lunedì 31 dicembre 2012

Il sospetto - Alfred Hitchcock (1941)

(Suspicion)

Visto in tv.

La Fontaine è una donnicciola d’altri tempi (per il 2012, ma quello era il ’41) che si innamora dello sfrontato tombeur Grant. Pare che pure lui ne sia attratto e decidono di sposarsi. A cose fatte la donna si rende conto di diverse menzogne che il marito le propina, si accorge della cronica fame di denaro e comincia a sospettare che lui stia tramando qualcosa alle sue spalle… forse vuole addirittura ucciderla.

Uno dei primi di Hitchcock che sembra avere gli stessi presupposti di “L’ombra del dubbio” (un uomo perfetto che sembra lasciar trapelare alcune ombre, una ragazza innamorata che diviene vittima, il romanzo giallo come presenza fisica), ma ne disattende diversi punti cruciali.

Il film appare divertente in buona parte e repentinamente si trasforma in un thriller tout court che potrebbe anche funzionare; però  l’intera trama sembra essere affetta da una fretta cronica che fa fare dei balzi di sceneggiatura troppo repentini, e pertanto, poco credibili, anche il finale soffre dello stesso problema. Il difetto nella trama non toglie gusto al film, ma lo declassa a visione adatta alla domenica pomeriggio su rete quattro. Qualche tocco di stile di Hitchcock c’è, dalla famosissima scena espressionista del latte “illuminato”, alla macchina da presa che gira intorno ai protagonisti che si baciano; personalmente però, ritengo che non bastino a sollevare il valore complessivo.

venerdì 28 dicembre 2012

Hollywood brucia - Arthur Hiller (1997)

(An Alan Smithee film: Burn Hollywood burn)

Visto in Dvx.

Alan Smithee, regista, sta girando un film d’azione con cast stellare (Goldberg, Chan e Stallone), ma i produttori s’intromettono troppo, il film viene violentato e Smithee non ci sta, vuole uscirsene. Se un film viene ripudiato dal regista, il sindacato impone di accreditarlo a un nome fittizio, che purtroppo è proprio Alan Smithee (in realtà l’uso abituale di questo nome per le opere disconosciute è reale, ma non è un’imposizione). Il regista pertanto “rapisce” il suo film e inizia un’estenuante trattativa che arriverà a un nulla di fatto.

Simpatico film di Hollywood su Hollywood, che come d’abitudine butta uno sguardo disincantato a tutto tondo nel mondo del cinema californiano, dalle grandi manovre commerciali, alle star esaltate (con le partecipazioni di Stallone, Chan e Goldberg nelle parti di se stessi), fino agli indipendenti macchiettistici.
Il tutto viene ritratto nella modalità di un documentario con i protagonisti che parlano direttamente in macchina in varie situazioni (che tendono sempre più verso l’assurdo), inframmezzato da spezzoni “reali” che mostrano quanto successo.

Idea ottima, realizzazione decisamente migliorabile sotto molti punti di vista. Al di la della regia e di molta recitazione eccessiva, quello che veramente rende questo film solo un filmetto è la sceneggiatura all’acqua di rose, che ironizza con poca intelligenza, rende tutti delle macchiette da teen movie, si muove nel prevedibile e non affonda mai in qualcosa di graffiante.

mercoledì 26 dicembre 2012

Ai confini della realtà - Registi vari (1983)

(The twilight zone: the movie)

Visto in DVD.

Ispirandosi all'omonima serie quattro grandi registi decidono di rendergli omaggio in un film corale, una serie di episodi presi dal grande telefilm degli anni '50; unica eccezione il primo episodio diretto da Landis che è un'idea originale solamente ispirata alla serie televisiva.

Il primo episodio “Time out” diretto da John Landis è il motivo per cui ho visto solo ora l’intero film; anni fa mi fermai a questo spezzone e non riuscii ad andare oltre. La storia di un uomo razzista che salta indietro nel tempo e prende le vesti di un ebreo durante il nazismo, un nero cacciato dal KKK e un vietcong durante la guerra è sinceramente poco fantasiosa, poco interessante e tanto scontata. La regia di Landis si adatta alla nullità del progetto e ne viene fuori un cortometraggio oltremodo noioso.

Il secondo episodio, “Il gioco del bussolotto”  diretto da Spielberg parla di un ospizio in cui alcuni ospiti, nottetempo, divengono nuovamente bambini e potranno scegliere in quale realtà rimanere. Un cortometraggio di per se carino, diretto con il solito carisma e la solita empatia dal miglior regista che abbia anche un cuore in tutta Hollywood. Nel progetto complessivo però anche questo episodio stona, sembra un’aggiunta postuma che non dice niente di più a quanto già espresso dalla serie.

Il terzo episodio, “Prigionieri di Anthony”  è quello di Joe Dante e qui si che si ragione. Una donna accompagna a casa un bambino che è stato coinvolto in un incidente, entrerà a far parte del gioco di un mostro dai poteri enormi. Questo episodio è senza dubbio il migliore dell’intero progetto; la storia è la più aderente con lo spirito di un Rod Serling se avesse continuato a lavorare fino agli anni ’80. Ma ciò che vince è la realizzazione. C’è poco da fare, Dante rimane l’unico a saper gestire perfettamente un horror per ragazzi, un incubo in cui ci si diverte anche. La continua commistione fra cartoni animati e realtà rubata a quel mondo è perfetta in ogni momento, gli effetti speciali (animatronix) sono di livello incredibile. Infine tutte le componenti del racconto, l’ironia, l’inquietante, il cartoonistico e il film per regazzini, sono miscelate in maniera perfetta. Un film da recuperare anche da solo.

L’ultimo episodio, “Terrore a alta quota”, quello di Miller, è ormai un punto di riferimento pop. È la storia del gremlin che distrugge l’ala dell’aereo durante un volo. Il film è assolutamente ben riuscito, anche questo abbastanza in linea con l'atmosfera di base di “Twilight zone” , solo resa in maniera più horror, con una tensione duratura, una realizzazione impeccabile (ancora una volta gli effetti speciali anni ’80 che vincono alla grande) e una regia all'altezza del compito. Un altro ottimo episodio.

A fare da incipit è un episodio diretto anch'esso da John Landis che introduce bene, calandosi lentamente nel clima, mentre cita apertamente la serie originale. 

lunedì 24 dicembre 2012

Rapsodia ucraina - Sergei Parajanov (1961)

(Ukrainskaya rapsodiya)

Registrato dalla tv, in lingua originale sottotitolato in italiano.

Uno degli ultimi film di Parajanov dallo stile apertamente realista. La storia è quella di una ragazza ucraina che sta tornando in treno nel suo villaggio dopo aver vinto una competizione canora a Parigi; durante il ritorno ricorda la sua vita, dalla gioventù in campagna, l’amore per un ragazzo e poi al guerra, lui fatto militare ed inviato in Germania, le prima al conservatorio, poi arruolata nella croce rossa. Giunta alla fine del viaggio scoprirà che sullo stesso treno viaggiava il suo innamorato appena liberato dalle carceri tedesche.

Il film è decisamente un realismo sovietico propagandistico (c’è tutto il necessario, una glorificazione della campagna, dell’esercito, della bellezza e delle capacità dei russi, ecc…) e decisamente stucchevole in moltissimi punti… eppure il film non è malvagio; Parajanov utilizza questo film come materia propria e si mette a muoversi con una macchina da presa che ricorda molto da vicino quella degli Avi dimenticati (per esempio nella scena a Berlino con la lunga carrellata tra i venditori per strada) con panoramiche che avvolgono, ma soprattutto credo sia merito suo l’utilizzo così sentimentale delle scene con le parti musicali. Si la musica qui regna su tutto, in un certo senso potrebbe essere un mezzo musical con musica classica; ma come dicevo le parti migliori sono quelle in cui il regista unisce alle arie delle sequenze sinergiche (su tutte la sonata al chiaro di luna nel teatro distrutto con il fuoco che si riflette sul pianoforte e l’Ave Maria mentre Anton, il coprotagonista, perde i sensi nella chiesa), dando vita a piccoli capolavori di poesia che, col senno di poi, fanno presagire quello che avverrà di li a pochi anni.

Da sottolineare che ci sono anche alcuni momenti tutt'altro che scontati sul tentativo di comprensione dei tedeschi da parte di Anton (paragona la sua vita distrutta con la città di Berlino sventrata dalla guerra; si chiede “Ma Beethoven era tedesco anche lui”, ecc).

Di fatto, il film realista smussa le difficoltà di trama che rendono ostici i film più personali di Parajanov, mentre lo stile del regista rende godibile un’opera altrimenti soporifera.

venerdì 21 dicembre 2012

Ashik Kerib, storia di un ashug innamorato - Sergei Parajanov, Dodo Abashidze (1988)

(Ashug-Karibi)

Registrato dalla tv in lingua originale sottotitolato.

