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domenica 21 febbraio 2021

The commitments - Alan Parker (1991)

 (Id.)

Visto su Mubi, in lingua originale sottotitolato.


Un gruppo di amici del proletariato di Dublino mettono su una band, decidono di fare cover di canzoni soul; prenderanno amici e conoscenti e riusciranno ad avere un piccolo seguito locale cercando di fare il grande salto...

Alan Parker è un regista versatile, che si concentra sui personaggi più che sul contorno indipendentemente dal genere. Qui non si fa eccezione; la storia di una band con molte buone intenzioni, ma realizzazione minore è tutta un gioco di relazioni; è l'insieme di desideri, di velleità e di intenzioni a partire da un substrato sociale ben definito con molti limiti e che vede in un progetto campano per aria un modo per prendere ossigeno.

Ma non c'è vittimismo o delusione nel finale, il tutto è toccato da una vena ironica che trasforma un potenziale dramma in una commedia musicale godibilissima e in cui l'incredibile ottimismo e vitalità del protagonista trasforma il finale agrodolce in una vittoria morale.

La macchina da presa non fa scelte estetiche devastanti, ma riesce a gestire in maniera chiara un cast corale e permette di realizzare molti numeri musicali (ci sono diverse canzoni mostrate per intero durante i concerti) sono suonate benissimo e gestite in maniera impeccabile tanto da risultare parte fondamentale del film e non una pausa nel ritmo complessivo.


lunedì 7 dicembre 2020

Strasbourg 1518 - Jonathan Glazer (2020)

 (Id.)

Visto su Mubi.


Altro corto realizzato durante il lockdown. Glazer opta per una serie di ballerini in varie parti d'Europa (il titolo fa riferimento al più noto caso di isteria danzereccia del medioevo (successo, appunto, a Strasburgo nel 1518).

Glazer si libera delle velleità narrative dei suoi lungometraggi e torna alle origini dei videoclip in senso buono (immagini che vivono delle relazioni con la musica) e dei cortometraggi utili a creare un ambiente, un tono e non una storia vera e propria.

Considerate le limitazioni tecniche Glazer fa miracoli. Moltiplica i punti di ripresa nelle singole case e gioca tutto sul montaggio delle scene affiancando il ritmo musicale a quello delle immagini fatto tutto di tagli e della luce naturale che si modifica. Ovviamente siamo di fronte più a un'opera d'arte visuale che un film in senso stretto, ma è questo che lui sa fare meglio ed è questo che dovrebbe continuare a fare.

giovedì 8 ottobre 2020

Junun - Paul thomas Anderson (2015)

(Id.)

Visto su Mubi, in lingua originale sottotitolato.

Nel 2015 Jonny Greenwood (chitarista dei Radiohead e amicone di P. T. Anderson) va in India per incidere un album con il polistrumentista Shye Ben Tzur e un gruppo di fiati e corde indiano. Ovviamente per il filmino delle vacanze di portano dietro Anderson.
Umilmente il regista non si accredita se non come operatore e, tecnicament,e il documentario è senza regia. Un manovra che sembra più che altro un lavarsene le mani o un disimpegno per fare un video che non è niente di più che un passatempo. ovviamente questo disimpegno si vede.

Le scelte di regia ci sono e sono molte e molte sono quelle poco giustificabili. La macchina da presa che perde la messa a fuoco, i movimenti eccessivamente liberi che sottolineano solo il cambio di idea improvviso, il contrarsi sui piccioni che entrano nella sala di registrazione o i falchi sui merli del forte.

Davvero siamo dalle parti dei filmati delle vacanze con intermezzi musicali (questi si molto belli), una sorta di making of dell'album che non avrebbe sfigurato come extra nei DVD che i gruppi facevano uscire a cavallo tra gli anni '90 e gli anni '00; una delusione però l'assenza di interesse dello stesso Anderson.

giovedì 17 settembre 2020

Un sogno lungo un giorno - Francis Ford Coppola (1981)

(One from the heart)

Visto su Mubi, in lingua originale sottotitolato.

Dopo la lavorazione ai limiti della follia di "Apocalypse now" e il suo gigantesco e insperato successo Coppola ha in mano un pacco di soldi e sa come usarli. Vuole far tornare l'epoca d'oro di Hollywood sia come tecniche per fare i film sia nei valori produttivi.
Ri-immette denaro nella boccheggiante Zoetrope (era già stata fondata una decina d'anni prima con il pacco di soldi dei due Padrini, ma aveva rischiato il collasso proprio con Apocalypse) mette sotto contratto perenne una serie di attori, acquisisce teatri di posa giganteschi e si butta anima e corpo nella realizzazione di questo film.

