea iniziale senza costruirci attorno un vero e proprio film, se tanto basta piace, se ciò non basta, lo si odia... io appartengo alla seconda categoria.
Da un paio di film a questa parte sembra essersi sforzato sempre di più di mettere in scena una trama oltre a un'idea forte (che rimane comunque la sua cifra) e se all'inizio sembrava un caso, si sono avute conferme piacevolissime.
Con "La favorita" si ha, finalmente, un cambio di paradigma. L'idea di fondo è un rapporto a tre, lì'idea di base è un mondo di sopraffazioni con intrighi di palazzo. L'idea di fondo è una trama prima che un singolo dettaglio shockante; non sarà originalissimo, ma il film ne guadagna.

Lanthimos costruisce una sfida fra due favorite della regina inglese (una regina adulta, ma mentalmente infantile) che si dimostra una lotta tra cani disposti a sbranarsi. L'idea vincente, però , è il trasformare il tutto in una sfida di sopraffazione che coinvolge chiunque. Lathimos prima crea un mondo di violenza trattenuta e volontà di prevaricare ad ogni costo e poi vi fa muovere due personaggi magnifici (anzi tre vista l'importanza della regina nell'economia del film).
Per costruire questo mondo in maniera credibile si concentra in maniera gustosissima nei dettagliatissimi interni e nei costumi eccessivi arrivando a vette quasi pornografiche di precisione per poi aggiungere elementi stranianti (idea a mio avviso senza utilità che diventa ridicola solo nel ballo) senza particolare motivo. Per dare vigore e fiato agli interni e aumentare il senso di weirdness riprende con grandangoli quasi ogni scena e frequenti movimenti di macchina.

Un encomio all'intero cast completamente in parte riuscendo a sostenere perfettamente il trio di coprotagoniste che non sbaglia un colpo.

venerdì 22 novembre 2019

No, i giorni dell'arcobaleno - Pablo Larraín (2012)

(No)

Visto in Dvx.

Nel 1988 Pinochet dovette cedere alle pressioni internazionali e indire un referendum sulla possibilità di aumentare il numero di mandati del presidente. Il referendum divenne l'occasione per l'opposizione di avere la possibilità di parlare pubblicamente e fu, di fatto, un voto su Pinochet stesso. La campagna pubblicitaria per il No, venne data in mano a esperti di marketing che la portarono dal piano politico a quello puramente pubblicitario.

Il film di Larraín è un film politico per forza di cose; politico senza essere troppo requisitorio, politoc mostrando una certa frantumazione del fronte che dovrebbe sostenere, politico pieno di enfasi, ma con poche sottolineature caricaturali dei buoni e dei cattivi in gioco. A fronte di questi pregi, però, il film di Larraín è un film politico a distanza di sicurezza dai fatti avvenuti, che si permette la superiorità della storia ormai unanimamente accettata. Un film politico ben fatto, ma senza coraggio.

Ecco tutto questo è quello che si dovrebbe dire di questo film se non fosse realizzato così bene. Larraín prima che un film politico, realizza un film storico, ma un film storico per la qualità di ciò che mostra, non per il suo contenuto. Riprendendo gli attori con pellicola e attrezzature di fine anni '80 crea un film esteticamente simile alle immagini di repertorio (pur con tutta l'attenzione possibile per la fotografia), gioca ricreando immagini televisive d'epoca con cui interrompe di continua la narrazione e che alterna o mischia a quelle originali in un continuo ingannare lo spettatore.
L'effetto finale è perfetto e, tutto sommato, tranquillamente accettabile, dato che il gioco non viene esplicitato e notarlo è una scelta dello spettatore. Si può decidere di vedere un fil  politico o un grandioso film politico.

lunedì 18 novembre 2019

20,000 days on earth - Iain Forsyth, Jane Pollard (2014)

(Id.)

Visto in Dvx.

Un documentario su Nick Cave, che non ne ripercorre la storia, ma lo affianca durante la registrazione dell’allora nuovo album (Push the sky away) infarcito di considerazioni personali sulla musica, la vita, la memoria.
Di fatto questo non è un documentario, ma un film di pura fiction con molti personaggi che interpretano sé stessi. I registi infatti costruiscono scene impegnative, richiedono determinati movimenti e posizioni agli “attori”, creano una fotografia satura bellissima, ma soprattutto creano location che interpretino il personaggio e ne parlino. In questo senso è magnifico l’ufficio di Nick Cave.
A conti fatti, più che un film sulla musica, questo è un film sulla memoria e il lavoro visivo (e cinematografico in genere) fatto per rappresentarla o avere la scusa di parlarne è encomiabile: “l’intervista” tenuta dallo psicoanalista che ripercorre i ricordi del cantante; le opinioni dei vecchi amici che vengono mostrati come fantasie di Cave mentre guida (una delle idee migliori); ma soprattutto l’archivio dei ricordi.
Un’opera colossale che dice molto di più di quanto non venga espresso con i lunghi dialoghi, riesce ad avere picchi di surrealtà (con Warren Ellis) e di immagine iconiche... tuttavia può facilmente deludere i fan che otterranno poche informazioni, ma soprattutto deluderà chi si aspetta un film (o un documentario) vero e proprio; se si ha la pazienza di vederlo, però, si avrà un dei documentari più belli e più strani.

venerdì 15 novembre 2019

Iron man - Jon Favreau (2008)

(Id.)

Visto in tv.

Il primo capitolo della nuova vita della Marvel cinematografica è una delle operazioni meglio riuscite di sempre e uno dei film di supereroi più belli dell'epoca (a parte alcuni Batman).

