giovedì 31 marzo 2011

I migliori anni della nostra vita - William Wyler (1946)

(The best years of our lives)

Visto in DVD.
Non lo so con certezza, ma così, ad intuito direi che questo è uno dei primi film sui reduci mai realizzato, considerando che è stato fatto nel 1946… e comunque è quasi di sicuro il primo sui reduci della seconda guerra mondiale.

La storia è proprio questa, 3 militari di ritorno dalla guerra pendono lo stesso aereo per tornare nella stessa città; in quel breve viaggio i 3 si uniscono molto e si incontreranno spesso. Ognuno porta con se una storia dolorosa, un trauma e delle aspettative. C’è March con una moglie vista in totale per 20 giorni, ovviamente non sarà la donna che pensava e finché lui avrà soldi andrà tutto bene, ma per un reduce trovare lavoro non è facile. C’è Andrews che ritornerà ad una famiglia che ancora gli vuol bene nonostante i molti anni di silenzio, tornerà anche al suo lavoro in banca, ma si scontrerà (neanche tanto) con il capo per la gestione dei finanziamenti ai reduci. Infine c’è la storia più pesante, quella di Harold Russell, marinaio che durante un incendio ha perduto entrambe le mani e ora se la cava da dio con una paio di uncini (Russell non è un attore professionista, ma un vero reduce, e realmente invalido; questo però non impedirà all’Academy di fargli avere un oscar come miglior attore non protagonista); ovviamente lui dovrà affrontare la vita di tutti i giorni in questa nuova ottica, ricucire i rapporti famigliari, e soprattutto con la sua fidanzata, cercando di non farsi compatire.

Diciamolo subito, il film è melo drammone enfatico più lungo del dovuto, che però, incredibilmente, non pesa troppo. L’happy ending totale sarebbe stucchevole, se non fosse completamente in linea con tutto quanto accaduto fino a quel momento.

Ciò che però salva realmente il film è Wyler, che imbastisce una regia, a mio avviso, inferiore a quella di “Piccole volpi”, ma comunque degna di nota (su tutte è da antologia la scena di March dentro la carlinga dell’aereo distrutto). Wyler però, anche in questo caso, si fa aiutare da Toland (per chi non lo conosce è il grande direttore della fotografia che ha reso possibile “Quarto potere” di Welles, oltre che il già citato “Piccole volpi”), le sue impressionanti profondità di campo sono poco sfruttate, è vero, (giusto qualche scena costruita su due piani e qualche carrello le utilizzano) ma i giochi di specchi che tanto gli piacciono, impazzano, rendendo fenomenali alcune sequenze che senza di questi sarebbero state piuttosto piatte (su tutte, la scena delle due donne in bagno a rifarsi il trucco è un capolavoro).

In definitiva risulta godibilissimo, e funzionale. Può appagare tutti, se si sopportano le due ore e passa di durata.

mercoledì 30 marzo 2011

2 become 1 - Wing-Cheong Law (2006)

(Tin sun yut dui)

Visto in Dvx, visto in orginale con i sottotitoli in italiano.
Lo dico subito, questo è un film-progresso per la sensibilizzazione sul tumore al seno… Per discolparmi posso dire che l’ho scaricato con un blocco di film di Johnnie To e l’ho guardato pensando fosse una commediola romantica diretta dal grande maestro del noir moderno… no dico, una chicca. Invece qui To è solo il produttore…

La storia è quella di una donna che scopre di avere un tumore al seno e di tutte le fasi che attraversa, dalla negazione alla rabbia ecc, a tutti gli specialisti a cui si rivolge, di tutte le tecniche più o meno superstizione che utilizza, delle paure legate all’intervento radicale ed infine all’accettazione del problema.

È un film progresso, non solo per la trama che comprende ogni possibile risvolto legato alla scoperta di un tumore, ma anche e soprattutto per dei momenti di un didascalico impressionante; come quando viene insegnata (al pubblico che guarda) l’autopalpazione, o quando vengono elencati i fattori di rischio del tumore, o con l’episodio del truffatore.

Detto ciò devo anche aggiungere che il film funziona; nel suo genere, ma funziona. Ce la fa perché butta tutto sul livello di commedia, a volte esagerando, ma generalmente riuscendo a dire tutto senza mai affogare nel melodramma (e sarebbe facilissimo). Tutto è affrontato con leggerezza, persino il tentativo di suicidio; e visto che il film pretende d’essere gradevole ci mette pure una storia d’amore (e impotenza…).

Così facendo si riesce ad avere un film didattico e sensibilizzante quasi mai noioso (ha giusto un paio di momenti di stance verso la metà o poco dopo), che intrattiene con gusto (e una buona dose di prevedibilità che tranquillizza il pubblico più ansioso). Bella l’ultima scena, esplicativa, ma senza urli.

Un film eccezionale visti i presupposti, ma che non consiglierei a nessuno.

PS: magnifico il gusto del grottesco dimostrato nel titolo (che evidentemente si riferisce ai seni dopo la mastectomia) o la schermata nera finale con la data di nascita e quella di morte del seno sinistro della protagonista.

martedì 29 marzo 2011

L'alba dei morti viventi - Zack Snyder (2004)

(Dawn of the dead)

Visto in Dvx.
Mi sono approcciato a questo film con molte riserve, semplicemente perché trovavo inammissibile un remake (anche solo ideale; per via dello stesso titolo) del film di Romero… eppure mi son dovuto ricredere.

Alla fin fine non è un remake, è solo un classico film di zombie post-romeriano che introduce giusto un cambiamento: gli zombie sono centometristi. Se nell’originale lo zombie era un cadavere semovente e, come tale, aveva evidenti ed ovvie difficoltà motorie in questo film no; anzi, non conta quanto fosse anziano, obeso o incinto l’umano quand’era in vita, quando diventa zombie, salta, balla, ha una forza sovraumana, un’agilità invidiabile e corre come se dovesse scappare da Bolt. Ecco questo lo volevo dire subito, perché questa è evidentemente la cazzata peggiore e via il dente, via il dolore. In realtà devo spezzare una lancia; con quest’idea si crea un mostro drammaticamente migliore, voglio dire, se lo zombie si muove come un vecchio sui trampoli, per carità lo temo, ma lo temo mentre lo supero con una bicicletta con le gomme a terra; mentre se lo zombie mi sta dietro anche se guido la macchina, certamente risulta più cazzaro, ma anche più pericoloso… Non la apprezzo stà innovazione, ma la comprendo e posso accettarla (vah che open minded che sono).

Poi il resto del film è eccezionale. In primo luogo impiega 5 minuti netti ad entrare nel vivo. Dalle scene di vita quotidiana al primo attacco alla protagonista non passano che pochi istanti e se questo fa immediatamente dire “ecchecazz…” bisogna ammettere che funziona; il film non si perde in preamboli, crea un mood ottimale comunque e rimane tecnicamente corretto. Si perché alla fin fine se non ci sono stati avvertimenti prima che la bimbetta azzanni il compagno alla donna è solo perché lei non li ha ascoltati; la radio, la tv, ma anche quello che stava succedendo all’ospedale erano indizi, che però sono stati evitati, perché la protagonista stava facendo altro. La rapidità sgomenta, ma è magnifica nel creare allo spettatore e alla protagonista lo stesso effetto sorpresa.