La trama è riassumibile con una coppia si ama, ma litigano, ognuno si separa per un giorno coltivando il sogno di andarsene con un altro, nessuno dei due ce la farà, si renderanno conto di amarsi ancora e torneranno insieme.
La storia non è solo banale, ma estremamente semplicistica, per gran parte del film quasi assente, perché Coppola vuol fare altro, vuole fare un film totalmente figlio della regia e, nello stesso tempo, mostrare i muscoli con una capacità produttiva enorme. Tutto il film è ambientato in una Las Vegas ricostruita in studio (anche la scena finale dell'aeroporto), scelta che permette al regista di gestire le luci in maniera totale e sbizzarrirsi con fondali dai colori espressionisti e con la costruzioni di location "outdoor" arredate come dei musei in decadimento. Su tutto aleggia la mano di Storaro, evidente su gran parte delle scelte di messa in scena, ma che risalta nell'uso delle luci nella serie di sequenze in interni dell'inizio (dove il cambio di un colore o una luce che si spegne e una che si accende seguono il cambio di mood della scena). Da applausi anche alcune soluzioni prettamente teatrali portate davanti alla macchina da presa come l'affiancamento delle scene ambientate in case diverse utilizzando dei finti muri che mostrano i personaggi che vi si trovano dietro in base all'illuminazione, questa soluzione originale (al cinema) unita al dinamismo della regia rende la canonica sequenza di separazione della coppia più ritmata e visivamente magnifica.
Ma a fronte di un'idea di tornare al passato per raccontare storie con un taglio moderno e picchi di formalismo mai tentati il film non regge così bene. La rarefazione della storia è totale, fino all'eccesso, ingigantita da sequenze musicali (alcune di ballo vero e proprio, altre degni di un videoclip artistico), il film si trasforma nell'epopea arty di un regista tracotante. Bellissimo, ma difficile goderne appieno.

Il film sarà un insuccesso clamoroso che, da una parte, lo costringerà in futuro ad accettare di tutto per ripianare i debiti, ma dall'altra non lo fermerà dal continuare con i suoi film revival del cinema anni '40-'50, migliorandone di volta in volta, se non la qualità già alta, almeno l'efficacia.

PS: il film è impreziosito dalle musiche del Tom Waits prima maniera, assolutamente perfette; il cast ha per protagonisti due antidivi, ma ha di contorno alcuni semidivi (Julia e la Kinski) oltre a uno Stanton 50enne che si comporta come un ragazzino, fantastico.

lunedì 6 luglio 2020

Animal Crakers - Victor Heerman (1930)

(Id.)

Visto su Mubi, in lingua originale sottotitolato.

Un esploratore torna da un viaggio nel non meglio precisato continente africano; verrà invitato come attrazione a una serata uppercut class dove verrà mostrato anche un quadro. Il quadro però verrà rubato, almeno due volte. Si indagherà per la ricerca dei colpevoli.

Secondo lungometraggio dei Fratelli Marx e ultima opera cinematografica (c'è un corto perduto di inizio anni '20 come prima opera assoluta a cinema) del gruppo tratta da una precedente opera teatrale.
L'origine non originale si sente tutta.
Il film (diretto da Heerman, regista per lo più del muto poi rimasto nel settore come sceneggiatore per cui vinse anche un oscar) è legnoso, molto statico e sembra non voler fare altro che rimettere in scena l'opera teatrale in maniera pedissequa, ma con una camera da presa davanti.
Il film si sviluppa solo in interni organizzati in teatro di posa, per lo più gli stessi 3-4, la macchina da presa è sempre di fronte all'attore o al gruppo che declamano la loro parte in favore dell'obiettivo (c'è in verità qualche lieve tentativo di dinamismo, uno o due movimenti di macchina che cercano un minimo di tridimensionalità, ma il resto è talmente statico che sembra si siano sbagliati a muoversi).
Il ritmo ne è inevitabilmente distrutto e il film non può che essere difficoltoso per un pubblico abituato ad altro.
Sarà per la forma, ma sembra che anche le gag del gruppo siano decisamente meno efficace che nei film successivi, anarchiche e surreali come sempre, ma per lo più autoindulgenti, fuori tempo, eccessive. Funziona bene solo lo slapstick di Harpo (che tutto sommato può essere declinato identico su molti formati diversi) e il solito Groucho, ma più che per l'effettivo divertimento (quello è soggettivo), funziona per la velocità e l'irruenza.
Vi sono infine inserti cantati e due momenti musicali che servono a mostrare il virtuosismo di due del gruppo (Chico e Harpo); altro dettaglio utile in teatro, ma che al cinema serve solo a spezzare un ritmo già claudicante.

giovedì 5 marzo 2020

Racconti di Hoffman - Michael Powell, Emeric Pressburger (1951)

(The tales of Hoffman)

Visto su Mubi, in lingua originale sottotitolato.

Il giovane Hoffman ama una ballerina, mentre è in scena va in osteria a raccontare storielle di amori romantici, ambientate in giro per il mondo.

Il musical di Powell e Pressburger è incredibilmente famoso, ma solo per l'immaginifico impatto visivo, e non posso che trovarmi d'accordo.
Gestito in maniera teatrale (si apre con il sipario), realizzato in giganteschi ambienti unici con dominanti cromatiche che differenziano le sequenze e costruzioni scenografiche imponenti ben oltre il limite del camp, quando azzecca il colpo d'occhio (la bambola fatta a pezzi, il primissimo balletto a teatro) è pronto per essere incorniciato e messo in un museo per l'impatto, ma quando non c'è questo bisogna accontentarsi di musiche piuttosto banali e storie inconsistenti.
Spiace dover dire che il film annoia e fallisce miseramente proprio per via dell'idea di base. Portare il teatro al cinema funziona fintanto che il cinema la fa da padrone (come nella scena d'apertura con il pavimento dipinto e movimenti di macchina), ma un musical classico con scene statiche anche se barocche con le inquadrature ipomobili e da un solo lato (esattamente come dentro un cinema) è limitante e ripetitivo.
Fosse stato un corto (di fatto siamo di fronte a una versione allungata della, bellissima, sequenza di ballo di "Scarpette rosse") sarebbe stato ineccepibile.


venerdì 31 maggio 2019

Venere e il professore - Howard Hawks (1948)

(A song is born)

Visto in Dvx.

