lunedì 29 febbraio 2016

21 Jump Street - Phil Lord, Christopher Miller (2012)

(Id.)

Visto in DVD.

Due ex compagni di scuola (uno era il figo e l'altro lo sfigato) si ritrovano a tentare di diventare poliziotti contemporaneamente; studieranno insieme e insieme ce la faranno. Verranno ingaggiati entrambi per entrare in una scuola superiore sotto copertura per scoprire chi ha inventato e chi spaccia una nuova droga.

Ispirato all'omonimo telefilm degli anni '80 con Johnny Depp questo film spiega perché il concetto di remake è una cazzata. Prende i presupposti di allora, e poi cambia tutto, tira fuori una commedia demenziale in pieno stile bromance, ci mette una serie di autoironia circa l'idea del remake e sul telefilm stesso in un loop di metacinema che nel finale potrebbe anche creare un buco nero.
Quello che ne vien fuori è un film comico demenziale, adolescenziale nella forma, ma estremamente maturo per messa in scena e presupposti, che azzecca quasi tutte le battute all'inizio e che nel finale tira i fili di tutti i discorsi messi sul fuoco.
Utilizzando le dinamiche usurate dei generi che shakera le ribalta cercando di adattarle ai tempi attuali (i nuovi fighi non sono gli sportivi, ma gli alternativi anarcoidi vegani e politically correct).

Il piano è buono ed è realizzato anche meglio (dietro la macchina da presa ci sono i creatori di quei piccoli capolavori di comicità e anarchia di "Piovono polpette" e "Lego movie"). Tutti i suoi punti deboli (i protagonisti che sembrano quarantenni ad esempio) sono dichiarati fin da subito e vengono presi in giro direttamente.
Jonah Hill è ormai un nume tutelare del genere, Tatum non sa recitare del tutto, ma la il fisico ce l'ha giusto per la parte e quello che non riesce a fare con le capacità lo attoriali lo compensa con l'impegno demenziale (le scene dopo l'assunzione della droga).

In poche parole, ben realizzato, intelligenti, estremamente divertente.

venerdì 26 febbraio 2016

Fase IV: distruzione terra - Saul Bass (1974)

(Phase IV)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato.

Le formiche, a causa di una mutazione, diventano piuttosto intelligenti, si uniscono nonostante le differenze di specie, si organizzano e progettano la conquista del mondo. Un'operazione composta di 4 fasi; questo film è la descrizione delle prime 3 e la storia della lotta fra le formiche in fase di riorganizzazione e i primi due scienziati accortisi di cosa sta succedendo.

La storia detta così sembra l'ennesima vaccata anni '70, ma in realtà non lo è. Non è un disaster movie come mi aspettavo, né un sci-fi decerebrato sul modello di "La notte della lunga paura"; è un film di guerra vero e proprio (tecnicamente di assedio), ma è anche un thriller con uno scontro fra menti, in cui il nemico è una moltitudine silenziosa; è un film psicologico, ma si concluede dimostrando di essere l’inzio di un film apocalittico; una trama che è anche la dimostrazione della diplomazia al lavoro prima dello scoppio di una guerra. Non è un film d'azione, anzi c'è molto dialogo, anche perché la fase quattro del titolo infatti, è quella che comincia con la fine del film.

Al di là della trama pi alla regia c'è Saul Bass, uomo che ogni cinefilo snob (e non) conosce benissimo come creatore di alcuni dei più famosi titoli di testa degli anni '60, ma qui è per la prima (e ultima) volta regista di un lungometraggi. Direi che la sua passione per l'estetica rigida e dalle forme geometriche sia evidente. Molti oggetti, scenografie e location sono forme geometriche spigolose (la base scientifica, le torri delle formiche, la città abbandonata con le sue strade); inoltre c'è un gusoto enorme nella costruzione delle scene sfruttando panfocus, inquadrature oblique e piccoli movimenti di macchina, ma soprattutto utilizzando gli elementi a disposizioni in maniera estetizzante (ancora una volta le torri delle formiche che si stagliano contro il cielo, gli spruzzi di insetticida giallo, o le formiche raccolte dentro al contenitore di vetro) e, spesso, simmetrica, ricorrendo anche a giochi di montaggio quando ha bisogno di aumentare il pathos (le formiche uccise dall’insetticida affiancate agli uomini che cercano di raggiungere la base). Nel finale c'è anche una breve sequenza onirica che potrebbe essere un perfetto titolo di testa che spiega, in modo criptico, il film.

