venerdì 28 aprile 2017

Dramma della gelosia (tutti i particolari in cronaca) - Ettore Scola (1970)

(Id.)

Visto in Dvx.

Una donna si innamora perdutamente di un uomo allo sbando; lui ritornerà in se grazie all'amore, ma quando la coppia sembrerà ben affiatata fra i due si aggiungerà un loro comune amico. Per la donna non sarà questione di essersi innamorata di un altro, ma anche di un altro; amerà tutti e due senza saper scegliere.

Film articolatissimo dalla messa in scena gustosa e ragionata. Qui niente è casuale e nella sua apparente semplicità risulta facilmente fruibile, ma tutto qui è pensato, dagli sfondoni linguistici ai dettagli della messa in scena. La regia dinamica, ma con moderazione che da vita ad alcuni momenti perfetti con i personaggi che parlano direttamente in macchina mentre sullo sfondo la scena prosegue (magistrale in questo senso il primo soliloquio sulla spiaggia di Mastroianni), oppure con i personaggi illuminati dall'occhio di bue con la scena attorno a loro che si blocca (cosa che anticipa "C'eravamo tanto amati").

Il film però non si limita a questo; ma gioca con le aspettative del pubblico per poterle infrangere, come nella magnifica scena della sorella della protagonista mentre va al lavoro (ma il film è  pieno di dettagli del genere, dai capelli di mastroianni, allo starnuto della vitti dopo l'addio all'amante).

Il cast è fatto da attori magistrali, che non solo sanno recitare magnificamente, ma si trovano a loro agio nella commedia; direi che non c'è un vincitore, forse Mastroianni leggermente inferiore agli altri due, ma parlo di una vittoria di misura.

Forse, però, il vero fiore all'occhiello del film è il tono, un dramma (come pretende il titolo) che è vestito da commedia ironica, ma con il passo della farsa; spesso i piani sono concomitanti, ma non si smorzano a vicenda, anzi, l'effetto nel finale viene enfatizzato dai vari mood embricati; un capolavoro di equilibrismo poche volte raggiunte.

mercoledì 26 aprile 2017

Solaris - Andrei Tarkovsky (1972)

(Solyaris)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in italiano.

Uno psicologo vieen inviato a valutare un gruppo di scienziati preposto allo studio del pianeta Solaris dopo una serie di comportamenti quantomeno strani. La stazione risulta abbandonata, anche se due membri del gruppo sono ancora vivi. Presto si renderà conto che il pianeta è vivo e rende reali pensieri o ricordi; per lui, farà tornare in vita la moglie morta.

Un film elegante e algido che cerca, intellettualmente, di parlare di memoria, di affetti e di rapporto con il proprio passato (cercando di dimostrare come il tentativi di fissare per sempre alcuni momenti della propria vita, o anche di cercare di ricrearli, sia impossibile e i tentativi sono destinati al fallimento). Gestito con uno stile incredibilmente pacato, con una regia dinamica, ma meno espressiva rispetto ai precedenti film del regista (ci sono diverse panoramiche circolari e uso dei colori ragionata, una fotografia gradevole inficiata solo dalla scarsa qualità della pellicola).
Il film gioca spesso sul simbolismo, sul suggerimento e mai sulla dichiarazione; tenuto tutto sui colori terrei (che richiamano le lunghe inquadrature autunalli della prima metà ambientata sulla terra) cerca di costruire immagini, mai esotiche, ma sempre ricercate (raggiungendo il punto più alto nel momento di assenza di gravità, che rappresenta anche il massimo degli effetti speciali del film). Interessante anche l'attenzione per la natura; se tutta la prima parte sulla terra vengono continuamente mostrate immagini naturalistiche, una volta giunti sulla stazione spaziale c'è un continuo tentativo di ricreare la natura (la piantina del finale, la carta sul condizionatore per imitare le foglie), come il pianeta fa con i ricordi.

Un film molto denso e molto cerebrale (come sempre in Tarkovsky) che sfrutta la fantascienza per ricreare un luogo dell'anima distante da tutto per interpretare il lavoro quotidiano nella mente delle persone. A mio avviso, più che capito, il film va goduto.