La donna di un boss cerca la fuga dalla polizia riparandosi in una casa abitata da sette professori di musica che stanno scrivendo la più completa enciclopedia musicale di sempre. Proprio in quel mentre stanno affrontando lo spinoso problema della musica contemporanea che ignorano completamente.

Commediola musicale (ma non è un musical) di Hawks che fa il remake di sé stesso ("Colpo di fulmine", una sorta di versione live action di Biancaneve).
Ne viene fuori una fiacca commedia romantica estremamente scontata, piuttosto fastidiosa e con due protagonisti anemici. La regia di Hawks è decisamente assente e si abbassa ad assecondare questo desolante spettacolino.
Spiace però che venga fuori un film così secondario nonostante il richiamo di nomi così importanti della musica (dove compare un giovanissimo Armstrong) e impreziositi dal cameo in travestimento di Benny Goodman (uno dei professori).
Da vedere solo un paio di numeri musicali; le improvvisazioni con Goodman e la registrazione della storia della musica.

Mi auguro fosse solo un film alimentare.

lunedì 1 aprile 2019

Dancer in the dark - Lars von Trier (2000)

(Id.)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato.

Una donna cecoslovacca, emigrata negli USA, lavora in una fabbrica e si arrabatta di mille lavoretti per mettere via abbastanza soldi per poter pagare un'operazione agli occhi del figlio che, per una tara genetica, è desitnato a divenire cieco; lei stessa lo sta diventando quasi del tutto. Donna entusiasta della vita e dolce con tutti è però estremamente determinata a portare a termine il suo dovere senza che nessuno lo sappia, per non dover spaventare il figlio. Andrà incontro a un crimine per il quale sarà condannata, ma non cederà di un millimetro dalla sua posizione.

Per chi non l'ha visto la trama sa di melodrammetto spiccio come ce ne sono molti. Invece questo film è il più grande rappresentante del melodramma moderno, un riuscito concentrato di sentimenti ostacolati, ma giganteschi che non può non colpire.
La storia di un personaggio minore che vive per gli altri e si mantiene viva con un ottimismo contagioso; la storia di un personaggio del genere che è costretta a ogni umiliazione, sofferenza e delitto per arrivare in fondo al suo unico obiettivo è qualcosa che di per se sarebbe sufficiente; resa in maniera tanto realistica, quanto trattenuta; sentimentale, ma mai stucchevole con uno dei gradi di empatia più alti della storia del cinema. Ripeto, tutto questo sarebbe già di per sé sufficiente.
Invece von Trier si inventa il musical. La sua protagonista ama i musical americani, perché nei musical non possono succedere cose troppo brutte e perché c'è sempre qualcuno pronto a prenderti quando cadi. Li ama a tal punto che nei momenti di maggior difficoltà, quelli in cui deve ragionare, distrarsi o razionalizzare quanto avvenuto, riesce a farlo solo pensando in quella maniera; raccoglie i suoni che la circondano (un treno che passa, un giradischi che viaggia a vuoto, i rumori di una fabbrica) e li fa diventare musica su cui canta i propri pensieri.

Von Trier, finalmente, abbandona il Dogma, anzi, lo sfrutta nella misura in cui gli è ancora necessario; con lunghe scene sgranate, dalla fotografia povera e dai continui, dondolanti piani sequenza. Uno stile secco che aiuta la verosimiglianza dell'opera e ne aumenta l'impatto emotivo (i sentimenti esposti sono aumentati dall'ambiente arido in cui esplodono) e l'empatia. Ma questo stile cambia completamente nelle scene musicali; dove la macchina da presa diventa fissa, il montaggio rapidissimo, le inquadrature si allargano e i colori vengono saturati; rendono la differenza fra il mondo reale e la fantasia indiscutibilmente potente.

Il film poi si avvale di Bjork in maniera egregia. Non siamo di fronte a musical vero e proprio (la prima canzone è dopo 45 minuti di film), ma le sette canzoni scritte sono perfette, in linea con il film e dolcissimi o strazianti anche ascoltate in maniera avulsa dal contesto; la performance canora è di quelle che lasciano il segno. Come attrice Bjork sorprende; ha sicuramente il viso e il piglio giusti per la parte dell'innocente, ma riesce in alcuni picchi emotivi su cui era lecito aspettarsi un risultato inferiore. Il film inoltre è arricchito da un cast che va da una Deneuve in disparte, ma che fa il suo lavoro con dignità, a una serie di facce da secondo piano del cinema americano sfruttate al meglio; su tutte Stormare, utilizzato, finalmente, fuori dal luogo comune del villain in una delle parti più delicate dell'opera.

Un film enorme per potenza ed efficacia, originale e spiazzante nonostante attinga da generi più che abusati. Un film che, nonostante l'abbia rivisto per l'ennesima volta, non riesce a non commuovermi.

lunedì 11 marzo 2019

Bellezze in cielo - Alexander Hall (1947)

(Down to earth)

Visto in Dvx, in lingua originale.