Il film è una classicissima origin story e deve portare a casa il risultato presentando un personaggio sconosciuto a più, raccontarlo nel dettaglio prima, mostrare come c'è arrivato e poi farlo scontrare con il villain del caso.
Il metodo scelto per farlo è vincente.
Il film si concentra tantissimo sul personaggio, lo manipola rendendolo cool e divertente e lo mette in mano a Robert Downey Jr (il personaggio è proprio ritagliato su di lui). Mai una scelta di casting fu più azzeccata. Oggi nessuno avrebbe dubbi ad affidare a Downey Jr le chiavi di casa, ma all'epoca l'attore (con tutti i suoi problemi) arrivava da una serie di film imbarazzanti, alcuni ottimi film che abbiamo visto in due, e altri film dove semplicemente non lo si poteva riconoscere (e comunque li abbiamo visti in due). Questo personaggio invece gli permette di gigioneggiare al meglio e dare sfoggio di una gamma di possibilità attoriali (esagerate) che gli verranno buone e lo rilanceranno.
Il film si poggia integralmente sul suo attore/personaggio e gira intorno distruggendo quello che era l'archetipo supereroistico sopravvissuto fino a quegli anni (quello anni 80-90 di Batman) con un personaggio principale triste e esolitario e prieno di problemi e un supoerpotere visto con fatica o con responasibilità; qui si vira il tutto verso l'edonismo.
Il tutto condito da una fotografia ottimale, molto illuminata e tendente ai colori caldi.

L'altra grande scommessa è quella di creare un film con un antagonista quasi inesistente; certo il villain arriva, ma molto tardi, dall'interno e quasi per sbaglio, dando vita a una delle (estremamente efficace) sequenze action di un fil m d'azione povero d'azione.

Un film non scontato che diventerà seminale che azzecca tutto, dall'estetica al tono al ritmo fondando una nuova linea di supereroi.

lunedì 11 novembre 2019

Voices - Jason Moore (2012)

(Pitch perfect)

Visto in tv.

In un college americano i gruppi di canto a cappella se le suonano di santa ragione, ci sarà l'outsider che deve combattere per essere inserita fra le ragazze che contano e la grande sfida da vincere a New York.

Buffo film americano che si basa sulle classiche dinamiche del cinema sulle università americane, con i personaggi macchiettistici che dovranno andare d'accordo per lo show finale; la trama è un lento progredire nel rendersi conte che alla fine "non siamo così diversi".
Quello che mi spacca sempre di un certo cinema facile dagli States è il riuscire a far sembrare centrali degli argomenti estremamente marginali. Qui il canto a cappella sembra essere l'unica attività realmente valevole nel college e l'unica che distingua gli studenti più cool da tutti gli altri.

Questo film vorrebbe staccarsi dalla calca di commedie positive per ragazzine con un piglio più controcorrente, per lo più lasciato alla comicità e alla presenza scenica di Rebel Wilson e mischiandolo con dettagli divergenti dall'usuale (picco di nonsense con le due scene del vomito che rappresentano davvero il, piccolo, cambio di passo del film), ma che viene velocemente eclissato dall'andamento sempre più ovvio e banale che si conclude con il gran finale.

Un film, come tanti, con solo un angelo di vomito per distinguersi.

PS: ho una speciale idiosincrasia per la Kendrick che me la fa odiare quasi subito, in questo film mi è parsa più tollerabile dle solito.

PPS: trovo ridicola l'idea di utilizzare la musica di Guetta

venerdì 8 novembre 2019

Il libro della giungla - Jon Favreau (2016)

(The jungle book)

Visto in tv.

La versione live action del film classico Disney ha ben poco di live action.
Nell'anno dell'uscita de "Il re leone" questo "Libro della giungla" sembra essere stata la prova generale per valutare la realizzazione di animali verosimili con il la CG.

L'effetto è sbalorditivo con animali estremamente realistici anche senza il supporto di inquadrature distanti o di ombre e nebbie e rappresenta anche una delle prime (assieme a "Cenerentola") rielaborazioni di classici di animazione, facendo da apripista alla selva di film a cui stiamo assistendo in questi anni. Il tono qui sembra chiaro, tutto improntato alla verosimiglianza, alla credibilità, alla riattualizzazione dei temi e a una nuova taratura del target.
Le canzoni vengono relegate a qualche canticchio a mezza voce e non diventano più minutaggio importante; l'atmosfera è più adulta con momenti estatici (gli elefanti) e altri di maggior inquietudine (la stupenda sequenza con Re Luigi). Il tema di fondo, dell'accettazione delle differenze nel film originale diventava una presa di coscienza di appartenere a un altro mondo a cui tornare, qui invece diventa la consapevolezza di essere diversi, ma nello stesso contesto sociale e vira verso l'inno all'accettazione (scarto di prospettiva importante per la Disney che per decenni ha rappresentato la pubblicità dello status quo più reazionario).
La verosimiglianza è invece tutta nella scelta estetica degli ambienti dei personaggi in CGI e determina la qualità del film, fantastica e curatissima, limita l'espressività dei personaggi per ovvi motivi (gli orsi non sorridono), ma riesce lo stesso a veicolare i messaggi necessari.

lunedì 4 novembre 2019

Latin lover - Cristina Comencini (2015)

(Id.)

Visto in DVD.

Le quattro figlie di un grande attore del cinema italiano fino agli anni '70, ne devono onorare il decennale della morte con una retrospettiva. L'occasione, come si può immaginare, è il momento buono per far esplodere tutti i problemi e i segreti di una famiglia allargatissima.

Si muovo in un ambiente già molto usato, la Comencini, e nel farlo vorrebbe fare onore al cinema italiano di una volta. Con uno sguardo nostalgico enorme e una continua citazione diretta di molti film ("Il sorpasso", "Per qualche dollaro in più", "La classe operaia va in paradiso", "Divorzio all'italiana", "L'armata Brancaleone", ecc...), la regista non sembra però trovare mai la via per arrivare al punto di vista giusto, all'occhiata interessante. A livello di contenuti la storia è tracciata in maniera piuttosto consueta e semplicistica (seppure con migliaia di "colpi di scena"); dal punto di vista estetico ci prova ad essere originale o citazionista in maniera concreta, almeno all'inizio, ma rimane sempre superficiale e non riesce mai a spingersi oltre un gusto superiore solo a quello televisivo.