Vanno inoltre elogiate in maniera particolare tutte le sequenze con le formiche in primo piano. Soprattutto l'incipit; magistrale nella sua semplicità, le formiche vengono trattate con tale dignitià ed enfasi (pur nelle loro attività normali) da renderle degli alieni che ordiscono piani di conquista; con un’attenzione enorme alle (piccole) scenografie, alle luci colorate e ai suoni (aumentati o apposti anche se non realistici come il “respiro” della regina) ha creato un cortometraggio muto che potrebbe essere documentaristico e invece è completamente sci-fi/thriller.
Da ricordare anche il dinamismo di quello che si può definire "l'inseguimento" della formica giallo-verde sullo scaffale e poi tra le macerie sul pavimento.

mercoledì 24 febbraio 2016

Frankenstein's army - Richard Raaphorst (2013)

(Id.)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato.

Seconda guerra mondiale, un gruppo di soldati russi cercano di raggiungere una squadra di connazionali che manda messaggi radio di aiuto senza riuscire a riceverne. Giungeranno in un paesino appena abbandonato dai nazisti e troveranno orribili creature ad attenderli.

Quando ho cominciato a guardare questo film non sapevo molto al di là della locandina e del titolo (motivi più che sufficienti per titillare il mio gusto camp); ci si può quindi immaginare cos'ho provato nel notare che era un found footage... un found footage nella seconda guerra mondiale!!!? Ci rendiamo conto?!!! Diciamo che è stato un brutto, bruttissimo momento.
Beh la scelta di base è la nemesi della sospensione dell'incredulità. Se poi ci si aggiunge che gli attori parlano tutti i inglese con un pesante accento russo o tedesco ci si chiede cos'è successo a Raaphorst, forse i suoi genitori gli hanno fatto mancare l'affetto da piccolo.
Detto questo ho trovato il coraggio di proseguire (nonostante la macchina da presa "cade" o inquadra malissimo proprio quando arrivano i mostri!... quanto odio il found footage).

Comunque l'idea di base è... attenzione allo spoiler... che Frankestein (beh il nipote di quello letterario) stia costruendo una serie di uomini/macchina da usare nella guerra a fianco dell'esercito tedesco. Per farlo utilizza gli abitanti del villaggio e gli sfortunati che capitano in zona. Purtroppo però (per i nazisti) le creature ubbidiscono solo a lui.
Ok, l'idea è cazzara in maniera inconcepibile, ma l'effetto finale di questo plot è qualcosa di fenomenale che non avevo mai visto prima: i nazisti steampunk. Non so se qualcuno ci avesse già pensato e sono io a non averlo ancora saputo, ma l'ambiente steampunk (in chiave horror) si addice perfettamente all'immaginario e all'estetica nazista; il film presenta una galleria di inquietanti e violente creature che sono da applausi. Su tutti il mio preferito è il nazista col trapano sulla faccia e che cammina sui trampoli (lo si vede in locandina), ma anche l'uomo elica è notevole.
A fronte di un'idea così buona, Raaphorst però preferisce sminuirsi ulteriormente cercando un immaginario estetico abusato... sfrutta la soggettiva offerta dal found footage, sfrutta i soldati costretti in gallerie sotterranee e le creature che sbucano fuori all'improvviso e, di fatto, cita così tanto i videogiochi che mi sorprenderebbe sapere che non ne è stato tratto uno da questo film (ma non mi prenderò la briga di scoprirlo).

Punto notevole a sfavore è che a uno come Raaphorst è difficile dare dei soldi sperando te li restituisca, quindi il budget non è molto sostanzioso e, a fronte di un'estetica generale apprezzabile (anche se molti dei mostri secondari sono stati presi brutalmente dai robot o dagli alieni della fantascienza anni '50 in versioni nazi), la messa in esecuzione non rende adeguatamente. In definitiva tutte le creature sono degli sventurati malcapitati a cui Raaphorst ha messo addosso ingombranti e complicati costumi, inevitabile quindi che i mostri si muovano proprio come i suddetti robot degli anni '50; sono lenti, goffi e riescono a colpire i soldati russi giusto per culo, non per capacità.