Poi il film azzecca tutti i mood. C’è questo senso di apocalisse totale e nichilista che pervade il film quasi dall’inizio e che esplode nel finale. C’è il crollo di ogni schema sociale e nella magnifica fuga in macchina dell’inizio vengono sbattute in faccia fin da subito tutte le atrocità, così per togliersi ogni dubbio (dalla vittima innocente aggredita senza che nessuno faccia nulla, all’homo homini lupus). Eppoi c’è suspence; si perché devo ammettere che nella fuga finale in autobus la tensione l’ho sentita anch’io che solitamente sono abbastanza refrattario. Infine c’è quel finale ottimistico (e dopo un film così tetro è un sospiro di sollievo) che prosegue nei titoli di coda, nei quali con poche immagini ben selezionate (applausi alla regia) si rovesciano completamente i presupposti. Ah già, credo sia pure meritevole la piccola sequenza di ritorno alla normalità (o pretesa tale) dentro al mall a metà film.

Infine c’è la regia. Come detto c’è il finale che gioca con le aspettative del pubblico appena create; ma c’è anche una fotografia curatissima e un uso della macchina da presa mai visto in un film horror di questo genere (di nuovo rimando alla fuga in macchina dell’inizio). Poi ci sono pure degli effetti speciali di livello e un evidente sentore di tanti soldi spesi; e pure spesi bene.

Si insomma una stupenda sorpresa che non solo non delude, ma convince in quasi ogni dettaglio.

PS: due chicche, una la canzone di CashThe man comes around” che ci sta con i titoli di testa, ma anche con tutto il mood del film (ottima scelta); e poi la scena del bimbo zombie, idea mai sfruttata se non da Jackson (e comunque in un film comico) degna del miglior film di serie b.

lunedì 28 marzo 2011

Bersagli - Peter Bogdanovich (1968)

(Targets)

Visto in DVD.
Un vecchio attore horror, ormai in disuso, anzi peggio, ripiegato nelle stesse parti di sempre nonostante l’età decide di abbandonare la scena, ma prima si permette il lusso di una comparsata ad un drive in dove proiettano il suo ultimo film… peccato che anche un maniaco abbia deciso di andarci (in realtà ci finisce per sbaglio) e decida di continuare li la sua strage.

Diciamolo subito, l’attore che interpreta l’anziano attore horror è un Boris Karloff ormai anziano… già questo dovrebbe bastare; se poi ci si aggiunge che Karloff si prende la briga di recitare benissimo, senza togliere alcuni tocchi autoironici (si spaventa guardandosi allo specchio perché “come vuoi che reagisca svegliandomi e trovandomi di fianco Byron Orloc?”) o sequenze da antologia classica (il momento in cui racconta la storia di Samarcanda di Vecchioni, che in realtà è una storiella gotica), nel finale poi c’è questo momento meta-tutto impagabile con Karloff che si avvicina al maniaco da un alto, mentre dal alto opposto il Karloff del film fa la stessa cosa… ma bisogna vederlo per capire.

Allora, se da una parte il film racconta questo progetto nostalgia dei bei tempi del cinema (mentre c’è Karloff in scena si omaggiano pure Price, con il regista che insiste nel proporre la sceneggiatura a Karloff che rifiuata e alla fine sbotta “finirò per proporre questa sceneggiatura a Vincet Price”; Hawks con una lunga sequenza di “Codice penale” con Karloff stesso; o Roger Corman con tutti i titoli di testa posti sulla sequenza finale di “La vergine di cera” che sarà poi proiettata al drive in; ma anche il nome stesso del personaggio interpretato da Karloff, che è Orloc, cita il Conte protagonista di “Nosferatu”), dall’altro mostra la storia di un ragazzo bloccato in una vita castrante e sottilmente violenta che esplode in un progetto di massacro casuale che dimostri le sue doti di tiratore. Ecco, se le sequenze con Karloff sono un progetto nostalgia riuscito, le parti dell’omicida sono un piccolo gioello di regia, con una macchina da presa fluida e originale con idee assolutamente nuove (come la luce della sigaretta nella camera da letto buia).

Nell’insieme però il film non funziona, è ben realizzato ed ironico, oltre che citazioni stico al massimo, ma non riesce mai a legare decentemente le due storie in paralle, quella di Karloff poi sembra più un pretesto che un racconto con un fine proprio e il finale, troppo rapido e francamente assurdo non convince proprio. Il film mette in risalto le doti di Bogdanovich come regista e come cinefilo e risulta una canto d’amore verso lo schermo argentato, ma tutto si ferma qui… con un minimo di sceneggiatura in più sarebbe stato grandioso.

domenica 27 marzo 2011

Sono innocente - Fritz Lang (1937)

(You only live once)

Visto in DVD.
Un ladro (Fonda) esce di carcere dopo 3 anni di reclusione, pare aver cambiato vita grazie ad un prete comprensivo, ma soprattutto ad una ragazza che ancora lo aspetta (Sidney)… o almeno, il ragazzo vorrebbe cambiare vita, ma il suo pessimo carattere e una sfortunata serie di eventi lo riporteranno nell’orbita del crimine; ora però ha una moglie al suo fianco.

Dramma d’amore e morte estremo e dal finale obbligato sin dalle prime scene (chi, dopo l’evidente paragone con le rane, potrebbe scommettere su un happy ending?) che, ancora una volta, rientra in pieno nell’idea langhiana di lotta contro il proprio destino. Decisamente originale il tema dell’amore portato all’estremo (ma è proprio dagli anni 30 che questa idea si annida definitivamente nel cinema, almeno in quello americano) che permette una delle scene finali più dolorose ed eroiche di sempre.

Dalla sua il film ha anche una costante ambiguità che rende la trama decisamente più interessante… Fonda si trova licenziato con un mutuo da pagare perché è effettivamente un perditempo, ed un perditempo proprio per via di questo amore totale (arriva con più d’un ora e mezza di ritardo per poter mostrare la casa nuova alla sua ragazza). Inoltre il titolo si riferisce al fatto che Fonda si professa estraneo alla rapina, ma Lang non da elementi che lo scagionino allo spettatore, anzi, le prove risultano essere tutte contro di lui.

Nell’insieme non lo considero il miglior Lang di sempre, ma decisamente un ottimo film.

sabato 26 marzo 2011

Destino - Fritz Lang (1921)

(Der müde Tod)

Visto in DVD.
Una ragazza perde l’amato, ma non si da per vinta, raggiunge la morte (che ha trovato casa vicino ad un cimitero in un paesino tedesco… chissà perché, certamente non per il clima) e la implora di restituirle l’uomo. La morte (che come dice il titolo originale è ormai stanca delle sofferenze che è obbligata a imporre) le offre una chance, se riuscirà a salvare almeno una delle 3 vite che stanno per spegnersi in quel momento, le offrirà in cambio quella del suo amore. Questa è la cornice entro cui iniziano poi 3 storie separate ambientate in medio oriente, nella Venezia rinascimentale e in Cina. La ragazza fallirà tutte e tre le prove, ma lo stesso insisterà con la morte di ridarle l’amato, la morte allore (fin troppo magnanima a mio avviso) le concede uno scambio, le ridarà la vita che lei cerca se troverà qualcuno disposto a morire; uno scambio vantaggioso… peccato che vecchi, malati o indigenti che siano, anche se a parole sembrano soffrire ogni respiro, in realtà sono ben attaccati alla ghirba. Nonostante tutto però la ragazza dimostrerà che l’amore è più forte della morte…

Drammone langhiano per eccellenza, che già dal titolo (italiano stavolta) chierisce subito il tema portante di tutta la produzione del regista, la lotta dell’uomo contro il proprio destino; e come Lang stesso amava dire, non conta il risultato, ciò che importa è se si è lottato per raggiungerlo o meno.

