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domenica 27 dicembre 2020

Jallikattu - Lijo Jose Pellissery (2019)

 (Id.)

Visto su amazon prime.


Un bufalo scappa dal macello, era destinato al banchetto di nozze di un riccastro locale. Al macellaio si associano sempre più persone alla ricerca del bufalo, tutti sperano che, prendendolo, possano ricevere una parte della carne come ringraziamento per l'aiuto. La situazione sfuggirà presto di mano, con centinai do persone (l'intero villaggio) che darà la caccia al bovino in un parossismo di follia e violenza, con la coppia di (pseudo) protagonisti che arriveranno allo scontro diretto per concludere con un finale iperbolico fuori da ogni logica.

Film sorprendente dove la fuga di un docile ruminante viene da subito gestita come le scene di tensione de lo squalo, con l'animale che compare all'improvviso come una tempesta e altrettanto rapidamente scompare, con gli umani che partono ragionevoli per divenire sempre più estremi, bestiali, sporchi e numerosi. Con l'arrivo delle scene in notturna la qualità della regia aumenta (l'arrivo con le torce è bellissimo, il recupero nel pozzo è gestito magnificamente e poi c'è la montagna del finale) mentre la trama si fa sempre meno importante  e sempre più pretestuosa mentre porta avanti un discorso fatto di azione e di corpi disgiunto dal motivo iniziale. Il già citato finale, assurdo eccessivo ed estetizzante è ragionevole per la piega presa dalle cose. I dialogo sono inversamente proporzionale al caos sottolineando la disumanizzazione dei personaggi.

Film atipico nella vasta cinematografia indiana (anche per il minutaggio contenuto) che spicca per qualità di scrittura e di regia (cioè, sul serio, scrivere scene come quelle rimanendo seri e farle venire fuori bene è un mezzo miracolo).

mercoledì 16 dicembre 2020

L'ufficiale e la spia - Roman Polanski (2019)

 (J'accuse)

Visto su NowTv.


La storia del caso Dreyfuss trattata da Polanski. La sinossi è tutta qui. Il punto di vista è quella dell'ufficiale che fece parte della commissione giudicante, ma che in seconda battuta scoprì che le prove a carico di D. erano costruite e il colpevole di tradimento ancora a piede libero.

Per stessa ammissione del regista il punto di vista è lontanissimo da quello del condannato perchè era un personaggio... noioso. Pochi interessi, personalità normale, niente di cinematograficamente utile (beh e poi c'è un'esilio sull'isola del diavolo piuttosto lungo). 

Polanski quindi si concentra sui dettagli fisici dell'indagine successiva alla condanna, costruisce una sorta di giallo tutto fatto da pezzi di carta, documenti, faldoni e lacci da sciogliere (senza metafore, proprio i lacci che chiudono i porta documenti) in una pornografia della fisicità che non aiuta la suspense, ma la verosimiglianza di un film in costume che diventa totalmente reale, quasi sinestesico.

Il film funziona perfettamente per tutta la parte dell'indagine, si rimane attaccati allo schermo non per scoprire cosa succederà e quale svolta prenderà la vicenda (è un fatto abbastanza noto anche da noi, salvo i dettagli, l'esito si conosce già), ma per sapere come verrà provata l'innocenza, quali q quante prove o indizi saranno necessari. Nell'ultima parte con i nuovi processi si perde un po d'interesse (anche la sceneggiatura si fa più enfatica), ma la cura impeccabile per la fotografia riesce a mantenere alta la qualità.

Per la prima volta Polanski mette in piedi un films torico reale e realistico senza perdere quella sua attitudine sempre svolta nei suoi drammi da camera, con vicende chiuse fra quattro pareti dove personaggi su fronti opposti si si scontrano, si studiano o cercano di eliminarsi (anche fisicamente); e il risultato è il migliore fra i suoi film in costume.

Cast magnifico, tutti all'altezza con un Dujardin che gioca di sottrazione (ma in maniera più calda rispetto ai colleghi americani) e fa da mattatore, una Seigner messa lì perché Polanski la mette dappertutto e un Garrel rabbioso messo u po in disparte (ah c'è pure Barbareschi in una particina).

domenica 6 dicembre 2020

Atlantique - Mati Diop (2019)

 (Id. AKA Atlantics)

Visto su Netflix.


Una ragazza senegalese che sta per sposarsi flirt con un altro uomo. Il loro ultimo incontro finisce velocemente, lui non ha il tempo per dirle che sta per tentare di raggiungere l'Europa in barca. Avverrà un incendio inspiegabile e l'altro uomo sarà accusato, qualcuno l'ha visto in giro. Intanto delle donne minacciano un ricco imprenditore con informazioni ricevute dai mariti partiti in barca.

Un film dalla doppia via, un romance sovrannaturale e un'indagine sempre nello stesso settore. L'idea di fonda è confusa, o meglio, chiara nell'intento, poco precisa nell'esecuzione. Il film deragli nella lentezza nella primissima parte, ma dopo l'incendio ha un incedere più deciso che permette di passarsi via le piccole incongruenze o le parti un po posticce (il discorso delle donne possedute è riscatto sociale all'acqua di rose che non aggiunga molto se non un paio di belle scene) con facilità.

Non siamo davanti a un'opera impeccabile, ma la mano sicura dietro la macchina da presa, l'occhio empatico nei confronti di tutti i suoi protagonisti, una fotografia dai colori tenui e freschi (una novità quasi assoluta per un film ambientato nel continente africano, si vede che non è stato realizzato in USA) e l'embricata fra storia normale (romance e attualità) e sovrannaturale lo rendono una visione interessante. Forse eccessivo il premio a Cannes, ma almeno ha dato il là alla distribuzione internazionale.

giovedì 26 novembre 2020

Godzilla II. King of the monsters - Michael Dougherty (2019)

 (Godzilla: king of the monsters)

Visto su Amazon prime.