PS: edizione italiana tagliata di 40 minuti introduttivi e distrutta da una sceneggiatura realizzata dalla Maraini e scientemente peggiorata da Pasolini.


lunedì 24 aprile 2017

La signora in bianco - Nicolas Roeg (1985)

(Insignificance)

Visto in DVD, in lingua originale sottotitolato in inglese.

In un albergo di NEw York si incrociano quattro personaggi (mai chiamati per nome, ma chiaramente sono) Einstein, il senatore McCarthy, Joe DiMaggio e la Monroe. Tutti alla ricerca di qualcosa, tutti attratti da uno degli altri quattro senza che ci sia la corrispondenza desiderata. In una notte si consumeranno, lezioni di fisica, fiolosofeggiamenti, ricordi del passato e violenza.

Al suo settimo film Roeg appare più dimesso. Si confronta con un dramma da camera vero e proprio (è tutto ambientato in camere d'albergo) gestendo una regia sicuramente buona, superiore alla media dei film contemporanei, curata quanto basta, ma inferiore rispetto alle capacità che Roeg ha dimostrato in precedenza.
L'impianto del film è teatrale, cosa che non rappresenta un problema di per sé, ma il risultato rimane troppo teatrale, con personaggi macchiettistici che vorrebbero essere universali pur essendo molto specifici (è per questo che non dichiarano mai il loro nome? no, perché se mette la Monroe con il vestito iconico e Einstein come da foto classiche, perché non chiamarli con il loro nome? pensavano di ingannare? no, perché l'universalità del personaggio è già tradita dal travestimento); il risultato è che i personaggi a fatica riescono a rappresentare sé stessi, figurarsi tutta l'umanità. Quando poi il film punta sull'allegoria spinta sfocia nel fastidioso (su tutto l'insistito uso dei flashback che dovrebbe dare più significato ai comportamenti dei personaggi).

Il massimo dei complimenti lo può ricevere il tentativo di crare qualche bella immagine, ma l'unica che mi sia rimasta in emnte è quella (brevissima) di Marilyn Monroe con la gonna in fiamme.
In definitiva un film verboso piuttosto godibile, ma che non va da nessuna parte.

PS: Theresa Russell è bellissima, ma non ha niente della Monroe e per assomigliarle deve usare tutti i tic eccessivamente didascalici che la contraddistinguono.

venerdì 21 aprile 2017

Bijitâ Q - TAkashi Miike (2001)

(Id. AKA Visitor Q).

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Un uomo va ad abitare con una famiglia allo sbando (figlia che si prostituisce, marito incestuoso con problemi di eiaculazione precoce, madre sottomessa al figlio violento), e ci va ad abitare senza un motivo e senza aver chiesto nulla a nessuno. La semplice presenza di quest'uomo cambia i rapporti fra le persone e le sue scarse azioni determinano un nuovo assetto familiare, non meno weird di quello di partenza, ma decisamente più felice.

Ripreso da "Teorema" di Pasolini (non mi si dica di no), ma con un tema che in Giappone è presente (la famiglia allo sbando, le dinamiche modificate da un estraneo). Ma alla gestione del film c'è Miike e le cose prendono pieghe impensabili.
La regia è piuttosto sotto le aspettative, macchina a mano e una cura dell'inquadratura inferiore alla media dei film di Miike visti finora, una fotografia adatta alla macchina a mano che, personalmente, non amo.
La storia è una cavalcata nel grottesco attraverso tutte le perversioni che si possano pensare (incesto, violenza, necrofilia e un accenno di coprofilia) più qualcuna inaspettata (lactofilia); essendo grottesco tutto è dichiarato senza mezzi termini, ma spesso stemperato con un'ironia talvolta estremamente stupida.
Se è ovvio che il film verrà ricordato per le scene di "mungitura" (che ritorneranno in "Gozu" denotando un certo interesse per la questione da parte di Miike), tutta la seconda parte è un susseguirsi di momenti WTF.
In definitiva non è un ottimo film ( cui Miike ci ha più recentemente abituati), ma è talmente singolare da essere un piccolo cult.
Elegantissima locandina minimal

mercoledì 19 aprile 2017

Come un uomo sulla terra - Andrea Segre, Dagmawi Yimer (2008)

(Id.)

