lunedì 29 aprile 2013

Vero come la finzione - Marc Forster (2006)

(Stranger than fiction)

Visto in tv.

Un uomo, dipendente del fisco, all'improvviso sente una voce che descrive tutte le sue azioni; mentre la sua vita si svolge, vuota come al solito, si rende conto di essere un personaggio di un libro. Cercherà una mano in un esperto del settore per riuscire a capire se sta vivendo una commedia o una tragedia, nel frattempo si innamorerà di una evaditrice (?) fiscale...

Il film parte bene. Una storia surreale trattata nel modo più realistico, più verosimile possibile, messa in mano ad un protagonista (Ferrell) che per il semplice fatto di essere se stesso riesce a dare alla trama un aspetto agrodolce che altrimenti non avrebbe.

Il problema di questi film così tendenti all'assurdo (ma intelligentemente assurdi) è riuscire a creare una conclusione che sia all'altezza dei presupposti… c’è bisogno di dire che questo film fallisce completamente? Con l’introduzione del personaggio della Gyllenhaal il film crolla completamente alla stregua di qualunque commedia romantica, senza neppure provarci a diversificare un poco l’andamento di quella, inevitabile, storia d’amore; a questo punto il finale stucchevole non sorprende e, nell'ottica della piega che ha preso la trama, non è neppure il peggior finale possibile.
In una parola, una delusione.

venerdì 26 aprile 2013

Canzoni del secondo piano - Roy Andersson (2000)

(Sånger från andra våningen)

Visto in Dvx in lingua originale sottotitolato in inglese.

Un uomo da fuoco al proprio negozio per avere i soldi dell’assicurazione, si re-immette nel mondo del lavoro vendendo crocifissi su suggerimento dell’amico, ma la cosa non andrà a buon fine e l’uomo, dilaniato fra un figlio impazzito per troppa poesia, un altro incapace nel prenderne il posto ed un socio di lavoro morto suicida si ritroverà solo ad affrontare una sorta di apocalisse mai dichiarata.
Detto così sembra esserci una storia, in realtà questo riassunto prende vari spezzoni del film che sono inframmezzati da altri con personaggi avulsi dalla vicenda, ma che tornano periodicamente (l’impiegato gay che fugge all'aeroporto, l’ex generale filo nazista in casa di riposo ecc…). Inoltre l’atmosfera generale è un personaggio a se, un ambiente urbano asettico, ma mai riconoscibile, funestato da eventi inspiegabili (una casa che si muove), da un’umanità al limite e anche oltre (le persone vestite da ufficio che si fustigano per le strade) e una serie di eventi normali, ma che avvengono senza una causa (l’ingorgo d’auto); tutto questo si fonde a dare l’idea di una possibile fine del mondo, mai dichiarata (di fatto neppure nella buffa scena di fuga con le valige) e mai spiegata.

Il regista fa scelte precise e costanti: ambienti scarni, personaggi e vestiti anonimi, colori insipidi e malaticci, inquadrature fisse, tempi dilatati, lunghi silenzi, profondità di campo esagerata, un’azione principale svolta in primo piano spesso di dubbio interesse immediato e in secondo o terzo piano un’azione simbolica spesso folle. Tutto ciò concorre a creare un film che è atmosfera più che storia, che è allegoria più che dichiarazione d’intenti. Ovviamente un significato lo si trova ed è la rappresentazione di una società priva di valori che si va sfaldando, dove non c’è comprensione o complicità neppure all'interno delle famiglie dove tutto (dal rapporto genitori-figli ai rapporti sessuali fra coniugi) è declinato ad una freddezza meccanica e ottusa.

A livello di stile, quello che lo differenzia da film dai tempi dilatati tipici di un certo cinema nordico o della pretesa autorialità all'europea è l’ironia, il senso del grottesco che qui fanno da padroni quasi in tutte le scene, quasi su ogni smorfia dei personaggi o sui corpi degli attori. Poi in più c’è la surrealtà. Non ricordo un film surreale meglio realizzato (ma soprattutto meglio narrato) di questo che non fosse di Lynch.

Un film che è una curiosità facile da odiare, ma piuttosto soddisfacente se non ci si annoia.

mercoledì 24 aprile 2013

Rumori fuori scena - Peter Bogdanovich (1992)

(Noises off...)

Visto in tv.