Tersicore, la musa della danza, si indigna per il modo in cui viene trattato il suo personaggio in un nuovo spettacolo di Broadway; decide quindi di incarnarsi per farsi prendere cme prima ballerina e protagonista dello show per cambiarlo dall'interno. Riuscirà perfettamente facendo innamorare di sé il creatore dello spettacolo, purtroppo se ne innamorerà lei pure.

Film dalla trama imbarazzante, ma perfettamente in linea con la serie degli amori soprannaturali che ci furono negli anni '40 ("Il ritratto di Jennie", "Il fantasma e la signora Muir", ecc...). Di fatto non vuole essere nient edi più di un incredibile baraccone camp creato ad hoc per dalle alla Hayworth una serie di scene di ballo e canto; un kitsch eccessivo in maniera encomiabile ricopre tutto, con un uso dei colori a cui dovrebbe essere molto legato Almodovar. Nonostante la mia scarsa sensibilità sull'argomento musical direi che i numeri di danza riescono ancora a reggere il peso degli anni (anzi, all'epoca avevano decisamente più voglia di oggi di coreografare), mentre le canzoni lasciate da sole soffrono molto. Il risultato finale è però incredibilmente godibile, data la storia assurda che però non si prende sul serio, un degli happy ending più strani di sempre e una delle raffigurazioni deistiche (perché Mr Jordan è Dio) più americane e professionalizzanti di sempre.

Il film è certamente assurdo, ma continuo a trovare molto più assurdo aver pensato di trarne un remake negli anni '80 con Gene Kelly e la Newton John.

venerdì 12 ottobre 2018

Alleluja! - King Vidor (1929)

(Hallelujah)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Negli anni '20 diversi film (cortometraggi) con protagonisti afro-americani cominciarono a fiorire, o con contenuti apertamente caricaturali o per autoproduzioni a basso costo. Alla fine del quel decennio, con l'arrivo del sonoro ("Il cantante di Jazz" è solo di due anni più vecchio), le grandi produzioni americane divennero, cautamente, più propense ad aprirsi a film che garantassero di aumentare il mercato verso le minoranze razziali. A questa minima apertura si appigliò Vidor, cresciuto nel sud, allevato da una donna di colore, da anni avrebbe voluto realizzare un film sulle condizioni dei neri. Oltre all'apertura mentale, Vidor, si appigliò anche al fatto che parte dei soldi li avrebbe messi lui. Il film venne realizzato.
Per rimanere nell'anedottica anti-razzista, per la scrittura della sceneggiatura venne ingaggiata l'unica sceneggiatrice donna dell'epoca, Wanda Tuchock.

Il film parla di un lavoratore dei campi di cotone del Tennessee che rimane invischiato nell'omicidio del fratello, a seguito del quale, riscopre la fede e si fa predicatore; ma la carne è debole e per una donna abbandona tutto e tutti (i numerosi familiari).

Ecco, sicuramente la produzione accettò anche per l'intenzione di Vidor di costellare il film di molti momenti musicali (non è un musical vero e proprio, ma la musica permea tutto il film), così da sfruttare al meglio il sonoro. Quello che però mi rimane in sospeso è sapere chi ha voluto dare a questo film un taglio così leggero. La trama è un ottimo materiale per il melodramma, ma tutto il film ha il respiro della commedia di redenzione, con l'aggravante di un incipit (20-30 minuti) che ha intento più ridanciano. Spesso questo film viene accusato di mostrare lo stereotipo dell'epoca dei neri come dissoluti incapaci di controllare i propri impulsi (anche se Vidor sembra toccare apposta questi temi per smentirli; con il protagonista che vuole baciare la donna, ma si trattiene e se ne scusa, o che riesce a resistere alla voglia del gioco d'azzardo, almeno all'inizio); a mio avviso più di quello, il film può essere accusato di una visione caricaturale fino all'imbarazzo proprio in quelle scene iniziali. Che sia stata la produzione a pretenderlo o un'idea di Vidor per alleggerire il tono di un film altrimenti troppo cupo; direi che comunque non funzione e, anzi, stride molto, con la sensibilità attuale, ma anche con l'ambientazione totale del film.

A livello di regia il film sembra non farcela mai a staccarsi dal consuetudinario. Vidor sembra più interessato alla storia che al come raccontarla. Cose buone ce ne sono sempre e, qui, le migliori sembrano essere i vari primissimi piani ottimamente curati (molto da cinema muto) e il montaggio perfetto della scena della "conversione" del protagonista (quella in cui decide di diventare predicatore) o la scena della fuga di Zeke; a questo poi aggiungere il mood dell'inseguimento nella palude nel finale riesce ad essere ancora efficace.

Interessante per tutti i precedenti motivi storici (più che per la godibilità bassina) ha anche qualche, misero, motivo aggiuntivo come anello di congiunzione fra il muto e il cinema sonoro maturo degli anni '30, con una recitazione molto fisica (in qualche momento slapstick) e un'eccessiva mimica facciale nonostante i dialoghi.

PS: questo film non riuscì ad essere il primo film all-black della storia perché pochi mesi prima la Fox Batté la MGM portando in sala "Hearts in Dixie"; sempre all-black, sempre musicale.

venerdì 25 agosto 2017

La la land - Damien Chazelle (2016)

(Id.)