Dopo la fortezza di Suram Parajanov realizzò il suo ultimo film. Questo Ashik Karib è la storia sempre più fiabesca di un giovane nullatenente che vuole sposare la figlia di un uomo ricco, l’uomo che no vuole dargliela in moglie gli richiede di provare a fare fortuna e tornare ricco anche lui, solo allora si potranno sposare.

Il film elimina nuovamente i movimenti di macchina in favore di una costruzione delle immagini più ricercata, ma a differenza del precedente la realizzazione è meno ricca e meno intensa, ma i colori ed il folklore locale sono sempre quelli. Anche il clima fiabesco rimane intatto, ma viene persa molta della poesia, puntando più sull’impatto visivo meno sui sottotesti, inoltre spinge in molte scene (tutte quelle con il sultano) sul macchiettistico e sulla satira. Infine anche la storia è presentata in maniera ancora più spezzata delle opere precedenti, puntando tutto sull’effetto scenico e rendendo ancora più ostica la fruibilità del film. Tutto sommato mi pare che, pur essendo un buon film nel suo genere, sia uno dei peggiori tra quelli più personali del regista russo.

Il film è dedicato a Tarkovskiy.

mercoledì 19 dicembre 2012

Preferisco l'ascensore - Fred Newmeyer, Sam Taylor (1923)

(Safety last!)

Visto in Dvx.

Un ragazzo di provincia vuole andare nella grande città a far fortuna per poter sposare la ragazza che ama. Il tempo passa e lui rimane un inserviente in un grande magazzino, ma a casa continua a raccontare della carriera sfavillante che sta avendo. Quando al ragazza deciderà di andarlo a trovare inizieranno i guai, che lo porteranno a dover essere un apripista del free climbing urbano scalando il proprio centro commerciale.

Harold Lloyd è il terzo genio dei film comici del muto assieme a Chaplin e Keaton; eppure questo film risulta essere addirittura più godibile di alcune opere di Buster.

Lloyd è, come i colleghi dell’epoca, improntato alle gag slapstick, formatosi come imitatore di Charlot se ne discosta con il suo personaggio occhialuto per l’insistenza nel creare situazioni ambigue, in cui ciò che appare è solo dissimulato; questo film ne è la quintessenza. Se per tutta la storia il protagonista deve uscire da situazioni in cui si mostra contemporaneamente capo dell’azienda di fronte alla ragazza, ma continua a fare il suo lavoro di fronte ai superiori come nella migliore commedia degli equivoci, l’incipit dice tutto dell’idea di comicità di Lloyd. La prima scena è il giovane dietro le sbarre, corrucciato, che saluta due donne; l’inquadratura si allarga e si vede una guardia di fianco al giovane, poi arriva un prete, in distanza si vede chiaramente un cappio che dondola; poi si vede che le donne superano le sbarre passandoci di fianco ed il film rende evidente che ci si trova in una stazione dei treni, fantastico.

Infine, la lunga scalata, equivalente verticale di una corsa ad ostacoli, da la possibilità a Lloyd di creare l’immagine simbolo dell’intera epoca del muto, lui sospeso sul vuoto aggrappato alle lancette di un orologio; un’idea che sarà rubata continuamente, finanche da Futurama.

lunedì 17 dicembre 2012

L'età dell'innocenza - Martin Scorsese (1993)

(The age of innocence)

Visto in Dvx.

Continuo a sostenere che il periodo migliore (per qualità, quantità e costanza) della carriera di Scorsese siano stati gli anni ’90 (magari allungandoli dalla metà degli anni ’80); e questo film c’entra a pieno titolo.
Nella comunità upper class, estremamente chiusa, formale e snob (molto più che nella vecchia Inghilterra) della New York di fine ‘800 giunge Michelle Pfeiffer che ha lasciato il marito; problema socialmente impossibile da risolvere. Proveranno a darle una mano (sempre socialmente) la neo-coppietta formata dalla Ryder e Day-Lewis. Ovviamente quest’ultimo si innamorerà della donna e sarà un continuo inseguire e allontanarsi, perdersi e riallacciarsi fra tutti i membri della famiglia; fino al finale dove una menzogna presa per vera (e poi avveratasi) farà in modo di concludere il tutto, mentre l’intera storia d’amore sarà trasformata in una menzogna mai avverata.
In definitiva densissimo film sull'apparire declinato sotto ogni forma, dalle consuetudini, all'estetica fino al concetto di verità come superficie delle cose.

In tutto questo parlare di apparenza è evidente che Scorsese non poteva restarsene al di fuori e se Kubrick con il suo “Barry Lyndon” volle provare a ridurre un epoca in un quadro, qui il regista vuole rendere tridimensionale quel quadro (che poi vuol dire fare un film) e nel dargli profondità si muove con una mdp sinuosa, indugia sui dettagli dell’arredamento e del vestire, indugia sul cibo (mai come in questo film, costumi e messa in scena globale hanno avuto peso nella filmografia di Scorsese), mostra tutto con uno spirito documentaristico ad un passo dal voyer, ma con lo stile che gli è consueto.
Di fatto cambia poco da “Quei bravi ragazzi” a questo film, i carrelli, i colori, i dettagli, tutto è usato nello stesso modo, cambia il ritmo. In questo film Scorsese rallenta, è sempre presente, ma si muove con calma, si prende i suoi tempi, indugia sulla superficie (l’apparire). Si muove con una tale grazia che potrebbe, talvolta, sembrare assente, eppure già nei pochi minuti iniziali si vede che il film non è uno dei soliti fatti da Ivory, che c’è qualcosa in più.
Va sottolineato come tutto il cast sia impeccabile, se questo è ovvie per Day-Lewis, è meno scontato per le due comprimarie, dalla Pfeiffer anch’essa nel suo periodo d'oro, alla Ryder ormai abbonata ai ruoli di giovincella frigida in costume. 

sabato 15 dicembre 2012

I mercenari 2 - Simon West (2012)

(The expendables 2)

Visto al cinema.

Una anno fa in pochi avrebbero realisticamente scommesso sul successo di una reunion anni ’80, tamarra e fracassona; invece quel che ne è venuto fuori è stato un buon film d’azione, solido e autoriale il giusto.
Un anno dopo si son visti costretti a continuare a sbancare il botteghino, per farlo han dovuto bissare l’effetto sorpresa aumentando il cast con tutti quelli lasciati fuori l’anno precedente. Più il film si fa corale più i pezzi vengono peri volentieri, sia in termini di cast, sia in termini di qualità.

Quello che in definitiva ne vien fuori è un film dalla storia ancor più esile della precedente, che mette dentro tutto ciò che fa standard americano con un profluvio di pallottole sprecate. Ciò che bisogna giudicare però non è questo, è se tutto questo sforzo rende oppure no.

Inutile dirlo, rispetto al precedente questo è un film misero… tuttavia ciò che vien perso in credibilità viene guadagnato in mitopoiesi dei suoi protagonisti; il film nel calarsi addosso ai suoi 4 o 5 protagonisti principali, nel costruirsi intorno a loro con l’unico scopo di fare un qualcosa di cazzaro, ma figo, rende benissimo.

Le pacche son poche (quelle vere), quel poco che c’è è decisamente accettabile; le sparatorie non si contano e soddisfano. Ma ciò che vince è il corollario. Jean-Claude Van Damme torna alla ribalta facendo un villain (che per non rischiare d’essere troppo criptici han deciso di chiamare Vilain) dark, figo e assolutamente credibile, direi di più JCVD vince come miglior scoperta del film, recita decisamente in parte dall'inizio alla fine. 
L’incursione a metà film di Chuck Norris è tutto ciò che si poteva desiderare; improvvisamente sembra tutto perduto per i buoni; delle mitragliate misteriose risolvono ogni problema, dal nulla spunta lui, Chuck, si presenta, fa una battuta presa dall'internet e se ne va senza dare spiegazioni; l’incarnazione del deus ex machina non poteva essere più adatta; il cameo definitivo, la comparsata perfetta. 
Poi il finale… ecco ci sarebbero tantissime cose per cui criticarlo (tra cui il ritorno di Chuck Norris che un po’ rovina la scena precedente)… tuttavia io li capisco gli sceneggiattori; hanno 12 prime donne da accontentare, hanno mille citazioni di film d’azione da fare, debbono fare alcune scene di pacche che facciano ridere, altre scene di pallottole a vendere che facciano figo e solo pochi minuti per farlo… che fai? O lo fai bene (ma è impossibile), o lo fai male (ma è uno spreco) o lo fai scemo. Ed ecco quindi il più strepitoso finale dadaista di sempre, succede di tutto, senza alcuna continuità, tutto è sempre eccessivo e fuori luogo, eppure coeso, la sospensione dell’incredulità viene presa a calci nel culo e ci si diverte un casino a vedere uno Schwarzenegger più invecchiato che mai, che fa il duo comico con un Bruce Willis a cui luccicano gli occhi a tenere in mano una pistola in mezzo a quel casino; ti godi Norris che fa volare uno dalla finestra dell’ottavo piano e poi in un guizzo di precisione professionale gli spara pure che non si sa mai; si apprezza lo sforzo di quella coppia di neopensionati del finale che ci provano a tirarsi pacche vere; e le cose da dire sarebbero ancora mille… Questo non è un bel film d’azione, ma per chi ama il genere, questo è l’equivalente de “Le balene d’agosto” per il cinema della vecchia Hollywood o "La casa dalle ombre lunghe" per l'horror classico.

mercoledì 12 dicembre 2012

La leggenda della fortezza di Suram - Sergei Parajanov (1984)

(Ambavi Suramis tsikhitsa)

Registrato dalla tv, in lingua originale sottotitolato.