Un cast teatrale in cui le intemperanze, ma soprattutto gli affetti, personali corrono fra tutti i colleghi deve mettere in scena una commedia degli equivoci dai ritmi serrati; quello che si vedrà sarà la copia della commedia stessa nelle vite degli attori, si snoderà la loro personale commedia degli equivoci dai ritmi serrati mentre provano e mentre recitano.
Bogdanovich è il più intellettuale, tecnico, autoriale e cinefilo regista americano… almeno il più grande ad avere tutte e quattro queste caratteristiche. Agli esordi tutto ciò gli fece realizzare alcuni dei più bei film anni ’70, ma poi cominciò a perdere colpi. In questo film però dimostrò di avere ancora le doti degli inizi.

Il film parla di un’opera teatrale le cui caratteristiche si intersecano con le vite private del cast, niente di più banale; ma Bogdanovich su questo crea un’altra opera teatrale (perchè questo è il film, per i toni, la verbosità, la recitazione e la suddivisione delle scene, nonché per il fatto di essere davvero tratto da un’opera teatrale) suddivisa in tre atti.
Nel primo atto, la prova generale, ci viene mostrato il primo atto della commedia nonché le personalità dei protagonisti, nonché un inizio di intreccio. Questa prima parte quietamente divertente è diretta con il solito piglio arrogante di chi ama i piani sequenza e le inquadrature inusuali. Una gioia per gli occhi, un tiepido antipasti per quanto riguarda il divertimento.
Il secondo atto è la messa in scena dell’opera ad una matinee di relativa importanza. Gli umori del cast sono furenti e l’odio non solo è palpabile, ma difficilmente contenibile. Bogdanovich mette in scena al suo meglio regalandoci una sequenza fenomenale; se nella prima parte del film, tutto era mostrato guardando sul palco, qui tutto si sviluppa dietro le quinte; e Bogdanovich da cinefilo qual è ci regala uno strepitoso film comico slapstick sul modello di quelli degli anni ’20, divertentissimo girato da dio senza una pausa e senza un capello fuori posto.
Il terzo atto è la rappresentazione a Cleveland, la serata più importante. Gli umori sono totalmente fuori controllo ed il cast si divide in chi si ubriaca e si sfoga in scena, in chi cerca il recupero ed in chi va avanti fregandosene di tutto. Si ritorna a guardare il palco ed in crescendo rispetto alle scene precedenti il caos è ai limiti massimi ed il divertimento raggiunge alcuni picchi memorabili.

Bogdanovich crea la solita opera complessa, parzialmente ispirata ad un filone cinematografico d’altri tempi e sempre con le prove di forza muscolari (a livello di regia) e tocchi di classe da campione; il tutto sorretto da un cast che esce trionfante da un film tutt'altro che ovvio.
Il consiglio è di non fermarsi alla prima parte del film, che può risultare carina, ma stucchevole; quello non è altro che l’incipit per introdurre lo spettatore ad un grande spettacolo.

lunedì 22 aprile 2013

Io sono un evaso - Mervyn LeRoy (1932)

(I am a fugitive from a chain gang)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Grande depressione, un uomo (Paul Muni), uno dei tanti lasciati a piedi dalla crisi, rimane coinvolto in una rapina e viene considerato colpevole (bisogna ammettere che un paio di prove le aveva contro) e condannato ai lavori forzati. Inizia a questo punto la prima parte del film con una descrizione meticolosa della durissima vita nelle carceri e con essa la descrizione della voglia di libertà dei detenuti. Da questa voglia Muni riesce a trarne il meglio, una via di fuga, riesce a scappare dal carcere e rifugiarsi in un altro stato, dove troverà una nuova identità, l’amore, il rispetto della società e la fama. Il passato però torna sempre e Muni patteggia una lieve pena detentiva se si costituisce nuovamente, a malincuore cede, ora cittadino onesto e stimato, per poter pulire completamente il proprio passato. Una volta in carcere però la fine della pene viene costantemente prorogata nonostante i tentativi di farla finire subito… Muni si vedrà costretto a d evadere nuovamente, ma ormai la sua identità, la sua faccia, sono conosciute e la sua vita sarà rovinata per sempre.

Solidissimo film carcerario diretto da un LeRoy che sembra bruciato dal fuoco della denuncia sociale, tanto rimarca le condizioni dei carcerati e si muove con fare sicura fra i vari genere che il film incontra. Certo la trama non è scevra di qualche ipocrisia all'americana (il self made man che se lasciato libero di mostrare le proprie capacità dimostra d’essere degno di pubblica stima e d’essere un uomo buono), ma che tutto sommato relega queste regole in un ambito piuttosto limitato e si dibatte soprattutto per far uscire il dramma della situazione.