Il film vive sulle spalle di un cast tutto femminile (con due o tre comprimari maschili più o meno secondari) ovviamente molto discontinuo. Meravigliosa la perfetta Candela Peña, completamente in parte, tanto da non sembrar recitare; enfatica, ma aggraziata, Virna Lisi (scelta corretta?); una Finocchiaro e una Bruni Tedeschi che si limitano a rifare lo stesso personaggio su cui sono rodate; infine uno Scianna, nella parte del protagonista assente che non mi sembra essere la scelta di casting giusta, possibile non ci fosse nessuno con più fascino?

Nel complesso questo film zoppicante si fa vedere, con abbastanza gusto nella prima parte e sempre più zoppicante a mano a mano che prosegue. Un film adattissimo a una pigra domenica pomeriggio mentre fuori piove, ma nulla di più.

venerdì 1 novembre 2019

Non aprite quella porta - Tobe Hooper (1974)

(The Texas chain saw massacre)

Visto in Dvx.

Un gruppo di amici va a in gita nelle profonde campagne texane; il motivo che li spinge è poco attraente: una serie di profanazioni nel cimitero locale spingono due del gruppo a cercare la tomba e la casa del nonno per vedere se sono stati coinvolti. Finiranno tutti nelle mani della peggior famiglia di redneck dedita al cannibalismo.

La storia è nota e il dietro le quinte produttivo pure (un film amatoriale realizzato con studenti e colleghi del professor Hooper) per questo che non si può candidare come il primo slasher della storia per essere stato superato dalla mosca bianca Gordon Lewis, ma si propone come il primo horror extraurbano (quelli di gruppi di persone che si perdono e vengono massacrati da maniaci). Risulta anche essere il primo della new wave horrorifica degli anni '70 che portò uno svecchiamento incredibile nel genere (incancrenito sui film d'atmosfera iniziati negli anni '30 e codificati nei '50) e che fece da base per l'horror come lo conosciamo ancora oggi. Hooper però è lontano anni luce dalla patinata perfezione formale di "Halloween" o dal puritanesimo di fondo di "Venerdì 13"; si trova più vicino al gusto del primo Wes Craven, seppur in anticipo sul collega.

La visione horrorifica di Hooper è piuttosto chiara e semplice; l'orrore deve essere immediato e senza tanti fronzoli: atmosfera creata con immagini che lasciano poco all'immaginazione (cadaveri in decomposizione, ossa, sangue, ecc..), niente abbellimenti cinematografici (anche se la fotografia non modificata o l'assenza di musiche sono motivate pure dal progetto amatoriale) e la violenza che esplode improvvisa, rapida e feroce. il film si concede una fuga e un inseguimento solo con l'ultima vittima, nel resto del film faccia di cuoio salterà fuori ucciderà e tornerà dietro la porta senza attendere o permettere il minimo di suspense; è l'orrore puro, non un film di Hitchcock.

La regia è interessante e mostra che dietro la macchina da presa non c'è un semplice esordiente, ma a vincere è la visione d'insieme, il tocco quasi documentaristico (termine esagerato, me ne rendo conto), la verosimiglianza come unico metro.

Il film comunque mostra tutti i difetti dell'opera artigianale, sia dal punto di vista visivo, sia in quello del ritmo, con un dilungarsi della cena finale che annoia più che aumentarne l'effetto. Ci si trova comunque davanti a un film basilare che diverrà archetipico, un classico che farà scuola.

lunedì 28 ottobre 2019

Coco - Lee Unkrich, Adrian Molina (2017)

(Id.)

Visto in tv.

La storia di un ragazzino che vuole inseguire la sua passione (fare il mariachi) in una famiglia in cui la musica è stata bandita per un trauma subito dalla trisavola. Per cercare di partecipare a un contest durante il giorno dei morti, il ragazzo, ruberà la chitarra al suo eroe (un mariachi e attore anni '40 ormai defunto)... ma rubare il giorno dei morti a un morto ti fa andare nell'aldilà e lì dovrà farsi aiutare dalla porzione defunta della famiglia che però osteggia in blocco il cantautorato.

Questo film Pixar è il più grande contributo (e omaggio) alla Disney classica, con un protagonista indipendente che si ribella alla famiglia castrante per inseguire i suoi sogni; niente di più lineare e antico.
La Pixar però non è posto per luoghi comuni e ci mette del suo. Il passaggio nell'oltretomba mette in mezzo un mondo timburtiano che introduce la morte in cartone animato per bambini e lo fa con gaiezza e colori lisergici per poi toccare la morte vera (anche qui, come in "Inside out" la morte vera è legata alla memoria e all'oblio) che può far "morire" i defunti (con un'idea che aumenta i passaggi, ma porta al medesimo risultato).
In questo mondo affascinante e perturbante si muovono le avventure del ragazzo che prendono spunto dai classici per arrivare al cinema orientale miyazakiano (come già diverse opere del passato della Pixar) dove non esiste un antagonista (ok, verso la fine ci sarà un villain, ma durerà poco).
Lo scioglimento e il raggiungimento dello scopo saranno un pco scontati e con alcune delle sequenze "d'azione" più tristi della casa di produzione di Lasseter (che ci ha abituati a molto di più), ma il vero terreno di gioco del film è tutto sulle emozioni, con alcuni momenti strappalacrime sbattuti in faccia con violenza.
Visivamente impeccabile e con una fotografia tra le migliori che ricordi.

venerdì 25 ottobre 2019

Joker - Todd Phillips (2019)

(Id.)

Visto al cinema.