Nel 1968 Parajanov realizzò “Il colore del melograno”, considerato il suo capolavoro, opera in cui estremizzò il suo stile fiabesco. Questo cambio di marcia, nonché un’aperta opposizione al regime (sarà firmatario di una protesta contro l’arresto di alcuni intellettuali) lo portò a non avere più il permesso di girare fino al 1984 (con un periodo di detenzione in un campo di riabilitazione), quando riuscì a portare al cinema questo film.

Un uomo abbandona la donna amate per fare fortuna in terre lontane, giungerà con un mercante, anch'esso con un passato di fuga, riuscirà nel suo intento e si unirà ad un’altra donna da cui avrà un figlio. A distanza di anni il suo primo amore, ormai avvizzito diverrà un’oracolo molto quotato a cui si rivolgerà anche il re per sapere come può riuscire a mantenere in piedi la fortezza del titolo, che si ostina a crollare rendendo deboli le sue difese; la donna suggerirà di murare viva una persona all'interno delle mura, il figlio dell’uomo che lei amò un tempo (il figlio che lei non ha mai avuto) si offrirà d’essere lui la vittima.
Un dramma storico, come sempre intriso di folklore locale, ma con una cadenza ed un respiro ampio da tragedia greca.

Per lo stile invece, questo film condensa in parte quanto già detto per “L’ombra degli avi dimenticati”, ma sembra essere più geometrico, più stilizzato; la costruzione delle inquadrature è più ingegneristica che poetica e molte sequenze sembrano ridursi a spezzoni teatrali… spezzoni teatrali pieni del simbolismo criptico di Lynch e dell’onirismo di Fellini. Inoltre la storia si muove in maniera più caotica del precedente (che comunque lineare non era) e non essendo mitigata da scelte estetiche potenti come quelle troppo spesso traspare quello che è il rischio principale nel cinema di Parajanov; la noia.

lunedì 10 dicembre 2012

Le ombre degli avi dimenticati - Sergei Parajanov (1964)

(Tini zabutykh predkiv)

Registrato dalla tv, in lingua oroginale sottotitolato.


Gli anni ’60 sono stati un periodo nella cinematografia sovietica in cui la sperimentazione ritornò a farla da padrone e, forse per reazione al realismo sovietico o per altre dietrologie possibili, in cui il metafisico, il fantastico, il poetico sono stati la grande novità. Il nome che viene subito in mente è certamente quello di Tarkovskiy. Il secondo però dovrebbe essere Parajanov (traslitterato anche come Paradzanov).

Parajanov, nasce come regista di regime negli anni '50; divenne responsabile di una serie di opere realizzate nel classico realismo sovietico, con alcuni personalismo. Sarà solo nel 1964 con questo film che Parajanov, prendendo come scusa il centenario dello scrittore Kocjubinskij, metterà in scena una sua storia in una versione fiabesca intrisa di folklore locale che nulla avrà a che fare con lo stile del regime. Il film sarà ostracizzato e sarà messo in difficoltà nella distribuzione incassando pochissimo.

La storia è il racconto di un’amore fra un uomo e una donna, cominciato in maniera burrascosa durante l’infanzia e coronato con il matrimonio nell'età adulta. Però la donna morirà in un incidente. Dopo anni di doloroso peregrinare l’uomo si risposerà con un’altra donna, senza però condividerne mai una relazione vera e propria, senza più essere felice. La gioia tornerà solo con la morte.

Parajanov è un visionario fantastico. Un estremista nei movimenti di camera; fa quello che farà 20 anni dopo Kubrick senza avere una steady cam; si muove in ogni direzione possibile (letteralmente) e di continuo. Mette in scena per visioni, per impatti visivi, costruisce scene che sono quadri o piccole opere teatrali o balletti. Ma ciò che più di tutto entusiasma è la costruzione di sequenze in cui ciò che viene mostrato suggerisce qualcosa più che farlo vedere direttamente (la sequenza del tradimento della moglie con l’uomo che doma la tempesta e l’albero che prende fuoco; in maniera più tecnica e meno poetica la scena in cui il marito scopre il tradimento spiando da dietro un muro di legno), in queste situazioni le tecniche del regista si uniscono per creare scene di un notevole impatto e di una poetica estremizzata.
Per avere un’idea dello stile di regia basti guardare l’incipit che dalla caduta dell’albero fatta in soggettiva, alla carrellata sui vari personaggi che affollano l’esterno della chiesa (una delle “carrellate” più dinamiche ed efficaci che abbia mai visto) e poi l’interno con il funerale (esattamente all'opposto con una perfezione formale geometrica). Per avere un’idea della poetica invece è sufficiente la scena finale in cui i due innamorati si incontrano dopo morti, una serie di carrellate laterali sui volti dei protagonisti che fluttuano in una foresta di betulle, i visi dei due innamorati sono color argento come la corteccia degli alberi. Perfetto.

sabato 8 dicembre 2012

I 27 giorni del pianeta Sigma - Wialliam Asher (1957)

(The 27th day)

Visto in Dvx, in una pessima versione registrata dalla tv.

Cinque uomini scelti a caso (ma con una netta preponderanza europea e nessun campione dall’Africa) vengono portati su una nava spaziale da un alieno che (cosa buffa) non vuole distruggere la terra per conquistarla perchè la sua moralità non permette di uccidere esseri superiori, da invece a tutti loro un astuccio con dentro alcune capsule, ognuna delle quali può uccidere milioni di persone senza fare alcun danno a nessun altro. Se in 27 giorni non si ammazzeranno fra loro andrà a cercarsi un altro posto da non conquistare, sennò si insederà li con la sua civiltà dalla moralità superiore.
Onestamente la strampalata premessa è un evidente figlia degli anni in cui è stato fatto il film; la guerra fredda non rimane solo un sottotesto perché tutto si gioca con il fatto che tre astucci sono al di qua e due al di la dalla cortina. Il film però punta solo su questo, su una sfida al noi e loro in un mondo dove i cinque personaggi scelti a caso sono così puri di cuore da non voler far del male neppure indirettamente. Peccato, perché invece che una sorta di crisi cubana con armi più potenti, il film poteva essere declinato in un gioco di paure e astuzie reciproche.
Il finale poco sensato innestato su un impianto appena appena sensato non aiuta.

giovedì 6 dicembre 2012

Fur: un ritratto immaginario di Diane Arbus - Steven Shainberg (2006)

(Fur: an imaginary porttrait of Diane Arbus)

Visto in tv.

La storia della fotografa Diane Arbus, nata e vissuta in una borghesissima famiglia anni ’50 e del suo lento scoprire un’attrazione piena di pietas e empatia verso i diseredati, i diversi ed i freaks; un’intesa che si spingerà fino all’innamoramento vero e proprio di un uomo ipertricotico che c’ha pure dei problemi polmonari…
Il film è un’opera esteticamente impeccabile protesa verso il riarrangiare il già visto in una storia di amore del diverso in senso letterale. Se è ovvia la similitudine con “La bella e la Bestia”, meno ovvia, ma molto rimarcata è la citazione insistita di “Alice nel paese delle meraviglie” (il coniglio bianco, il te, la porta minuscola, ecc…).
Come dicevo il film è esteticamente impressionante, tutto giocato con inquadrature geometriche estremamente belle, colori sempre netti e una carrellata di costumi da Hollywood classica. Nicole Kidman è bravissima anche se era ancora nella fase di recitazione con agnizione obbligata e tutto il film le gira attorno; Downey Jr è bravo, ma di fatto non è che debba recitare troppo e fare eccessivi complimenti al suo linguaggio di corpo e sguardo mi pare esagerato.
In definitiva un film perfetto sotto ogni punto di vista tecnico, ma glaciale più del marito della protagonista, gelido nel suo non trasmettere nulla, un giocattolo bello, ma vuoto, che usa a mani basse i freak per creare una sorta di ambiente burtoniano (o browningiano), ma senza capire cosa farsene e li mette li, come mobilio gotico e si accontenta di fare l’ennesimo film con una bellissima Nicola Kidman che trattiene a stento le lacrime. Ecco tra i film di questo genere direi che è uno dei migliori…

lunedì 3 dicembre 2012

La serpe di Zanzibar - Tod Browning (1928)

(West of Zanzibar)

Visto in Dvx.
Un clown viene tradito dalla moglie che fugge con un altro uomo verso Zanzibar, nella colluttazione che precede tutto ciò il clown viene reso paraplegico. Anni dopo la moglie torna dall’ex marito in tempo per morirgli tra le braccia; ovviamente giura vendetta. Il clown, ormai molto meno allegrone di prima, si trasferisce a Zanzibar dove sottomette una tribù locale con l’utilizzo della magia e ordisce una complicata vendetta nei confronti dell’uomo che gli ha rovinato la vita, rapendo e traviandogli la figlia.
Film cupissimo e incredibilmente complicato, con una serie di colpi di scena valevoli oltre ogni dire. Diciamolo subito affinché non ci siano rimostranza, le tribù locali sono trattate in maniera macchiettistica oltre l’accettabile, i cambiamenti morali del protagonista appaiono comunque troppo repentini; e nel complesso questo non è uno dei migliori film di Browning.