Dopo il giusto successo del precedente Godzilla (il primo grosso successo per un Godzilla americano) si decide di fare il bis e, positivamente, non lo si fa uscire dopo dieci minuti, ma passano ben 5 anni. Ovviamente per realizzare un seguito a Hollywood si decide di aumentare la quantità del fattore vincente del film precedente, quindi Godzilla e e MUTO vengono moltiplicati da una fiorire di Kaiju su cui primeggiano quelli classici della Toho, Rodan, Mothra e su tutti Gidorah. Purtroppo poi, a Hollywood, bisogna sempre mettere la componente umana...

Parte con la dovuta lentezza (non si può partire con mostrino che si spazzano malissimo tutto il tempo), ma quando parte davvero (con lo scongelamento di Gidorah) si da il via a una sequenza titanica, ben condotta, con una qualità della CGI (chiaramente Gidorah è vero) e un gusto per lo scontro che fa piacere tornare nei Blockbuster e questo sfruttando un personaggio che ho sempre disprezzato (Gidorah, insignificante anche nella serie originale giapponese, malfatto e odioso) riuscendo a farmelo apparire un antagonista credibile e godibile. Encomio totale al Monster design generale, che riesce a dare dignità a tutti (si pensi a Rodan, pterodattilo goffo in Giappone, qui uccello di fuoco dall'indubbia potenza).

Il problema non è il voler fare un film di mostri con molti mostri (pure troppi) con Mothra come deus ex machina tanto credibile (come lottatore) quanto efficace (poco), il problema è mischiare la volontà di titanismo con i problemvucoli umani. Ormai non è più un mostro che attacca New York (o Tokyo), ma un dramma planetario che comprende gli esseri umani solo in parte e confondere il tutto con i piccoli drammi personali che dovrebbero essere più empatizzanti dei drammi su ampia scala, ma che nei fatti allunga il brodo in maniera inutile e imbarazzante (la ricerca di Godzilla negli abissi....) quando sarebbe bastata la componente di dramma complessivo. Se a questo si aggiunge un cast estremamente nutrito a cui dare spazio e una scrittura dei personaggi obiettivamente malfatta (che tristezza vedere Watanabe ridotto così male) l'effetto finale è un'agonia per lo spettatore (quanto meno per me).

Tanto è stato folgorante il primo film, tanto è ignominioso questo secondo capitolo. Devo ancora vedere il film su King Kong su cui le aspettative sono ancora alte e rimango in tiepida attesa del seguito dei due.

PS: non sto qui a dare tutta la responsabilità al cambio di regia, nel primo film Edwards, qui Dougherty; perché il primo aveva dimostrato una padronanza dell'azione del contesto invidiabili, quest'altro invece... non lo conosco. I problemi comunque sono evidentemente (anche) nella scrittura che azzoppa la storia...

PPS: ma che cast enorme di ripescaggi dal cestone delle serie tv?! però, fra scelte ovvie perché bankable, altre giuste per carattere, altre no e basta, almeno c'è Vera Farmiga che rende migliori le mie giornate.

lunedì 20 luglio 2020

Cena con delitto. Knives out - Rian Johnson (2019)

(Knives out)

Visto su Amzon prime.

Uno strano suicidio di un anziano romanziere molto ricco, l'intera famiglia in casa per festeggiare il suo compleanno, tutti con ottimi motivi per farlo fuori.
Questo è l'impalcatura del giallo classico su cui lavora il film, dire di più potrebbe essere spoiler.

Diciamolo subito, non c'è nessuna cena con delitto, c'è una cena prima del delitto, ma c'è quasi sempre, si tratta solo di una citazione dei titolisti nostrani.
Detto ciò il film di Johnson è un lavoro per andare contro il whodunit classico. Inizia senza discostarsi dal canone, a circa mezzora viene ribaltato quanto accaduto, si passa dalla parte del "criminale" e si comincia a vedere il suo gioco di copertura e distruzione delle prove, fino al lungo finale dove le parti si ribaltano nuovamente per tornare sui binari del già noto.
L'operazione è sicuramente interessante, ma il doppio salto sminuisce un pò l'idea di base (se devi allontanarti dla genere fallo del tutto) e il meccanismo interno del delitto, oltre a causare un aumento dle minutaggio solo parzialmente motivato.

Se l'effetto finale ne è sminuito e si perde abbastanza il senso dell'operazione è pur vero che il film si inserisce benissimo nella commedia gialla, con frizzi e lazzi giusti e non eccessivi; una galleria di personaggi macchiettisitici (con abbigliamento e pettinature proprie) che giocano a rivelare le loro tesse menzogne con gesti, smorfie e tentativi di non detto; inoltre permette qualche pallido momento di azione.
Di fatto Johnson riesce a tenere in piedi tutto quanto con pochissimi momenti di stanca e un divertimento perfetto; dando a tutti i perosnaggi un arco narrativo (tranne ai due protagonisti, poco male per l'investigatore che non lo necessita, peccato per l'infermiera).
Un buon film che intrattinee in maniera divertente e adeguatamente intricata... ecco candidarlo all'ocar per la sceneggiatura è stato un pochino un eccesso.

PS: ottimo il cast di attori a cui non si può voler bene che portano a casa il risultato con facilità (e Craig addirittura sorride, non ricordavo d'avergli mai visto i denti).


lunedì 20 aprile 2020

Midsommar. Il villaggio dei dannati - Ari Aster (2019)

(Midsommar)

Visto su NowTv.

Un gruppo di amici decide di passare il solstizio d'estate nel villaggio svedese d'origine di uno di loro dove ci sono celebrazioni folkloristiche caratteristiche.
Assieme a loro si associa la ragazza di uno del gruppo; lei ha appena subito un lutto pesantissimo ed è presa malissimo, lui la vorrebbe lasciare già da tempo, ma non ne ha il coraggio e la relazione si trascina avanti in maniera frustrante per entrambi (e per il gruppo di amici che chiaramente la sopporta poco).