Sgombriamo ogni dubbio, per me "Joker" è un buon film. Manca di grazia, di delicatezza, si gingilla con una grossolana superficialità in più punti (la pistola regalata, l'inizio dell'inseguimento della polizia, l'entrata nel teatro o la scena con il giovane Bruce, ecc...); difetti che non permetto al film di essere il capolavoro che vorrebbe essere (insieme al finale piuttosto frettoloso con la scena in tv più patetica ed esplicita di quanto avrebbe dovuto). Conta poco il confronto con i giganti del passato ("Taxi driver" e "Re per una notte" li hanno nominati tutti, ma sono effettivamente riconoscibili in ogni scena, il secondo anche più del primo) che "Joker" non può che perdere, i suoi difetti sono tali anche se preso da solo; ma è un buon film.

Indubbiamente il film vince tutto grazie a Phoenix, si mangia ogni scena, rende credibile ogni possibile ridicolaggine, riesce a rendere in maniera perfetta follia e sofferenza, riesce a ridere con il volto e piangere con gli occhi nelo stesso momento. Enorme.

Ma al di là della migliore scelta di cast possibile (su cui ho avuto dubbi fin dai primi rumors) è il film nel suo complesso a risultare credibile. La Gotham city/New York anni 70-80 è ricostruita in maniera eccellente, credibile e angosciante ad ogni inquadratura, fotografata in maniera splendida con la dominante marrone costante; il mood del film è evidente in ogni scena solo grazie all'estetica.
Phillips si dimostra intelligente nell'assecondare Phoenix con inuqadrature ravvicinate o a figura intera in base alla performance e riesce a prendersi la briga di giocare con il fuori fuoco per aumentare l'isolamento o nascondere (o mostrare) il resto del mondo dove necessario. Phillips è anche abbastanza astuto da cercare l'immagine potente ad ogni inquadratura; il film infatti, cede sulla trama mentre vince ad ogni scena con un eccesso di immagini pronte ad essere trasformate in icone pop.

La polemica sull'utilizzo commerciale del brand DC che però non si avvicina agli originali, non entra nel continuum o altre questioni simili, mi pare pretestuoso. La storia si sarebbe retta anche senza citare il Joker (anche se avrebbe avuto meno visibilità e riconoscimenti); mentre l'utilizzo di Gotham come ambiente dimostra la duttilità del mondo di Batman che si adatta a diversi tipi dir acconto, si presta a connessioni con l'attualità che la Marvel ancora sogna (in realtà credo che alla Marvel, giustamente, non freghi nulla) e riesce a costruire discorsi fra individuo e società e sul rapporto con la città che imbruttisce che vanno al di là del fumetto originale; in una parola, questo mondo si dimostra il più vitale del mondo cinecomics.

lunedì 21 ottobre 2019

Quella strana ragazza che abita in fondo al viale - Nicolas Gessner (1976)

(The little girl who lives down the lane)

Visto in Dvx.

Una tredicenne, rimasta orfana, vive da sola fingendo che il padre sia ancora vivo; dovrà vedersela con un uomo con la insidia, la madre di lui che è la proprietaria di casa, un poliziotto benintenzionato che vorrebbe parlare a suo padre e un ragazzo innamorato.

Thriller dall'andamento teatrale (quasi tutto in una stanza) e dalla trama particolare che si tiene in piede con grande capacità nonostante il numero limitato di personaggi.
Siamo davanti a thriller che, a dire ilv ero, ha poca tensione, ma interessa e si sa rendere accattivante; il vero difetto è l'ultima mezzora, quando da un film inverosimile, ma molto credibile cominciano a essere messe in mezzo dettagli implausibili (la mascherata...) e lo showdown finale, sicuramente ben gestito, ma piuttosto insipido che rende l'intera opera come un'operazione ruffiana basata su una buona idea, ma senza una direzione vera e propria.
Sicurmanete apprezzabile, ma il finale lascia un pò di diaspiacere per quello che avrebbe potutto essere.

Da sottolineare che l'intero film è realmente appoggiato sulla adolescenti spalle di una incredibile Jodie Foster; la recitaizone non è impeccabile, ma riesce assolutazione a tenere testa a tutti (anche al viscido Sheen) e porta a casa un risultato più che dignitoso.

venerdì 18 ottobre 2019

Smetto quando voglio: Masterclass - Sydney Sibilia (2017)

(Id.)

Visto in Tv.

Al secondo capitolo della saga dei ricercatori precari Sibilia riprende tutti gli elementi del primo film e li riutilizza. Fotografia acida con doppia dominante, uso pazzesco delle location romane meno scontate possibile (che riescono quindi a creare un'altra città rispetto a quella da cartolina a cui ci siamo abituati), ottima colonna sonora (invasiva, ma contenuta) e gag che si appoggiano totalmente sulla fisicità e sulla recitazione degli attori (in questo secondo film risalta soprattutto Edoardo Leo, capace di dare senso e tempo comico con i gesti più che con le parole).

Quello che cambia però è il ritmo. Il film vira dalla commedia classica alla action comedy. Con un gusto per le scene d'azione dinamiche e divertenti nel contempo (e che riescono, anche se in minima parte, a portare avanti la trama mentre avvengono) che sembra essere preso da De la Iglesia (a mio avviso, il migliore in questo campo) non avendo un paragone possibile in Italia. L'effetto è eccitante e stupefacente; si prenda anche soltanto l'attacco al treno; fa godere di alcuni dei momenti più divertenti del film, mantiene le caratteristiche di ogni singolo personaggio, porta avanti la trama (si scopre chi è a creare la nuova droga sintetica) e realizza il primo (?) stand off sul tetto del treno del cinema italiano (contemporaneo) a cui si arriva con angoli d'inquadratura particolari e senza mai rallentare il ritmo.
L'altra grande capacità del film è quella di avere un cast ancora più numeroso e riuscire a dare caratteristiche tridimensionali a quasi tutti i coprotagonisti e a farle mantenere durante lo svolgimento delle varie sequenze; nessuno agisce per riempire un vuoto, in maniera banale, ma tutti si muovono come farebbe il loro personaggio in quella situazione.