Visto in DVD.

Il documentario si muove attraverso i racconti di alcuni richiedenti asilo a Roma. Attraverso i loro racconti viene delineato il loro arrivo in Italia concentrandosi sul buco nero rappresentato dalla Libia. Quel pezzo del viaggio spesso negletto, la compravendita di persone tra trafficanti e forze dell'ordine libiche, lo stazionamento in carceri nel deserto, le privazioni e le violenze.

Il documentario ha un doppio pregio; racconta un sistema sconosciuto ai più (e alle responsabilità più o meno dirette di Italia e UE) e lo fa senza troppi pietismo (vengono raccontate alcune violenze, ma sempre senza voler calcare la mano sull'orrore per rendere la materia più empatica).
Altra nota interessante è la presenza, come coregista e come soggetto centrale del documentario (è la voce narrante, ma anche l'intervistatore, ma anche personaggio della vicenda), dell'etiope Yimer, richiedente asilo approdato alla regia, già conosciuto (per me) per un cortometraggio sulla strage di Lampedusa (anche se è successivo a questo film, sua opera prima).
I lati negativi sono essenzialmente due. Lo scarso interesse per le immagini mostrate che lo rendono un discreto prodotto televisivo, ma un pessimo prodotto cinematografico (nell'epoca post-Moore, ma anche prima onestamente, non è più accettabile che un documentario cinematografico viva solo di contenuto); l'altro dettaglio negativo è il fatto che le vicende storiche hanno superato il documentario, se il suo pregio era mostrare una vicenda enorme e sconosciuta, guardandolo c'è da chiedersi quanto ci sia di ancora attuale dopo la caduta del regime libico; un dettaglio solitamente secondario, ma per un documentario che punta tutto sullo svelare un lato oscuro ignorato, questo dettaglio è determinante.

lunedì 17 aprile 2017

Lo scapolo - Antonio Pietrangeli (1955)

(Id.)

Visto in Dvx.

La vita di uno scapolo di trentanni, allergico ai rapporti stabili, da cui si defili appena si sente l'imminenza di un'idea di matrimonio. Vive la sua condizione con una felicità che presto si dimostra di facciata.

Un film fantastico che, ammantato da un'aura di commedia (sostenuta molto dalla presenza di Sordi all'epoca al picco della fama, ma sceneggiata anche dallo stesso Pietrangeli), mostra una realtà amara. A conti fatti non è un commedia, al massimo un simpatico film sulla solitudine; una solitudine che assomiglia a quella del successivo "Io la conoscevo bene"; una solitudine che qui è fortemente voluta, almeno all'inizio, pretesa e poi sofferta, ma ormai l'abitudine all'isolamento rende difficili i rapporti personali duraturi.
Ma questo è anche un film magnificamente anticonformista; nell'Italia cattolica anni '50 un film su uno scapolo fiero di esserlo che combatte contro una società che lo vorrebbe obbligare al matrimonio è di per se sovversiva, ma Pietrangeli non ama gli eroi (figuriamoci Scola; anche lui cosceneggiatore), e il suo protagonista non combatte con fierezza e per nobili ideali, è un omiciattolo infantile che combatte per il diritto a un edonismo che diviene zavorra nel momento in cui il tempo gli toglie il manto di splendore della gioventù.

Sordi è centrale e mattatore, spesso in scena da solo, spesso pure in eccesso. Protagonista di lunghi monologhi, molti borbottii privati e diversi pensieri esposti. Questo film è totalmente su Sordi, che non solo non smette di interpretare il suo italiano medio, ma stavolta lo azzecca in toto; pochi momenti realmente buffi, i suoi tic e i suoi istrionismo da caratterista sono tenuti a bada e riesce splendidamente in una parte che di buffo ha poco e di malinconico molto.