Il film è chiaramente ispirato a “Intolerance” per via della costruzione con più storie autoconclusive attorno ad un tema centrale, ma qua (come nel successivo film di Leni) i 3 racconti sono posti all’interno di una cornice e, devo ammettere, che la cornice è decisamente l’episodio migliore del film. I 3 racconti sono molto diversi per tono e tema, passando dal dramma al comico dell’episodio cinese, che però risulta il più spettacolare a livello visivo con una serie fenomenale di effetti speciali (Lang sostenne che Fairbanks lo contattò per sapere i segreti dei trucchi del film per poterli copiare ne “Il ladro di Bagdad” di Raoul Walsh; versione mai confermata da Walsh stesso).

Al di la della storia della morte con la ragazza il film si fa apprezzare soprattutto per la messa in scena, esteticamente impagabile, anche se estremamente luogo comunista nella realizzazione degli ambienti esotici dei 3 episodi. Su tutto però si fa ricordare l’antro della morte, con mura altissime che sembrano schiacciare gli individui e con una foresta di fiamme, le vite degli uomini.

venerdì 25 marzo 2011

Shanghai Express - Josef von Sternberg (1932)

(Id.)

Visto in DVD.
Su un treno che da Pechino va a Shangai si danno appuntamento vari personaggi facenti parte dell’elite colonizzatrice della Cina, una galleria di personaggi medio borghesi piuttosto ipocriti e generalmente tutti apparenza e niente sostanza (come il generale francese che in realtà non è più nell’esercito, ma indossa ancora la divisa per non far sapere alla sorella dello smacco). Su questo treno però c’è pure la Dietrich, che incontrerà l’unico suo vero amore, peccato che gli anni siano passati e che lei nel frattempo si sia riciclata come entreneuse di classe (a tutti nota come Shangai Lili); ma l’amore non è scomparso, è solo vittima del distacco e dell’orgoglio. Quando il treno sarà assaltato dai ribelli cinesi, il capo dei guerriglieri sceglierà come ostaggio chiave proprio l’amato della Dietrich; e vuoi che Marlene, che a parole lo disprezza e basta, non sia disposta a tutto pur di liberarlo.

Drammone sentimentale come neanche “Marocco”, dal ritmo rilassato, ma non noioso, che passa via abbastanza innocuo e senza scossoni. La più importante innovazione di questo film è la trasformazione della Dietrich da donna carnale e sensuale com’era in precedenza (si veda soprattutto “L’angelo azzurro”) in algida rappresentazione della femminilità assoluta, tanto perfetta quanto irraggiungibile. Non a caso infatti in questo film alla protagonista non sono concessi numeri musicali o vestiti scosciati, ormai non è più una donna sexy, ora è la donna per definizione; come a dire, da star la Dietrich è diventata leggenda.

giovedì 24 marzo 2011

Il signore del male - John Carpenter (1987)

(Prince of darkness)

Visto in VHS.
Ok, la storia non l’ho capita bene bene… certamente c’è il male chiuso in una acquario (una cosa simile comunque) nei sotterranei di una chiesa… che cosa sia questo male non è comprensibilissimo; o è Gesù, che si rivela essere l’emissario di un dio maligno che la chiesa cattolica ha modificato per i suoi scopi; oppure è una sorta di anti-Gesù (un Gesù opposto a quello da tutti conosciuto, che sta a quello come un’anti particella sta alla particella originale nella fisica quantistica) che viene sulla terra per richiamare al di qua dello specchio (fisicamente) un anti-Dio.

Comunque stiano le cose, il prete locale (il sempre ottimo Pleasence) chiama a raccolta una selva di scienziati di varie branche per studiare bene l’affare che tiene in cantina… peccato che mentre sono tutti dentro questo vecchio edificio, l’acquario cominci a prendere vita e richiama a se una serie di barboni/zombi che impediscono l’uscita agli scienziati; e qui Carpenter torna a giocare in casa creando un ottimo film d’assedio.

Allora diciamolo subito, Carpenter crea un horror incredibilmente nichilista (se hai contro di te Dio, hai poco da fare, cioè dai, è onnipotente, come pensi di riuscire a batterlo?) e con il sotterfugio religioso riesce anche ad evitare l’utilizzo del diavolo come antagonista, personaggio questo che nell’horror moderno è ormai usuratissimo. L’atmosfera dunque è buona e quando il film vira verso il genere d’assedio funziona anche a dovere… però c’è poco da fare, la storia è confusa ed esposta malissimo, si risolve in una sequenza finale affascinante ma semplicistica (ok, c’è un sacrificio, ma tecnicamente è stato inutile, poteva evitarselo) e soprattutto viene messa troppa carne al fuoco (vada per l’idea religiosa, ma i sogni che vengono creati da tachioni inviati dal futura per aiutarci mi pare eccessivo, anzi è proprio inutile ai fini del film).

L’idea e le premesse sono ottime, ma non vengono sfruttate a dovere. Peccato sarà per la prossima volta.

PS: nel cast c’è pure Wong (!), il monaco caccoloso de “Il bambino d’oro”!

mercoledì 23 marzo 2011

Scarpette rosse - Michael Powell, Emeric Pressburger (1948)

(The red shoes)

Visto in Dvx.

Un giovane compositore ed una giovane ballerina incontrano un non più giovanissimo produttore di spettacoli teatrali… vuoi che non siano tutti dei geni bruciati dal sacro fuoco? Beh per dimostrarlo viene allestito uno spettacolo tutto nuovo, Scarpette rosse appunto… ma vuoi che una cosa non tiri l’altra e i due giovani si innamorino?... peccato che il produttore non ammetta che la passione per l’arte venga offuscata da quella per l’amato e cambi collaboratori qualora questi intreccino intrallazzi amorosi. In poche parola il produttore li scarica entrambi; ma la ballerina è davvero brava e dopo un anno di fermo per non oscurare/scontentare il marito si lascia sedurre di nuovo dall’arte e dal produttore e torna sulla scena. Nel tragico finale dovrà scegliere fra l’amore per un uomo e quello per il ballo.
Il sottotitolo di questo film sarebbe potuto essere “quando l’arte brucia l’anima”, e la storia verte integralmente su questo, mostrando personaggi che si sono concessi unicamente al fuoco sacro, altri che hanno preferito la vita terrena, e altri, coma la ballerina protagonista, che incerti sul da farsi finiranno tragicamente.
Più che la regia il lavoro più impressionante di questo film sono le titaniche scenografia. Nelle scene in esterni normali sono suggestive e ben realizzate, ma non sono niente rispetto alla scena del balletto. Quella scena vale tutto il film, un tripudio di surrealismo, sperimentale e totalmente riuscito, da far impallidire i musical odierni (anche se questo poi non è un musical) se si considera che è un film degli anni quaranta.
Poi per carità il resto del film è piacevole, mai stucchevole e ben diretto e il finale l’unico possibile, eppure dopo quella scena il resto è solo silenzio.

martedì 22 marzo 2011

La grande pioggia - Clarence Brown (1939)

(The rains came)

Visto in VHS.
Nell'India degli anni '30 abita un George Brent, conosciuto come un viveur da tutti ed in effetti lo è proprio, quello che si sa, forse, meno è che ha pure un cuore d'oro. La sua vita è abbastanza complessa, tutta tesa com'è tra un cocktail col suo amico Tyrone Power (medico indiano tanto figo che tutti ammirano) e la famiglia regnante del luogo, le avance di una sua giovane spasimante e le grinfie di una sua ex (la Loy) che presto punterà i suoi interessi verso il più giovane Power. Per fortuna verrà la pioggia torrenziale e il cedimento della diga a portare un pò di distruzione nella cittadina e a far muovere le cose verso il loro obbiettivo. Tutti si prodigheranno per salvare la popolazione, mentre le coppie si formeranno... qualcuno morirà nel tentativo, qualcuno prenderà il potere.