Che dire, nel complesso questo è un film cazzarissimo, creato da un regista folle che aveva chiaramente in testa una cosa; creare dei mostri fighi e che è riuscito a costruire un film con alcuni momenti di pura maestria (la camera con i cadaveri appesi al soffitto) affiancati a idee talmente camp da far impallidire il mio sviluppato senso per i guilty pleasure (il calderone con le gambe! ne voglio uno da tenere in casa). DI fatto un film che si può guardare con l'affetto e il con cui si apprezzano le baracconate di fantascienza anni ’50.


lunedì 22 febbraio 2016

Rebecca, la prima moglie - Alfred Hitchcock (1940)

(Rebecca)

Visto in Dvx.

Un ragazza ingenua e timida conosce un uomo ricco e affascinante, i due si innamorano e si sposano; solo allora la ragazza andrà ad abitare nella magione del marito dove aleggia costantemente il ricordo della prima moglie, Rebecca appunto. Ogni oggetto e ogni persona fannor fierimento a lei, ogni gesto della ragazza è paragonato a quello della precedente proprietaria, finché non ne viene ritrovato il cadavere, allora usciranno diversi scheeltri dagli armadi che condurranno a un'indagine.

Primo film hollywoodiano di Hitchcock che si impegna a realizzare quanto di meglio ha sempre saputo fare alla regia. Gestisce le inquadrature con una sequela di amgnifici dolly (ma anch carreli) resi celebri dal poco successivo "Notorius"; ma si distingue anche per alcune idee originali come la breve sequenza in cui la protagonista si gira costringendo la macchina da presa a inquadrarla in un primissimo piano mentre la cognata viene messa in secondo piano e viene dissolta nelle luci che si spengono; i primissimi piani alla Dreyer dell'interrogatorio; oltre al consueto uso magistrale della suspense (per me la scena migliore in questo senso è quella del ballo in maschera mentre la protagonista scende le scale; già si capisce tutto, eppure la tensione è perfetta).
Inoltre il film si impegna nella realizzazione di scenografie (quelle degli interni della casa) che schiacciano fisicamente la minuta protagonista, quanto viene schiacciata psicologicamente dalla presenza invisibile di Rebecca.
I personaggi sono piuttosto ovvi (soprattutto la protagonista è irritantmente ingenua); si dinstingue però al governante, una figura apparentemente gotica e senza molta utilità a aprte quella di creare inquietudine con la sua impassibilità; in realtà si rivela estremamente complessa e con una serie di sentimenti fiammeggianti (con il prorpio culmine nell'istigazione al suicidio).
La storia è divisa in tre parti piuttosto nette, una prima mezzora da commedia romantica, poi un’ora da thriller gotico perfetto, poi avviene il ribaltone di prospettiva e anche il filmsubisce un twist e si conclude con mezzora di mystery classico con un’indagine che si chiude con un nuovo colpo di scena. Inutile dire che la parte migliore è la centrale dove personaggi, regia e scenografia possonos fogarsi al meglio e dove c'è pure un uso delle luci quasi espressionista; in questa parte mi ha ricordato abbastanza il successivo "Dietro la porta chiusa" (per ombre e luci, la donna intrappolata nella casa non sua, il mistero della camera chiusa, il retroscena non detto, ecc...).
Un encomio agli attori, con una Fontaine completamente in parte, Olivier che (pur senza picchi) fa la sua figura e ovviamente un Anderson che interpreta benissimo il miglior personaggio in gioco.

venerdì 19 febbraio 2016

J'ai tué ma mère - Xavier Dolan (2009)

(Id.)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato.

Un 17enne gay vive con la madre divorziata, i due si amano, è evidente, ma è altrettanto evidente che hanno torppe idiosincrasie che li portano a scontri più che frequenti e alla, quasi, totale mancanza di dialogo. La routine, fatta di liti, urla, riconciliazioni traballanti, (spesso dovuta alla follia di lei) esplode e si porta dietro, come conseguenza, l'incarceramento del ragazzo in un collegio.

