mercoledì 31 gennaio 2018

Schiava del male - Jacques Tourneur (1944)

(Experiment perilous)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Uno psichiatra rimane invischiato in un ambiguo dramma famigliare; mentre studia la follia della moglie ne rimane innamorato e presto, comincerà a dubitare su chi sia il folle, a meno che lui stesso non stia scivolando verso la pazzia.

Adattamento dell'ennesimo romanzo thrilling, costruito sulla falsariga dell'eterno "Rebecca"; uscito lo stesso anno di "Angoscia" (con cui condivide l'ambientazione storica), rimane a tutti gli effetti un film di serie B che sfrutta la scia di altri più quotati.
Alla regia l'ottimo (di solito) Tourneur fa di tutto con i soliti elementi; un'ambientazione quasi solo notturna, giochi di ombre e luce e una messa in scena della casa di famiglia barocca, misteriosa e soffocante come la psicologia dei suoi abitanti.
Al di là di questi tentativi ben congegnati, però, la tensione latita. Il film è costruito con fiacchi flashback che non danno ritmo alla vicenda; le ambiguità che la storia offre vengono rapidamente eliminate mostrando fin da subito il colpevole e, in aggiunta, la statica recitazione di Brent e Lukas (la Lamarr si salva con una recitazione sottomessa e sussurrata come il suo personaggio) che tende solo a rallentare un treno già fermo.

In definitiva un versione fiacca di un genere di moda trattata con stile da un Tourneur troppo sfiancato.

lunedì 29 gennaio 2018

La ruota delle meraviglie - Woody Allen (2017)

(Wonder wheel)

Visto al cinema.

Una donna con figlio a carico che vive con un uomo presso la ruota panoramica di Coney Island ha il bagnino della spiaggia come amante, sexy e intellettuale. L'equilibrio fatto di una vita insipida e aspirazioni elevate concretizzate nel tradimento viene sbilanciato dall'arrivo della figlia di primo letto del marito, una ragazza giovane di cui si innamorerà l'amante della donna.

Questo nuovo film di Allen è un'ennesima variazione sul tema delle tragedia greche, un misto di fato avverso e di hybris punita dal passo pesantissimo e dalla chiusura totalizzante e senza speranza. In poche parole, siamo davanti all'Allen migliore.
Anche in questo caso l'intera vicenda si poggia anche sull'arte come elemento presente (e pervasivo) di alcuni personaggi divenendo fin dalla primissima sequenza (uno dei co-protagonisti che parla direttamente in macchina come in un dramma di Shakespeare) il metro di misura dell'intera messa in scena.
L'arte in questo caso è quella del teatro (scrittura, racconto e recitazione) e dal teatro è preso il melodramma e l'allegoria (dichiarate nella scena d'apertura), nonché la costruzione soffocante del primo showdown fra le due donne (con marito) nella casa della coppia e delle due chiusure fra la donna e i due uomini sempre nella stessa casa; una tripletta di sequenze realizzato con unità di tempo luogo e piano sequenza che rappresentano il punto più basso (la prima scena) e il più alto (le ultime due) dell'intero film. Curiosamente, la prima delle scene sembra essere vistosamente zoppicante dal punto di vista della sceneggiatura (reazioni esagerate, passaggi logici claudicanti o del tutto assenti, lunghezza esagerata) che affossa anche gli attori migliori. Le ultime due invece sono una delle porzioni più appaganti del cinema contemporaneo, con una cura della fotografia (ne dirò) e della regia incredibile (dei piani sequenza soffocanti e isterici insieme) che servono solo a dare più enfasi agli attori anziché distrarre da loro permettendo alla Winslet una delle sue performance da ricordare. (non vorrei esagerare in dietrologia, ma l'abisso fra l'inizio e la fine è talmente grande da farmi sospettare che fosse voluto).

Menzione a parte per la fotografia (Storaro) che sfruttando le luci della ruota panoramica si arroga il diritto di utilizzare colori assurdi, di abbinarli alle attrici (colori caldi per la Winslet, freddi per la Temple) e di utilizzarli quando la scena parla dell'una o dell'altra (o l'assenza di saturazione per la vita normale) in un parossismo cromatico (che va di pari passo con quello emotivo) che sembra la versione in technicolor dell'espressionismo tedesco.