Ovviamente le celebrazioni del solstizio non saranno quelle che ci si potrebbe aspettare.
Al secondo film Aster si tuffa nel folk horror, pur mantenendo tutte le caratteristiche del precedente "Hereditary" (dettaglio che nei prossimi anni dimostrerà se si tratta di firma d'autore o limite tematico).
Come colpo d'occhio in realtà Aster tenta il percorso opposto al suo film precedente. L'altro era un film sovrannaturale che viveva di buio, di penombra e di dettagli nascosti, ma mostrati. Qui invece è un horror in pieno sole (giusto un paio di scene importanti sono al chiuso o di notte) con il bianco come colore dominante ed esplosioni floreali (il finale in mezzo ai fiori con il volto in lacrime e gli altri in bianco è da incorniciare), la ricchezza di dettagli c'è anche qui, ma in molti casi sono apertamente esposti (il tessuto che mostra le tecniche magiche per far innamorare), ma, ovviamente, quelli evidenti sono solo la punta dell'iceberg (ed è un gioco ricchissimo il cercare di scovarli ad una seconda visione).
Però molto è condiviso. La "famiglia naturale" come problema, la famiglia allargata come rifugio (disfunzionale) in cui poter vivere pienamente; il gioco con lo spettatore a cui vengono dati quasi tutti gli elementi per capire, ma non il modo in cui incastrarli; ecc...
Ovviamente a tutto questo si abbina la solita cura nella messa in scena, con un'ambientazione ragionatissima e la fotografia splendidamente curata a cui ci ha già abituati.

L'effetto finale è straniante e interessante. Lontano dalla perfezione prettamente horror di "Hereditary" qui siamo di fronte ad altro. Il genere horror si presta da sempre ad essere declinato verso altre tematiche (come quello sociale alla Romero); qui Aster utilizza il genere per mostrare un'elaborazione del lutto e la presa di coscienza di una donna nei confronti delle zavorre della sua vita. Di fatto un dramma psicologico giocato sul terreno dell'horror che ha il suo picco nel finale, congruo con l'andamento di tutto il film, ma nello stesso momento estremamente metaforico.
Indubbiamente più complesso, ma, di conseguenza, meno efficace del precedente.
Va però encomiata l'enorme capacità di creare immagini potenti, anche con elementi complessi arrivando a sfiorare il ridicolo senza mai cadervi apertmente.

lunedì 13 aprile 2020

Un giorno di pioggia a New York - Woody Allen (2019)

(A rainy day in New York)

Visto su NowTv.

Una coppia di fidanzati (lui famiglia bene di New York, lei ricca wasp del midwest) vogliono, finalmente, passare due giorni nella grande mele approfittando ci un'intervista che lei deve fare a un regista. Lui vorrebbe portarli in tutti i luoghi che significano qualcosa per la sua vita, ma evitando la famiglia.
I due, però, verranno divisi dagli eventi.

L'ultimo film di Allen è una commedia degli equivoci tutta giocata sul caos che regna in ogni destino e l'immancabile elemento atmosferico determinante per far succedere cose (spoilerato fin dal titolo).
La novità sta nella tensione di voler vivere e far vivere la città di New York a una parvenue, tensione costantemente frustrata (anche se la nuova arrivata conoscerà, per conto suo, una New York diversa) che, nel finale, batterà in ritirata tornando verso lidi già conosciuti.
Dal punto di vista tematico niente di enormemente nuovo (ma va?!), ma è una sorta di descrizioni delle New York classiche (le grandi famiglie borghesi, i piano bar fumosi e la componente dello showbiz cinematografico) fatta per vie indipendenti e discordanti; condotta con un tono magistrale e con dei personaggi stereotipati il giusto per cogliere tutte le sfumature del caso. Su tutto regna una leggerezza alleniana che rende una storia di amori spezzati (tradimenti, rivelazioni shockanti, desideri frustrati) dolce e ingenua.

Infine è da sottolineare il comparto luci. Alla terza collaborazione con Storaro alla fotografia (di cui ho visto finora solo il precedente capolavoro "La ruota delle meraviglie") questo nuovo Allen gioca tutto sulle luci e sul loro calore.
Gli esterni newyorkesi sono bigi e spenti, gli interni illuminatissimi e caldi con un'occhio per la posizione e le costruzioni delle luci che esalta anche nei dettagli (il bar dove la ragazza e lo sceneggiatore entrano per pochissimi istanti a chiedere del regista è un piccolo capolavoro); anche se il grosso è realizzato con i cambi di luce. Sfruttando una serie di movimenti di macchina d presa, carrelli e piccoli piani sequenza (che Allen ha introdotto da poco nel suo cinema), le luci cambiano il loro calore durante la stessa scena soprattutto quando i sentimenti in gioco sono importanti aumentando l'effetto sentimentale complessivo (senza aumentare la stucchevolezza). Si vedano ad esempio l'intervista al regista (le luci sul volto della Fanning), il bacio in macchina o il viaggio in taxi.

giovedì 9 aprile 2020

Noi - Jordan Peele (2019)

(Us)

Visto su NowTv.

Una bambina si perde alla sagra del mare e finisce nel classico tunnel dell'orrore in disuso dove incontrerà... una bambina uguale al lei.
Dopo uno shock che le procurerà strascichi per anni decide di tornare su quella spiaggia con tutta la famiglia (marito e due figli a cavallo dell'adolescenza). ovviamente sarà una scelta sbagliatissima perché dovrà confrontarsi, di nuovo, con sé stessa.