Tuttavia questo film vince proprio dove il regista sa lavorare meglio. Vince nelle atmosfere umide e malate di Zanzibar, nello sporco che traspare dai volti disperati dei personaggi, nella storia di perdizione reciproca che forse è la più estrema mai realizzata… infine vince con il protagonista. Si sa, Lon Chaney non sarebbe nessuno senza Bronwing, ma Browning non sarebbe nessuno senza Lon Chaney. In questo film l’attore da vita ad una delle sue prove migliori (un encomio va comunque fatto anche al resto del cast decisamente all’altezza), con una recitazione a tratti naturalistica, a tratti esagerata al punto da trasformare il volto in una maschera ghignante; e se Chaney era abiutuato a trasformarsi letteralmente nei suoi personaggi, qui il lavoro sembra minore, recita senza trucchi, ma finge una paraplegia che applicata al suo corpo lo trasforma in una animale, in un essere strisciante, lo trasforma nella rappresentazione medievale di un demone. Qui Lon Chaney recita con il viso e con il corpo in maniera separata, ma sinergica. Bravissimo.

venerdì 30 novembre 2012

Ubriaco d'amore - Paul Thomas Anderson (2002)

(Punch-drunk love)

Visto in tv.

C’è poca storia in questo film. Un impressionante Adam Sandler è un svampito ragazzone con problemi d’ansia e d’insicurezza circondato da un nugolo di sorelle; cerca la fuga in concorso a premi e in una linea erotica, finché non incontra l’amore. Tutto migliora all’improvviso finché i nodi non giungeranno al pettine. Ma c’è l’amore nella sua vita e saprà districarsene.

Storia poco influente sul film che è in realtà una prova di forza muscolare di un Anderson in stato di grazia. Un film del genere sarebbe cestinato da qualunque regista se si volesse davvero veicolare un messaggio o intrattenere; quello che Paul Thomas Anderson vuol fare è mostrare la sua regia e far vedere come si possono veicolare le informazioni con il linguaggio non parlato in un film.

E allora eccolo il profluvio di colori brillanti sfacciatamente rivelatori e colori al neon; ecco i piani sequenza sinuosi, i movimenti di macchina che sottolineano gli avvenimenti esposti e i carrelli fatti con il righello tanto da sembrare Wes; ecco la costruzione della scena che comunica più dell’inespressività (voluta) degli attori; ed ecco la musica che si muove quanto la macchina da presa diventando silenziosa quando non richiesta, aumentando di volume gradatamente fino ad esplodere quando necessario a descrivere una scena.
Un film tutto sommato poco godibile nel complesso perché è senza capo né coda; ma è fenomenale nel mostrare cosa si può comunicare senza parlare, un bignami di regia post moderna.

lunedì 26 novembre 2012

La pirogue - Moussa Touré (2012)

(Id.)

Visto al Festival di Cinema Africano (in concorso), in lingua originale sottotitolato.

Di fatto il vincitore di quest'anno, è il migliore di sempre ad aver vinto...
Il film è la storia di un pescatore che viene (controvoglia) assunto per portare una piroga dal Senegal alla Spagna con il suo carico di migranti.
Il variegato mondo umano che abita la piroga durante il viaggio della fortuna dovrà affrontare i limiti fisici del luogo, i limiti personali e gli incontri che faranno provocheranno non pochi problemi...
Il finale, non tragico, ma senza vittorie è il più asciutto e adatto che si potesse immaginare.

Di fatto il film meglio realizzato fra tutti quelli visti. Non avrà il coraggio d'osare (per tono e tema) di Taka takata e neppure l'innovazione di One man show; tuttavia è uno splendido film medio con tutte le sue parti ben bilanciate; vuol portare avanti una storia di esseri umani al limite e lo fa bene senza la pornografia delle emozioni degli statunitensi o l'insistenza noiosa dei film europei, queste due possibilità sono di fatto dei pregi, il fatto che manchino in effetti rende il film molto poco empatico rispetto a quanto poteva essere, un peccato. Se però questa anempatia (mi riferisco all'incontro della piroga con i motori rotti ad esempio) è una scelta, cosa possibile data l'asciuttezza generale della pellicola, complimenti per il coraggio e complimenti perchè il film scorre da dio anche senza prenderti del tutto.

Il film è stato anticipato dal corto documentario "In nome del popolo italiano", un cortometraggio che mostra un CIE da dentro. Di fatto non denuncia nulla, non spiega nulla dei perché ci si finisce, dei motivi, dei tempi, delle leggi; non è questo lo scopo. Lo scopo è solo mostrare che ci sono e far vedere cosa sono. Niente di più; e funziona.

venerdì 23 novembre 2012

One man show - Newton I. Aduaka (2010)

(Id.)

Visto al Festival di Cinema Africano(in concorso), in lingua originale sottotitolato.

Un attore ammalato di cancro deve fare i conti con il proprio passato diviso fra il teatro, tre donne che ha amato in maniera diversa ed un figlio abbandonato.

Film estremamente interessante, nato in maniera convenzionale, ma completamente stravolto (a detta del regista) dalle continue improvvisazioni del protagonista e realizzato con una macchina a mano sul modello europeo. Interessante dicevo e assolutamente non facile per l'intento di raccontare il percorso di quest'uomo (scandito dai quattro capitoli in cui è suddiviso il film) in maniera non lineare, con uno sguardo (ancora una volta) molto europeo nella messa in scena e nel ritmo. Ovviamente il film è lento, fatto di lunghi silenzi e parti di improvvisazione folle che renderebbero ostico pure un cartone della Disney. Detto in poche parole il film può annoiare (mi sono ritrovato diverse volte a guardare l'orologio); ma, dopo averlo visto, quando il tempo passa alcune di quelle sequenze particolarmente tediose crescono e acquistano un senso sempre maggiore (personalmente, a parte tutte le scene girate in teatro che assumo un senso nel breve capitolo finale, la scena che preferisco è il lungo discorso fra il protagonista che avverte del cancro la madre di suo figlio, molti silenzi, molti fuori fuoco, molte lacrime trattenute).
Ripeto, può non piacere, ma questo film è un esperimento, e sotto questo punto di vista vince decisamente.

PS: cast di livello superiore.

Il film è stato anticipato dal corto (che con i suoi 40 minuti è decisamente un mediometraggio) intitolato "Jamaa". La storia di due bambini rimasti orfani della madre che cercano di raggiungere la zia portandosi il cadavere in una bara improvvisata. Un film di sentimenti assolutamente non grottesco, girato con molte sequenze oniriche (esteticamente bellissime, realizzate da dio) e con un andamento anch'esso oniroide che sembra prendere spunto da Pinocchio, Alice e tutta quella letteratura per l'infanzia fatta di fantasia realizzata. Il corto più bello visto quest'anno ed uno dei migliori di sempre.

giovedì 22 novembre 2012

The last fishing boat - Charles Shemu Joyah (2012)

(Id.)

Visto al Festival di Cinema Africano (in concorso), in lingua originale sottotitolato.

Dal regista del terribile "Season of a life" un film sul rapporto, per dirla nel senso più vasto possibile, fra moderno e tradizionale. In un villaggio del Malawi si mischiano le vite di un "anziano" pescatore che non vuole rinunciare al lavoro di famiglia, di suo figlio prostrato verso il turismo occidentale fino al punto di prostituirsi, la terza moglie del pescatore giovane tentata sia dal figliastro che da un turista inglese ed infine proprio la coppia di inglese che se la vedranno con la loro infantilità, i rapporti di coppia e la violenza.

Il film si apre con alcune delle immagini più pulite che sia siano mai viste in questo festival, si vede la parziale amatorialità, ma la qualità dell'immagine è impressionante. E con questo ho finito i complimenti.

Per il resto questo è un film pretenzioso e ottuso, che vuol fare di tutto senza arrivare in fondo a nulla, con uno script che rasenta il ridicolo e un cast non adatto (ma questo sarebbe il meno).