In poche parole siamo davanti a uno dei migliori Allen possibili.

venerdì 26 gennaio 2018

Ella & John: The leisure seeker - Paolo Virzì (2017)

(The leisure seeker)

Visto al cinema.

Una coppia di anziani (lui ex professore universitario di lettere ora sempre più infognato in una demenza piuttosto mite, lei persona solare e positiva, ma gravata dalla malattia) partono per un ultimo viaggio insieme all'insaputa dei figli; da Boston vogliono raggiungere (a bordo del loro camper anni '70) Key West per vedere la casa di Hemingwey.

Virzì è da sempre un appassionato di melodrammi, sinceramente affezionato a quell'idea ingenua e romantica dell'agnizione familiare e delle persone migliori del resto del mondo. Usualmente il suo spirito drammatico è stemperato in film più ironici o grotteschi, ma già in passato si è confrontato, almeno due volte, con trame preponderantemente sentimentali. Qui, il regista livornese, fa un passo oltre, azzera completamente l'ironia e toglie ogni speranza per il futuro confezionando il suo film più banale dal punto di vista della storia. Il più banale e il pi doloroso.
Rendere il film scontato sotto ogni punto di vista e fallire miseramente con una sceneggiatura del genere era l'operazione più facile e più ovvia. Come sempre, però, quando Virzì si mette e smanacciare i sentimenti più abusati dal cinema, lì riesce ad avere un successo insperato per quasi chiunque altro.

Il film gira integralmente attorno alla coppia di protagonisti con solo pallidi e brevi tentativi di mettere in mezzo i figli e la vicina di casa e gestisce il rapporto di coppia più con le immagini che con i discorsi. L'amore e la stima fra nei confronti dell'anziano marito non verrà enunciata a vuoto, ma verrà mostrata con occhiate dense di emotività, con piccoli gesti, irritazione quando l'attenzione dell'uomo verte su altre persone, con il mettere o togliere gli occhiali. Virzì vince la sua sfida non creando niente di originale (a chi non piace il genere sembrerà il solito lungo polpettone), ma lasciando che sia il cinema a raccontare quello che le parole renderebbero scontato.

A onor del vero bisogna ammettere un'efficacia totale solo nella prima parte. A mano a mano che il viaggio prosegue, le sfighe si sommano, il piano diventa evidente e il carico di agnizioni diviene esagerato (così come le prove d'affetto iperboliche) il film si sfilaccia un poco e ne viene ridimensionata la portata, ma mai annullata.
Ottima la coppia di protagonisti, Sutherland compreso, costantemente impegnato a fare dolci sorrisetti da uomo spaesato.

mercoledì 24 gennaio 2018

Il mio Godard - Michel Hazanavicius (2017)

(Le Redoutable)

Visto al cinema.

Il titolo italiano (diverso dall'originale, ma non brutto!) è rivelatore circa il contento del film; non un biopic in senso stretto, ma la messa in scena di una versione di Godard. Di fatto il film mostra un personaggio chiamato Godard, regista di talento, impegnato politicamente, cocciuto, autoreferenziale, buffo e un poco nevrotico nel momento della sua relazione con un'attrice; che questo ripercorra il periodo della relazione fra l'omonimo regista francese e la Wiazemsky sembra una fatalità.
Battute a parte, il grande pregio del film è quello di raccontare una vita partendo dall'idea di raccontare un personaggio inventato. Godard qui è un carattere divertente in un film comico realizzato à la Godard; e il mix è efficacissimo.
Sacrificando l'approfondimento (più sociale che personale) allo spettacolo il film di Hazanavicius si muove con disinvoltura e un ritmo perfetto attraverso un periodo storico complesso (il 68) dandone un'idea dello spirito che si muoveva riflesso su un protagonista che da l'idea dello spirito che muoveva l'uomo reale; senza pretese di completezza, ma garantendo efficace ed immediatezza.