Visto a un cineforum.

Un'attrice si innamora, ricambiata, di un musicista jazz; il loro primo bacio impiegherà tutto il primo tempo ad arrivare, il secondo sarà occupato dal tentativo di realizzare i propri sogni.

Un film incredibilmente reazionario, a livello di contenuti (ma anche diverse idee di messa in scena) non inventa nulla; dichiaratamente ispirato ai musical di Stanley Donen (la tavolozza di colori viene tutta da lì) ne prende completamente la linearità della trama, il tono fresco e positivo, le turbolenze dell'agnizione melodrammatica, ma soprattutto prende le canzoni come momento di esposizione di sentimenti e/o pensieri e non come momento per far proseguire la trama o come dialogo contato.
Come si diceva anche la fotografia è presa a piene mani dai musical di 60anni fa, mentre le coreografie sono ancora più conservatrici (dopo un incipit alla "Fame") con il più classico dei tip tap, danze da sogno tra le stelle e una scena in piscina che, seppure molto diversa, non può non far pensare ai musical anni '30. Ancora una volta sembra inventare poco, anzi pochissimo (addirittura nella scena musicale finale dove si ripercorre tutta la loro storia, alternativa, c'è la stessa complessità fantasiosa delle migliori sequenze musicali della Disney).
Eppure la macchina da presa non riesce a stare mai ferma, dando dinamismo a tutte e le scene e trasformando molte scene di ballo in piano-sequenza anche laddove non sarebbe necessario o scontato (l'incipit in strada, la preparazione alla festa dove l'uso degli spazi interni è perfetto).

Incredibile quindi che un film così tanto derivativo possa essere così efficace. Invece funziona e funziona proprio per la precisa volontà di rifare un film strutturalmente vecchio in un contesto moderno, con metodi e tecniche recenti. Funziona nonostante una trama che qui e la zoppica nel noioso, nonostante le imperfezioni nel ballo dei due protagonisti (la scena del tip tap è piuttosto piatta); funziona per la potenza evocatrice che riesce a superare i difetti, grazie alle musiche assolutamente buone e alla regia dinamica che non perde occasione per sfruttare appieno le megalitiche scene ricostruite in interni. Non stupisce quindi che il primo tempo, più candidamente anni '50 risulti migliore del secondo dove Chazelle preferisce riprendere una sua ossessione (sul successo raggiunto con lo sforzo e la sofferenza) anziché proseguire nel solco del passato.
Una scommessa rischiosa che, nonostante il cambio di marcia, risulta perfettamente vinta, regalando uno dei film visivamente migliori del 2016.

PS: non intendo neanche discutere sugli attori data la mia antecedente adorazione per Emma Stone.

venerdì 9 dicembre 2016

I prodigi del 2000 - David Butler (1930)

(Just imagine)

Visto qui.

Nel futuro (è il 1980) il matrimonio viene deciso da un tribunale e obbligato; un uomo combatte per il suo desiderio di sposare l'amata e decide di dimostrare il suo valore compiendo l'ardimentosa missione esplorativa su Marte; ad accompagnarlo l'amico di sempre e un tizio colpito da un fulmine nel 1930 e riportato in vita dalla possente scienza medica.

Film particolarissimo essendo il primo musical fantascientifico (con un'insistente voglia di comicità). Fu un totale insuccesso e il motivo è lampante: è un musical fantascientifico (con un'insistente voglia di comicità).
All'epoca il sonoro era appena arrivato e il musical era l'innovazione, che però essendo agli albori veniva mischiato con ogni altro genere per valutarne l'efficacia; ecco quindi il motivo di questa scelta bislacca.
Al di là della scelta del peggior crossover di sempre, il secondo motivo dell'insuccesso è da ricercare nel fatto che questo è un film totalmente cretino. Trama ridicola, attori inadeguati (El Brendel, comico noto all'epoca e qui l'uomo del passato, è semplicemente irritante), la ricostruzione di Marte è risibile, il razzo fallico per raggiungere il pianeta rosso sarà adeguatamente scherzato nei decenni successivi (verrà riutilizzato per la serie di "Flash Gordon" e quindi verrà parodiato nei film fantascientifico erotici di "Flesh Gordon"), canzoni dimenticabili quando non cretine loro pure ("Never swat a fly" è una canzone folle) e balletti di gruppo (pochi per fortuna) di rara bruttezza.

Al di là della rarità del crossover e della curiosità il film offre qualche (minimo) motivo d'interesse (che non riscattano per nulla il resto!): sono l'impegno nella costruzione dei mondi (la città alla Metropolis o le scenografie di Marte sono notevoli), ma soprattutto gli effetti speciali, dalle braccia mobili dell'idolo marziano alla retroproiezione di alcune scene, come la partenza del razzo o quella iniziale in volo (che rappresentano anche la prima volta dell'utilizzo della retroproiezione in una grossa produzione).

venerdì 21 ottobre 2016

Xanadu - Robert Greenwald (1980)

(Id.)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Una musa scende sulla terra (coi pattini) per far aprire un locale di vaudeville facendo collaborare una vecchia star del clarinetto e un giovine pittore di belle speranza. Quando riuscirà nell'intento sarà però combatutta... ormai infatti si sarà innamorata del giovine.