Andiamo con calma. La trama. La trama vorrebbe parlare in contemporanea del turismo occidentale gradasso e miope, del rapporto di mutuo sfruttamento fra turisti e popolazione locale, di rapporti famigliari al limite, dello scontro fra modernità e tradizione, dell'impossibilità a raggiungere un equilibrio e una felicità nel mondo d'oggi, fa una (demagogica e didascalica) apologia della poligamia... che altro, forse anche un mezzo trattato della vita di coppia, dell'omosessualità ecc... Di fatto troppe cose tutte insieme, nessuna che riesca ad arrivare ad una conclusione o a chiudere un discorso sensato. Inoltre il racconto è proprio realizzato male, con un cast corale che non è mai equilibrato, inizia con un protagonista assoluto che poi scompare e ne arriva un altro, poi scompare  ne arriva un terzo, poi torna il prima ecc... C'è anche parecchia confusione nel tentare di fare in contemporanea un racconto universale, ma con personaggi estremamente particolari; inoltre si cercano i virtuosismi nella storia (il curioso equilibrio di personaggi nel finale con le due coppie che si dividono, si incrociano, si scambiano fino allo show down nella camera d'albergo).

Poi la sceneggiatura è proprio scritta da un uomo con dei problemi. L'idiozia dello script credo sia riassumibile in una scena: la coppia inglese è a letto, lui dorme e sogna della donna africana di cui si è innamorato, mugugna nel dormiveglia, la ragazza inglese lo sveglia dicendogli "Cosa stai facendo?! stai facendo sesso in sogno vero?!"... WTF!

Che altro c'è, il didatticismo dei dialoghi "colti" che si vogliono mettere, la noia complessiva dell'operazione, gli evidenti problemi di montaggio da terza media e un senso complessivo di "voglio fare un'opera profondissima perché sono estremamente intelligente" completano un quadro già misero di suo. Si insomma, se è comprensibile la mancanza di mezzi, è intollerabile la supponenza in presenza di così tanta povertà d'idee.
Decisamente il film peggiore della rassegna (pur senza averli visti tutti).

Il film è stato anticipato da un corto "Eembwiti", anche questo sul rapporto fra moderno e tradizionale; raccontando la storia di due ragazzini che non capiscono le usanze della nonna, ne deridono gli usi e si fanno detestare da tutti... Di fatto niente di che, più che esserci una vera e propria storia è solo il mostrare una giornata dove succede tutto, non ci sono tentativi di sincretismo, di comprensione o anche solo unos viluppo drammatico, è una sorta di filmino delle vacanze con scene utili sono a sé stesse. Il tocco piacevole è dato dall'inquadratura di alcuni dei tramonti più belli e vividi di sempre.

mercoledì 21 novembre 2012

Taka takata - Damir Radonic (2011)

(Id.)

Visto al Festival di Cinema Africano (in concorso), in lingua originale sottotitolato.

Una parrucchiera ha finanzia la squadra di calcio di strada dove gioca il marito. Visto che sono abbonati alla sconfitta chieda al fratello rastafariano per passione di andare in Brasile a acquistare un giocatore delle favelas (visto che là sono tutti dei campioni e nelle baraccopoli saranno campioni a basso costo). Rasta (si fa chiamare così il fratello) cerca di aumentare i soldi che la sorella gli ha prestato facendosi coinvolgere da un suo amico in un affare di orologi contraffatti presi in Mozambico; li si incroceranno con un giocatore in fuga da una banda criminale... visto che in Mozambico parlano portoghese come in Brasile il gioco è semplice. Dopo aver preso l'attaccante brasiliano metteranno sotto contratto anche un allenatore Serbo (visto in una pubblicità televisiva) che spiegherà i trucchi del calcio insegnando a ballare...

Commedia demenziale sudafricana, ma con regista croato, che fonde fin da subito stilemi statunitensi (i rimandi sono compresi tra i classici buddy movie ai fratelli Coen con pure qualcosa di "The snatch") con idee balcaniche (il ritmo alla Kusturica che assume il film quando arriva il personaggio dell'allenatore e la fusione fra musiche africane con quelle brasiliane e dei balcani) in un ambiente totalmente a sé.

Il film è decisamente divertente e si basa su un misto di comicità e sulla costruzione di persoanggi macchiettistici, ma ben strutturati, che si fanno ricordare a lungo (su tutti Rasta, l'allenatore Sava, ma anche Pico, il giocatore del Mozambico). Inoltre il cast è assolutamente adeguato, con alcuni interpreti davvero notevoli.

Pure i difetti sono evidentissimi fin da subito. Il film ci impiega ad ingranare e complessivamente le scene nel commisariato non sono niente di che. Il finale è un pò troppo rapido (ma effettivamente funziona bene). Ma soprattutto, il grandissimo problema è che Radonic ha la passione per una regia dinamicissima (il che è positivo) che realizza con alcune ripetizione di singole azioni assolutamente irritanti che non aumentano l'ironia di una scena e non sottolineano momenti importanti, sono lì solo perché fanno figo e invece disturbano tantissimo; senza di queste scene il film sarebbe fantastico; con questa scelta estetica idiota il film riesce comunque a rimanere decisamente buono.

Il film è stato anticipato da un corto "Soubresauts", la storia di una possibile violenza su una ragazza tunisina e delle reazioni della madre (e del fratello) a questa notizia. Questo è, al momento, il cortometraggio più bello, realizzato da un cast all'altezza (l'attrice che interpreta la madre fa praticamente tutto); intelligente nel parlare del problema senza piagnucolii inutile (viene scelto di mostrare la madre come protagonista eliminando quindi il rischio di cadere nel banale concentrandosi sulla figlia ferita); viene utilizzata una camera a mano molto più alla Aronofsky (che si concentra nel seguire in maniera pedissequa la protagonista mettendola al centro di ogni scena) piuttosto che sull'ecquivalente europeo; infine ci sono alcune sequenza decisamente intelligenti, tutto l'incipit è gioca a mostrare gli effetti, ma mai l'azione che li ha causati (il film inizia con la madre che interroga la figlia brutalzizata, ma non si sa cosa sia successo, cosa sia stato detto o fatto prima; subito dopo c'è una sequenza con la madre in lacrime e della cameriera che raccoglie un bicchiere rotto, senza che si sia visto altro).
Un corto fantastico.

lunedì 19 novembre 2012

Medici con l'Africa - Carlo Mazzacurati (2012)

(Id.)

Visto al Festival di Cinema Africano (fuori concorso).

Un documentario sull'attività del CUAMM, una delle più vecchie (se non la più vecchia) ONLUS in campo sanitario del mondo, ma nello stesso tempo una delle meno note al grande pubblico. I Medici con l'Africa CUAMM sono un gruppo che si occupa del sostegno del sistema sanitario locale in alcuni stati subsahariani con progetti sanitari che vanno dall'esportazione di personale sanitario, alla formazione di personale in loco, dal reperimento di fondi, alla strutturazione di progetti igienico sanitari di base.

Il documentario si avvale di un regista esperto come Mazzacurati e del migliore direttore della fotografia attualmente operante in Italia, Luca Bigazzi. Inevitabile quindi che il risultato sia positivo.
Le immagini son o effettivamente più curate della media degli altri documentari (anche di quelli decismante più costosi come quelli di Moore), perchè il cast tecnico è abituato a lavorare con film di fiction, cosa evidentissima nell'incipit a Padova dove le scene sembrano effettivamente l'apertura di un film tout court.

Nella struttura invece si tenta di un'obbiettività impossibile in un documentario del genere; ma gli va concesso il tentativo di diminuire al minimo la demagogia e le scene strappalacrime; nello stesso tempo viene dichiarato apertamente che nessuno li è un eroe per ciò che fa e la regia sembra indugiare parecchio sui lati umani e, talvolta, sulle debolezze di chi parla (toccando l'apice, e quindi facendo il giro e rendendoli eroici, la coppia con lei clinica e lui chirurgo colpito da un ictus, ma ancora in Mozambico nonostante tutto).

Non sarà una pietra miliare, ma è decisamente un ottimo documentario.

Il film è stato anticipato dal corto "Shema". La produzione è la stessa di "Lyiza", altro cortometraggio con cui divide pregi e difetti, tranne l'incomprensibilità della storia. Fortunatamente "Shema" si capisce e il vantaggio non è indifferente. Quello che però più conto è l'idea produttiva alla base di entrambi; il progetto, nato in Ruanda, prevede la realizzazione di una serie di cortometraggi sugli effetti del genocidio ruandese; un tentativo di scendere a patti con il proprio recente passato decisamente encomiabile, che travalica la qualità delle opere stesse. Il fatto che ci sia sempre una certa attenzione per le inquadrature comunque non guasta.

domenica 18 novembre 2012

Nairobi half life - David Gitonga (2012)

(Id.)

Visto al Festival di Cinema Africano (in concorso), in lingua originale sottotitolato.

Un ragazzo della provincia keniana che sbarca il lunario vendendo dvd contraffatti e interpretando i film che vende per attirare più compratori (a quanto pare piuttosto scarsi) si lascia convincere con (palesi) menzogne ad andare a Nairobi a cercare fortuna come attore. Come arriverà nella capitale verrà derubato di tutto, verrà arrestato per sbaglio e dovrà pure pulire i bagni della prigione. Proprio in prigione conoscerà la persona che lo introdurrà nel circuito della piccola malavita locale, mentre lui farà di tutto per diventare un attore di teatro.