La storia si muove impeccabile con ironia e arroganza arrivando a parossismi metacinematografici esagerati, ma godibili (l'attore che spiega quanto siano spregevoli gli attori perché direbbero quanto sono spregevoli gli attori se solo venisse richiesto dalla parte che interpretano; o la discussione sull'inutilità del nudo integrale nei film mentre gli attori sono nudi) mentre, di pari passo, la regia mantiene alto il ritmo con continue strizzatine d'occhio che si collegano al mondo cinematografico raccontato con un'attenzione continua al packaging di qualità mantenuto dall'inizio alla fine (anche qui con alcuni parossismi, come le sequenze in bianco e nere alternate al colore) e riuscendo costantemente a comunicare (o divertire) con la messa in scena quanto con la sceneggiatura.

Nonostante i possibili dubbi iniziale l'effetto finale è magnifico, supportato da un buon cast e un Garrel in stato di grazia.

lunedì 22 gennaio 2018

Godzilla - Gareth Edwards (2014)

(Id.)

Visto in DVD, in lingua originale sottotitolato.

In Giappone si risveglia un mostrone gigante ghiotto di energia nucleare; si sposterà verso le Hawai e poi San Francisco per incontrare, a metà strada un altro mostrone, fra i due si insinua Godzilla che vorrebbe risolverla in maniera violenta.
Senza perdere troppo tempo a spiegare la trama diciamo semplicemente che è un film di mostroni e militari.

Il primo film americano su Godzilla, quello del 1998, lo vidi al cinema, ma non me ne rimane una gran memoria. Ricordo solo l'impressione che gli amerigana fecero il loro solito film dove si ditrugge New York, con l'unica, assurda, aggiunta di un mostrone che venica dal Pacifico. Mi piacque abbastanza, ma senza enfasi.
Questo secondo film invece fa un'operazione completamente diversa. Distanziandosi da tutti i film di mostroni americani prende ciò che di meglio e di maggior successo aveva la primissima serie di film di Godzilla: la centralità del mostro, lo scontro fra kaiju, l'interesse focalizzato sugli effetti delle creature sulle città, ma soprattutto un tema di fondo ecologista (qui il nucleare non viene mai colpevolizzato, ma ne esce come problema e non come soluzione pretesa) e un Godzilla come pura forza della natura, senza accezione positiva o negativa se non quella che, di volta in volta gli viene attribuita.
La trama, infatti, si concentra sui kaiju; sulla distruzione che compiono, sulle loro fughe e i loro scontri, l'attesa per vedere ciò che fanno; gli esseri umani rimangono in secondo piano, giochicchiano a fare la guerra senza mai venire a capo del problema, anzi, proponendo soluzioni peggiori del pericolo da cui cercano rifugio. Gli esseri umani, qui, servono solo a rimpinguare la trama, creare empatia (c'è il family drama di default) e permettere a Edwards di far piovere aerei.

Sì, perché Edwards si trova per le mani uno script zeppo di scene piene di azione dal taglio epico e, ovviamente, porta a casa un facile risultato, raddoppiando la sfida (e il godimento per lo spettatore) riempiendo di dinamismo tutte le altre. I momenti di discussione e calcolo dei militari e gli scienziati vengono gestiti con la regia mobile e la frenesia dell'action, specie nella prima mezzora tutta concentrata sulla mitopoiesi.
Ciò che più impressione è l'incredibile capacità di questo regista di creare immagini: giocando con simboli riconoscibili (di San Francisco, Las Vegas e Honolulu), una tavolozza di colori essenziale (tesa fra lo spettrale grigio azzurro e tutte le variazione dei colori del fuoco), un'ottima gestione del vedo non vedo (buio, nebbia, nuvole, polvere e fumo la fanno da padroni) e una presenza pesante dei suoi 3 mostri, il regista è sempre a cavallo di un enfasi che è a un passo dall'eccesso senza superarlo mai.
Stavo per dimenticare di sottolineare l'amore per la distruzione di questo film che non si riflette mai per un mero spaccare tutto a caso, ma si cerca l'uso più emotivo possibile della pioggia d'aerei, delle navi sollevate o degli tsunami.