Melodrammone anni '30 senza particolari guizzi, che si fa sopportare solo per la simpatia di Brent e per gli effetti speciali dell'innondazione davvero lodevoli (cosa non si può fare con un buon modellino...). Niente di più.

lunedì 21 marzo 2011

Rango - Gore Verbinski (2011)

(Id.)

Visto al cinema. Un camaleonte che vorrebbe essere un attore, ma alla fin fine ha solo un’identità confusa e poca personalità, finisce, suo malgrado, in un paesino del west con gravi problemi idrici. Li potrà reinventarsi un’identità superomistica, diventerà sceriffo grazie ad una serie di fatalità e dovrà affrontare il problema dell’acqua.

Film d’animazione western/comico, molto, molto divertente. Dal punto di vista dell’ambientazione è evidente che Verbinski guarda a Sergio Leone e al suo modo di creare il west a partire dai volti, tutti i personaggi sono perfette creazioni leoniane impersonate da animale, con polvere, povertà, cicatrici e denti storti nella migliore tradizione del regista italiano; questo prima ancora delle ormai consolidate inquadrature scopiazzate da Kurosawa. Poi ci mette un pizzico di quella versione moderna, del deserto come luogo dell’anima, di spazio metafisico utile per trovare se stessi… e le due versioni, a mio avviso, riescono ad essere legate in maniera sufficientemente credibile.

Se la storia alla fin fine non è molto originale, c’è da dire che l’eterno discorso sul rapporto tra realtà e finzione, sull’accettazione della propria maschera e sulla creazione del mito è un tema eterno; e mai come in questo film era stato urlato a squarciagola (addirittura commentando i momenti cinematografici chiamandoli per nome) ottenendo però un risultato decisamente positivo. Fondamentale per la credibilità di una storia tanto sfacciata il fatto che non si prenda sul serio e che la componente comica risulta essere predominante

Dall’altra parte abbiamo una regia perfetta; è evidente che Verbinski è uno abituato a girare film tout court e non si è limitato a realizzare un cartone animato. Tutto è soppesato, le citazioni tutti i western classici (più altre strizzatine d’occhio, anche a “I pirati dei caraibi” stessi nella scena del sogno) sono fini ed i camei evidenti, ma non sottolineati con pesantezza (stupendo Raoul Duke con il dr. Gonzo; e palese Clint Eastwood); le inquadrature ragionate per rimandare sempre ad un modello classico, ma fatte veramente da dio; anche se il meglio lo da quando non crea scene apertamente citazionistiche (stupenda la scena della caduta di Rango fuori dalla macchina, o il momento del sogno).

Infine c’è da sottolineare come l’animazione CGI sia ormai divenuta d’uso comune se un regista può creare un film tecnicamente perfetto (i personaggi sembrano veri; mentre le “location” hanno tutte le caratteristiche del materiale con cui sono “fatte”, ad esempio nella vaschetta dove sta Rango all’inizio del film è palese che si tratti di un mondo di plastica) pur rimanendo fuori dai circuiti dei grandi come la Pixar.

Un film davvero magnifico sotto quasi tutti i punti di vista. Volendo proprio contestare qualcosa si può dire che con un minimo in più di originalità nella storia avrebbe potuto essere un capolavoro.

domenica 20 marzo 2011

La locanda della felicità - Yimou Zhang (2000)

(Xingfu shiguang)

Visto in DVD.
Un operaio con le pezze al culo tenta di fidanzarsi con un’arpia di donna, ma ci guadagna solo di prendersi cura della di lei figliastra… peccato aver fatto credere a tutti essere il proprietario di un hotel, ora deve far credere a lei di farla lavorare in un centro massaggi, per fortuna è cieca… con un gruppo di suoi amici costruisce una stanza ad hoc in una fabbrica abbandonata e a turno li fa andare sotto le mani della ragazza… vuoi vedere che lei ha trovato il suo padre perduto in questo sconosciuto? Peccato che il destino non sia favorevole.

Favola della miseria che ricalca molto Chaplin (si veda “Luci della città”), ma che nell’utilizzo di comprimari in massa sembra riecheggiare un poco i film Capreschi. Favola ironica ma dal finale amaro, che non rinuncia a lasciare il dubbio nello spettatore.

Zhang Yimou confeziona un film delicato con dei colori delicati quanto la storia, il tono è nettamente diverso dagli altri film del regista, ma lo sguardo verso il basso della scala sociale, la storia fatta di rapporti umani mostrati e non spiegati e la Cina che viene esposta è quella della miseria non della gloria; si insomma il tono cambia ma Yimou è sempre lui.

La trama inoltre non si ferma allo svolgimento dei fatti, ma è una storia di menzogne tenute in piedi fino allo stremo, a metà via tra un discorso sul cinema come fabbrica di bugie e le tendenze di un regime a mantenere vive apparenze sopra una voragine vuota.

sabato 19 marzo 2011

La strada verso casa - Yimou Zhang (1999)

(Wu de fu qin mu qin)

Visto in DVD.
Un uomo torna al villaggio natale per la morte del padre, vecchio maestro del posto, e deve cercare di mediare alle richieste della madre per un funerale tradizionale. Nel mentre racconterà la storia d’amore dei due genitori e della vita del padre dedicata all’insegnamento.

Zhang Yimou vira verso una sorta di neorealismo alla cinese, che non rinuncia affatto al sentimento, anzi, che si accompagna con una storia d’amore semplice dai sentimenti delicati, che si racconta con calma, con molti silenzi più che con le parole. Tutte le emozioni passano allo spettatore ed il film, pur essendo molto consueto, funziona e attrae.

Il regista però non rinuncia ad alcune idee di messa in scena, come un uso accorto del colore (mai violento, ma sempre preciso) e con l’uso del bianco e nero per gli episodi ambientati ai giorni nostri.

Le accuse di servilismo verso la dittatura comunista cinese (mi pare che questo sia il film che ha segnato definitivamente il sodalizio Zhang Yimou/regime) mi pare un poco pretestuoso, certo il regista realizza film in Cina con soldi cinesi, e pertanto sottostà alle indicazioni generali, ma il prodotto è totalmente indipendente e non si priva di alcune (lievi) frecciatine vero la rivoluzione culturale, oltre alla rappresentazione di una Cina affogata nell’arretratezza… si insomma, più di quanto abbia fatto Eisenstein in certi film o la Riefenstahl in qualunque suo film.

venerdì 18 marzo 2011

Nightmare III: i guerrieri del sogno - Chuck Russell (1987)

(A nightmare on Elm Street 3: dream warriors)

Visto in Dvx.

La Langenkamp torna in scena, appena tre anni dopo, e già è psicologa affermata. Comunque sia è qui per aiutare degli adolescentelli con problemi di sonno. Ovviamente sono le ultime vittime di Freddy figlie di genitori che ammazzarono il povero matto, e stavolta si trovano in un manicomio, perché tanto in asse non sembrano, ovviamente ci sono dottori buoni che li aiutano, ma più di tutto li capiscono e dottori cattivi… vabbe.