Tykwer si trova nuovamente (come già con Soul boy) nei panni di produttore per un film keniano. La Germania sembra abbastanza interessata a dare una possibilità a giovani registi locali dando loro mezzi, knowhow e un trampolino di lancio. E anche stavolta riesce ad azzeccarci abbastanza visto che questo film risulta essere il primo prodotto in Kenya ad essere preso in considerazione per la corsa all'Oscar come miglior film straniero. Staremo a vedere, ma intanto complimenti a Tykwer.

Il film è decisamente ben scritto e (abbastanza) ben interpretato che si muove con una certa capacità in una trama tutto sommato articolata; riesce a comporre un ottimo discorso sul cinema stesso (il monologo teatrale finale) mentre mette in scena contemporaneamente un racconto di formazione all'americana e uno spaccato sociale condito con un poco di humor... Forse manca un po del ritmo che sarebbe stato necessario, ma la vera mancanza è la parte comica, se quello humor fosse stato spinto oltre con tutta probabilità avremmo ora la miglior commedia all'italiana prodotta fuori dall'Italia.

Gitonga, il regista (già assisente di regia in The first grader) è qui alla sua opera prima... e putroppo si vede, nonostante i mezzi a disposizione la fotografia è molto lasciata a se stessa (esattamente all'opposto rispetto a Soul boy) e lascia scorrere senza prendere posizione molte scene che avrebbero potuto essere dei capolavori di regia...

Il film è stato preceduto dal corto "Lyiza", un film su una coppia di studenti della stessa classe, ma figli, rispettivamente, di vittima e carnefice di uno dei tanti delitti perpetrati durante la guerra civile ruandese... Alla fine un film amatoriale con i soliti fruscii nell'audio, gli attori con gli occhi sgranati e la trama sospesa tra la noia e la incomprensibilità. La regia però, nel suo piccolo, si salva.

sabato 17 novembre 2012

The first grader - Justin Chadwick (2010)

(Id.)

Visto al Festival di Cinema Africano (fuori concorso), in lingua originale sottotitolato.

Nel 2003 le scuole elementari, in Kenya, diventarono gratuite per tutti i cittadini. Un ex combattente Mau Mau di 84 anni decide di imparare a leggere per poter capire da solo cosa c'è scritto in quella lettera inviatagli dal governo del Kenya. Fra razzismi tribali, retorica politica, gestione dei fondi e dei beni, nonchè la cocciutaggine del personale, il vecchietto riuscirà a superare tutti gli ostacoli posti sul cammino.

Film d'effetto realizzato con mezzi adeguati che sembra pensato per un pubblico giovane (anche se non viene detto direttamente), sospeso com'è fra l'elegia dell'istruzione e il racconto di un passato con cui ancora non si è scesi a patti. in quest'ottica il film diventa un'intelligente opera commerciale per ragazzi, densa di stimoli positivi e strizzatine d'occhio inevitabili.
Al di al di questo discorso il film è gradevole, ma non riesce a nascondere nessuna pecca, dalla sceneggiatura che vorrebbe far esplodere emozioni che non riesce neppure a descrivere, o che salta direttamente da un argomento all'altro.
La regia gioca tantissimo con la messa a fuoco e fotografe bene, ma con il pilota automatico; per il resto assolutamente nella media.

Eppure l'incipit con un protagonista silenzioso che non si capisce bene cosa voglia, le cui prime parole, dopo che la direttrice della scuola gli chiede cosa ci fa li, sono "Voglio imparare a leggere". Ecco in quest'incipit c'era una potenzialità d'idee, d'intenti e di sentimenti decisamente maggiore.

giovedì 15 novembre 2012

The story of film: an Odyssey - Mark Cousins (2012)

(Id.)

Visto al cinema.

La storia del cinema raccontata dagli albori fino al futuro del cinema attuale. La trama è semplice, ma il modo di farlo è quantomai articolato per la tentacolarità dei discorsi possibili. L'idea effettivamente buona di Cousin è quella di ragionare per gruppi, raccontando non ogni dettaglio o idea cinematografica anno per anno, ma quello che si potrebbe definire lo zeigeist dei vari periodi cinematogrfici; inevitabile quindi che molti personaggi singoli, grandi, ma non grandissimi, siano rimasti fuori (Tod Browning, per fare un esempio eclatante, a cui tengo a livello personale). L'idea però premia per la maggiore concisione, la migliore discorsività nel presentare una storia complessa e poi nasconde alcune chicche (soprattutto perché spazia geograficamente ovunque).
Decisamente disdicevole a scelta di non parlare per nulla dei film di genere che non abbiano segnato un periodo storico definito. In altre parole Cousins parla del noir (e ci mancherebbe) o del gangster movie, ma non cita mai neppure un film horror o di fantascienza fino a "Ringu". Scelta opinabilissima e a cui sono molto contrario, ma che rientra sempre nel discorso dei limiti di tempo, già così il documentario dura 15 ore...

I lati veramente negativi sono due.
Il primo è che esteticamente Cousins vuol riempiere il documentario di immagini cariche di significati, ma nons contate, non da cartolina, il che è positivo, ma sostanzialmente non rende, è troppo ripetitivo, non ha un bacino di immagini adeguato e soprattutto lo scorrere delle immagini è troppo lento.
Il secondo grande problema è che Cousins è un vecchio. Non so se anagraficamente, ma mentalmente lo è. Se il documentario funziona bene fino agli anni '80 (più o meno), con l'avvento degli anni '90 Cousins si perde e comincia a declamare opinioni personali antimoderniste come fossero verità rivelate. In poche parole presenta tutto ciò che viene "inventato" dagli anni novanta in poi come positivo solo quando si basa apertamente ad un rimaneggiamento del passato, per tutto il resto del tempo ciò che c'è di nuovo viene ignorato o sbeffeggiato. Per fare un esempio su tutto "Matrix" viene citato solo per poter dire che negli prima di lui i registi erano ancora interessati a mostrare qualcosa di meglio, ad un parlare più alto (può piacere o meno, ma è fuori da ogni discussione l'importanza di "Matrix"). C'è insomma un pò di partitismo ottuso che si poteva evitare con facilità.

Nell'epilogo poi c'è troppa enfasi che riesce a rovinare un pò tutto il mood... ancora non riesco a capire cosa volesse dire con "youtube subacqueo".

lunedì 12 novembre 2012

Skyfall - Sam Mendes (2012)

(Id.)

Visto al cinema.

Un grande film. Un film che fa il giro. Se la trilogia finora fatta con Daniel Craig partiva dalle origini, mostrava come si era formato uno 007, con questo film completa il giro e arriva all'esatto momento in cui cominciava "Licenza di uccidere" 50 anni fa.
Nell'incipit ci si trova davanti ad un James Bond mai così classico, che ha il tempo di aggiustarsi i polsini dopo essere entrato in un treno usando una ruspa. Poi il film deraglia, 007 si da alla macchia, ma Londra è messa sotto attacco, il villain di turno (senza volto per buona parte del film) vuole M. James Bond deve tornare, e tra una citazione verbale, un discorso sul tempo che avanza, una presa in giro dei cliché dei fil precedente e un graditissimo ritorno (l'Aston Martin con sedile eiettabile) si forma esattamente quell'idea di agente segreto che Sean Connery ha incarnato negli anni sessanta.

Il film che viene proposto è solido e sontuoso, con una cura maniacale per l'estetica in ogni attimo, passando dall'arredo cool di macao, all'essenzialità di Shangai, dal caos di Istanbul al primitivismo della brughiera inglese, scegliendo di volta in volta la fotografia adatta (difficile infatti dire quale sequenza sia esteticamente la migliore). Inutile negare che tutto questo non s'è mai visto prima in maniera così evidente... inutile dire che il merito è tutto di Sam Mendes. Eppure non è tutto qui. Mendes costruisce poche scene d'azione, ma tutte significative, se la prima è classicissima, quella ambientata nel grattacielo di Shangai è autoriale al massimo (citando direttamente le silhouette dei titoli di testa dei film di Bond degli anni '60), quelle finali in Scozia sono figlie dirette di "Cane di paglia".

In tutto questo si trova il tempo di riempire il film delle già nominate autocitazioni (interi titoli dei film precedenti, oggetti, personaggi), ma anche di alcuni momenti di ironia magnifici, spesso indirizzati verso la saga stessa.
E tutto questo il film lo fa mentre nel frattempo la trama porta avanti un discorso enorme sul vecchio contro il nuovo, sulla necessità del cambio della guardia, sull'anacronismo di un personaggio come James Bond.

Il film poi gode di uno dei cattivi più belli di tutti i tempi, per originalità (nella serie non in senso assoluto) e per la splendida interpretazione di Bardem (chi non è rimasto shockato dall'approccio "poco ortodosso" di Bardem con Craig legato?).

Se c'è bisogno di aggiungere dell'altro direi pure che i titoli di testa sono la versione 2.0 di quelli originali e sono (esteticamente) tra i più beli di sempre, riuscendo perfettamente a condensare l'intero film senza spoilerare nulla.