Alla regia Pietrangeli ci mette soggettive e un bel piano sequenza iniziale, ma principalmente lavora di attori con una regia parca e precisa e la costruzione di diverse sequenze densissime di significato pur nella loro essenzialità. Su tutte si fanno ricordare la cena solitaria (e il triste dopo cena) a parlare con un altro scapolo di mezza età o il ritorno a casa, dopo una serata finita mala, con il tentativo di ammazzare il tempo lungo la strada.

venerdì 14 aprile 2017

Il silenzio - Ingmar Bergman (1963)

(Tystnaden)

Visto in DVD, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Due sorelle sono i viaggio in un paese straniero dove parlano una lingua a loro sconosciuta; con loro il figlio di una delle due. Il film segue la permanenza del terzetto in un grande hotel, con la malattia di una delle donne, le avvenuture sessuali dell'altra e l'incuriosito peregrinare del ragazzino per l'enorme hotel.

Terzo capitolo della "Trilogia del silenzio di Dio" dopo l'angoscioso "Come in uno specchio" e il gelido "Luci d'inverno".
Come si può intuire dal titolo, un film silenzioso, parlato per lo più in una lingua incomprensibile, dalla trama praticamente inesistente che gira intorno al concetto di incomunicabilità, con l'uso continuo dell'allegoria dal significato sempre criptico (si, ok, l'assenza di Dio, ma nel dettaglio è difficilmente scandagliabile). Quello che ne risulta è un film che è cinema puro (come è stato spesso accusato di essere "Psycho"), una regia essenziale e perfetta (con diversi movimenti di macchina, ma soprattutto con giochi fatti sui piani dell'inquadratura), una fotografia estremamente nitida, un'architettura del film che fa spavento; e credo che sia proprio per questo "cinema puro" che il film riesce a costruire perfettamente il mood, trasmettendo il messaggio di fondo (il silenzio di Dio) in maniera anche più efficace che nei due capitoli precedenti (anche se "Luci d'inverno" era già molto efficace).
Silenzioso e algido, imperscrutabile quando diventa ciarliero, non è un film facile, ma è un film bellissimo.

mercoledì 12 aprile 2017

REC 2 - Jaume Balagueró, Paco Plaza (2009)

(Id.)

DVD lingua originale sottotitolato in inglese.

Il film parte dove si è interrotto il precedente. Il condominio di Barcellona è stato isolata e la squadra di pompieri è scomparsa all'interno. Un gruppo di militari viene mandato all'interno capeggiato da un ieratico medico. La missione della squadra si rivelerà piuttosto ardita e complessa e finirà in un prevedibile macello.

Il film a livello estetico è la copia del precedente; anzi lo copia proprio in tutto. Intelligentemente i registi partono esattamente dal minuto successivo alla fine dell'altro per poter sfruttare un ambiente e una storia già collaudata; purtroppo non riescono a fare il salto e a rendere questo secondo capitolo indipendente.
Per prima cosa raddoppiano i punti di vista, con due gruppi indipendenti che si sfiorano e si inquadrano a vicenda quasi senza interagire in maniera significativa. Un'idea tutto sommato negativa, ammazza il mood con un ritorno a zero a metà film; e l'idea che raddoppiando i punti di vista dovrebbe raddoppiare la paura è quantomeno risibile.
Inoltre nel tentativo di cambiare qualche carta in tavola vanno a far saltare le idee migliori del primo capitolo; su tutte il lento muoversi da spazi più ampi a quelli sempre più angusti con l'aumento di claustrofobia e d pericolo percepito, il vero fiore all'occhiello dell'opera precedente; qui è tutto un muoversi sguaiato nel condominio, lanciando strizzatine d'occhio a chi ha visto la storia precedente, ma senza riuscire a bissarne il terrore.
Un secondo capitolo che mantiene i luoghi comuni dei seguiti, sembra fatto solo per aumentare gli incassi non le idee. Comunque ancora un film guardabile con qualche momento WTF.

lunedì 10 aprile 2017

Nick mano fredda - Stuart Rosenberg (1967)

(Cool hand Luke)

Visto i Dvx.