Potente opera prima di un Dolan appena 19enne. Questo dettaglio fa specie, non tanto per l'aderenza del regista/attore con il personaggio (personalmente mi interessa poco che siano le opinioni di prima mano di un adolescente in presa diretta), ma quanto per la regia articolata, fantasiosa, ma raffinata, mai eccessiva e piuttosto matura.
La costruzione delle immagini è il vero, grande punto di forza del film. Questo assieme alla reale forza nel veicolare il significato del film (il particolare rapporto di amore/odio fra madre e figlio) sono i due motivi per cui recuperare il film.
Detto ciò ora iniziarò una pedissequa (e incompleta) descrizione della regia che continuerà fino al capoverso.
La regia è fantastica e articolata, dicevo; caratterizzata da immagini in presa diretta alternate a sequenze con una precisa costruzione spaziale delle inquadrature (sempre statica, sempre con i personaggi incastrati nello sfondo, spesso inquadrati da soli in un angolo dell’inquadratura); uso delle luci per differenziare gli ambienti e le scene; intermezzi con il protagonista (lo stesso Dolan) ripreso in primissimo piano in bianco e nero che snocciola filosofeggiamenti banalotti; e introduzione delle nuove sequenze con un montaggio serratissimo di immagini statiche (foto o dipindi posti sulle pareti); infine ci sono degli inserti realizzati come tableau vivent che rappresenta quello che pensa o sente il protagonista sotto forma di un’immagine statica. Grandi linee è trutto qua, ma in realtà per capire come tutto questo funzioni (ma anche cosa ho tralasciato) bisogna vederlo.

Quello che ne viene fuori è un film piuttosto meccanico nella struttura, realizzato da un nuovo regista che si ispira ai contemporanei (basta Leone, Kurosawa o Welles) e che ha delle capacità pazzesche data la giovanissima età e l’inesperienza, e riesce a tirare fuori uno stile unico, particolare e granitico senza le sbavature di solito legate all'opera prima (i piccoli difetti di montaggio, di raccordo, l’assenza di scene aggiunte inutili, ma che danno ritmo). Con questo stile riesce a dare ritmo e a tenere in piedi un film imperfetto senza mai un minuto di noia.

Si perché la storia è interessante e, sulla carta, piuttosto originale; il rapporto fra madre e figlio indagato come un rapporto d'affetto obbligato e quasi involontario nonostante l'odio che continuamente si stimolano a vicenda. Purtroppo la sceneggiatura è di Dolan stesso che, pur avendo anche qui grandi capacità, ha il difetto dell'età e si trastulla nell'autoindulgenza, in un personaggio materno con scatti di follia immotivati e con dettaglio d'inconsistente banalità (terribile il rapporto madre-figlio del compagno del protagonsita, un luogo comune di un rapporto aperto e felice, programmatico ed eccessivo, sempre, quasi farsesco).
C’è qualche sprazzo di rapporto a due adulto fra la madre e il figlio, ma per la magigor parte del tempo è solo uno sfogo adolescenziale costantemente dalla aprte del figlio.

In ogni caso un film enorme, da vedere e che da il là a una filmografia che, adesso, intendo recuperare.

mercoledì 17 febbraio 2016

The hateful eight - Quentin Tarantino (2015)

(Id.)

Visto al cinema.

Vabbè, parliamone.

Io sono uno dei pochi che ha disprezzato altezzosamente "Django"; sono ancora convinto che quel film sia il peggiore della carriera di Tarantino e, dunque, le aspettative per quest'ultimo non erano altissime. All'uscita dal cinema però ero soddisfatto.
Per essere chiari; probabilmente è il suo film meno efficace (dopo il suddetto "Django" e, forse, dopo "Death proof"), ma, finalmente, si toglie dal binario dei film alla Tarantino che lo stesso Tarantino continua a fare da "Kill Bill" in poi e ritorna più vicino ai ritmi e ai toni anni '90.
Fotografia curata nel dettaglio, ma non più patinata; fighetteria sempre presente, ma meno vistosa; uso della luce etereo con un uso del riverbero impressionante, ma, soprattutto ritmo rilassato. Era dai tempi di "Jackie Brown" che Tarantino non teneva il ritmo di un suo film su questi livelli, un ritmo basso per cercare di creare suspense in maniera classica, giocare con il pubblico allungando l'intro sapendo che chi va al cinema per un suo film si aspetta una fontana di sangue (che ovviamente arriverà, ma ci vuole arrivare con calma); ma intanto il lavoro che fa è tutto di trama, una delle più intellettuali della sua carriera.
Il film che viene messo in scena è un grand guignol dai più nichilisti di sempre, dove la violenza non è discutibile in sé stessa, ma è discutibile i quanto unica forma di comunicazione compresa da tutti; un film dove tutti sono destinati a morire e tutti sono degli stronzi; un film (giustamente già definito) postapocalittico, dove l'apocalisse è stata la guerra civile americana; non c'è possibilità di salvezza per nessuno (anche perché nessuno la merita).
Altro spunto estremamente interessante è la messa in scena di una messa in scena. In questo film tutti stanno mentendo, tutti millantano identità, ruoli o conoscenza che non hanno; nell'ottica di quel nichilismo già citato (e con un avvicinamento inquietante al cinema di Farhadi) qui niente di quello che viene detto può essere provato e, fino a un'eventuale ammissione diretta, nessuno (spettatore compreso) saprà se ciò che viene riferito è una menzogna. La verità semplicemente non può essere raggiunta.