Poi c’è Paul Muni… Paul Muni è uno dei vari attori che mi infastidisce a pelle, non c’è un motivo, ma la sua faccia mi irrita… eppure ogni volta che lo vedo dopo pochi minuti dimentico il disturbo che mi provoca e rimango catturato dal personaggio; e anche stavolta non è andata diversamente; inutile dire quindi che Muni, sulla scena, è un gigantesco performer.

Complessivamente il film può risultare un poco stucchevole, ma se ci si lascia coinvolgere dalla vicenda, non si può rimanere inerti. Se si arrivo poi alla scena finale non si può non rimanere estasiati; incredibile come diventi d’antologia del cinema una sequenza di una semplicità imbarazzante con un Paul Muni con il viso stravolto che arretra lentamente venendo inghiottito dalle tenebre dicendo soltanto “I steal”. Un film riassunto tutto in una dissolvenza. Bellissimo. 

venerdì 19 aprile 2013

Giù al nord - Dany Boon (2008)

(Bienvenue chez les Ch'tis)

Visto in tv.

Un dipendente delle poste cerca di farsi trasferire sulla costa azzurra, ma ingannando i superiore riesce solo a fasi spostare nel profondo nord, luogo demonizzato dai francesi dove una civiltà diversa, con una lingua loro, vive in un ambiente freddo. Ovviamente quasi nulla dei preconcetti si rivelerà vero.

Commediola francese buonista e prevedibile a cui non avrei dato un soldo… dopo averla vista direi che avevo ragione.
Si conferma una commediola buonista e prevedibile che fa a pezzi i luoghi comuni mostrando come ci si vuol bene lo stesso. Ma in realtà questo non è un problema, sono pronto alla demagogia se in cambio posso ridere, possibilmente molto. Il problema è che la parte più divertente si perde dopo i primi dieci minuti (simpatici i tentativi di trasferimento o  primi viaggi verso il nord) ed il resto è sbobba.

Quel che è peggio poi è che il 60% delle gag successive sono tutte giocate sulla lingua del luogo che viene tradotta in italiano con un accento folle che in primo luogo non è incomprensibile come doveva essere nelle intenzioni (vanificando alcune scene) e per il resto del tempo sembra un linguaggio da ritardati, il che rende il fallimento più irritante.
Do il beneficio del dubbio alla versione in lingua originale che con tutta probabilità non è minimamente rappresentata da quella italiana.

Devo ammettere comunque che sulla carta l’idea di trasferire la vicenda in Italia sembra vincente… anzi quasi doverosa. 

mercoledì 17 aprile 2013

Pepi, Luci, Bom e le altre ragazze del gruppo - Pedro Almodóvar (1980)

(Pepi, Luci, Bom y otras chicas del motón)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato.

Tutto inizia con una ragazza che coltiva marijuana a cui un poliziotto piomba in casa, lei, pur essendo vergine decide di offrirgli del sesso purché tenga la bocca chiusa. Non tutto va secondo i piani e lei decide di vendicarsi, prima picchiandolo, poi insidiandone la moglie (che di per se è una masochista feticista in più ambiti). Beh direi che già così si ha l’idea generale. Tutto è rappresentato in chiave grottesca, divertente e divertita, senza pretese, che permette al film un tele senso di leggerezza (in senso positivo) da far impallidire.

Credo che in questo film ci fosse tutto quello che potesse scioccare la Spagna dell’epoca, il femminismo, la droga, la prostituzione, l’omosessualità, il sado-masichismo, parafilie varie, il dileggio alle autorità, linguaggio sboccato, imene plastica, tutto raccontato senza soluzione di continuità, ma tutto raccontato con una follia dadaista ed una allegra leggerezza che rendono il film un film sulla gioia di essere vivi, qualunque siano le voglie, le preferenze e le intenzioni di ognuno. Parafrasando, Almodovar sembra il primo a rispondere “chissenefrega!” quando la domanda è lo scopo della vita.
In quest’ottica si inserisce la vita cartoonesca dei personaggi che vivono solo perché seguono le proprie passione o per una volontà di vita enorme.

Incredibile poi che un film del genere, addirittura para-amatoriale com'è, sia pervaso di un ritmo tale che, nonostante i 2000 personaggi e i continui cambi di storia, non annoia mai.