Togliamo subito il dubbio. Come già "Get out" (e come sembra essere il cinema di genere autoriale di questi anni) siamo di fronte a un metaforone sociale; c'è un sopra e un sotto (il parallelismo con "Parasite" non è peregrino), una classe abbiente che neppure sospetta esistano degli "altri" sotto di loro che potrebbero venire a reclamare ciò che ritengono sia stato tolto loro.
ma come già in "Get out" Peele non affossa nella metafora, è solo lo spunto da cui partire per costruire un film horror venato di commedia (molto meno rispetto al precedente).

Peele poi sembra fare parte di una corrente (involontaria) sul nuovo horror anglofono caratterizzato da una cura estrema nella messa in scena (anche qui come nei film di Aster la fotografia è incredibile) e da un'intolleranza nei confronti delle spiegazioni eccessive. 
Quindi il film a cui ci si trova è visivamente potente, la trama ben svolta, raccontati i motivi fondamentali, ma non chiariti i dettagli. Con questa possibilità Peele, per la seconda volta, riesce a raccontare una storia ai limiti della sospensione dell'incredulità, senza sforare nell'inaccettabile.

Inoltre Peele è, al momento, uno dei migliori nelle scene horror puro. 
Il film parte con un home invasion semplice, ma perfetto, dove non si lesina in efferatezze. Ci si sposta con una fuga rocambolesca per finire... in un altro home invasion (anche questo gestito in maniera brillante) per poi ricominciare con una fuga che si muove sotto la luce del sole e terminare con uno showdown estetizzante completo di twist plot.
Peele fa tutto e lo fa benissimo, gestisce una trama articolata con il giusto ritmo, cuce insieme film diversi dosando la tensione e la commedia. Certo l'effetto finale è meno granitico di quello di "Get out", ma partendo da un presupposto affascinante, ma inverosimile il risultato è grandioso.

PS: non l'ho mai citata, ma è evidente che se in un horror metti una come Nyong'o (una delle attrici più credibili della sua generazione) l'effetto finale non solo sarà migliorato ma supererà a destra molti colleghi del settore che, di solito, per il cast hanno pretese molto inferiori.

lunedì 6 aprile 2020

Répertoire des villes disparues - Denis Côté (2019)

(Id. AKA Ghost town anthology)

Visto su Mubi, in lingua originale sottotitolato.

In Canada i morti tornano nelle città che li hanno ospitati da vivi. Non fanno nulla, non sono aggressivi, né richiestivi, rimangono immobili all'esterno (al massimo ti fissano a lungo con sicumera). In una piccola cittadina dove è appena morto un ragazzo (forse incidente d'auto, probabilmente suicidio) le cose si muovono più lentamente, finché l'immobile invasione non arriverà a tutti producendo... sostanzialmente nulla, giusto la levitazione di una concittadina non troppo sveglia.

Film inclassificabile (non è un horror o un thriller, potrebbe essere un dramma se solo succedesse qualcosa)  che vorrebbe dire moltissimo (immagino) senza far succedere nulla.
la prima metà del film presenta una serie di personaggi della cittadina, delineati quasi tutti bene e con questioni irrisolte o volontà granitiche che fanno presagire uno showdown drammatico. L'arrivo dei morti si mostra subito distante dall'horror e vicino al dramma con spunto fantasy, ma, semplicemente, non succede nulla. L'arrivo dei morti causano soltanto la fuga di due personaggi (una fuga quasi senza effetti) la rinuncia ad una casa (ma che non è l'ultimo gesto di una profonda agnizione psicologica, semplicemente c'è un morto dentro la casa abbandonata e non la si vuol più comprare) e un personaggio che levita senza motivo (citazione di "Teorema", il film di Pasolini però ha costruito per tutto il suo minutaggio l'aura surreale che porta a quella levitazione qui invece succede all'improvviso e senza costrutto reale).
Sembra che ci sia stata l'idea di far succedere qualcosa di improbabile senza poi avere la minima idea di come far proseguire la vicenda. Imbarazzante.

PS: peccato perché la fotografia sgranata e l'ambientazione sarebbero stati il perfetto compendio per una storia realistica di gelo e solitudine.


lunedì 23 marzo 2020

The fall - Jonathan Glazer (2019)

(Id.)

Visto su Mubi.

A dimostrare la, potenziale, efficacia di Glazer dietro la macchina da presa, ma con un minutaggio inferiore arriva, nel 2019, questo cortometraggio.
Circa 5 minuti con una storia in media res, nessuna spiegazione, personaggi disumanizzati con maschere che ne nascondono il viso, ma mantengono un ghigno che è l'espressione perfetta e molta tecnica.
In 5 minuti Glazer si concentra sulla corda che è l'elemento centrale della vicenda, con movimenti di macchina e inquadrature magnifiche che sono tecnicamente encomiabili e che (non solo non affossano, ma anzi) esaltano l'ambientazione e il tono che infatti sono resi perfettamente pur senza nessuna spiegazione. Gigantesco l'uso della musica e dei suoni che fanno il paio con le immagini.

giovedì 27 febbraio 2020

Il primo re - Matteo Rovere (2019)

(Id.)

Visto in DVD.