Musical pop-imbarazzate creato ad hoc per sfruttare il successo di Oliva Newton-John e in parte quello di Michael Beck. Fu, giustamente, un fiasco totale, ma tuttora rimane un interessante faro sul kitsch di quel decennio complesso e senza gusto che furono gli anni '80. Non intendo criticare gli effetti speciali oggigiorno imbarazzanti poiché all'epoca potevano anche essere all'avanguardia; ma credo sia doveroso criticare le luci flou, la musica pop elettronica, i fade out fatti con il dos, i pattini a rotelle usati in maniera pervasiva... e non cito i costumi o i capelli perché credo che i responsabili siano ancora in libertà vigilata... in pche parole gli anni '80 at their finest.

La storia è striminzita e, salvo poche aggiunte (come Zeus che deve decidere se inviare di nuovo la musa sulla terra), c'è davvero poco altro rispetto a quanto ho già detto; il resto del minutaggio è dato da scene musicali, d''amore, di raccordo e alcune anche senza senso (il protagonista che prende in prestito la moto da una sconosciuta senza avere rimostranze e la sua caduta slapstick in mare), in più c'è una sequenza d'animazione debitrice della Disney in maniera totale.

Realmente interessante invece è la tipologia di musical che si sceglie. Questo è un film musicale classicheggiante, con musiche e scene di ballo (che nel finale si fanno massive per scenografie e numero di persone) più che canzoni; sembra quindi che l'operazione fatta rispecchi quella che viene intrapresa dai due protagonisti del film stesso, cioè riadattare uno spettacolo ormai morto negli anni '40. Operazione intelligente anche se riuscita solo in parte; molto ben rappresentata dalla sequenza musicale in cui le due band si fondono in una

Una perla kitsch ad alto budget degli anni '80 e l'ultima interpretazione cinematografica di Gene Kelly. Da vedere se si è amanti di uno dei due.

venerdì 27 maggio 2016

Sweet Charity: Una ragazza che voleva essere amata - Bob Fosse (1969)

(Id.)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Una ragazza che per vivere fa la taxi girl (la ballerina a pagamento) in un locale di New York sogna l'amore ideale, ma soprattutto, il riscatto sociale. Positiva ed entusiasta si ritroverà più spesso a essere osteggiata dalla vita e dalla fortuna che non a esserne aiutata.

Tratto da un musical teatrale a sua volta ispirato a "Le notti di Cabiria" è una versione edulcorata, zuccherosa e chiassosa dell'opera di Fellini... che in effetti si ravvisa molto poco (giusto qualche episodio...e il finale con gli hippy al posto della processione religiosa risulta particolarmente ridicolo e svilente).

Il film però è diretto da Bob Fosse (alla sua opera prima) che nei musical ha pochi concorrenti. Un'opera colorata e sincopata, non ai livelli di "All that jazz" (che comunque profumava di Fellini anche a distanza), ma ha di buono che l'intero film è organizzato per essere musicalo, creando ritmo con le immagini e il montaggio prima ancora che con la voce o la danza degli attori (basti vedere "Big spender"). prende evidente spunto dai swinging '60 inglesi per evolvere con il ritmo che si imparerà a conoscere più tardi e con una ironia smaccata che riporta tutto a un livello di kitsch fresco e accettabile (si pensi ai balli nel locale dove viene portata Charity dall'attore che sfottono direttamente la swinging London).
Di fatto il film proietta la Cabiria originale in un mondo favolistico distante dalla realtà; qui l'effetto di agnizione non può essere dato dal contrasto tra ambiente e aspirazioni personali (non è una prostituta e di fatto non vive nello squallore); tutto viene buttato sulla spalle della MacLaine; lei è bravissima, si da anima e corpo e voce con risultati sorprendenti, però l'effetto non può risultare potente e viscerale come nell'originale. Ma è un limite che sta nell'idea base.

PS: quasi tutte le sequenze musicali sono da manuale (beh, se si considera il manuale personale di Fosse); tutte meritevoli; sottolinea solo il cameo di Sammy Davis Jr nella parte del santone Big Daddy.

mercoledì 18 maggio 2016

Incontriamoci a Saint Louis - Vincente Minnelli (1944)

(Meet me in Saint Louis)

Visto in Dvx.

Una felice famiglia di Saint Louis si muove tra palpiti del cuore e canzoni fino al terribile giorno in cui il padre di famiglia decide di trasferirsi a New York per lavoro; il grande ballo e l'apertura dell'Expo (che nel 1904 si svolse effettivamente a Saint Louis) riporteranno la pace in famiglia (che ovviamente non si sposterà dal Missouri).

Un film zuccheroso con una famiglia degna del Mulino Bianco pre Banderas realizzato con un technicolor dai colori chiassosi; il tutto si conclude con alcune scene madri durante il periodo natalizio (dove viene cantata la celebre "Have yourself a merry little Christmas")... Di fatto un film di Natale per famiglie.

Un musical dalle canzoni ormai invecchiate che non funzionano più, molto ingessato e pesantemente fotografato. Minnelli lo conosco poco e per quello che ho visto finora si divide tra il genio("Il bruto e la bella") e il mestierante con il pilota automatico ("Il padre della sposa"), qui, a parte qualche guizzo, sembra più il secondo; porta a casa un lavoro impacchettato in maniera splendida, ma senza nerbo (unica scena che mi è piaciuta è quella durante Halloween, nella sua scarna semplicità rende, con il dovuto rispetto che spesso non viene dato, il gioco della bambina; niente di eccezionale però l'effetto è superiore alla media).