Caricaturale, eccessivo, grottesco e rivoluzionario (nel senso anti-establishment), un degno figlio di Bunuel cresciuto nei seventies; più che un film è un manifesto; una presa di posizione.

lunedì 15 aprile 2013

Wasabi - Luc Besson (2001)

(Id.)

Visto in DVD.

Luc Besson alla regia, Jean Reno nella parte di un uomo solitario che si muove in un mondo criminale con modi spicci, ma efficaci ed una morale sua; a questo Jean Renogli capita fra capo e collo un regazzina che dovrà difendere (perché alla fine è buono) da dei tizi cattivi… ora basta parlare di “Leon” e descriviamo invece questo Wasabi… ecco prendete la stessa trama di cui sopra e ambientatemela in Giappone, metteteci un poco di ironia ed il film è fatto.
Il film ha l’indubbio pregio di essere successivo a Leon e quindi più pulito e scegli la via dell’ironia per cercare di differenziarsi da quello… però Leon gli rimane sopra diversi metri. Anche perché questo film (che avrebbe potuto essere una buona commedia) decide di voler essere un film d’azione, un po’ buddy movie, un poco (molto poco) thriller.

Quello che ne viene fuori è la prova definitiva dell’incapacità di Besson di fare film action. Tutte le scene adrenaliniche sono un florilegio di inquadrature autoriali, ma senza il minimo senso della tensione, senza chiarezza di ciò che avviene e senza un minimo di pacche laddove dovrebbero esserci o di pallottole laddove si spara, si prenda l’arrivo di Jean Reno durante la rapina dei travestiti (come anche la pessima sparatoria finale), una delle scene “action” più piatte ed insipide di sempre. 

venerdì 12 aprile 2013

Calma, signori miei! - Buster Keaton (1924)

(Sherlok Jr.)

Visto in Dvx.

Un proiezionista con la passione per i gialli si trova ad applicarsi nel suo hobby proprio a casa della (potenziale) morosa, deve trovare un orologio rubato; peccato che le prove conducano proprio contro di lui. Tornato nella cabina di proiezione si addormenta e sognerà di entrare nel film che sta proiettando nei panni dell'investigatore e risolverà il caso. Al risveglio la (potenziale) morosa correrà da lui per scagionarlo avendo capito che il ladro era un altro suo pretendente...

Un simpatico film muto di Keaton che viene ricordato soprattutto per la scene del cinema dove il protagonista gioca con il linguaggio cinematografico nato da circa un ventennio (il Buster Keaton sogna di entrare nel film, come già si è detto, una volta dentro cominciano una serie di gag slapstick legate al montaggio parallelo con location sempre diverse); questo dettaglio è certamente qualcosa di importante (che denota lo sguardo acuto del regista), ma è anche l'unico motivo per cui il film viene citato. Tolto questo, infatti, il film è invecchiato molto e le trovate classiche di Keaton risultano piuttosto spente rispetto ad altri suoi lavori (si veda il favolo “The General”).

mercoledì 10 aprile 2013

...e ora parliamo di Kevin - Lynne Ramsey (2011)

(We need to talk about Kevin)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Un film estremamente ben pensato e ben curato, nelle mani di una regista (Lynne Ramsay) che sa il fatto suo e vuol dimostrarlo. Si perché è proprio la regia che la fa da padrona in quest’opera.
Questo, infatti, è un film che parla per immagini più che per il sonoro, con una costruzione simmetrica delle sequenze con diverse tendenze autoriali con l’uso del fuori fuoco che però, in questo caso, ha sempre uno scopo; l’estetica. Un uso degli attori come vero e proprio veicolo di emozioni più che di informazioni, le informazioni arrivano dai dettagli. su tutti il colore rosso, tutto qui è rosso, la vernice, i pomodori dell’inizio (così come le scatole di pomodoro al supermercato), la marmellata, le luci, l’orologio, ecc… tutto è rosso, perché tutto tende verso il finale senza mai mostrare nulla di direttamente evidente (addirittura alla fine non viene mostrato niente di diretto). Anche il montaggio viene usato come veicolo di informazioni; basti pensare al montaggio parallelo del ragazzo che lancia le frecce e Tilda Swinton a letto immersa in una luce rossa; un carico di significato degno di Eisenstein.
Il cast (più che altro la Swinton ed Ezra Miller) fantastico, come si è detto usato in maniera talmente estrema che ogni sorriso della protagonista si ricorda con una forza incredibile (sorriderà 2 volte se va bene).