Il primo re (la storia riveduta e allargata di Romolo e Remo) si apre con i 20 minuti migliori del cinema italiano degli ultimi anni. Una serie di sequenze (l'inondazione, la salvezza, la cattura, la lotta e la liberazione) realizzate da dio, che parlano con la sola forza delle immagini (le parole sono pochisisme e quelle poche utile a creare l'ambiente più che a veicolare messaggi) e riescono a spiegare il contesto storico (un epoca pre romana, post neolitaca, una via di mezzo scarsamente raccontata), la relazione fra i personaggi, il tono generale del film (la lotta con la violenza esposta, la fotografia cupa e umida con la luce del fuoco enfatizzata), i rapporti di forza fra i gruppi e il contesto spirituale (determinante ai fini della trama). In quei primi 20 minuti c'è tutto ed è tutto quasi perfetto.
Il resto del film prosegue bene, ma perde in mordente; sviluppa benissimo i personaggi (la sacerdotessa che protegge il malato, la caccia per riguadagnare credibilità eccetera) senza perdere di vista l'ambiente, ma le scene saranno più ripetitive, meno potenti.
Se quell'inizio serve a mostrare i muscoli, il resto del film prosegue con due delle idee più interessanti viste ultimamente.  La prima è la mitopoiesi di un'epoca mai mostrata al cinema (per quanto ne so); l'altra è lo spirituale che pervade il mondo senza mai rendersi evidente.
nel parlare di Romolo e Remo si decide (giustamente) di lasciare da parte lo stile dei peplum (uno stile molto codificato, preciso e ormai usurato con un vago senso di stantio), si abbandona il già noto e si decide di creare qualcosa di nuovo, una via di mezzo fra "La guerra del fuoco" e il "MacBeth" di Polanski, con una natura incombente e traditrice, con un'ambientazione umida, fatta di fango e sudore e sangue.
La parte spirituale è poi perfetta incarnazione di questo ambiente. La divinità è concreta e sfuggente allo stesso tempo (il fuoco), ma il metafisico è incombente quanto gli alberi che li circondano e inquietante quanto il buio senza mai avere bisogno di ricorrere a effetti speciali o giochi di magia.


Encomio generalizzato al gruppo di attori (anche se non tutti perfetti, tutti con un corpo e una presenza utili alla vicenda) con l'ovvio encomio particolare ad Alessandro Borghi.

giovedì 30 gennaio 2020

Jojo rabbit - Taika Waititi (2019)

(Id.)

Visto al cinema.

Un regazzino della gioventù hitleriana ha come amico immaginario (sul modello di Calvin e Hobbes, una sorta di espressione esteriore dei suoi ragionamenti) Hitler stesso (in versione infantile e buffa). Attorno a lui si muove un mondo in cui l'apprezzare la svastica e riuscire a odiare sono status symbol da portare anche se non si è portati (e ovviamente lui e il suo amico sono troppo sensibili per essere naturalmente portati ad odiare) e dovrà cavarsela tra bulli in divisa, ritardati in divisa, il padre scomparso, la madre con molti coni d'ombra e la guerra che volge al termine.

Un film comico sulla seconda guerra mondiale ormai non dovrebbe più fare notizia, non è comune, ma non è più un'innovazione da almeno 20 anni o più. Il fatto che riesca a metterci comico e dramma insieme è un valore aggiunto, ma anche questo non particolarmente nuovo.
Le vere doti di questo (ottimo) film sono altre.
L'impostazione contraria all'usuale per la messa in scena con una fotografia luminosissima e personaggio solari; una galleria di tedeschi che (nonostante il difetto dell'essere della nazione sbagliata) sono i buoni della vicenda (addirittura si arriva ad avere un nazista umano!), anche s eper lo più sono ebrei o della resistenza. C'è l'atmosfera da fine del mondo stemperata con una positività o una sorta di distacco invidiabili.
Infine c'è l'utilizzo dei topos dei nazisti cinematografici e non (la guerra, il superuomo, la violenza, l'odio per gli ebrei) utilizzata per le gag più che per realizzare l'atmosfera, trasformando un genere usurato da decenni di ripetitività in qualcosa di nuovo.

Infine c'è un giovanissimo protagonista che è una delle scelte di casting migliori dell'anno, una faccia, una recitazione (molto bravo) e un fisico che sprigionano tenerezza estrema (vero sentimento del film) in mezzo a un mondo che si vorrebbe crudele.

PS: C'è Bowie e i Beatles in versione tedesca!

lunedì 23 dicembre 2019

Highwaymen. L'ultima imboscata - John Lee hancock (2019)

(The highwaymen)

Visto in tv.

Nella storia americana si è creato il mito di Bonny e Clyde, due criminali della depressione che canalizzarono la frustrazione di quella generazione. Ma due criminali erano e la spettacolarizzazione delle loro imprese (che tralasciano spesso la scia di sangue) e la mitizzazione della loro fine sono topos scolpiti sulla pietra.
Ecco che lì'originalità di questo film è tutta nel cambio di punto di vista. Per la prima volta i protagonisti (che sono ovviamente i buoni) sono i poliziotti (integerrimi e scalcinati nello stesso tempo) che danno la caccia a due rapinatori e assassini. L'intento è creare il mito opposto a quello classico, il mito delle forze dell'ordine contro due fuorilegge (che infatti rimangono quasi sempre fuori inquadratura). A dirla così sembrerà banale, ma è il punto più originale del film. per farlo, ovviamente, si punta sulla mitopoiesi classica hollywoodiana; Costner come protagonista (il buono per eccellenza degli ultimi 30 anni cinematografici), una messa ins cena pulitissima fino a sfiorare il museale (vestiti sempre a posto, fotografia nitida, ambientazioni dei bassifondi che trasudano ricostruzione pulite in ogni inquadratura).
Ecco, l'idea di base vince in originalità, ma per realizzarla ci si impegna nello scontato. Operazione corretta dal punto di vista formale (il mito si crea con l'ordine come ci insegnò John Ford e non con la polvere di un Sergio Leone), ma che riesce comunque stantio e stridente.
Il film viaggia bene e riesce in maniera perfetta nel finale rendendo in maniera, finalmente, completa, l'agguato finale (trasformando in tensione e coraggio quanto era stato raccontato finora come viltà).
Film gradevole, ma vittima del suo stesso intento.

venerdì 20 dicembre 2019

Storia di un matrimonio - Noah Baumbach (2019)

(Marriage story)

Visto in tv.