Brava la Garland nella parte di una ragazzina vanitosa ed entusiasta; da questo film scaturì la relazione che portò al matrimonio con Minnelli da cui nacque Liza.

In definitiva uno scorrevole vecchio film sull'idillio borghese di un periodo storico, già all'epoca, sepolto sotto due guerre.

venerdì 29 aprile 2016

Victor Victoria - Blake Edwards (1982)

(Id.)

Visto in Dvx.

Parigi negli anni '30 era una gay Paris; e una cantante dalle notevoli doti vocali dovrà fingere di essere un nobile polacco omosessuale amante del travestitismo per riuscire ad avere successo, per fortuna sarà aiutata da ex stella del vaudeville.

Definirlo musical è eccessivo visto lo scarso minutaggio dei numeri musicali, anche se si tratta di scene perfettamente orchestrate che mostrano interamente le sequenze teatrali. Definirlo film in costume o storico sembra esagerato, ma la perfezione della ricostruzione della Parigi tra le due guerre è impeccabile, per location, scenografie e costumi. Definirla commedia (magari commedia dei sessi) è semplicemente riduttivo, così come cassarlo come semplice film sentimentale (visto il finale piuttosto scontato).
Di fatto Edwards riesce nel complicato compito di coniugare tutte queste caratteristiche in un unico film. Un film storicamente perfetto (e bellissimo), divertente, sporcato di rosa e con numeri musicali costruiti come fossimo alla Warner dell'epoca d'oro. Un lavoro di misurino così preciso che rende questo film senza tempo (di sicuro non avrei mai detto che fosse stato realizzato in uno dei decenni più eccessivi di sempre).

Completano il quadro un cast in forma, con una Andrews (voce e corpo) in piena forma (forse la sua interpretazione che preferisco) e un Preston vero mattatore. Il film inciampa nella mediocrità solo nella chiusura, ma non è una caduta tale da inficiare le due, godibilissime, ore appena trascorse.

mercoledì 30 dicembre 2015

Cappello a cilindro - Mark Sandrich (1935)

(Top hat)

Visto in Dvx.

Un attore viene ingaggiato per una prima segretissima a Londra; li incontra una graziosa ragazza che però lo scambia per quello che in realtà è l'amico dell'attore e il produttore dello spettacolo, lei se ne innamora, ma pensando che sia sposato fugge a Venezia; li re incontrerà entrambi e per sfuggire nuovamente si sposerà con uno spasimante di vecchia data.

Commedia degli equivoci a 16 mani in salsa musicale. Difficile definirlo musical vero e proprio, ci sono in totale 2 o 3 canzoni con relativa scena di ballo. L'intreccio comico risulta solido e ben congegnato anche se senza guizzi d'originalità e, per una volta, da la possibilità a Horton di avere una parte decente come comprimario e non di rimanere relegato nelle retrovie. Purtroppo la versione italiana tarpa le ali a diverse gag (e trasforma lo stilista italiano Beddini in uno straniero qualunque dal nome di Bedinsky; al regime dell'epoca non andava a genio la caricatura fatta e la figura da perdente che ne usciva alla fine del film).
Fred Astaire come soggetto comico risulta molto versatile dato che il suo viso è un morphing inquietante tra Stan Laurel e Frank Sinatra.

Ovviamente l'asso nella manica è nella coppia di protagonisti (il motivo per cui ancora si ricorda questo film), che danno luogo a due o tre incontri di danza davvero notevoli, con un'eleganza e una grazia incredibili, senza mai mostrare segni di stanchezza o di difficoltà (qui è presente la notissima sequenza in cui Astaire canta "Cheek to cheek".
Effettivamente le sequenze di danza non sono sempre be congegnate (assurdo il duetto nel parco sotto la pioggia; talmente senza motivo da sembrare la parodia di Shirley Temple dei Simpson), ma le capacità dei due le rendono tutte degne di essere guardate.

Ultimo pregio è la ricostruzione di Venezia, un crogiuolo strepitosamente kitsch di mare balneabile, gondole, ponti giganteschi, piazze lucide per poter danzare e palazzi degni di Barbie. Un capolavoro di cattivo gusto che riesce a essere di per sé motivo d'interesse.

Un film divertente, scorrevole ed elegantissimo.

venerdì 4 settembre 2015

Le parapluies de Cherbourg - Jacques Demy (1964)

(Id.)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato.

Storia d'amore e disamore classica; lei si innamora di lui e lui di lei, vorrebbero sposarsi; ma sono ragazzi e la madre di lei no vorrebbe. Poi lui deve partire militare, si promettono amore eterno, lei si scopre incinta, ma le lettere fra i due si diradano e lei si guarda in giro (non senza sofferenza).
Si ecco, la storia è piuttosto stucchevole... più cinematografico di così è difficile.

Non un musical in senso stretto, ma un film cantato. La struttura è quella di un film normale e non ci sono scene musicali, ma tutti i dialoghi sono cantati, recitati normalmente, ma cantati.