Che altro c'è? Beh, direi che ci si trova davanti al più bel film di 007 dagli anni '60 ad oggi.

sabato 10 novembre 2012

Così parlò Bellavista - Luciano De Crescenzo (1984)

(Id.)

Visto in tv...

La vita di un condominio a Napoli trascorre tranquilla fino all’arrivo di un nuovo inquilino milanese; le cose verranno fortemente scosse, soprattutto per il Sig. Bellavista, il personaggio impersonato da De Crescenzo stesso.
Che dire, niente più che un filmetto divertente che mostra una Napoli costellata da tutta la luogo comunista napolanità, che però risulta buffa, tenera ed arrogante nello stesso tempo. Dato che dietro al film c’è De Crescenzo il quadro non può che essere sostanzialmente positivo anche se non nasconde qualche critica.
Il film si lascia vedere senza pretese e con alcuni momenti riusciti, portandosi avanti da un colloquio all’altro con leggerezza; si perde in parte quando vuol fare la morale alla camorra e si perde del tutto quando si arriva all’inevitabile finale dove avviene la conoscenza, l’apprezzamento ed il sincretismo fra nord e sud.
Di fatto è un buon film senza pretese fintanto che rimane tale, nel momento in cui vuole osare crolla rovinosamente.

mercoledì 7 novembre 2012

Young adult - Jason Reitman (2011)

(Id.)

Visto in DVD.


Diablo Cody è affascinata dall’adolescenza, da quello stato intermedio dove non si è mai davvero cattivi, al massimos considerati ed egoisti, talvolta spietati (o meglio, stronzi) per reagire a ciò che si ha intorno, ma fondamentalmente buoni. Reitman invece è più attratto dall’umanità di personaggi sgradevoli trattati con ironia perché è l’unico modo per umanizzarli del tutto, gli piace mostrare che anche loro perdono, ma anche perché loro vincono sempre (o quasi). Ecco questi due (Cody e Reitman) si erano già incontrati in “Juno” dove però il regista si era limitato alla (bellissima) messa in scena di una sceneggiatura senza portarla verso la sua direzione. Per questo film invece sembrano essersi parlati ed il personaggio che ne viene fuori è un adulto disprezzabile; una donna di (mezzo) successo, bella e ricca tanto quanto è stronza, che non riesce ad accontentarsi di ciò che ha e senza rendersi conto del male che può fare e farsi si rimette alla caccia del suo ex (ormai sposato e con un bimbo) solo per principio, disposta a passare sopra qualunque cosa pur di ottenere ciò che vuole.

Il film è davvero bello; l’incipit è completamente (e commoventemente) ‘90s e introduce al classico film di Reitman, con una fotografia ed una messa in scena sempre gelide oltre ogni dire, ma impeccabile… tanto l’umanità vien fuori dalla storia. Il personaggio creato stavolta è però il vero asso nella manica; è una reginetta della scuola mai cresciuta, fuori tempo massimo, ma senza alcuna capacità (o voglia) di capirlo e per questo viene continuamente ferita; si unisce ad un suo ex compagno di liceo che all’epoca venne ferito fisicamente e si porta dietro la sua infermità con la stessa quantità di odio che ha la protagonista. Le loro solitudini si incontrano solo per sostenersi, non per completarsi, perché la protagonista insisterà nel suo piano. Nel suo modo di comportarsi c’è più stupidità che cattiveria, la stessa che si ritroverà nei comportamenti della gente che la circonda, ma che, al contrario di lei, è scesa a patti con la propria vita.


Complessivamente il film è solido come i precedenti lavori di Reitman, ma non ha le lungaggini di “Tra le nuvole”, si avvale di un cast veramente bravo (la Theron è perfetta nella parte), rinuncia all’ironia diretta (ci sono poche battute) senza togliere il grottesco. Infine il vero colpo da maestro è il finale; se nei rpcedenti c’era, sostanzialmente un ritorno allo stato precedente con la consapevolezza di aver imparato qualcosa senza per questo averne avuto dei benefici (una sorta di antimorale); qui invece il film si fa spietato e dopo un ottimo dialogo finale ritorna anch’esso allo stato iniziale, ma con la consapevolezza che quella era la vera vittoria.

venerdì 2 novembre 2012

Cronos - Guillermo Del Toro (1993)

(Id.)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Un antiquario trova uno strano strumento dentro la statua di un angelo. Mettendolo in funzione accidentalmente verrà a comprenderne la funzione; è il segreto della vita eterna creato da un alchimista secoli prima. Ma mentre si rende conto che anche questa invenzione ha i suoi effetti collaterali (ti porta a leccare il pavimento), verrà braccato anche da un anziano magnate e dal suo giovane scagnozzo (un Ron Perlman che mi sorprende sempre di più per le parti fatte in giro per l’Europa; ecco il perché del successivo protagonismo in Hellboy) che conoscono i segreti del marchingegno.

Il primo film di Del Toro ha già una serie di elementi chiave del suo cinema in divenire. C’è già l’importante componente fantasy che qui devia leggermente verso l’horror, c’è una tendenza all’infanzia come testimone degli avvenimenti (qui la nipote del nonno è una comprimaria di poco conto ai fini della storia, ma fa sempre da muta testimone a tutto ciò che accade), ma soprattutto c’è già uno spiccato interesse a creare immagini esteticamente impeccabili (la camera da letto dell’anziano magnate con la serie di angeli appesi e chiusi nel cellophane sembra un’installazione artistica contemporanea).

Peccato che nel complesso il film non renda per nulla. Il meccanismo alla base del film non mi è ancora del tutto chiaro; le intenzioni di tutti i personaggi sono elementari, ma i comportamenti mi paiono, spesso, poco spiegabili; lo svolgimento della trama è a dir poco farraginoso; ed in definitiva si annaspa nella noia.

lunedì 29 ottobre 2012

Il cattivo tenente: Ultima chiamata New Orleans - Werner Herzog (2009)

(The bad lieutenant: Port of Call - New Orleans)

Visto in tv.

Un ispettore di polizia tossicodipendente che frequenta una prostituta anch’essa con problemi di droga (ma ha anche un padre e una matrigna che non si controllano con l’alcol) si muove con disinvoltura fra indagini fatte con gratuita cattiveria, scommesse clandestine e abusi di potere oltre ogni dire. Trovandosi in difficoltà sempre maggiori dovrà ingaggiare una lotta per non affondare del tutto.
Decisamente non è un remake del film di Ferrara mancando completamente tutta la questione della redenzione. Qui si tratta solo di un documentario sulla vita del Male e basta. Il protagonista è un uomo dedito ad appagare se stesso e basta in ogni modo disinteressandosi degli altri, pertanto risulta dedito ad ogni atto abbietto, ma qui, in un film di Herzog non esiste redenzione e neppure un dio, pertanto i risultati del comportamento del protagonista sono influenzati solo da caso. Talvolta il male che Cage compie porterà risultati negativi, talvolta positivi, tutto è in preda al caos ed il protagonista s limiterà a restare il più possibile a galla.
Inutile dire che Nicolas Cage risulta grandioso nella parte.

Ciò che più fa piacere di questo film è come è realizzato. Torbido, scuro ed esteticamente esaltante; finalmente Herzog si mette all’altezza dei suoi documentari più belli (esteticamente) con un film di pura fiction. Veramente un film grandioso.

La location di una New Orleans post Kathrina è solo un modo per aumentare il senso di perdizione senza speranza e ci riesce benissimo, inserendo in maniera insistita molti rettili che, esattamente come i personaggi, risultano meri spettatori o, talvolta, vittime anch’esse di un destino cieco (quel povero coccodrillo…). Mi è invece oscuro il motivo di quei brevi inserti ironici/idioti piuttosto insistenti (la strepitosa sequenza dell’anima che continua a ballare o l’insistere sulle iguane che in realtà non esistono). 

PS: chi è quel tipo all'inizio che si è ingoiato Val Kilmer?

venerdì 26 ottobre 2012

Il primo dei bugiardi - Ricky Gervais, Matthew Robinson (2009)

(The invention of lying)

Visto in Dvx.

L’ottimo Ricky Gervais ci presenta un mondo in cui la menzogna non esiste, in cui gli esseri umani non sono fisiologicamente in grado di dire bugie e ci mostra come sarebbe la vita in quel caso (fatto salvo che la civiltà si sia comunque evoluta identica alla nostra nonostante tutto).