In aggiunta, va riconosciuta un disegno ottimale di Godzilla, modernizzato e credibile (ben fatti, ma meno interessanti gli altri mostri, piuttosto banali) e una computer grafica che si merita tutti i fantastilioni di paperdollari che dev'essere costata.

Un film molto bello, il cui unico difetto e di averlo visto in DVD e non al cinema.

venerdì 19 gennaio 2018

Tenshi no tamago - Mamoru Oshii (1985)

(Id, AKA Angel's egg)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Una ragazzina che vive sola in una città gotica abbandonata, custodisce un uovo misterioso e colleziona ampolle piene d'acqua. Verrà raggiunta da un uomo che porta uno strumento in metallo a metà fra un arma e una croce; condividerà il suo tempo e la propria fiducia.

Primo film di animazione di Oshii completamente indipendente e si vede. Viene tolta completamente la chiarezza in favore di una narrazione fluidissima e quasi banale, ma completamente criptica utile solo a far muovere i personaggi in ambienti enormi e a trasmettere un mood più che a delineare una storia vera e propria.
Riferimenti biblici, personaggi ambigui, figure oniriche, ambientazioni europee postapocalittiche, tutto sembra essere solo mobilio in favore di un clima; mobilio di lusso che svolge egregiamente il suo lavoro e permette al film d'animazione di saltare la staccionata e avvicinarsi molto di più allopera di viedoart piuttosto che al lungometraggio d'intrattenimento.
Personalmente non ho amato il tratto dei disegni, ma questo dettaglio passa in secondo piano rispetto all'effetto d'insieme.
Il minutaggio contenuto non elimina completamente i momenti di stanca, ma evita che il film venga affossato dalla noia vera e propria.

Curioso il dettaglio che i tutti i personaggi sanno molte più cose su quanto è avvenuto prima del film rispetto allo spettatore; l'unica informazione che chi guarda conosce in anticipo è il contenuto dell'uovo (dato il titolo), anche se, pure questo dettaglio rimane senza una definitiva conferma.

mercoledì 17 gennaio 2018

Operazione Canadian Bacon - Michael Moore (1995)

(Canadian Bacon)

Visto in Dvx.

Finita la guerra fredda il presidente americano cerca un nuovo nemico a cui addossare le colpe di uan cattiva amministrazione; un nemico che potrebbe sostenere una nuova guerra fredda e quindi riaprire le fabbriche di armi e riassorbire la disoccupazione. Per motivi più buffi che sensati la scelta cade sula Canada.

Primo (e finora unico) film di fiction di Michael Moore, scritto e diretto, è una commedia che vorrebbe essere satirica e anche un poco grottesca, ma non riesce mai ed essere qualcosa di più di una farsa caciarona. Personaggi macchiettistici interpretati da attori sempre sopra le righe (l'imbolsito John Candy, qui alla sua ultima interpretazione, riesce ad essere il migliore). La regia è totalmente ininfluente, ma il vero problema è la scrittura. La sceneggiatura si lascia a dare molte frecciatine a temi che Moore svilupperà negli anni successivi (la sanità pubblica, la diffusione delle armi, ecc...), che però rimangono tali, solo frecciatine; troppo poco per essere raffinata satira sociale, troppo poco per essere almeno divertente. Quello che più di tutto sorprende è come, invece, nei documentari, Moore sia semplicemente geniale nel creare, satira, ironia e franco divertimento anche solo con un gioco di montaggio... Giustamente non ha più girato un film di ficition da allora.
Quello che ne vien fuori è un esagerato ed esagitato film farsesco che si lascia guardare quasi senza problemi (verso la fine la stanchezza può arrivare) e si fa dimenticare molto rapidamente.

lunedì 15 gennaio 2018

Le mura di Malapaga - René Clément (1949)

(Au delà des grilles)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato.