Il film riconferma una galleria di antieroi buffi e sfigati che sembrano sempre riuscire rovinandosi nel finale dando, di fatto, continuità (ma molto attualizzata) alla commedia all'italiana. Qualche differenza ovviamente c'è, ma è una modifica secondaria.

lunedì 14 ottobre 2019

Nell'erba alta - Vincenzo Natali (2019)

(In the tall grass)

Visto in tv.

Da un racconto di King, Natali costruisce il suo nuovo "The cube". Premesse ottime. Se King ha scritto troppo per essere sinonimo di qualità a priori, Natali è un pò il nostro compagno di viaggio allucinato sin dall'adolescenza (se si è millenials); non ci si può non buttare a pesce.
Citare "The cube" per questo film, per una volta, non è a sproposito; il film parla di erba assassina (no, diversa da questa) che attira le vittime dentro di sé, le sposta nello spazio e nel tempo, le conduce ad una roccia che le fa andare fuori di testa. Ok la sinossi non rivela il paragone, ma di fatto si tratta di un gruppo di persone, fra loro sconosciute (di fatto due famiglie) che si perdono in un labirinto verde in cui non sanno cosa sta accadendo e non hanno idea di come uscirne.

L'idea iniziale (il romanzo) è strutturata e chiara, ma il come condurla lo è meno, il come farlo è un concetto totalmente assente. Natali si perde in assurde ripetizioni, deve incollare un finale posticcio positivo che rende ancora più incongruo l'ordine e il significato degli eventi e rimane sul vago e sul suggerito (male) per tutta la vicenda non riuscendo mai a essere chiaro (e non volendo, per fortuna, spiegare tutto a voce). Il tutto si riduce a un film dalla sceneggiatura caotica e scritta malissimo e da una regia interessante all'inizio che si perde nel labirinto che si sta creando.

Trovo poi piuttosto fastidiosa questa fotografia linda pulita anche in rpesenza di terra e fango e queste notti americani malfatte degne di film di serie B o di molte porduzioni Netflix, già con il colpo d'occhio si riesce a intuire la fregatura.

PS: inguardabile il cast, però si vede sorridere Patrick Wilson, non ricordavo ne fosse capace.

venerdì 11 ottobre 2019

C'era un volta a... Hollywood - Quesntin Tarantino (2019)

(Once upon a time... in Hollywood)

Visto al cinema.

Finalmente un film di Tarantino che mi ha soddisfatto completamente, è un'esperienza che non mi capitava dai tempi di "Bastardi senza gloria".
Tarantino, al suo eternamente ultimo film, abbandona gli obblighi contrattuali legati alle aspettative che ha creato in 25 anni di carriera. Basta violenza efferata e stilizzata (c'è in realtà, ma nel solo quarto d'ora finale), basta lunghi ed elaborati dialoghi fatti di cesello (si parla moltissimo nel film, ma senza gli eccessi parossistici e manieristici dei film precedenti) mettendo un'intera serie di scene in mano  aun personaggio (quello di Sharon tate) quasi senza battute (!).
Tarantino si libera di sé stesso e nella storia dei due giorni (più uno) di vita dei suoi due coprotagonisti (un attore della tv che non riesce a sfondare al cinema e deve ripiegare sulle parti da cattivo... sempre in tv) più uno (la Tate di cui sopra) in realtà parla dell'unico argomento che lo interessi: il cinema.
Nel suo film più nostalgico (le musiche e o i poster cinematografici pervasivi sembrano utili più a ricordare che a creare un ambiente) tarantino abbandona il citazionismo spinto (che pure c'è, ma si nota molto meno) per dedicarsi a descrivere quanto è bello fare, mostrare  o guardare film. l'intera filiera cinematografica è rappresentata ed è esaltata ed esaltante: i produttori sono entusiasti, le costumiste capiscono al volo le fantasie dei registi che a loro volta sono pieni di energie nonostante i lavori di bassa lega, gli stuntman soddisfatti, e giù nella catena alimentare dell'industria dei sogni fino alla cassiera del cinema e alla maschera. Naturalmente non ci si dimentica degli spettatori nella scena che racchiude l'intero film con Sharon Tate al cinema a vedere il suo ultimo film, estasiata e soddisfatta di sé che ascolta con commozione i feedback positivi del pubblico; non ci sono parole, ma lì c'è tutto quello che questo film vuol trasmettere.
Un inno al cinema che solo Tarantino poteva fare in questo modo e che. per fortuna gli riesce benissimo (ovviamente c'è molto della Hollywood di quegli anni che viene mostrato, ricostruito o nominato, ma va di diritto nel progetto nostalgia che rende bene, ma che non è immediatamente fruibile e neppure fondamentale).

Preponderante, soprattutto nel finale, anche i collegamenti con la cronaca con le vicende dei due co-protagonisti che si intrecciano involontariamente con la famiglia di Charles Manson.
Perché l'idea di mettere l'eccidio di Cielo Drive nel film può avere molti scopi (elemento catartico per come è stata realizzata, semplice setting temporale, giustificare la presenza della Tate ecc...), ma, personalmente, ho trovato geniale la gestione dell'affair Manson. Sfruttato per creare una splendida scena thriller (quella nel ranch) e utile per mostrare che nella città dell'industria dei sogni tutto è legato al cinema, anche la famiglia risiede in un set abbandonato e cercherà di uccidere attori e stuntman.
E DA QUI SPOILER. Sopra a ogni altra cosa però c'è il gioco con le aspettative dello spettatore. per tutto il film Tarantino ti fa affezionare al dolcissimo personaggio della Tate mentre ti mostra come il male si sta sviluppando appena fuori città e (per chi sa come andarono le cose) è ovvio pensare a co me finirà il film. Tarantino però modifica (di nuovo) la storia è lascia incolume la tate e il finale riesce ad avere uno dei scioglimenti più emotivi e (inaspettatamente) dolci che potesse avere, perfettamente in linea con il tono positivo del resto del film e senza negarsi un minimo di simbolismo. Il tutto giocando con quanto si sa e con quanto ci si aspetta stravolgendo il tutto riuscendo quindi a colpire molto più in profondità.