Poi c'è la questione del mystery alla Christie, svolta francamente interessante che all'inizio è davvero ben condotta, ma che a conti fatti (buttati li in mezzo a un film che prima e dopo ha un altro ritmo, per l'inutilità nel concedere uno showdown di quel tipo e per la sua pochezza in sé) ha il sapore di un'occasione perduta più che di un'idea avvincente.
Altra nota terribilmente negativa è che questo film conferma la fase negativa nella scrittura di Tarantino; il film regge, ma come in "Django", non ci sono dialoghi memorabile; tutti i lenti scambi di battute funzionano, ma non sono pezzi d'arte come era solito fare. Che sia il declino?

PS: e finalmente un film di Tarantino con Jackson protagonista.

lunedì 15 febbraio 2016

I vivi e i morti - Roger Corman (1960)

(House of Usher)

Visto in Dvx.

Il pretendente sposo di una giovane va a lal vilal della stessa a incontrare il di lei fratello, poiché sospetta che lui la tenga prigioniera nella magione. Scoprirà invece che la famiglia è condannata da generazioni di follia e tare genetiche; la casata è malata quanto la casa che li contiene.

Personalmente non amo il Corman nel suo periodo Poe (di cui tendo ad apprezzare solo "La tomba di Ligeia", ma pur sempre con dei distinguo); tuttavia questo rimane un film rilevante nella sua filmografia in quanto è il primo della serie dedicata allo scrittore gotico, am soprattutto è il primo in cui collabora con Vincent Price (abbastanza giovane, e senza baffi! e biondo!).

Il film (sceneggiato da Matheson!!!!!!) è una prova d’attori con quattro personaggi chiusi in una casa/prigione; da questa prova ne esce un manieristico, teartrale e dolente Price come vincitore assoluto (barocco come lo si conosce e come lo si pretendeva per la parte del leone in un film del genere, quasi sempre corrucciato, ma spesso anche maestoso); bravi comunque i comprimari, senza esagerare in encomi direi che sopportano bene la parte senza sfigurare.
Corman si muove anche lui da vero manierista con una macchina da presa che sottolinea gli spazi; il vero punto di forza del film, fatto da alcuni degli interno meglio ricostruiti di tutta la carriera del regista. Inoltre siamo davanti a un uso dei colori forse un poco infantile, ma certamente molto espressionista che da letteralmente di matto nelle scnee oniriche del finale (che non mi hanno molto convinto).

Purtroppo è un film con molti dei pregi delle opere di Corman, ma che contine anche tutti (tutti) i difetti dei suoi film tratti da Poe: la lentezza, la noia, la psicologia lamentosa che vorrebbe sostituirsi alla tensione.

venerdì 12 febbraio 2016

Kynodontas - Yorgos Lanthimos (2009)

(Id.)

Visto in DVx in lingua originale sottotitolato in inglese.

Una coppia di genitori oltre la mezza età tiene i 3 figli (ormai adulti) rinchiusi in una grande casa con enorme giardino. I figli credono che non si possa toccar eil terreno fuori dal giardino se non rischiando la vita, ma si può farlo andando in macchina. Purtroppo non si può varcare il cancello se primo non si sono persi i canini e non si può guidare se prima non sono ricresciuti. Inoltre i genitori hanno spiegato che i gatti sono gli animali più pericolosi in assoluto, e modificano le parole dando a quelle più imbarazzanti (parolacce ovviamente, ma anche tutti i riferimenti a oggetti o luoghi oltre i muri di casa come autostrada o mare) significati diversi (autostrada è un materiale con cui si costruiscono i pavimenti, telefono è la saliera, figa è un tipo di lampada). In tutto questo la vita prsegue, con rapporti sessuali forniti al figlio con donne pagate e giochi infantili.