Un fuggitivo dalla Francia fugge in Italia a bordo di una nave; vorrebbe raggiungere Napoli, ma a causa di un mal di denti è costretto a scendere a Genova. Tolto il dente viene raggirato e perde tutti i soldi; depresso e disilluso decide di costituirsi, ma la centrale di polizia sovraffollata sembra respingerlo. Decide quindi di andare a mangiare in una trattoria e non pagare (avendo solo 2000 lire false), così che sia la polizia a venire da lui. Nella trattoria conoscerà una donna separata dal marito e con una figlia che gli farà riconsiderare i piani per il futuro.

Dolce, ma mai stucchevole, storia di un uomo distrutto dalla vita (e dalle proprie scelte) che torna ad avere della speranza; ma è anche la storia di una donna distrutta dalla vita che torna ad aver speranza.
Non succede quasi nulla dopo l'incontro fra i due; non ci sono storie d'amore epocali; ma una storia di emozioni che tornano a nascere tra le rovine della seconda guerra mondiale.
Ovviamente è una coproduzione franco-italiana, non un film americano, quindi il finale non sarà dei migliori.

Opera osannata dalla critica dell'epoca (vincitrice di un Oscar come miglior film straniero e a Cannes), ma presto dimenticata. Forse non è il devastante capolavoro che sembrava all'epoca, ma certamente è un film da recuperare in quanto coniuga magnificamente il realismo poetico francese (i giochi di ombre, le strutture in notturna usate in maniera quasi espressionista, un certo gusto noir nel mood, il personaggio antieroico protagonista, nonché la faccia quasi patognomonica di Gabin) con il neorealismo italiano (situazioni di vita vera della protagonista e dei personaggi di contorno; le vere rovine della Genova post-bellica utilizzate come ambiente, ma anche come mezzo per creare il mood, i piccoli sentimenti che diventano protagonisti). Scelta questa che portò all'epoca a criticare Clément (stupidamente) per essersi lasciato trascinare dal modo italiano di fare film.
Quello che viene fuori è una storia magnificamente condotta su un doppio binario legato benissimo che prende il meglio dai due modi di raccontare una storia e da vita a minuscole situazioni che si lasciano ricordare per giorni (su tutte la scena in cui Gabin ordina due grappe e la cameriera si illude che sia per offrirne a lei; una scena tutta giocata con le immagini e non con le parole).

Gabin ovviamente ci sguazza in un personaggio del genere (non credo che potessero scegliere qualcun altro); come coprotagonista invece c'è una bilingue Isa Miranda, incredibilmente brava e non irritante (solo quando parla in italiano sembra non riuscire a trattenere il suo modo strascicato di parlare).

venerdì 12 gennaio 2018

La più bella serata della mia vita - Ettore Scola (1972)

(Id.)

Visto in Dvx.

Un industriale italiano che porta, illegalmente, fondi in Svizzera, rimane bloccato su una strada secondaria per un guasto alla macchina; verrà accolto nel castello di un anziano conte e invitato a cena. Durante il lauto pasto il conte assieme a tre suoi anziani amici, metteranno in scena un processo contro l'italiano; dal gioco di ruolo dell'inizio, il processo sembra diventare sempre più serio.

Tratto da un'opera teatrale dell'ottimo Dürrenmatt, Scola ne trae un'opera comica, grottesca che si chiude come una farsa. Trasferisce tutta l'attenzione sul protagonista, interpretato dal solito Sordi che fa Sordi (bravo, ma scontato) e si adegua al suo registro e ai suoi tempi... Scelta non ottimale che rende il film discontinuo e che lo port sul registro del macchiettistico nel giro di pochi minuti rendendo totalmente non sfruttabile il mood d'inquietudine che la storia potrebbe dare.

La trama riesce comunque a muoversi attirando l'interesse dello spettatore (ma è merito dell'opera originale), nonostante la regia sia stata impostata con il pilota automatico (appare quasi impossibile che questo film sia stato realizzato tra "Dramma della gelosia" e "C'eravamo tanto amati").
Grandioso il cast di vecchie (letteralmente) glorie del cinema francese.

In definitiva un film impersonale e insipido che intrattiene senza sforzi con una storiella interessante buttata in vacca.

mercoledì 10 gennaio 2018

La spina del diavolo - Guillermo Del Toro (2001)

(El espinazo del diablo)

Visto in Dvx.