Ho evitato accuratamente ogni film di Baumbach finora per mero razzismo. Mi sono sempre aspettato film dall'estetica da Sundance, con piccoli loser molto consolatori e pretese intellettuali.
Questo film è presentato di Dio da tutti, gli attori sono ottimi... ed è su Netyflix, una comodità non indifferente.
Dopo averlo visto mi spiace aver sottovalutato il povero regista finora.

La tendenza a mettere dentro pretese intellettuali c'è eccome (di lavoro lui è un regista teatrale di New York, una delle cose più hipster che si possa pensare), ma è estremamente limitato, e tutto sommato si limita a fare da arredamento in una storia perfetta.
Il film parla del processo di divorzio fra una coppia con figli che non ha smesso di volersi bene, ma ha smesso di amarsi. Non siamo dalle parti de "Kramer contro Kramer", qui i due si faranno una guerra inevitabile a causa del sistema giudiziario che stritola che si avvicina, ma una volta che tutto sarà finito i sentimenti originali torneranno fuori. Nessuna consolazione, l'amore di coppia non c'è più, ma la vita può ricominciare e i rapporti possono essere mantenuti.

Al di là di diverse scene madri molto emotive e un poco ipocrite (lo showdown nel nuovo appartamento di lui, la lettera letta ad alata voce nel finale), che sono comunque splendide (adoro le scene madri) e permettono ai due protagonisti di candidarsi per gli Oscar con tutta tranquillità; al di là di quelle scene, dicevo, il film si muove sul binario dei piccoli sentimenti, dei cambiamenti giorno per giorno, dell'ansia che aumenta per piccole cose che diventano sempre più grandi. L'uomo, il vero protagonista, si accorgerà molto tardi di quanto siano definitive le cose con la moglie.

Ben condotto, con una fotografia lievemente desaturata figlia del Sundance, ma ormai sdoganata, riesce a conquistare senza nessun dubbio e riesce a portare avanti discorsi estremamente adulti senza sbracare troppo affidandosi a una coppia di attori magnifici (con spledide comparsate diella Dern sempre uguale, un Liotta che invecchiato meno peggio del previsto e il sempre vecchio Alda).

venerdì 6 dicembre 2019

The irishman - Martin Scorsese (2019)

(Id.)

Visto in tv in lingua originale sottotitolato.

Questo Irishman parte come una versione aggiornata di "Quei bravi ragazzi" (eliminando glamour e spettacolarità, ma continuando a mostrare i dettagli pratici della vita della mala) fino all'arrivo del personaggio di Hoffa, momento in cui vira verso il racconto storico americano (o meglio la mitopoiesi americana) unendo in uno stesso film i due argomenti più caratteristici della filmografia scorsesiana. Nella terza parte però vira di nuovo diventando qualcos'altro, qualcosa di nuovo.

Parte nel suo giocando el carte che ormai sa gestire ad occhi chiusi creando un mondo costellato da un'infinità di personaggi che vive di regole e relazioni proprie, ma nel momento in cui lo spettatore più abituato a Scorsese sta comincia a chiedersi perché ritornare nel seminato viene introdotto il personaggio di Pacino (che è un personaggio alla Pacino) che porta avanti la parte storica mangiandosi tutta quella porzione di film con la sua presenza carismatica e dialoghi al limite del tarantinismo. Dopo la sequenza del "Che tipo di pesce" il film diventa più intimo, molla la storia per tornare sul personale, se fossimo agli inizi della carriera del regista ci sarebbe un vero e proprio rapporto con la religione a condurre il gioco, ma questo è un film più cinico e nichilista, la religione (e quindi la speranza e la colpa) è marginalizzata e l'ultima mezzora è la presa di coscienza che tutto è stato inutile, che una vita di lealtà e affetti non detti è stata sprecata e che essere integerrimo non era una dota, ma una condanna. Un finale glaciale senza alcuna speranza (la sequenza finale è così metaforica e gestita con freddezza da sembrare dei fratelli Coen) che non può sorprendere lo spettatore abituato a Scorsese.
In una parola questo è un film gigantesco efficace in ogni sua parte che prende i canoni che tutti attribuiamo al regista per portare oltre il suo discorso. Se questo fosse il suo ultimo film sarebbe perfetto (spero però che ne realizzi ancora molti).

La regia non dovrebbe più essere neanche commentata, Scorsese è l'unico regista che invecchiando migliora e non molla nulla dei sui stilemi (ma quanto sono gustosi i suoi rallenty? che se li usasse chiunque altro in queste quantità si potrebbe denunciare per tortura), dei suoi dinamismi e dell'uso delle musiche aiutando la storia a progredire per quasi 4 ore senza cedere mai nel ritmo; senza annoiare mai.

Cast enorme che permette a Joe Pesci di non fare il solito Joe Pesci, ma di recitare più di fino, permette a De Niro di non fare il solito De Niro e nella seconda parte anche di recitare, cosa che non faceva da anni (nella prima... beh recita meno; sarà il personaggio che deve evolvere o il ringiovanimento, ma nella prima metà De Niro nicchia come nelle solite commediole senza pretese a cui ci ha abituati di recente) e regala a Pacino l'ennesimo personaggio da mettere nella galleria dei fumantini tutti scene madri (magnificamente gestite) e ironia... mi è appena venuta voglia di riveder "L'avvocato del diavolo".

La questione ringiovanimento mediante CGI... inutile fingere che sia perfetta, non lo è. Nella prime scene in cui compare (sopratutto nei primi piani o in pieno sole) c'è uno strano senso di disagio (e quella stati che non so se imputare al computer o all'attore). Tuttavia io nei film in 3D noto la tridimensionalità per i primi 15 minuti e poi non la scotomizzo; anche qua dopo poche scene tutto il fastidio scompare schiacciato dal peso della storia che sto vedendo.

venerdì 29 novembre 2019

Parasite - Bong Joon Ho (2019)

(Gisaengchung)

Visto al cinema in lingua originale sottotitolato.