Detto ciò la storia… non è necessario essere totalmente all'oscuro della trama per vedere questo film (io sapevo di cosa parlava, ma l’ho apprezzato tantissimo comunque), ma senza saperlo, capendolo poco alla volta, si gusta molto di più l’inizio che può apparire quasi assurdo. Per chi lo vedesse la prima volta senza sapere nulla credo che dopo s’imponga una seconda visione per apprezzare tutto il lavoro di sottintesi della Ramsey fin dalle prime immagini.
Detto ciò la storia. 

SPOILER. Basterebbe l’originalità della storia a interessare, perché il mostrare la famiglia dell’adolescente che fa la strage è quanto di più originale si possa fare. La famiglia dell’assassino è sempre l’anello debole mai raccontato e mai giustificato (figuriamoci poi compreso) di questi eventi. Il raccontare le difficoltà di questa donna con un grande cinismo rimanendo però scarni, senza mai abusare di nulla (si pensi agli incontri con i famigliari delle vittime, avrebbero potuto essere scene madri enormi, invece sono solo un paio e molto contenuti). Poi si potrà obbiettare che la storia in se è un poco cretina (il bambino è demoniaco più di Damien; e la strage con arco e frecce sa di implausibile), ma si salva per il grandissimo uso che ne fa la regia. Ora che posso dirlo più liberamente, un encomio per aver raccontato una strage in modo estremamente emotivo senza aver mostrato sangue.

lunedì 8 aprile 2013

La costola di Adamo - George Cukor (1949)

(Adam's rib)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato.

Una giovane donna pedina il marito per vedere se viene tradita come sospetta; trovato il coniuge in flagranza di reato gli spara. Non muore, inevitabilmente il fatto finisce in tribunale. Ad essere incaricato dell’accusa è Spencer Tracy, purtroppo per lui anche sua moglie (anche lei avvocato) si interessa della faccenda e, volendo portare avanti un concetto femminista di reale uguaglianza di fronte alla legge, decide di assumere la difesa della ragazza. Il giudizio avrà ripercussioni anche sulla vita di coppia.

Legal drama e commedia dei sessi di gran classe, divertente e tutta improntata sui suoi due protagonisti. Se Spencer Tracy è un navigato attore bravissimo a fare da spalla, la vera protagonista è effettivamente la Hepburn (come poteva essere prevedibile data la presenza di Cukor in regia), vero motore della vicenda e vero personaggio che va oltre il film (in effetti la Hepburn sembra sempre impersonare se stessa). I due danno vita a magnifici battibecchi che si incastrano perfettamente in scene di vita coniugale dirette come un balletto, con un occhio alla battuta intelligente.

Dal canto suo Cukor gestisce il tutto come un teatro, gestendo più che altro gli attori in funzione del set, pone poi la macchina da presa in posizione fissa; quando la situazione l richiede però (e a quanto pare lo richiede spesso) si lancia in enormi movimenti di macchina, ariosi e complicati che danno vita a piani sequenza che sottolineano ulteriormente le performance degli attori. Movimenti di macchina così gustosi e liberi (ma sempre tecnicamente impeccabili) non li vedevo da parecchio tempo.

Ampio e avantissimo sul tempo il discorso sulla parità dei sessi che, intelligentemente, non cede in un finale confortante per l’epoca, ma va avanti sino alla fine.

L’unico neo è la mia abitudine ad associare in maniera pavloviana i film sullo scontro fra i sessi con Hawks (e la presenza della Hepburn mi aumenta questa associazione)… quindi mi vien da pensare che questo soggetto in mano ad un Hawks sarebbe diventato frenetico come una guerra lampo… 

venerdì 5 aprile 2013

Fa' la cosa giusta - Spike Lee (1989)

(Do the right thing)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato.

In una caldissima giornata nel Brooklyn si muovono personaggi di quartiere tra i più vari, tutti intenti alle loro pratiche quotidiane senza apparenti cambiamenti dal solito. Sarà il caldo, o saranno i continui rapporti conflittuali arrivati ad un’inevitabile fine oppure solo il destino, ma le tensioni razziali che si respirano quotidianamente esplodono in una rivolta vera e propria.
Spike Lee costruisce un film corale che più che a Woody Allen (ad inizio carriera era stato affiancato al regista newyorkese) fanno pensare ad Altman, con una serie di coprotagonisti non sconfitti, ma abituati allo status quo che non mettono più in discussione, senza sogni particolari se non l’arrivare a fine giornata; il regista per se si ritaglia uno dei personaggi più miseri (emotivamente e culturalmente) dando pure una buona prova d’attore.