PS: e non ho parlato del solito cast di stelle e comprimari magnifici, quasi tutti in parte e ben utilizzati (giusto Pacino mi è sembrato svalutato) con un DiCaprio eccezionale (davvero si mangia ogni scena in cui compare), un Pitt perfettamente in parte e una Robbie con gli occhi costantemente luminosi.

lunedì 7 ottobre 2019

Alien - Ridley Scott (1979)

(Id.)

Visto in DVD.

Nel 1979 Ridley Scott deicde di girare un film di fantascienza. Non ha mai girato un film di questo genere, anzi, fatto salvo un film in costume ("I duellanti") non ha mai girato un film.
Scott si approccia la genere in maniera particolare... lo ignora quasi integralmente. Prende a mani basse gli stilemi dell'horror e del thriller e crea un via nuova (stessa cosa che farà subito dopo con "Blade runner" unendo la fantascienza con il noir). L'effetto finale è potentissimo.

Scott mette un gruppo di persone in un luogo isolato, come nel più classico slasher, e vi fa penetrare il perturbante (che qui prende le forme di uno xenomorfo anziché di un uomo con la maschera); fa spezzare il gruppo, organizzare difese e contrattacchi e li farà morire tutti a uno a uno in una gestione della tensione esemplare che non si esaurirà con la fuga finale della scream queen, ma andrà ancora oltre.
Ovviamente il film non è tutto qua o ce lo ricorderemmo come quel film tipo Carpenter ambientato nello spazio.
Scott organizza i suoi personaggi e li rende il più possibile tridimensionali con poche, oculate, cadute nel macchiettistico e crea una protagonista che definirla scream queen è quasi un insulto (chiedo scusa per averlo fatto poco fa); è un'eroina dura e rocciosissima, determinata e pronta a tutto, qualcosa di così vicino alla disperazione apatica e spietata (sempre sangue di xenomorfo) da essere stata avvicinata solo da Furiosa in tempi recenti. Il fatto di non aver giocato al ribasso nel cast è il valore aggiunto decisivo: la Weaver alla sua prima apparizione importante è stata una scommessa vinta, Hurt la botta di fortuna utilizzata per il minutaggio minore, ma nella parte decisiva; il resto sono tutti attori di peso che vanno dalla qualità assoluta (Holm) alla caratterizzazione di gran classe (Stanton). Pretendere di più sarebbe stato impossibile.
Scott però non si limita al cast e lavora d'immagini (come farà di nuovo in "Blade runner"). Butta a mare 25 anni di fantascienza pulita con navi spaziali bianche e luminose e pianeti grigi e polverosi e trasforma l'ambiente in un incubo. Tutto diventa nero, organico e umido, i (pochi) punti luce servono solo a creare squarci insignificanti fra le tenebre o a creare icone che diverranno il canone da '79 in poi (il tavolo illuminato dall'interno). L'ambiente molla la fantascienza classica per creare un linguaggio nuovo che diventerà la base anche dell'horror contemporaneo.

Infine la creatura; difficile dire qualcosa sul colpo di genio di Giger, sulla commistione biologica e inorganica, sul costante gocciolio e sulle allegorie parasessuali, il tutto unito in un mostro che mette i brividi ancora adesso.

Il termine seminale è abusato, ma in questo caso, come poche altre volte, può essere usato con assoluta tranquillità, per un film che a distanza di 40 anni(!) non ha ancora perso un colpo.

venerdì 4 ottobre 2019

Cattivi vicini - Nicholas Stoller (2014)

(Neighbors)

Visto in Dvx.

Una coppia con un bambino appena nato deve riassettare il suo stile di vita e le sue aspettative; abituati alle feste, alla libertà universitaria e alla volontà di divertimento ad ogni costo. La bambina però li costringe alla borghesia, mentre la vicinanza forzata con una confraternita universitaria, li tenta, ma li costringe a odiare quello stile di vita che vorrebbero.
Ok, raccontato così sembra un dramma familiare strappalacrime, invece è un film comico caciarone nello stile Apatow, lo stile diretto ed eccessivo, così come una certa idiozia di fondo nei personaggi e nelle gag deve piacere, altrimenti ci si annoia senza possibilità di intrattenimento. Ma il punto focale del film sta proprio nella trama.
Sul canovaccio più trito di due vicini di casa che si fanno la guerra per idiosincrasia si innesta un motivo decisamente più raffinato. I tre protagonisti (marito e moglie e presidente della confraternita) si odiano non per incompatibilità, ma perché i primi due non riescono a scendere a patti con l'impossibilità di far parte del secondo gruppo; i due genitori sono in tutti e per tutto uguali ai membri della confraternita, ma l'onere di una figlia li costringe alla repressione.

Lo stile del film sfrutta a piene mani l'idea di divertimento a oltranza (con l'immaginario visivo televisivo mutuato dalla Mtv che ha abbandonato la musica) idealizzato in "Project X" e demonizzato in "Springbreakers".

lunedì 30 settembre 2019

La signora mia zia - Morton DaCosta (1958)

(Auntie Mame)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Un regazzino viene affidato alla buffa, ricca, newyorkese, eccentrica zietta. Il film ripercorre il loro incontro, le difficoltà economiche, la nuova ricchezza, l'età adulta del figlioccio.
Film basato sull'omonimo romanzo da cui viene preso il ritmo spigliato e l'atteggiamento picchiatello un pò fuori tempo massimo, ma ben ricreato. Ecco, la sensazione principale nel vedere questo film (almeno la parte iniziale) è che sia una screwball comedy in ritardo di una decina d'anni. L'incipit, dunque, è un po forzato, ma funziona, anche grazie all'intelligenza nel scegliere la Russell come protagonista (perfetta, nonostante esageri spesso con la recitazione sovrabbondante). Rapido, ironico, sconclusionato, ipercolorato e con una leggerezza incredibile (anche nel trattare la morte) il film nei primi minuti funziona alla perfezione.
Purtroppo a mano a mano che le oltre due ore procedono il film si perde nel sentimentalismo, nella ricerca di soldi, nel rischio del distacco, ecc; a poco serve l'introduzione di nuovi personaggi comici (su tutti l'irritante segretaria), il mood non riprende.
Scene divertenti o battute taglienti ce ne sono, ma è evidente che hanno cercato di ripetere un genere senza portarlo fino in fondo; il personaggio "picchiatello" non lo è davvero; i sentimenti e il romanticismo ci sono sempre stati anche nel genere originale, ma l'emotività è tutta posticcia.