Il film è eccellente, realizzato bene (con diverse sequenze in passo uno realizzate malino e una sequenza in CGI realizzata da schifo; ma comunque apprezzabili entrambe), con nessuna caduta di stile, ma solo qualche pecca (l’assassinio alla tv, realizzato da dio, è un poco kitch, mentre quello col burattino umano è al limite della decenza, ma decisamente efficace; o ancora il mago, precursore di Harry Potter, che mette tanta tanta tristezza); ma soprattutto mille idee e mille innovazioni.

In primo luogo si da un passato a Freddy, che diventa figlio di una suora violentata da una miriade di matti. Poi si crea il personaggio come oggi lo conosciamo, ironico, divertente e strafottente. Infine vi è l’applicazione sociale dell’idea, il film, cioè, risponde alla domanda, cosa succederebbe se Freddy esistesse davvero? Ovvio, le vittime sarebbero chiuse in un ospedale psichiatrico fino a morirne ad una ad una.

Un film decente che non solo non sfigura con l’originale, ma anzi, ne è un degno seguito (e dire che da quanto mi ricordavo mi pare un’oscenità totale) che fa fare netti passi avanti all’intera saga… e anche stavolta ci mette la lingua bovina, che diventa ormai un must della serie.

PS: primi passi da urlo per la Arquette e per Laurence Fishburne (no dico, Morpheus nel regno di Krueger).

Forse vi ricorderete di me per scene come: su tutte il serpentone/Freddy che succhia la Arquette, idea magnifica, realizzazione a passo uno impeccabile e scena grandiosa. Poi si fanno ricordare con piacere gli artigli di Freddy che divengono siringhe e le bocche sulle braccia della tipa che cercano droga (pure un risvolto sociale!). Infine mi pregio di ricordare pure le faccette dei bimbi sul petto di Freddy, banale forse, ma efficace.

giovedì 17 marzo 2011

Robin Hood - Allan Dwan (1922)

(Id.)

Visto in VHS.
Allan Dwan è forse il più misconosciuto dei mostri sacri del cinema. Si può dire che assieme a Griffith (cominciò solo 2 anni dopo di lui) ha creato l’arte cinematografica come oggi la conosciamo. Se Griffith ha inventato il linguaggio dei film, Dwan ha inventato le tecniche per realizzarli; è infatti merito suo l’invenzione del carrello (la prima inquadratura in movimento è in un suo film), il dolly (tecnicamente una macchina da presa montata su una gru) e fu il primo a creare l’inquadratura dall’alto (questa volta lo fece proprio per Griffith). Inoltre tenne a battesimo alcuni dei futuri registi più importanti, da Ford a von Stroheim fino a Fleming; oltre che alcuni attori, da Ida Lupino a Lon Chaney e creò il mito di altri come Shirley Temple o Gloria Swanson (la scena in cui Norma Desmond si traveste da Chaplin in “Viale del Tramonto”, cita proprio un film di Dwan “Manhandled”)… e questo è solo parte del suo merito.

Detto ciò bisogna aggiungere che scoprì e rese celebre pure Douglas Fairbanks; il primo eroe americano; protagonista indiscusso dei più importanti film d’azione del muto, autore di personaggi vincenti ma intrisi di una spacconeria ironica e comica che ebbero un successo sconvolgente (e Fairbanks fu il prototipo anche degli stuntman, realizzando di persona ogni scena action).

Questo film fu quello che decretò il successo della coppia Dwan/Fairbanks. Ovviamente la storia è sempre quella di Robin Hood con poche differenze (storia che non mi ha mai entusiasmato), ma il film si fa apprezzare per un gioco di inquadrature fisse reso molto snello dal montaggio piuttosto serrato che alterna al campo lungo/campo medio, la figura intera o il primo piano in un campo-contro campo rapidissimo che tiene desta l’attenzione in maniera continua. Le scenografie poi si fanno ricordare, più che per la bellezza in se per l’imponenza (un castello con stanze enormi e mura altissima, davvero impressionante) e che vengono sfruttate per le perfomance di un Fairbanks in stato di grazia, molto fisico e sempre efficace.

In ultima analisi, nonostante la non eccezionalità del soggetto, il film scorre via senza intoppi e senza momenti di stanca nonostante sia muto; un pregio indicibile. Nessun colpo di genio, ma una capacità di tenere le redini del film davvero impressionante.

mercoledì 16 marzo 2011

Prigionieri dell'oceano - Alfred Hitchcock (1944)

(Lifeboat)

Visto in DVD.
Seconda guerra mondiale; una nave passeggeri statunitense viene affondata da un sottomarino tedesco che, però, viene distrutto anch'esso. Una manciata di persone (tra passeggerri ed equipaggio) si salvano fortunosamente salendo su di una (enorme) scialuppa di salvataggio... assieme a loro, però, si salverà anche un tedesco... le cose sono complicate fin da subito; dove devono dirigersi? ci si può fidare del tedesco, oppure è meglio farlo fuori subito?

Meraviglioso thriller di Hitchcock tutto all'insegna dei colpi di scena che si susseguono fino alla fine e contemporaneamente il film si dedica all'arte della disperazione, con personaggi perduti ed impauriti (alcuni) già condannati alla morte.
Al di la della precisa regia di Hitchcock (che si complica la vita girando sempre nello stesso limitatissimo spazio fino alla fine, e riuscendo comunque a tenere desta l'attenzione; anche utilizzando piccoli dettagli ricorrenti, come i tatuaggi sul petto o la scarpa) il film si avvale di una sceneggiatura impeccabile che costruisce fin da subito dei personaggi monolitici (su tutti Tallulah Bankhead) e li fa agire nel modo più rigoroso in una situazione al limite. Continue le discussioni, gli scontri e giudizi spicci, tutti catalizzati dalla presenza del nemico a bordo; la trama si dipana con un susseguirsi di dilemmi morali sul da farsi per salvarsi la vita e sul da farsi con il prigioniero... prigioniero che si dimostra presto decisamente superiore agli altri personaggi e che da vittima in balia del gruppo diventerà lui il secondino e gli altri i suoi prigionieri (prigionieri delle sue capacità e della sua previdenza...oltre che dei suoi inganni).
Sulla barca viene ritratto un microcosmo dove i rapporti di forza sono in continuo rinnovamento; dove a governare è il fascino più che la capacità e dove può esistere la pietà, ma anche la rabbia e la vendetta.

Un film potente ed inaspettato.

martedì 15 marzo 2011

Sogno di prigioniero - Henry Hathaway (1935)

(Peter Ibbetson)


Visto in DVD.

Due bambini (maschio e femmina… siamo negli anni ’30), vicini di casa a Parigi sono eterni compagni di giochi e l’affetto fra i due è più che evidente e non si può parlare d’amore solo per l’età. Il bimbo perde la madre e, adottato da uno zio, sarà costretto a trasferirsi in Inghilterra. A causa di una fortunata serie di coincidenze si ritroveranno e, pur senza riconoscersi subito, si ri-innamoreranno l’uno dell’altra (ma per tutti quegli anni non si son mai dimenticati)… poi però per una sfortunata serie di coincidenze lui ammazza uno e deve finire in prigione dove viene vessato e pestato a dovere. Non c’è più speranza di incontrarsi nella vita reale e pertanto i due si danno appuntamento in sogno, dove vivono una vita lunga e felice finché morte non li separi.