Come stile di regia ancora invece guarda apertamente agli anni ’40, con un uso della prospettiva, dell’inquadratura sghemba, del movimento di camera, della costruzione delle scene  che sembra riecheggiare un “Terzo uomo” o un “Citizen Kane” calati nella cultura pop e nei colori chiassosi degli anni ’80.

Questo non è un film perfetto (i personaggi fanno colore, ma non si legano mai del tutto, la sceneggiatura ha qualche piccola zoppia nei dialoghi e tutto sommato non c’è molta empatia), ma un’opera da vedere assolutamente.

mercoledì 3 aprile 2013

Vanishing on 7th street - Brad Anderson (2010)

(Id.)

Visto in tv.

All'improvviso nel mondo (?) scompaiono gli essere umani, praticamente tutti. Solo pochissimi superstiti si trovano a vagare in un mondo dove tutto è rimasto dov'era, case, automobili, animali, persino i vestiti che gli uomini stavano indossando poco prima, tutto è li dov'era un minuto prima, ma non c’è anima viva. A Detroit i pochissimi sopravvissuti (si contano sulle dita di una mano) si incontrano per caso e notano che nell’ombra qualcosa si muove…
Film di fantascienza anni ’50 degnissimo figlio di “Ai confini della realtà” di cui avrebbe potuto essere una fantastica puntata. Anderson (che ormai considero un grande regista horror/scifi) si muove sul filo dell’inquietudine di “Session 9” (pur non raggiungendone mai le vette e , contemporaneamente, dalle parti del mistero soprannaturale di “L’uomo senza sonno”, convincendo un poco meno. Si diciamolo subito, questo è, al momento, il suo film più debole che abbia visto.

È il più debole perché desidera non spiegare nulla, ma nel farlo si prende troppo tempo, decide di copiare Carpenter nel fare un film d’assedio, ma è un film d’assedio verboso e senza assediatori, vuole fare uno script alla “Ai confini della realtà” ma si prende il doppio del tempo per tirare una storia troppo corta, vuole essere senza speranza, ma nello stesso tempo vuol chiudere con un finale metafisico di rinnovamento. Si insomma, vuol fare troppo e troppe cose contemporaneamente. Il film è comunque gradevole e decisamente superiore alla media dei film di genere. Anzi dirò di più, considerando la messa in scena si fa fatica a credere che sia un low budget.

lunedì 1 aprile 2013

La voce nella tempesta - William Wyler (1939)

(Wuthering Heights)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

La voce nella tempesta” è, come rivela il titolo originale, Cime tempestose (ma devo dire che il titolo italiano è comunque affascinante). Dietro la macchina da presa William Wyler, tutto sommato una garanzia.

Il film parte bene mostrando fin dall'incipit quale sarà l’impronta. Un film tutto in interni in cui il vero protagonista è però lo spazio esterno. La campagna inglese è infatti il luogo d’incontro segreto dei due amanti; il tempo atmosferico è l’espressione dei sentimenti dei protagonisti e sarà quasi sempre sferzante e avrà un peso diretto sulle loro vite; le dinamiche di vicinato nelle campagne, i rapporti di forza dati dalle gerarchie e dai sentimenti sono tutti trasferiti sul luogo fisico o sulla distanza. Wyler quindi lavora dall'esterno all'interno perché è in questo modo che si svolge la vicenda; la macchina da presa, all'inizio delle scene, è all'esterno e sembra spiare ciò che avviene da dietro una finestra, poi avvicinandosi entra direttamente nelle vicende in atto (talvolta avviene il contrario). Wyler poi mostra, ancora una volta soprattutto nell'incipit, di riuscire a costruire ottime scene anche in storie consunte.

Poi siamo davanti ad un tipico melodramma anni ’30, pomposo, enfatico, con occhi strabuzzati, lacrime trattenute ed amori declamati come a teatro; ma tutto sommato non annoia, anzi, il senso di un amore che per rabbia distrugge tutto e tutti è reso piuttosto bene e salvo qualche eccesso di manierismo il film funziona ancora.

… un punto in meno per la protagonista Merle Oberon, semplicemente non adatta a recitare come personaggio principale.