Seppure un film superficiale e sbilanciato, la regia però riesce nel miracolo di tenere in piedi il ritmo preteso dalla sceneggiatura e si impegna anche in costruzioni ardite con scene lunghe, ampi movimenti di macchina e un fade to black creato con le luci di scena anziché con il montaggio.

venerdì 27 settembre 2019

Travolti da un'insolito destino nell'azzuro mare d'agosto - Lina Wertmüller (1974)

(Id.)

Visto in Dvx.

Film manifesto del cinema della Wertmüller, la cui trama è descritta qui.

La Wertmüller realizza il suo ennesimo film di ritratti. La regista infatti, tende non a raccontare storie, ma a costruire personaggi, ironici, caricaturali, ma (quando riescono bene) non macchiettistici. Qui c'è l'ennesima coppia di personaggi, non tanto complessi come in passato, ma con un arco narrativo ampio come ci ha abituati il cinema di questa autrice.
Essendo questo il terzo film della tripletta Wertmüller/Melato/Giannini, un gruppo di lavoro ormai affiatato, si possono permettere di tentare un film in solitaria. Per gran parte del minutaggio in scena ci saranno solo i due co-protagonisti. L'effetto non da adito a scadute di stile e ripari nella macchietta (rischio sempre dietro l'angolo), ma riescono a funzionare piuttosto bene.

Il problema principale del film è la tesi; il film vuole dimostrare qualcosa a scapito dei personaggi.
Questo è un film sulla lotta di classe e sulle prevaricazioni legate allo status che, in un contesto dove lo status non serve vengono completamente eliminate in favore di un rapporto diverso, se non migliore, quantomeno più naturale (tutto il film scotomizza completamente la questione del genere; troppo complicato inserirla? sensibilità dell'epoca?).
I film a tesi sono sempre fiaccati dalla voglia di dimostrare l'idea iniziale senza condizioni attenuanti e diventano pipponi insostenibili. La Wertmüller, però, riesce a bypassare il problema con due armi; l'ironia continua (il suo proletario è una caricatura) e con lo scarto finale dove dimostra che i legami sociali condizionano tutti, anche (in questo caso soprattutto) chi non ha quasi nulla da perdere.

lunedì 23 settembre 2019

Rosmery's baby, Nastro rosso a New York - Roman Polanski (1968)

(Rosmery's baby)

Visto in Dvx.

Film epocale dalla trama, purtroppo, troppo nota, che si può trovare qui, anche troppo dettagliata.

Pur essendo il film più famoso di Polanski rappresenta però la sua seconda prova di thriller allucinatorio dopo "Repulsion" e il perfezionamento del perturbante da appartamento che sarà il suo stile principale (drammi o thriller ambientati in spazi chiusi e spesso limitati a quello; per chi vuole esempi va da sé citare "L'inquilino del terzo piano", ma fatto salvo gli altri film degli anni '70 sono quasi tutti da camera).

Il film riesce a sbandierare il suo satanismo quasi subito in maniera sfacciata (i precedenti avvenuti nella casa nuova) immergendoli in un contesto borghese classicissimo e depotenziandoli del tutto. Questa sarà solo la premessa. Polanski giocherà tutto il tempo per accumulo di tensione partendo da livello volontariamente azzerato.
L'effetto sarà di lentezza iniziale, ma di costante incremento fino al parossistico finale (dove la tensione viene sciolta dall'eccesso di pericolo).
Se in "Repulsion" Polanski giocava a creare tensione con il sonoro, qui lavora molto di immagini; pur mostrando degli occhi satanici (dettaglio inutile) la vera ansia arriva con l'inquadratura sfocata di un uomo col soprabito di un certo colore o con il primo piano di un armadio, lavorando sul significato dei dettagli fin dall'inizio e seminando "cose" che verranno di volta in volta riviste sotto un'ottica nuova.

Il film riesce anche a creare uno scarto rispetto ai soliti thriller per la protagonista, non una scream queen che tenta una costante fuga inefficace, ma una madre che da metà film in poi si rivelerà volontariamente coinvolta per cercare di sapere che ne è stato del pargolo, un personaggio vittimizzato,ma autonomo, impaurito, ma cosciente della propria situazione (beh, da un certo punto in poi).

Film ancora efficace a distanza di anni per chi avrà la pazienza di farsi guidare con calma dal regista.

venerdì 20 settembre 2019

Jurassic World - Colin Trevorrow (2015)

(Id.)

Parco divertimenti con dinosauri, le cose andranno male. credo che questo sia più o meno il riassunto.

Non sono pià in quella fase della vita per cui basta un dinosauro per fare un grande film, ho visto Jurassic World ed è stato bellissimo. In fondo ci sono un sacco di dinosauri. Dove non funziona la qualità funziona la quantità.