Una famiglia povera costretta a vivere nei bassifondi (letteralmente) riesce a sfruttare con l'inganno una famiglia ricca e a farsi assumere, uno per volta per ricoprire mansioni d'insegnate, autista e tuttofare. Dire di più sarebbe uno spoiler imperdonabile.

Bong Joon Ho deve essere al settimo cielo, fino a 10-15 anni fa se lo filavano in due, ora tutto si sperticano in complimenti. Obiettivamente però siamo di fronte al suo miglior film dai tempi di "Memories of murder" (ok, non ho visto "Snowpiercer") e le lodi sono meritate.
Supportato dall'eternamente in parte Song Kang Ho (mamma com'è invecchiato) che lavora di profilo basso per 2/3 del film per poi dare il meglio nel finale e da un cast affiatatissimo e con poche sbavature, Joon Ho firma il suo film di critica sociale (la lotta di classe nominata da molti è, però, un'altra cosa) più metaforico e diretto nello stesso tempo.
Ecco l'eccesso di metafora avrebbe potuto essere un difetto, ma Joon Ho la prende e la rende, non solo un'allegoria che sta sullo sfondo, ma un personaggio: le eterne scale (come le salite e le discese) che esemplificano il livello sociale, sono parte integrante della trama, sono il luogo dove ci si nasconde, la via di fuga o la via da cui arrivano i nemici, sono i determinanti di insuccesso di un piano di risoluzione dei problemi, il luogo dove si mostra l'animalità di un personaggio e soprattutto sono l'ambiente della scena thriller migliore del film. Assieme alle scale anche le finestre (quella sul vicolo dove pisciano gli ubriachi o quella sul calmissimo giardino interno) come schermo della realtà di cui si fa parte e l'architettura in toto delle case (minuscola e senza senso quella della casa povera, razionale, estetizzante quella della casa ricca) che diventa parte del gioco del gatto col topo della metà film in poi.

Ma al di là di utilizzare il limite del film per renderlo migliore, Joon Ho azzarda anche un continuo cambio di genere riuscendo a gestirlo in maniera quasi impeccabile.
Il film parte un po heist movie, un poco commedia all'italiana, comunque molto divertente e leggero, per poi virare nell'inquietudine con venature thriller e una lunga sequenza da home invasion al contrario. l'ultima parte però cambia ancora e diventa dramma, quasi tragedia greca con un'illusione di risoluzione positiva.
L'effetto è straniante, ma ben condotto e ogni momento è perfettamente calibrato.
Da vedere.

venerdì 25 ottobre 2019

Joker - Todd Phillips (2019)

(Id.)

Visto al cinema.

Sgombriamo ogni dubbio, per me "Joker" è un buon film. Manca di grazia, di delicatezza, si gingilla con una grossolana superficialità in più punti (la pistola regalata, l'inizio dell'inseguimento della polizia, l'entrata nel teatro o la scena con il giovane Bruce, ecc...); difetti che non permetto al film di essere il capolavoro che vorrebbe essere (insieme al finale piuttosto frettoloso con la scena in tv più patetica ed esplicita di quanto avrebbe dovuto). Conta poco il confronto con i giganti del passato ("Taxi driver" e "Re per una notte" li hanno nominati tutti, ma sono effettivamente riconoscibili in ogni scena, il secondo anche più del primo) che "Joker" non può che perdere, i suoi difetti sono tali anche se preso da solo; ma è un buon film.

Indubbiamente il film vince tutto grazie a Phoenix, si mangia ogni scena, rende credibile ogni possibile ridicolaggine, riesce a rendere in maniera perfetta follia e sofferenza, riesce a ridere con il volto e piangere con gli occhi nelo stesso momento. Enorme.

Ma al di là della migliore scelta di cast possibile (su cui ho avuto dubbi fin dai primi rumors) è il film nel suo complesso a risultare credibile. La Gotham city/New York anni 70-80 è ricostruita in maniera eccellente, credibile e angosciante ad ogni inquadratura, fotografata in maniera splendida con la dominante marrone costante; il mood del film è evidente in ogni scena solo grazie all'estetica.
Phillips si dimostra intelligente nell'assecondare Phoenix con inuqadrature ravvicinate o a figura intera in base alla performance e riesce a prendersi la briga di giocare con il fuori fuoco per aumentare l'isolamento o nascondere (o mostrare) il resto del mondo dove necessario. Phillips è anche abbastanza astuto da cercare l'immagine potente ad ogni inquadratura; il film infatti, cede sulla trama mentre vince ad ogni scena con un eccesso di immagini pronte ad essere trasformate in icone pop.

La polemica sull'utilizzo commerciale del brand DC che però non si avvicina agli originali, non entra nel continuum o altre questioni simili, mi pare pretestuoso. La storia si sarebbe retta anche senza citare il Joker (anche se avrebbe avuto meno visibilità e riconoscimenti); mentre l'utilizzo di Gotham come ambiente dimostra la duttilità del mondo di Batman che si adatta a diversi tipi dir acconto, si presta a connessioni con l'attualità che la Marvel ancora sogna (in realtà credo che alla Marvel, giustamente, non freghi nulla) e riesce a costruire discorsi fra individuo e società e sul rapporto con la città che imbruttisce che vanno al di là del fumetto originale; in una parola, questo mondo si dimostra il più vitale del mondo cinecomics.

lunedì 14 ottobre 2019

Nell'erba alta - Vincenzo Natali (2019)

(In the tall grass)

Visto in tv.