Durante la guerra civile spagnola il figlio di un ribelle ucciso in battaglia viene lasciato in un orfanotrofio tenuto da una coppia connivente che conserva anche l'oro dei ribelli. Nell'orfanotrofio il nuovo arrivato dovrà affrontare il bullismo dei più grandi, le reazioni violente del tuttofare, ma soprattutto un inquietante bambino fantasma.

Film che lanciò Del Toro e che, di fatto, mette insieme tutti i topos del regista in una storia ambientata durante il franchismo con dei regazzini per protagonisti; di fatto un tank inattaccabile dalla critica.

Qui c'è già tutto; i fantasmi come vestigia del passato e non come mostri; il soprannaturale incastrato in un ambiente perfettamente reale; il sottosuolo come luogo del perturbante; segreti nascosti e personaggi con più sfaccettature; inondazioni di luce e tagli color ambra; una fotografia impeccabile e pulitissima.

Tuttavia il film non mi è piaciuto. La storia è una rielaborazione non particolarmente fantasiosa di un whodunit con twist a metà, nel mezzo sentimenti e relazioni che si dipanano, un romanzo di formazione, per finire con un assedio. Seppure i personaggi risultano più originali della media, quello che non funziona è la storia troppo articolata che non riesce mai ad arrivare in fondo a nessuno dei mille rivoli aperti; non funziona come horror (anche se è evidente che non fosse questa l'intenzione principale), non funziona come giallo, né come film di sentimeniti, né come film d'assedio o di vendetta.
Quasi due ore per decidere cosa fare e alla fine decide di fare tutto, riuscendo bene solo nella messa in scena.

venerdì 5 gennaio 2018

L'uomo che prende gli schiaffi - Victor Sjöström (1924)

(He who gets slapped)

Visto in Dvx.

Un ricercatore mantenuto da un mecenate riesce a giungere a un'importante scoperta. Il giorno in cui dovrebbe presentarla ufficialmente scopre che il mecenate gli ha rubato studi e proprietà intellettuale; poco dopo scoprirà che gli ha rubato pure la moglie. Pubblicamente umiliato (e schiaffeggiato) sparirà dalla circolazione e si riciclerà come clown. Lo spettacolo che produrrà per il circo sarà una variante buffa (?) di quanto accaduto e diventerà famoso come "quello che viene schiaffeggiato".
Ovviamente il suo ex mecenate tornerà, vorrà sposare una ragazza innamorata di un altro e lui, cercherà di fermarlo.

Cercando nella filmografia di Lon Chaney incappo in questo, poco conosciuto film. Di fatto è poco conosciuto da me, dato che si tratta del primo film americano di Sjöström, il primo film prodotto dalla neonata MGM e primo grande successo per la nuova compagnia di produzione.

Il film poi è magnifico. Se si riesce ad accettare il volo pindarico che porti un ricercatore umiliato a fare il clown, allora il film diventa una densissima tragedia senza alcuna speranza nonostante i molti buoni sentimenti messi in gioco.

La regia di Sjöström fa il bello e il cattivo tempo. Utilizza un enfatico, ma efficace, montaggio parallelo fra la compravendita della ragazza e l'idillio fra gli amanti, per poi sfruttare un nuovo montaggio parallelo nello showdown finale e lo spettacolo degli amanti; sfrutta le sovrapposizioni e la simbologia del cuore di pezza (scontata, ma ancora una volta, calzante); ma soprattutto costruisce benissimo le inquadrature (specie nella prima parte) e inframezza i capitoli del film con un clown che ride ossessivo facendo girare una palla, simbolo perfetto del mood del film e del destino malato e inarrestabile. La scena da ricordare però è Lon Chaney da solo sulla pista del circo con le luci che si spengono e la faccia bianchissima che sfocata dalla macchina da presa.

Lon Chaney è a credibile nel folle ricercatore, ma risulta perfetto nei panni del clown per i quali sembra essere nato (aveva effettivamente fatto il clown e il mimo in gioventù); una giovane Norma Shearer è adatta alla parte, ma senza picchi di bravura; sono invece rimasto stupito dalla performance di McDermott, perfetto, in parte e con una recitazione controllatissima.