Film d’amore sovrannaturale come andò di moda dagli anni ’30 ai ’40 e fra tutti è forse il più commovente… il soggetto però sembra aver assorbito tutte le energie a scapito della sceneggiatura che ha il non usuale pregio di risultare quietamente irritante già nei primi 10 minuti, dove i giochi e i battibecchi dei bambini durano molto più di quanto io possa sopportare. Prosegue poi con qualche lungaggine di troppo fino alla terza parte, quella del sogno. Gli effetti speciali, il lento disvelarsi delle regole del sogno e l’ambiente onirico (attenzione, non siamo assolutamente dalle parti di Bunuel, è più un Walt Disney) appagano in parte la perdita di pazienza spesa nell’arrivare alla fine.

Si insomma, tutto troppo lungo per quanto interessante e originale; se solo Hathaway non avesse voluto fare un blockbuster strappalacrime e strappa consensi, sarebbe riuscito a tirar fuori un film anche migliore. Apprezzabile comunque, soprattutto perché se lo rifacessero oggi con Amanda Seyfried e Hugh Jackman per la regia di quel cinefilo di Garry Marshall, verrebbe decisamente peggio.

lunedì 14 marzo 2011

Truman Capote: A sangue freddo - Bennett Miller (2005)

(Capote)

Visto in DVD. Film sulla gestazione del libro più celebre (in America) di Truman Capote: "A sangue freddo". Cronaca documentaristica dell'assassinio di una famigliola di campagna del Kansas ad opera di un paio di sbandati. Il libro fu concepito come reale racconto dei fatti e del succesivo processo, e per fare ciò, Capote, intervistò, ando spesso a trovare e legò con i due assassini e con tutti i personaggi coinvolti nella vicenda. Al termine del processo, dopo quattro anni e a condanna di morte avvenuta il libro fu pubblicato.

Due sono le cose largamente positive del film.
In primo luogo Hoffman, che mai come in questo caso è grandioso. Imita tutto di Capote, il volto, le smorfie, l'atteggiamento, la voce, i difetti ed il linguaggio. Assolutamente perfetto senza essere mai sopra le righe. Per gustarlo appiene è necessaria la lingua originale.
In secondo luogo il film non fa sconti al suo protagonista, che lo mostra come il personaggio che era, vanistoso ed egocentrico, interessato solo a se e ai suoi libri anche a scapito dei sentimenti (o le vite) altrui.

Il difetto principale è però l'andamento, la regia... Il film risulta fin da subito algido e distaccato ("algido e distaccato" is the new "mi sono addormentato guardandolo"), forte di una fotografia glaciale il regista vorrebbe essere asciutto e tecnicamente simile ad un documentario, ma tutto quello che ottiene è una certa perfezione formale affogata nella lentezza e nella ripetitività di una trama non esattamente con i fuochi d'artificio.
L'effetto finale è di un film che sembra durare il doppio dei suoi 114 minuti.

domenica 13 marzo 2011

K-19 - Kathryn Bigelow (2002)

(K-19: the widowmaker)

Visto in DVD, in lingua originale sottotitolato.

Un sottomarino nucleare russo, il K-19 appunto, costruito in tutta fretta per poter incutere del sacro timore agli USA comincia a mietere vittime ancor prima di partire… figuriamoci dopo… viene mandato a lanciare un missile di prova, ma nel ritorno il reattore nucleare ha problemi… qualcuno deve entrare a ripararlo, ma mancano i mezzi e le protezioni…

La regia mi tocca dirlo non è niente di che. Per carità, fa il suo lavoro, ci infila pura qualche piano sequenza vero (con camera a mano dentro i meandri del sottomarino) e qualcuno farlocco (che entra nel sottomarino da finestre e pertugi), ma la Bigelow sembra aver abbandonato lo spirito innovativo di “Strange days” e non ha ancora raggiunto l’asciuttezza e bellezza visiva di “The hurt locker”.

Il film però è decisamente ben narrato. Un film di 2 ore e passa pieno di tecnicismi incomprensibili che non cala quasi mai di tensione, ma anzi, nell’acme degli avvenimenti riesce a commuovere esattamente come dovrebbe, è un film che funziona.

Assolutamente originale il soggetto, una storia di eroismo e patriottismo dell’Unione Sovietica fatta dagli americani… no per dire…

sabato 12 marzo 2011

La notte dell'iguana - John Huston (1964)

(The night of the iguana)

Visto in DVD, in lingua originale sottotilato in italiano.

Un pastore (Burton) viene allontanato dalla chiesa per aver circuito una giovane pecorella. Diventa quindi guida turistica in Messico per conto di Dio (nelle gite organizzate dalle parrocchie), ma durante uno di questi viaggi gli capita a fianco un'adolescentella sexy e ingrifata e una arcigna capogruppo che lo prende rapidamente in antipatia. La situazione esploderà quando arriveranno all'albergo di un'amica del pastore (Gardner)... e li tutti dovranno fare i conti con i propri demoni e la propria solitudine.

Opera di Tennessee Williams, come al solito torbida e sofferta ai massimi livelli, con personaggi distrutti... ma stavolta Huston ci mette lo zampino e rende la storia piuttosto ironica, quasi una brillante discesa all'inferno (la cosa piacque poco a Williams) e ci attaccu pure un happy ending basato sull'accettazione delle proprie debolezze che ci sta proprio. La sceneggiatura a dirla tutta, latita un po in credibilità nella scena in cui Burton si trova legato all'amaca; li il film diventa verboso in maniera eccessiva e l'origine teatrale si palesa in maniera orribile (e si fa un uso del metaforone francamente eccessivo), ma superato quel momento la trama fila che è un piacere.

La regia è trattata con la stessa classe di sempre, con inquadrature ad effetto sempre ragionate ed un uso degli attori splendido. Ma proprio qui sta il vero punto di forza; il cast. Tutti recitano da dio (la mia preferita è la Gardner, ma sono ineccepibile tutte le coprotagoniste femminili) e Richard Burton sembra essere nato per i personaggi perduti e stropicciati.
Applausi a scena aperta.

venerdì 11 marzo 2011

I racconti della luna pallida d'agosto - Kenji MIzoguchi (1953)

(Ugetsu monogatari)

Visto in DVD, in lingua originale sottotitolato.


Giappone medievale, un vasaio ed il fratello (che vuole fare il samurai pur essendo un inetto) partono per la città vicina per vendere stoviglie in ceramica, abbandonando però le rispettive famiglie. Giunti in città il vasaio incontrerà una ricca dama che si dimostrerà un’estimatrice dei suoi prodotti e di lui stesso; mentre il fratello deciderà di combattere realmente e per un colpo di fortuna verrà osannato come un eroe. Ma mentre i due inseguono i loro demoni, da cui rimarranno scottati (soprattutto il vasaio), le rispettive famiglie verranno vessate in ogni modo e trascinate verso la tragedia. Nel finale, solo il ritorno alla normalità e l’accettazione dello status iniziale riporterà la calma e una possibilità di redenzione.
Film sull’ossessione e sulla fame, di soldi da una parte e di fama dall’altra, e sulle conseguenze dell’incapacità a trattenere queste tendenze. I due protagonista saranno infatti portati a sacrificare ogni cosa per il denaro ed il successo, anche in un aperto rifiuto della famiglia originale (il vasaio accetterà le lusinghe della ricca dama e se ne staccherà solo dopo averne scoperta la vera natura). Il finale, come detto, darà loro la possibilità di rifarsi della loro colpa, anche se il male compiuto sarà incancellabile.
Mizoguchi mette in scena un racconto morale intriso di sottotesti sull’arte e sul successo; il tutto senza mai annoiare o perdere il filo; intrattenendo con una capacità invidiabile. La regia si dimostra dinamica, ma calma. Lenti carrelli accompagnano quasi ogni scena e l’inseguimento dei personaggi nell’ambiente è continuo.
Un film sorprendentemente bello, che basta da solo a convincere a riscoprire Mizoguchi che, lo ammetto, non conosco affatto.

giovedì 10 marzo 2011

The international - Tom Tykwer (2009)

(Id.)