Realizzato con colori accesi e pastello come (e oltre) in un film di Tim Burton (questo è il classico ambiente borghese che il buon Tim ha cercato spesso di smascherare); la macchina da presa però ci sguazza, continuando a mantenersi in movimento come fosse uno squalo con una passione per i carrelli, specie se circolari.

Quello che viene fuori non è un'esperimento vero e proprio, ma solo un diverstissement; un gioco che alla lunga annoia (i dialoghi cantati rallentano il film, la mancanza di canzoni vere rende impossibile trovare un motivo trascinante o orecchiabile). Un film carino (molto bello per il comparto estetico in realtà; basta solo l'incipit per capirlo), vincitore di un esagerato Grand Prix a Cannes.

venerdì 4 luglio 2014

Le 5000 dita del Dr. T - Roy Rowland (1953)

(The 5000 fingers of Dr. T)

Visto in Dvx, in lingua originale.

Un bambino costretto da un odioso insegnate di piano ad allenarsi per un saggio che dovrà dare lustro al maestro più che motivazioni all'alunno sogna di essere tenuto prigioniero dal temibile Dr T (il maestro stesso), il quale vuole portare 500 bambini a suonare contemporaneamente una musica da lui composta, per fare questo ha ipnotizzato la madre del protagonista. Il bambino si farà aiutare dall'idraulico suo amico a sventare il piano e a fuggire con la madre.

Incredibile musical per bambini anni '50 che sembra totalmente in stile anni '70 (credo a questo punto che abbia funzionato come base per il primo Willy Wonka) con una serie di idee visive invidiabili.
Ma diciamo le cose con ordine.
La storia è abbastanza idiota e si muove in maniera claudicante, ma d'altra parte quale musical primeggia per originalità della trama?
Le canzoni sono invecchiate tantissimo ( e comunque sono adatte ai bambini) e le coreografie sono appena abbozzate, molto minimal e tutt'altro che impeccabili (la migliore è assolutamente quella sulla musica senza testo nelle prigioni sotterranee). La questione della musica è decisamente più importante, ma bisogna ammettere che le canzoni sono abbastanza poche (siamo dalle parti di Dancer in dark piuttosto che di Jesus Christ superstar).
Gli attori sono detestabili per le loro facce incredibilmente anni '50. Salvo solo il villain e il giovane protagonista, macchiettistici, cartooneschi, ma fanno lo sporco lavoro che è richiesto loro. I due personaggi principali quindi passano il turno.
Infine le scenografie. Qui c'è la vera vittoria. La presenza di Suess (oltre che nello script) nella gestione delle scenografie. Le idee visive di questo film sono continue ed enormi, la creazione di un mondo fantastico che ubbidisce unicamente alle regole fisiche del cartoni animati, con spazi metafisici, pareti e scale scippate all'espressionismo tedesco, edifici surreali, colori chiassosi degni almeno dei sixties. Il vero valore aggiunto, l'idea innovativa encomiabile, nonché il motivo principale per cui vale la pena di ritrovare questo film (e riguardarlo) è per l'appagante reparto estetico, tutto improntato all'anarchia fantasiosa che solo un bambino geniale avrebbe potuto avere. Spettacolare.

mercoledì 9 aprile 2014

Hair - Miloš Forman (1979)

(Id.)

Visto in tv.

Un ragazzo dell'entroterra statunitense arriva a New York per partire come militare per il Vietnam; a Central Park però incontra un gruppo di hippie a cui si lega, più per ingenuità che per pacifismo e schieramento politico. Passerà due giorni intensi, fatti di libertà, innamoramenti e droghe lisergiche. Partirà comunque per il campo di addestramento; gli amici lo raggiungeranno, ma per uno scambio di persona non sarà lui a volare in Vietnam.

Musical anni '70 (anche se ormai siamo negli '80s o quasi), tutto giocato con canzoni rock, stile visivo minimalista e abolizione di coreografie elaborate.
Le musiche: sono fighe. Non tutte sono memorabile, ma quelle che effettivamente rendono di più sono quelle passate alla storia "Let the sunshine in" e "Aquarius"; ma neanche le altre sfigurano.
Lo stile visivo minimalista è quello tipico anni 70, non solo dei musical, ma un po del cinema in genere di quegli anni (tranne Kubrick ovvio)... questo io lo considero un problema non essendo mai stato in grado di apprezzare quei colori azzoppati e quella grana grossa della pellicola. Comunque si può sorvolare.
L'assenza di coreografie è un'idea già presente in quel decennio, ma qui Forman fa qualcosa di più; eliminando le danze decide di ballare con la regia; anzi con il montaggio. Sono le apposizioni di immagini, la sequenza di azioni, luoghi e personaggi montati insieme a dare ritmo alle canzoni; idea entusiasmante che da vita anche ad alcune scene molto ben riuscite (su tutte quella del trip da acido).

Il vero difetto è l'assenza di una storia e il cast.
L'assenza di storia spesso fa in modo che le singole scene siano disgiunte da quelle adiacenti... tuttavia quanti sono i musical con una trama valida? A mio avviso in questo genere l'assenza di storia (che in questo caso c'è, ma è debole) in un musical è un problema solo in parte.
Il cast... li ho odiati quasi tutti... davvero non li sopporto... ma le canzoni comunque ti fanno dimenticare i cantanti.