Diciamocelo, il film è lontanissimo dall'essere perfetto e anni luce dal "Jurassic Park" originale. I difetti sono sotto gli occhi di tutti, manca empatia, personaggi che vadano oltre la macchietta, idee balzane utilizzate come novità attira-pubblico che poco hanno di sensato o scene completamente folli.
Di tutti questi difetti l'ultimo è il meno importante perché permette momenti wow altrimenti impossibili (quanto è scema la scena degli pterodattili che fuggono e cominciano, senza motivi, a sollevare esseri umani?! ma d'altra parte, quanto figa è quella scena?!).
Di tutti i difetti, il penultimo, è invece il più assurdo. A cosa serve un ibrido di dinosauri? A Hollywood si è deciso che i dinosauri in sé (e ne esistono centinaia di tipi, diversi carnivori giganti) non sono più sufficientemente cool? Oppure creare una creatura ex novo con caratteristiche peculiari che si scoprono a mano a mano con irritante esattezza sembrava un ottimo sistema per creare un climax? (e non parlo dei velociraptor addestrati).

Detto ciò, quel che manca in fantasia di regia la si ottiene con la spettacolarità, il dinosauro acquatico compare due volte, ma si mangia sempre la scena (ah ah ah), e il senso di distacco da Spielberg (che comunque ci manca) si sente sempre meno, avendo il film preso con sicurezza la via del blockbuster d'azione e giocando, quindi, in un altro campionato rispetto al primissimo film della saga.
Apprezzabile comunque, per noi affezionati agli anni 90 il citazionismo spinto di quel film capostipite da cui tutti veniamo, che si spinge fino alla comparsata inaspettata di Wu (e di Mr. DNA).
A conti fatti un film più che soddisfacente per quello che prometteva, ma con ampi margini di miglioramento.

lunedì 16 settembre 2019

Cinque pezzi facili - Bob Rafelson (1970)

(Five easy pieces)

Visto in Dvx.

Un uomo è fuggito dalla famiglia per un anelito di libertà che, in realtà, si è rivelato essere più simile a un'insoddisfazione senza pace. Quando il suo piccolo mondo fatto di pochi amici e lavoro nei pozzi petroliferi viene distrutto ritorna a casa, ma i rapporti complicati non si saranno certo più semplici nonostante la malattia del padre.

Film generazionale che fa il paio con il più deciso "Easy rider". Qui l'insoddisfazione dei canoni reazionari di un'epoca è declinata nel protagonista incapace di rimanere a lungo legato a un luogo o una persona (idea tutt'altro che originale).
A fronte di una regia di ampio respiro che cerca di rendere il punto di vista solitario del protagonista con campi lunghi le incastrano in un ambiente grande e meraviglioso contro una vita domestica limitata, non c'è una cura della fotografia per fare il paio con i paesaggi mostrati e il ritmo lento in un film del genere disperde più che rendere rarefatto. Il noiosetto Rafelson, si dimostra come sempre curato, ma incapace di tenere un ritmo accettabile con la narrazione.
In definitiva il maggior difetto che trovo in questo film è lo stesso di "Easy rider" (di cui, comunque, non ha la forza e la portata), di essere un film legato a un periodo storico e di non essere più stato adeguato; non c'è niente di peggio di un filma tesi invecchiato male.

Interpretazione di Nicholson enorme; difficile esserne sicuri, ma forse la sua migliore di sempre; se serve un motivo per vedere questo film, il protagonista è la ragione bastante per affrontare questa fatica.

venerdì 13 settembre 2019

Tag - Sion Sono (2015)

(Riaru onigokko)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Una ragazzina in gita scolastica si trova all'improvviso in mezzo a un massacro ad opera... del vento. Fugge, si ritrova in un'altra scuola dove tutti sembrano conoscerla; tutto bene, finché un nuovo massacro non la costringe a fuggire di nuovo. Questa volta vestirà i panni di una novella sposa e questa volta (niente massacri) la trama si ingarbuglia davvero con uomini con teste di maiale, due ex insegnanti che fanno judo duro vestite come fossero in "Matrix".

Se è vero che la carriera di Sion Sono tende ad avere un aspetto simile a quella di Miike (film fuori dagli schemi e dai generi, violenza stilizzata e continua, perturbante sempre presente, una certa dose di sadismo e un gusto estremo per lo shock, la provocazione o il semplice assurdo) è anche indubbio che tra il fare un film caotico e surreale, ma buono e farne uno che sia solo una cazzata (magari pure pretenziosa) il passo è breve. Miike, quasi sempre, riesce nel miracolo di rimanere sul piano del caos costruttivo dando vita a film eleganti e violenti ed estremi o semplici pastiche surreali, ma sempre soddisfacenti. Qui invece Sono dimostra di non essere all'altezza del collega; ci prova, ci da dentro, all'inizio si prende anche in giro, ma poi scade nell'idiozia.
Hanno un bel lavoro i pasdaran di Sono a dire che è tutta un'allegoria della condizione della donna (interpretazione possibile, ma un po semplicistica) o del passaggio all'età adulta di una ragazzina con il primo ciclo mestruale (indubbio che il finale sembri riportare tutto a questo, ma anche qui, mi pare ancora più limitato); ho anche letto in giro lodi legate all'occhio sempre particolare che Sono dedica agli adolescenti, sempre in fuga, sempre vittime (tratto comune assolutamente azzeccato, ma rimane tale, solo un tratto in comune).
Qui semplicemente il gioco di prestigio di fare un film surreale e violento, ironico, che gioca coi generi e finisca serio, semplicemente non regge. L'incipit è buono, parte come un fastidioso filmetto adolescenziale con un'inquietudine crescente, è evidente che sta per succedere qualcosa, ma cosa? Poi arriva il massacro, la fuga e un picco di sentimentalismo adolescente (solo in parte auto-ironico) e pretenziosità filosofiche che arriva ad un nuovo massacro. Anche qui tutto bene, è tutto quello che succede dopo che scade nel banale, il film smette di voler essere uno sberleffo ai film per regazzine e decide di prendersi sul serio e di voler tirare le file di troppi discorsi solo abbozzati. Il risultato finale è terribile; peccato perché l'incipit rimane carino.