Un giovane Newman viene arrestato per una bravata. Inizialmente sembra sottomettersi alle regole del carcere e si guadagna lentamente l'amicizia e la stima degli altri carcerati. All'improvviso decide di tentare la fuga... che durerà poco; ma abbastanza per avere un aumento della pena e un inasprimento delle condizioni di vita. Proseguirà, testardamente, come se niente fosse successo, continuando a tentare la fuga.

Sinceramente non sono molto documentato sulla questione, ma credo sia uno dei primi film di tema puramente carcerario (c'erano già stati "Io sono un evaso" o "La parete di fango" o le derivazioni sui campi di concentramento come "Stalag 17", ma tutti questi sono film di prigionieri, per lo più durante la fuga; non c'è una proposizione della vita all'interno del carcere con la stessa determinazione e per tutta la durata dell'opera).
Il film è una godibile descrizione della vita carceraria con una fotografia calda e precisa e una regia standard che riesce in alcuni acuti (bella la sequenza delle uova con inquadrature sempre diverse, immagini in avvicinamento e montaggio rapido); la trama è eccezionalmente fluida nonostante la monotonia del racconto e la narrazione viene sempre resa facilmente.
L'argomento mi è sembrato più la testardaggine contro un ambiente rigido e il rimanere uguali a sé stessi nonostante le avversità, piuttosto che l'anelito alla libertà; in questo senso vedo poche basi per il futuro "Le ali della libertà" con cui l'ho visto spesso paragonato.
Ottimo Newman che timbra il cartellino con stile in un bel personaggio che avrebbe meritato di essere sfruttato di più.
Un film estremamente godibile, talmente godibile da essere apprezzabile più che memorabile.

venerdì 7 aprile 2017

Ichi the killer - Takashi Miike (2001)

(Koroshiya 1)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Un killer, Ichi (ma va?), efficacissimo quanto efferato sta creando il panico fra le compagini di un gruppo di yakuza; il rapimento del boss metterà al comando del gruppo un uomo ancora più violento del killer, il suo obiettivo sarà quello di trovare il boss e Ichi.

Film cult di Miike che presenta un personaggio perfetto per estetica, presenza scenica, psicologia e percentuale di weirditudine... e curiosamente non è Ichi, ma Kakihara.
Al netto della coolness malata che viene diretta dal manga originale questo film è una eccezionale discussione sul rapporto con il dolore. Tutti i personaggi principali si rapportano in maniera quotidiana con il dolore che di volta in volta rappresenta la punizione, l'espiazione, una forma di giustizia, ma anche il piacere (anche sessuale) e un veicolo d'amore (sia nei panni del carnefice sia della vittima).
La violenza quindi diventa quasi necessaria, ma è talmente eccessiva da risultare solo al pari di una coreografia ben realizzata perdendo molto dell'effetto shockante che potrebbe avere altrimenti. Questo è un film brutale quanto lo può essere un fumetto o un cartone animato. E credo gli vada riconosciuto di unire allo splatter del dramma (e vabbé, mi pare facile), ma anche del grottesco e un'ironia nera magnifica.

Regia molto buona, con macchina da presa spesso instabile od obliqua, ma dalla gestione asciutta, che indugia in qualche ottima costruzione delle inquadrature, ma si impegna soprattutto a dare slancio e ritmo.
Effetti speciali molto buoni che indugiano poco su un brutto CG (che comunque ci stava con l'anno d'uscita; mica avevano tutti i soldi di "Matrix")

Un film ben riuscito e ottimamente realizzato in cui, curiosamente, il personaggio di Ichi è il più banale del gruppo e il cui sentimentalismo è l'unico tallone d'Achille del film.

mercoledì 5 aprile 2017

Femmine folli - Erich von Stroheim (1922)

(Foolish wives)

Visto in Dvx.

Un nobile russo che vive a Montecarlo con le cugine, sottomette psicologicamente la propria cameriera con la promessa implausibile di un matrimonio mentre seduce la figlia di un falsario. Quando arriverà un diplomatico americano cercherà (con successo) di sedurne la moglie per avere da lei del denaro.