Se l'idea di base (una famiglia oltre la disfunzionalità) non è originale, è anche vero che di solito questo tema viene utilizzato in generi di nicchia (soprattutto l'horror); personalmente trovo queste idee ormai scontate, ma sempre interessanti per le molteplici inclinazioni che possono prendere le vicende e per l'indubbia fantasia che bisogna mettere per render eil pretesto credibile e articolato.
Qui la creazione del microcosmo è molto dettagliata, si nota lo sforzo di costurire un mondo assurdo fino allo stremo, ma pur sempre verosimile; tuttavia l'intento metaforico è preponderante (cosa negativa) e lo svolgimento è molto pretestuoso, noioso e programmaticamente malato; la storia non esiste, si limita alla pedissequa descrizione della famiglia.
Il che è un peccato, perché lo sforzo di fantasia aveva portato a buone intuizioni (le già citate parole dal significato distorto, ma anche il dialogo silenzioso per non farsi sentire dai figli); però è evidente che l'operazione ha solo un intento intellettuale autocompiacente.
Un film sul modello di "Bad boy Bubby" (anche per gli intenti metaforici e intellettuali), ma meno incisivo e visivamente interessante (non ho neppure voluto sollevare il fatto che gli attori evitino di recitare per dare un senso di apatia che però si trasmette come un'incapacità di fare le cose fatte bene); si lascia guardare, ma si crogiola troppo nel suop essere estremo.

mercoledì 10 febbraio 2016

La caduta di Troia - Luigi Romano Borgnetto, Giovanni Pastrone (1911)

(Id.)

Visto in Dvx.

Primo successo commerciale di Pastrone, qui anche alla (scarna) sceneggiatura, ma affiancato alla regia da Borgnetto. Ecco, Borgnetto non lo conosco direttamente, pittore prestato al cinema divenne piuttosto noto per diversi episodi della serie di film su Maciste. Inevitabile quindi che tutto quello che ho visto l'ho riferito a Pastrone, forse anche in maniera impropria.

In ogni caso è una versione ridottissima dell'Iliade, un corto di 25 minuti che, come di consueto per l'epoca, spiega ciò che accade con i cartelli e poi mostra singole scene che valgono come sineddoche. Ovviamente siamo prima di "Cabiria" e le inquadrature sono fisse, ma quello che viene tolto in dinamismo viene compensato dalla messa in scena.
Le scenografie infatti sono costruite molto profonde permettendo sempre il movimento dei personaggi in maniera molto ampia o (come succede più nella seconda parte) costruendo le inquadrature su più piani, con scene di massa pazzesche o fondali titaneggianti (anche qui, come in "Cabiria" c'è una sena con l'attacco alle mura che non bada di certo a spese). La macchina da presa non si muove, ma lo fanno i personaggi al posto suo, inquadrati quasi sempre  figura intera che diventa rapidamente un campo medio/lungo.
Le scenografie, inoltre, sono di un'opulenza incredibile, con pavoni e ventagli che farebbero invidia a de Mille.
Decisamente un prodotto godibile e più interessante di altri esempi di quel periodo.

lunedì 8 febbraio 2016

Ultime della notte - Phil Karlson (1952)

(Scandal sheet)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Un dirigente di un giornale senza troppi scrupoli (scelto dal consiglio di amministrazione per salvare un importante testata dal baratro economico) ha impostato il risanamento dei conti sul gossip, la morbosità e il giornalismo più sfrontato; sotto di lui lavora un giovane mastino disposto a passare sopra agli omicidi più brutali, battere la polizia sul tempo, sfruttare la credulità della gente. Tutto sembra andare per il meglio, finché il dirigenti non incontra la sua ex moglie che lo riteneva morto da tempo (lui aveva cambiato nome), l'incontro si conclude con uno scontro e lo scontro con l'omicidio involontario della moglie. Il dirigente cercherà di nascondere tutte le prove e insabbiare l'avvenimento, ma il suo protetto indagherà pensando di far saltare fuori uno scoop sensazionale... e non immagina quanto.

Film giallo (molto più che noir) sul modello che diverrà famoso con Colombo, vediamo l'assassino e ci godiamo l'accerchiamento da parte del detective di turno, mentre l'altro gioca in difesa.
Costruito come macchina per acchiappare il consenso ottenuto con "Luci sull'asfalto" risulta una macchina ben costruita nella storia, ma imprecisa nei dettagli e nella messa in scena (la colluttazione iniziale è estremamente finta), ma ha una regia fluida che si chiude in primissimi piani che danno significato o si muove attorno ai personaggi in lotta. Per il resto la trama si muove chiara e meccanica, intrattiene bene e permette a Crawford di esercitarsi in una lunga serie di sudate e paure trattenute.