Da un racconto di King, Natali costruisce il suo nuovo "The cube". Premesse ottime. Se King ha scritto troppo per essere sinonimo di qualità a priori, Natali è un pò il nostro compagno di viaggio allucinato sin dall'adolescenza (se si è millenials); non ci si può non buttare a pesce.
Citare "The cube" per questo film, per una volta, non è a sproposito; il film parla di erba assassina (no, diversa da questa) che attira le vittime dentro di sé, le sposta nello spazio e nel tempo, le conduce ad una roccia che le fa andare fuori di testa. Ok la sinossi non rivela il paragone, ma di fatto si tratta di un gruppo di persone, fra loro sconosciute (di fatto due famiglie) che si perdono in un labirinto verde in cui non sanno cosa sta accadendo e non hanno idea di come uscirne.

L'idea iniziale (il romanzo) è strutturata e chiara, ma il come condurla lo è meno, il come farlo è un concetto totalmente assente. Natali si perde in assurde ripetizioni, deve incollare un finale posticcio positivo che rende ancora più incongruo l'ordine e il significato degli eventi e rimane sul vago e sul suggerito (male) per tutta la vicenda non riuscendo mai a essere chiaro (e non volendo, per fortuna, spiegare tutto a voce). Il tutto si riduce a un film dalla sceneggiatura caotica e scritta malissimo e da una regia interessante all'inizio che si perde nel labirinto che si sta creando.

Trovo poi piuttosto fastidiosa questa fotografia linda pulita anche in rpesenza di terra e fango e queste notti americani malfatte degne di film di serie B o di molte porduzioni Netflix, già con il colpo d'occhio si riesce a intuire la fregatura.

PS: inguardabile il cast, però si vede sorridere Patrick Wilson, non ricordavo ne fosse capace.

venerdì 11 ottobre 2019

C'era un volta a... Hollywood - Quesntin Tarantino (2019)

(Once upon a time... in Hollywood)

Visto al cinema.

Finalmente un film di Tarantino che mi ha soddisfatto completamente, è un'esperienza che non mi capitava dai tempi di "Bastardi senza gloria".
Tarantino, al suo eternamente ultimo film, abbandona gli obblighi contrattuali legati alle aspettative che ha creato in 25 anni di carriera. Basta violenza efferata e stilizzata (c'è in realtà, ma nel solo quarto d'ora finale), basta lunghi ed elaborati dialoghi fatti di cesello (si parla moltissimo nel film, ma senza gli eccessi parossistici e manieristici dei film precedenti) mettendo un'intera serie di scene in mano  aun personaggio (quello di Sharon tate) quasi senza battute (!).
Tarantino si libera di sé stesso e nella storia dei due giorni (più uno) di vita dei suoi due coprotagonisti (un attore della tv che non riesce a sfondare al cinema e deve ripiegare sulle parti da cattivo... sempre in tv) più uno (la Tate di cui sopra) in realtà parla dell'unico argomento che lo interessi: il cinema.
Nel suo film più nostalgico (le musiche e o i poster cinematografici pervasivi sembrano utili più a ricordare che a creare un ambiente) tarantino abbandona il citazionismo spinto (che pure c'è, ma si nota molto meno) per dedicarsi a descrivere quanto è bello fare, mostrare  o guardare film. l'intera filiera cinematografica è rappresentata ed è esaltata ed esaltante: i produttori sono entusiasti, le costumiste capiscono al volo le fantasie dei registi che a loro volta sono pieni di energie nonostante i lavori di bassa lega, gli stuntman soddisfatti, e giù nella catena alimentare dell'industria dei sogni fino alla cassiera del cinema e alla maschera. Naturalmente non ci si dimentica degli spettatori nella scena che racchiude l'intero film con Sharon Tate al cinema a vedere il suo ultimo film, estasiata e soddisfatta di sé che ascolta con commozione i feedback positivi del pubblico; non ci sono parole, ma lì c'è tutto quello che questo film vuol trasmettere.
Un inno al cinema che solo Tarantino poteva fare in questo modo e che. per fortuna gli riesce benissimo (ovviamente c'è molto della Hollywood di quegli anni che viene mostrato, ricostruito o nominato, ma va di diritto nel progetto nostalgia che rende bene, ma che non è immediatamente fruibile e neppure fondamentale).

Preponderante, soprattutto nel finale, anche i collegamenti con la cronaca con le vicende dei due co-protagonisti che si intrecciano involontariamente con la famiglia di Charles Manson.
Perché l'idea di mettere l'eccidio di Cielo Drive nel film può avere molti scopi (elemento catartico per come è stata realizzata, semplice setting temporale, giustificare la presenza della Tate ecc...), ma, personalmente, ho trovato geniale la gestione dell'affair Manson. Sfruttato per creare una splendida scena thriller (quella nel ranch) e utile per mostrare che nella città dell'industria dei sogni tutto è legato al cinema, anche la famiglia risiede in un set abbandonato e cercherà di uccidere attori e stuntman.
E DA QUI SPOILER. Sopra a ogni altra cosa però c'è il gioco con le aspettative dello spettatore. per tutto il film Tarantino ti fa affezionare al dolcissimo personaggio della Tate mentre ti mostra come il male si sta sviluppando appena fuori città e (per chi sa come andarono le cose) è ovvio pensare a co me finirà il film. Tarantino però modifica (di nuovo) la storia è lascia incolume la tate e il finale riesce ad avere uno dei scioglimenti più emotivi e (inaspettatamente) dolci che potesse avere, perfettamente in linea con il tono positivo del resto del film e senza negarsi un minimo di simbolismo. Il tutto giocando con quanto si sa e con quanto ci si aspetta stravolgendo il tutto riuscendo quindi a colpire molto più in profondità.

PS: e non ho parlato del solito cast di stelle e comprimari magnifici, quasi tutti in parte e ben utilizzati (giusto Pacino mi è sembrato svalutato) con un DiCaprio eccezionale (davvero si mangia ogni scena in cui compare), un Pitt perfettamente in parte e una Robbie con gli occhi costantemente luminosi.