Esempio classico del titanismo smisurato di von Stroheim che arrivò a quasi 10 ore di girato complessivo, da cui tirò fuori una versione definitiva di 8 ore (dimostrando, a mio avviso, di non conoscere perfettamente il linguaggio cinematografico, ma di ignorarne la funzione e la fruibilità). Per fortuna il produttore accorciò in due riprese il film arrivando al minutaggio finale di quasi due ore. La versione da me vista è una via di mezzo, dove veniva ricostruita in parte la versione originale arrivando a 2 ore e 20 minuti... Sinceramente non comprendo le ragioni di questa ricostruzione sicuramente non si avvicina che di pochissimo a quella pensata dal regista (solo 20-30 minuti in più rispetto alle quasi 6 ore perdute) e ipertrofizza quella uscita nelle sale che ne determinò il grande successo di pubblico; l'operazione mi suona tanto di nostalgia canaglia, ma che non dona molto all'opera così come la si è conosciuta finora.

Il titanismo di von Stroheim però non si ferma al minutaggio, ma si esemplifica nella messa in scena. La città di Monaco venne ricostruita in studio (tutte le scene in esterni del film sono in realtà delle ricostruzioni), scene in esterni continue e comparse a uso ridere (un titanismo che, bisogna ammettere, è efficace e rende tutte le ambientazioni iperrealistiche e ricche di dettagli). A livello economico fu uno sfacelo per lo studio.

Dietro la macchina da presa von Stroheim si dimostra estremamente moderno, sopratutto nella gestione dinamica del montaggio con alcuni picchi creativi che riescono a rendere l'emotività della vicenda in maniera molto convincente (c'è, a esempio, un dialogo con un campo-controcampo in cui i due personaggi parlano guardando dritto nella macchina da presa).
Infine si nota un uso creativo dei cartelli, spesso portatori di frasi spezzate o anche solo di liste di parole che rendono un mood e un ambiente più che veicolare un dialogo; una sorta di variazione poetica sul tema delle parole nel cinema muto.
Infine von Stroheim mi ha impressionato per la naturalezza nella recitazione superiore ad alcuni suoi colleghi dello stesso periodo.
Un film non semplicissimo da abbordare, ma incredibilmente appagante per l'alta qualità generale e per una storia di decadenza sempre affascinante.

lunedì 3 aprile 2017

Ricky, una storia d'amore e libertà - François Ozon (2009)

(Ricky)

Visto in tv.

Una donna con già una figlia si innamora di un uomo con cui decide di convivere; avranno un figlio, ma presto due lesioni sulla schiena del bimbo porranno dubbi alla donna per quanto riguarda l'affidabilità del compagno che verrà cacciato. Le lesioni però si dimostreranno essere due ali in nuce che si svilupperanno con incredibile rapidità...

Il film si mostra fin da subito come un'opera di Ozon, non tanto per i contenuti, quanto per l'estetica; una fotografia impeccabile (dai colori più contenuti rispetto a quanto ci ha abituati il regista francese, ma sempre scelti con cura) e una regia geometrica; le inquadrature sempre dense con immagini sempre riempite dalla presenza dei personaggi o dagli oggetti di contorno.
A livello estetico quindi, seppure con le ovvie differenze dovute al tono del film, siamo sempre dalle parti dell'ottimo cinema di Ozon ed è un piacere.
Ancora una volta poi, il regista si diverte a realizzare un film in cui i generi si fondono e i canoni vengono sbaragliati; il film inizia come un'opera drammatica intima, ma dai risvolti sociali e, a metà, devia verso il fantastico, con brevi accenni di verosimiglianza (le reazioni dei familiari, dei medici e dei giornalisti) per poi sfociare in un finale da commedia (in senso letterale), un relief dalle brutture precedenti dato da una speranza non meglio giustificata.
Il problema non è il cambio in corsa (che anzi, è un momento ben riuscito), quanto che dalla seconda metà in poi il film sembra girare a vuoto; incredibilmente il dramma sociale dell'inizio regge bene, ma i fantastico sembra presto pretenzioso e senza alcuna utilità che non sia la scena finale.