Visto in DVD.

Un agente dell’Interpol scopre delle connessioni fra una banca e l’acquisto di missili… che cosa ne vorrà fare??? L’agente ci rimane ossessionato e, quasi, da solo comincia ad indagare in un turbinio di personaggi, fatti, collegamenti ed inseguimenti dalla Germania, all’Italia (Barbareschi interpreta Berlusconi!!!! Stupendo) dagli USA alla Turchia.

Uno stupendo action assolutamente originale, dove niente si svolge come lo spettatore se lo può aspettare. Neppure una scena di sparatoria (come quella stupenda realizzata nel Guggenheim) lascia nulla alla banalità. Tutto è attentamente studiato per non essere prevedibile.

Tykwer è assolutamente geometrico e algido nella messa in scena, mostrando un mondo distaccato e spietato in una maniera decisamente personale, come non capitava da tempo.

Eccezionale anche il lavoro fatto sulle locations. Si perché questo film è fatto di trama tanto quanto di architettura. Nessun luogo è fine a se stesso, ma trasmette lo spirito di quello che vi succede.

Un film eccellente ed originale come non si vedeva da tempo nel genere d’azione.

mercoledì 9 marzo 2011

Mister hula hoop - Joel Coen, Ethan Coen (1994)

(The Hudsucker proxy)


Visto in VHS, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Finalmente i Coen azzeccano completamente un film. A fronte della solita fotografia curatissima, una scelta degli attori e della messa in scena impeccabili e della consueta regia dinamica ed inventiva; riescono ure a creare una buona storia. Un ingenuotto viene preso, per questioni legali, a dirigere un’impresa milionaria perché i titoli di questa vadano sotto i tacchi, purtroppo però ha qualche idea geniale di troppo, e tra una giornalista senza scrupoli che vuol capire chi sia, e un braccio destro che decide di sbarazzarsi di lui non avrà vita facile.

La base sono le commediole upper class anni ’50 e come tale si muove e centra i punti necessari. Ma come sanno fare talvolta i Coen, riescono a giocare con il genere, disilludendo le aspettative del pubblico (stupenda ad esempio la scena in cui Paul Newman viene trattenuto dai pantaloni da una disdicevole caduta dal 44esimo piano) e mescolando il tutto con un lisergico finale che ammicca pesantemente ed ironicamente a Frank Capra. Ovviamente c’è leggerezza e divertimento e ovviamente ci sono dialoghi rapidi ed impeccabili che danno un ritmo velocissimo al film.

Un film assolutamente perfetto nel suo genere; non un capolavoro, ma un film che punta in alto e azzecca tutti gli obbiettivi che si pone, e forse qualcosa in più…

PS: l’unica pecca è il titolo italiano, che elimina completamente l’effetto sorpresa del leit motiv del cerchio e che annienta il miglior gioco che i Coen fanno con le aspettative del pubblico… americano.

martedì 8 marzo 2011

La parete di fango - Stanley Kramer (1958)

(The defiant ones)

Visto in DVD.


Un bianco del sud degli Stati Uniti ed un nero, entrambi carcerati, vengono incatenati insieme per essere trasportati ai lavori forzati. Il mezzo su cui viaggiano ha però un incidente, e i due riescono a fuggire. Ci si può ben immaginare l’imbarazzo di andare in giro insieme, razzista uno e nero l’altro, in un mondo razzista come quello degli anni ’50… ovviamente il cameratismo avrà la meglio, anche sugli interessi personali…


Per carità, visti gli anni è certamente un film coraggioso… però è veramente banale, quasi sempre prevedibile e senza ritmo. Molti i dialoghi, molto spesso troppo lunghi e verbosi per mantenere l’interesse e con eccessivi significati francamente inutili.


Poche le scene significative (come quella dentro la cava d’argilla) e comunque troppo enfatiche.


Si unisca quanto detto con un Tony Curtis assolutamente fuori parte nei panni dello sprezzante carcerato razzista e si ottiene un film anni ’50 wannabe cult, ma senza nessuno stigma del genio.

lunedì 7 marzo 2011

American graffiti - George Lucas (1973)

(Id.)

Visto in VHS.

La notte prima di partire per il college quattro amici si trovano per festeggiare insieme, in realtà si perderanno presto di vista ed ognuno, a modo suo, perderà l’innocenza, l’ingenuità, o le illusioni dell’adolescenza. Il protagonista, Dreyfuss, si incamminerà in un percorso per cercare ostacoli da frapporre alla partenza, perché in realtà non vuole lasciare casa; l’incontro con uno stanco idolo dei giovani che farebbe carte false per essere giovane e potersene andare gli darà l’ultima spinta per partire.
Lieve racconto di formazione (che darà il la per “Happy days”, ma per fortuna qui non siamo nei meandri del cinema comico) per strutturato, che ha però la sua carta vincente nell’ambientazione agli inizi degli anni 60, paragonando così la spensieratezza della gioventù dei protagonisti con quella degli Stati Uniti (di li ad un anno morirà Kennedy, dopo due inizierà il Vietnam, dopo sei ci sarà il 68) che ancora non hanno perso le illusioni.
Il film si lascia seguire con grazia e presenta una carrellata di personaggi simpatici che sembrano banali, ma che ad uno sguardo più attento si mostrano come perdenti in partenza, senza possibilità di rivalsa (il meccanico che non andrà al college ma rimarrà bloccato nelle gare d’auto e nel suo lavoro; Ron Howard che manderà tutto per aria per amore, ecc).
L’unico neo è che questo film sembra la pubblicità di una concessionaria. I personaggi passano più tempo a girare in macchina senza meta che nei loro vestiti. Se davvero erano così gli anni ’60 allora capisco da dove viene tutto l’inquinamento dei nostri giorni.

domenica 6 marzo 2011

Lo squartatore di New York - Lucio Fulci (1982)

(Id.)

Visto in VHS.

Per New York va in giro un matto che squarcia i ventri di giovani figliole e prende per il culo la polizia telefonando con la voce di paperino…
Allora, se vogliamo fare un paragone questo è proprio un film alla Dario Argento. Di meglio di Argento ha la semplicità, non nella trama, ma nello stile; Fulci evita ogni barocchismo e rinuncia ad effetti autoriali in favore di una film visivamente più semplice e meno pesante di qualunque film di Argento. La cosa è decisamente positiva… inoltre Fulci dimostra una certa capacità nel mettere in scena, nel narrare; si prende gioco dello spettatore facendogli credere cose che poi sistematicamente smentisce (su tutte l’arrivo del ragazzo nell’ospedale dove è ricoverata la donna sopravvissuta, che sembra essere una minaccia, invece…)
Però Fulci ci prova a creare tensione, a fare suspence, se non addirittura paura… ma non ci riesce. Ci prova, ma neppure lo splatter è decente. Giusto del rosso schizzato in giro, ma niente di più. Inoltre la storia, per carità, funziona, stupisce ed è quasi quasi credibile; però è evidente che Fulci ci tiene poco, vuol solo mettere in scena qualche ammazzamento per giustificare la descrizione di un mondo. Si perché il regista sembra più interessato a mostrare una New York sommersa dalla morbosità che non a seguire le vicende di un ispettore, di una vittima e di un assassino. Ogni personaggi di questa vicenda ha un rapporto distorto con la sessualità, anche quelli positivi (l’ispettore che fa sesso solo con prostitute, o lo psicologo che è un omosessuale represso che si sfoga con le riviste); lunghe scene indulgono sulla donna che va in giro a registrare gli ansiti, anche se molte di quelle scene sono oggettivamente inutili; le riprese in esterni sono spesso in vie a luci rosse; ecc… Fulci vuol creare un mondo incentrato sul sesso in maniera malata e in questo riesce da dio, poi però quando deve raccontare una storia che si muove in mezzo a questo mondo sembra starci dietro con meno interesse; e la trama va velocemente a puttane con fatti che succedono senza essere spiegati... e ovviamente lo spettatore s'annoia.

sabato 5 marzo 2011

Ginger e Fred - Federico Fellini (1986)

(Id.)