Bello, godibile, conclude tutta la sua forza con la scena finale, appena spento il video è uno di quei film che si mettono da parte per ricordarcene a fatica.

venerdì 5 febbraio 2016

Doppio gioco - Robert Siodmak (1949)

(Criss cross)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Un uomo cerca di riconquistare la sua ex moglie di cui è ancora innamorato; purtroppo lei si è risposata (sembra per disperazione) con un gangster violento. L'ex marito decide di tentare un colpo con il gangster per fregargli i soldi e fuggire con la donna. Siamo in un noir, il piano si risolverà in uno spargimento di sangue e tutti i progetti naufragheranno.

Erano mesi che non vedevo un noir e anni (letteralmente) che non vedevo un film di Siodmak. Splendido ritorno.
Un noir denso, teso certamente ai soliti giochi del destino (quanto viene calcata la mano al caso nell'incontro fra i due ex coniugi nella stazione centrale), ma con una tendenza agli inganni reciproci che è già dichiarazione d'intenti nel titolo. perché più che la sfiga, qui a governare è l'inganno dei personaggi, tutti stanno ingannandosi a vicenda, nessuno escluso; e ovviamente gli inganni si ritorceranno contro chi li ha orditi.

A livello di linguaggio Siodmak introduce una situazione di tensione che viene rapidamente messa in una luce molto diversa, per capire cosa sta succedendo si avvale del suo fidato flashback, uno stratagemma che rappresenta circa metà film; poi riprende il percorso normale della trama, ma avendo caricato di significati quello che sta succedendo e si lancia in una serie di scene memorabili.
Dal punti di vista estetico c'è un uso magistrale delle luci specie negli interne (bellissimo l'uso nelle scene nell'ospedale che caricano di ansia la lunga sequenza dell'uomo nel corridoio), Siodmak inoltre tende a inquadrare un personaggio di spalle in primo piano e gli altri in secondo piano a fuoco permettendo una estremizzazione dei dialoghi in campo e contro campo oltre all'uso enfatico di contrapposizione in certe scene (come nell'entrata di Lancaster nella sala dove si trovano i gangster nel locale a inizio film).

Come dicevo nel finale ci sono una serie di sequenze memorabili; su tutte la scena della rapina (totalmente inverosimile, ma esteticamente bellissima) costituita da colluttazioni, scontri e sparatorie incorniciate da una cortina di fumo; ma anche la scena finale con il villain che spunta dalla porta buia come uno zombie (o una Lady Macbeth alla Kurosawa).

Ottimo il cast con un Lancaster che ci sguazza sempre nel noir, un Duryea che si fa notare e una De Carlo meno brava nella prima parte, ma migliora nel finale.

mercoledì 3 febbraio 2016

Interceptor - George Miller (1979)

(Mad Max)

Visto in Dvx.

Futuro, nell'outback australiano i poliziotti sono cazzutissimi e guidano macchine veloci inseguendo pirati della strada e rider senza scrupoli e per farlo utilizzano ogni mezzo possibile. Fra loro un giovane Gibson vorrebbe tirarsene fuori vedendo come ci si imbruttisce rimanendo in quell'ambiente; ma quando gli faranno fuori il miglior amico e pure la famiglia deciderà che la vendetta dev'essere servita violenta.

La genesi di questo film è ormai aneddotica; anni '70, i paesi arabi hanno capito che il petrolio è potere ne usano il prezzo per determinare scelte nei paesi occidentali, arriva l'austerity e McCausland assiste all'assalto di una pompa di benzina a Melbourne e immagina un futuro distopico a base di automobili e benzina. Intanto il Dr. Miller, un chirurgo, sta immaginando un film su machcine superveloci e stunt impossibili basandosi sulle innumerevoli (e terribili) ferite delle vittimi di incidenti stradali. Quando i due si incontreranno, faranno del sesso (a livello intellettuale) e il prodotto del concepimento sarà il film riassuntivo degli anni '70... ovviamente sarà questo film.

Tutto sommato il futuro e la distopia era solo un modo per giustificare l'ultraviolenza e le macchine truccate, perché in realtà quello che il film mostra è più o meno quello che mi aspetto dall'outback australinao di quel periodo; una sorta di versione motorizzata di "Wake in fright".                  