Unico neo il finale, troppo lungo; ma è un difetto perdonabile.

mercoledì 3 gennaio 2018

Kill list - Ben Wheatley (2011)

(Id.)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Nel breve riassunto ci sarà uno spoiler, lo spoiler minore dei due twist di trama.
Crisi familiare a causa dei soldi che cominciano a scarseggiare dopo otto mesi di inattività del padre. Il padre di lavoro fa il killer. A cena con l'amico di sempre, l'amico gli propone un lavoro fresco fresco; dovrebbero uccidere solo 3 persone. Lavoro facile, ma quando finalmente cominciano le cose non sembrano andare come dovrebbero; lui si fa prendere la mano da un coacervo di pedofili, mentre le vittime dei loro assassini sembra che sperassero di fare quella fine.

Film atipico che inizia come un dramma familiare fatto di sfuriate e riappacificazioni, con una tensione latente in ogni scena e che si conclude con una cena fra amici.
Poi comincia il secondo film; un thriller su una coppia di killer che si fanno prendere la mano. Secondo film duro, violento, che non fa sconti allo spettatore, ma neppure grufola nello splatter.
Poi inizia il terzo; non c'è niente di soprannaturale, ma la gestione dei personaggi, dei luoghi e delle emozioni è quella di un horror perfetto, passa dal genere attacco degli zombi alla home invasion in un crescendo di ansia che esplode nel potente finale.

Un film fatto di tre film, dove l'inquietudine è sempre presente, ma il ritmo è lentissimo all'inizio, per farsi pi sostenuto nella seconda parte, per poi diventare frenetico nel finale.

Un film che può essere facile odiare (il ritmo latitante e i continui cambi di registro), ma che in realtà è un'intelligenti commistione con un piano ben preciso portato avanti sottotraccia fin dalle prime inquadrature.

lunedì 1 gennaio 2018

Com'era verde la mia valle - John Ford (1941)

(How green was my valley)

Visto in Dvx.

La gioventù di un ragazzo gallese ultimo nato di una famiglia numerosa. La chiusura della miniera, l'emigrazione e la morte romperanno l'idillio.

Un anno dopo "Furore" Ford non sembra intenzionato a lasciare l'arena della spiritualità del quotidiano e del disagio sociale che sfocia mai nel film politico. Anche qui, come in "Furore" c'è la storia di una famiglia unita e granitica, che viene distrutta pezzo a pezzo dagli sconvolgimenti sociali, dalla crisi economica e dalle angherie; disperdendosi, pur senza mai allontanarsi moralmente.
Qui, anche più che nel film precedente, il lato sociale è messo in evidenza; c'è la dignità di una condizione disagiata, ma ricca di speranza, c'è l'evoluzione del mondo del lavoro che lascia dietro di sé cadaveri e conflitti; ma tutto questo viene fatto con sentimento e senso del melodramma, mai con risvolti sociali veri e proprio, mai politica franca.

E il film funziona. Pur essendo costruito a episodi disgiunti (e nella sequenza della scuola si percepisce un pò troppo il distacco con i resto delle vicende) riesce a mantenersi coeso; riesce sempre a far trasparire i sentimenti enormi dei protagonista, spesso senza esagerare con il sentimentalismo (...senza esagerare significa che ce n'è, ma sempre in maniera accettabile); riesce a mostrare una religiosità delle piccole cose che è solo in parte collegata alla religione.

Ma in aggiunta a tutto questo si aggiunge un'iniezione di mezzi da parte della MGM che permettono a Ford di sfogare il proprio lato estetico. Tutto l'incipit con la presentazione del villaggio gallese è una serie di fotografie che meriterebbero di essere messe in un museo; il colpo d'occhio del giovane protagonista che re-impara a camminare in mezzo ai fiori è quasi eccessivo per teatralità, le scene del lavoro in miniere sono dei capolavori del cinema sociale,

Unico vero difetto è il giovane, amimico, protagonista...