Che dire, nell'immediato la cosa funziona, l’effetto spiazzante dell’idea è buono, solo un po’ esagerato dal fatto che oltre a non mentire tutti parlino un po’ troppo delle cose che potrebbero omettere. Comunque sia condotto, il gioco funziona e mostra i rapporti sociali, lavorativi e famigliari come sarebbero in questo mondo fantastico… ma il gioco si rompe alla svelta; se all'inizio è decisamente originale il non sentire l’ipocrisia che tutti avremmo, dopo poco diventa ripetitivo e francamente prevedibile… Però succede che la madre del protagonista muoia e lui, per non addolorarla all'idea di un al di là inesistente si inventa il paradiso; nasce quindi la menzogna. Da qui il film cambia completamente, da una parte inizia la carriera del protagonista, essendo l’unico in grado di mentire può dire ciò che vuole, ma dato che tutti gli altri non conoscono neppure il concetto di bugia…semplicemente gli credono, qualunque cosa dica (concetto effettivamente affascinante tratto dai Viaggi di Gulliver). Anche qui il gioco è notevole, ma come tutti i bei giochi, dura poco e si ritorna alla ripetitività di prima. A ciò si può associare l’inevitabile storia d’amore in questa seconda metà a completare il quadro (non avrei mai creduto che anche Gervais ci sarebbe caduto).

In definitiva un ottimo soggetto molto difficile da rendere in una sceneggiatura… e si vede.

mercoledì 24 ottobre 2012

L'era glaciale 4: Continenti alla deriva - Steve Martino, Mike Thurmeier (2012)

(Ice age: continental drift)

Visto al cinema.

Scrat, nel tentativo di piantare la sua ghianda, causa una deriva dei continenti estremamente rapida separando all'improvviso i soliti tre (che andranno ad incontrare un gruppo di pirati) dalla famiglia del mammut.

La saga, dopo essere partita con un film tutto sommato completo di suo e reso totalmente originale dalla presenza di Scrat (un personaggio dalla fisicità e dalle dinamiche dell Looney Tunes) ha proseguito con un capitolo due decoroso e molto più rivolto verso i metodi della Disney. Con il tre hanno puntato sui regazzini con la grande moda anni '90 (ma che è un evergreen) dei dinosauri. Ora con questa (per ora) ultima fatica prendono due piccioni con una fava e alzano l'età media a cui vogliono piacere (agli adolescenti ovviamente), puntando sulla grande moda anni 0 dei pirati e contemporaneamente inseriscono anche un mini teen movie eternamente uguale a se stesso (ma che a me ha ricordato molto Bayside School).

Di fatto è proprio dai tempi della Disney più classica che non si vedeva un cartone più fieramente reazionario. In un decennio in cui le linee guida del film d'animazione non disneiano le ha introdotte Shrek (il primo capitolo intendo) rendendo d'obbligo il sovvertimento di ogni logica preconcetta; qui, la serie de L'era glaciale fa il lavoro opposto, tornando alla logica della famiglia più classica possibile e lavorando nella stessa direzione dei film di genere a cui si appoggia (come già detto il mini episodio del teen movie è talmente scontato e avrebbe potuto scriverlo chiunque).

Detto ciò il film diverte abbastanza (ci sono almeno un paio di battute fantastiche e il personaggio della nonna  bradipo che fa la differenza), intrattiene senza noia e dove perde colpi è a causa della follia di inserire una decina di nuovi personaggi in una saga che ne aveva quasi altrettanti.
Ecco dove sta il vero limite, se nel prossimo capitolo ci aggiungono qualcun altro faranno l'Ocean's eleven della preistoria.

PS: il film è preceduto da un bel corto dei Simpson con protagonista Maggie. Il perché ci sia non lo so proprio, ma bisogna ammettere che fa da perfetto contraltare essendo i Simpson uno dei cartoni animati televisivi più reazionari (pur nella loro originalità) degli ultimi anni.

lunedì 22 ottobre 2012

Chi giace nella mia bara? - Paul Henreid (1964)

(Dead ringer)

Visto in tv.

Sto per andare a letto quando accidentalmente in tv becco i titoli di testa di un film in bianco e nero; ci butto un occhio senza interesse, in maniera molto passiva. Quando compaiono i nomi di Bette Davis e Karl Malden uno dietro l’altro la curiosità mi prende prepotentemente (che film avranno mai fatto insieme quei due?!), quando finalmente vedo il titolo italiano mi rendo lucidamente conto che non andrò a dormire finché non arriverò ai titoli di coda...

Bette Davis interpreta due gemelle (!), una povera ed astiosa, l’altra svampita e ricca. La prima ama il marito della seconda che ha lasciato la prima perché la secondo era rimasta in... vabbè dai sta di fatto che per motivi lodevolissimi la Bette Davis povera uccide quella ricca e si sostituisce a lei dando vita ad una raffinata menzogna dove deve stare costantemente attenta ad ognuno; amici, parenti o servitù che sia. Tutto riuscirà abbastanza a stare in piedi fino all'arrivo dell’amante della sorella...

Ah già in tutto questo Karl Malden è un poliziotto amico/innamorato della Bette Davis povera, ma astiosa.
Personalmente sono molto affascinato della doppi (o tripla) vita artistica della Davis, da ragazzina sdolcinata degli anni trenta, a femme fatale perfida dei quaranta fino alla matrona/vecchia strega malvagissima dei ‘60s. ciò che trovo più incredibile è con che abilità e con che risultati sia sempre stata in grado di sostenere ogni parte; non è possibile dire in quale veste abbia dato il meglio, al massimo si può preferire uno dei suoi generi.
Qui ovviamente siamo negli anni sessanta e questo è un suo classico film in bilico fra normalità e follia di quel periodo. Strepitoso nel suo spirito totalmente di serie B con una realizzazione solo in parte di serie B  non raggiante per inventiva o idee di messa in scena. Ma tutto sommato qui la regia è secondaria. In primo piano c’è una storia noir solidissima e disperata  e un coppia d’attori da fare impressione a chiunque. Volendo essere completamente onesti bisogna ammettere che la Davis non è perfetta nel doppio ruolo, risultando poco veritiera nell'interpretazione della sorella ricca e, a lungo andare durante il film,  riempie di sbavature anche il personaggio principale; non vorrei sembrare un giannizzero di Bette, ma temo che la maggiore responsabilità sia del regista non del tutto in grado di mantenere sotto controllo la sua protagonista. Poi va aggiunta una regia non proprio ottimale, un uso delle musiche troppo di maniera e una serie di personaggi con una personalità tagliata con l’accetta.

Detto ciò un film che non potrà non essere amato intensamente da chi apprezza l’ultimo periodo della carriera di Bette Davis, ma continuamente in odore di anni ’50 (sarà per Malden che non sembra mai invecchiare).

PS: negli anni quaranta la Davis interpretò già la parte di due gemelle di cui una si sostituirà all’altra (post mortem) per amore dello stesso uomo; ma credo che in questo “L'anima e il volto” l’idea fosse declinata in senso romantico. Si impone il recupero.

PPS: in questo film la Davis assomiglia alla Rampling...

venerdì 19 ottobre 2012

007: zona pericolo - John Glen (1987)

(The living daylight)

Visto in tv.

Lo 007 di Timothy Dalton è molto diverso dal superuomo british originale; è molto più pacato. Decisamente ironico, ma più ombroso e meno interessato alle donne… a fatica se ne fa una in tutto il film!

L’intero film prende una piega leggermente diversa dai precedenti (si tenga presente che subito prima di Dalton c’era Roger Moore, forse più in parte, ma i suoi film hanno sdoganato l’idea che la sospensione dell’incredulità sia inutile) con un’idea di action sempre presente, ma molto più virata verso l’ironia sfociando sin dai primi inseguimenti nell’inverosimile grasso e sfacciato (fuggire sulla neve usando il contrabbasso come timone mi pare esagerato).

Nel complesso il film riesce anche a intrattenere abbastanza, con un discreto ritmo, certamente migliore del terribile “Una cascata di diamanti” (che anche lui ha rischiato di saltare lo squalo in più punti); quello che però sfugge è proprio il concetto base di James Bond, un agente segreto migliore di chiunque altro in tutto, investigazione, lotta, humor, seduzione (si insomma una sorta di Sherlock Holmes anni ’60 alle dipendenze dell’MI6). Film carino, ma fuori tema.

lunedì 15 ottobre 2012

Sud pralad - Apichatpong Weerasethakul (2004)

(Id., aka Tropical malady)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Al secondo film Joe mi sorprende nuovamente; mette da parte l’inutilità della trama casuale e costruisce una storia d’amore omosessuale tra due soldati… mette da parte l’inutilità, è vero, ma non rinuncia alla noia.
Comunque il film è girato in maniere, a mio avviso, troppo amatoriale e il ritmo totalmente assente affossa quel poco che poteva esserci… questo almeno a metà film.

Perché poi ad un certo punto, con un aggancio che non ho ben capito, nella seconda metà Joe si mette a raccontarmi della storia di un fantasma della foresta che cambia forma e che passa da cacciatore a preda di un soldato… il tutto riuscendo a mantenere il ritmo assente della prima parte. Nell’inquadratura finale finalmente Joe si decide a mostrare l’unica immagine realmente cinematografica sei suoi due primi film.

Detto ciò come va considerato un film del genere? Personalmente non ritengo vada troppo interpretato, perché credo che Joe sia più propenso ad una autorialità criptica fine a se stessa; dunque quello che rimane è solo un film doppio senza un grandissimo senso che non possiede una propria personalità cinematografica.

Bravo Joe, continua così.