Il film è esteticamente molto bello, caldo, polveroso e sudato, tutto giocato su colori caldi come la sabbia del deserto australiano, e il tutto senza esagerare i costumi nonostante la distopia negli anni '70 era vista come un freak show kitsch.
Il vero punto di forza però è la storia totalmente atipica che, a grandi linee, si può riassumere così: 45 minuti di inseguimenti e vendette, mezzora di vita famigliare con vendetta, venti minuti di violenza e vendetta conclusiva. Un protagonista giovane, bello, buono e idealista che si trasforma in tutto ciò che non voleva essere per portare il proprio piano in un crescendo di orrore, una prima metà quasi a sé con inseguimenti fantastici, mai ripetitivi o noiosi che mettono in scena alcuni degli stunt meno organizzati di sempre (la moto che sbatte contro la testa dello stuntman sul ponte era tutto fuorché voluto), ma tutti magnifici; una corsa continua tenuta a un livello impensabile anche per film con un budget decisamente più cospicuo o per mestieranti più navigati; si insomma, un mezzo miracolo.

Inoltre il film rappresenta perfettamente il decennio appena trascorso, mixando alcuni dei topos prediletti e alcune della innovazioni; ci sono ovviamente i film di inseguimenti in auto, c'è il poliziesco roccioso figlio di Callaghan e c'è una spolverata dei futuri post-apocalittici con ritorno a un medioevo meccanizzato.

Tutte queste sono ottime ragioni per vedere un film, pure se prese da sole. Ma qui c'è anche un ritmo che si muove con grazia (parte mille per poi rallentare, accelerare e rallentare di nuovo, ma sempre con consapevolezza) e un risultato finale che difficilmente lascia insoddisfatti.

PS: chissà perché cambiare il titolo originale con un altro sempre in inglese, sostituendo il nome del protagonista con quello dell'auto usata nel finale.

lunedì 1 febbraio 2016

Il trionfo di King Kong - Ishirô Honda (1962)

(Kingu Kongu tai Gojira)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato.

Godzilla, nel precedente film, era rimasto imprigionato sotto una valanga di ghiaccio. Quello che i giapponesi non potevano prevedere è che il ghiaccio ha una curiosa caratteristica fisica, a una temperatura adeguata si scioglie; e se per caso contiene dei mostri, questi si liberano. Nel frattempo una ditta vuole assumere come star di alcuni spot King Kong, un mostro gigante che sta in un'isola del pacifico del sud, lo vanno a prendere, lo sedano. Purtroppo, poco prima di arrivare in Giappone, si risveglia e fugge, ci saranno pugni in faccia tra mostri, ma King Kong se ne andrà sconfitto. Visto che Godzilla ancora imperversa l'esercito ha un'idea, sediamo di nuovo King Kong e lanciamolo addosso a Godzilla finché almeno uno dei due non muore.
Lo so, la storia sembra fantastica, ma trattenete l'entusiasmo.
Il terzo film della saga (nonché il primo a colori) è un episodio abbastanza importante. importante dal punto di vista sentimentale perché mette uno contro l'altro i due mostri più famosi della storia del cinema (e correttamente decide di non far vincere nessuno dei due); oltre al fatto che il primo film di Godzilla era nato come risposta al successo della riedizione di "King Kong", quindi in un certo senso si chiude il cerchio. Ma è anche importante perché si decide qui un taglio nel mood del film che viene traghettato dall'horror ecologista del primo, all'action eroistico del secondo, per sfondare la barriera della farsa in questo. basta eroi, basta tematiche a sfondo ambientalista, questa è una commedia, con dei mostri giganti, ma pur sempre una commedia.

La storia è pretenziosa, ma ancora accettabile, non si dilunga troppo nell'introdurre Godzilla, ma occorre tempo per far entrare in gioco King Kongm (appena compare sulla scena si mette a lottare contro un polipo gigante!). Splendida l'ambientazione nell'isola del pacifico dove gli indigeni sono interpretati da giapponesi travestiti da polinesiani con costumi Zulu e suoni che sembrano degli indiani d'america... direi che "Termae Romae" non ha inventato nulla.
I costumi dei mostri sono in linea con i precedenti, posticci e poco credibili; quello di king Kong è particolarmente buffo e ilo scimmione si muove in maniera francamente imbarazzante. Quello che però ci si può godere con gusto è il secondo scontro fra i mostri: uno splendido incontro di wrestling fra un drago e una scimmia.
Non c'è molto di più da dire su questo film, che però rimane ancora godibilissimo anche per la sua ingenuità.