Visto in VHS.

Una coppia di ballerini che, negli anni ’30, imitavano Astaire e la Rogers, si ritrovano dopo 40 anni per danzare insieme in una trasmissione televisiva. I vecchi ricordi, qualche segreto, le molte possibilità perdute e, su tutto, la grettezza di un mondo andato a puttane, esemplarmente mostrato dal mondo televisivo, fatto di menefreghisti, ipocriti, fenomeni da baraccone, freaks e spettacolarizzazione di tutto, anche del crimine, della santità, dell’amore ecc…

Un film amaro, e con molti rimpianti, che è una critica alla società (anche qui come in Carpenter) consumistica (si vedano gli inserti pubblicitari, televisivi e dei cartelloni) e una dimostrazione di come l’arte la possa salvare, o quantomeno momentaneamente interrompere.

Quando i due ballerini si ritroveranno a danzare insieme, tutto si ferma, e per un minuto il caos ritroverà un minimo di senso.

Su tutto vince la scena, poco prima della danza, in cui le luci saltano, e tutti rimangono sospesi in un momento che, come di dice Mastroianni, sembra un sogno.

Complessivamente però il film non convince. Troppo prevedibile e ripetitivo; e visivamente colpisce poco. Da Fellini ci si sarebbe aspettati un tripudio di immagini e storie al limite, ma non succede. Non è malvagio, ma rimane un minore nella carriera del regista.

PS: mamma com’è invecchiata la Masina.

venerdì 4 marzo 2011

Essi vivono - John Carpenter (1988)

(They live)

Visto in VHS.

Un futuro working class hero entra in possesso di alcuni occhiali che permettono di vedere il mondo reale e viene pertanto a conoscenza del fatto che l’umanità è assoggettata ad una razza di alini (dall’aspetto zombesco) che ci schiavizzano tramite messaggi subliminali tutti inerenti all’ubbidienza e al denaro. Assieme ad un gruppo della resistenza tenterà di renderlo noto al mondo.

Film incredibilmente originale di Carpenter in cui la trama horror/fantascientifica è una sfacciata presa di posizione contro il sistema capitalistico spinto che serpeggia negli USA reganiani.

Dal canto suo la trama non è proprio strutturata da dio, e il protagonista è, in molti momenti, un idiota integrale; tuttavia il film è dirompente, non solo originale, ma ben congegnato nell’idea di base che preannuncia già nei modi e nella forma la teoria del complotto dei rettiliani che va tanto di moda fra noi ggiovani. Un film imprescindibile.

giovedì 3 marzo 2011

Per qualche dollaro in più - Sergio Leone (1965)

(Id.)

Visto in Dvx.

Secondo capitolo dell’ideale trilogia preceduto da “Per un pugno di dollari” e seguito da “Il buono, il brutto e il cattivo”.

Due bounty killer, il sempre figo Eastwood e l’incredibilmente solare Van Cleef (che in questo film viene anche fatto recitare) sono entrambi alla ricerca del neo latitante Volonté. Dopo molti ripensamenti si uniranno, il primo per essere sicuro di prendersi i soldi, l’altro per vendetta.

Complessivamente il film è il più debole dei tre. La storia è la meno interessante, e abbastanza prevedibile in molte sue parti.

In ogni caso Leone fa il solito lavoro sul linguaggio cinematografico del genere western, con le sue inquadrature dal basso alla Kurosawa, con il suo montaggio in avvicinamento dei volti, e con i suoi trielli (c’è un triello di sguardi iniziale fra Eastwood, Van Cleef e l’immagine di Volonté).

Il film, comunque è piacevole e si fa apprezzare.

PS: per carità, Volonté è bravo, un attori con tutti i crismi che dimostra capacità in ogni ambito, pure nel western, ma il trittico di coprotagonisti completato da Wallach è imbattibile.

mercoledì 2 marzo 2011

Una vampata d'amore - Ingmar Bergman (1953)

(Gycklarnas afton )

Visto in DVD.


Il tenutario di un circo di quart’ordine torna dopo 3 anni al paese natale, dove ha lasciato la moglie con qualche figlio; nel frattempo però si è pure fatto l’amante, la cavallerizza, che è piuttosto gelosa. Mentre lui va a trovare i pargoli, lei per vendetta/stupidità, si concede ad un attore teatrale. Il proprietario del circo vorrebbe abbandonare la vita circense, ma la moglie non vuole accoglierlo di nuovo in casa, mesto se ne ritorna al suo baraccone dove scoprirà il tradimento dell’amante. Durante lo spettacolo della sera sarà preso di mira degli scherzi dell’attore che ha concupito (che bel termine) la cavallerizza e la situazione si risolverà in una rissa a due sulla pista del circo. Sfinito da tutti e dalla vita il proprietario deciderà di togliersi la vita… non ne sarà capace e tornerà a fare esattamente quello che faceva prima.

Amarissima riflessione sula vita di Bergman (una riflessione sulla vita fatta da Bergman che sia amara?! Ma va?) dove ogni personaggio è un archetipo incastrato nella sua vita senza possibilità di salvezza, forse anche per una sorta di limite personale.

Ciò che più colpisce comunque sono i rapporti sociali, sorretti da una struttura di disprezzo poco velato dall’ipocrisia (esemplare la scena al teatro quando vanno a chiedere dei vestiti), disprezzo che nasce dalla comune situazione di precariato.

Da antologia alcune scene come quella del tentato suicidio (un sequenza di immagini di rara disperazione) o quella della rissa sulla pista del circo dove i due contendente divengono animali su cui un pubblico gretto fa un tifo feroce fregandosene del significato di quello che sta succedendo.

PS: fotografia in B/N da urlo.

martedì 1 marzo 2011

Nightmare II: La rivincita - Jack Sholder (1985)

(A nightmare on Elm Street part 2: Freddy's revenge)

Visto in Dvx.

Secondo capitolo della saga. La trama è pretestuosa e senza motivi e il protagonista è scialbo…
Comunque… Freddy Krueger torna sulla terra e per ammazzare la gente ha bisogno di un adolescentello scialbo e problematico, la cosa non è chiara, ma è un espediente per non ripetere in maniera identica la trama del primo. Il risultato però è un Donnie Darko con le idee meno chiare e molto più irritante.
Posto il limite della storia il film si muove bene, ma non fa mai paura e mostra molto poco Freddy e come se non bastasse inanella una serie di idee cretine che più perdenti non si può; come gli asciugamani schiaffeggia-chiappe automatici, aggressioni da parte di cocorite fiammeggianti, la lingua bovina del protagonista, i cani con la maschera di sbrodolino incazzato
E come se non bastasse non c’è ironia… molte di queste scelte sarebbero accettabili con una virata verso l’ironia anche superiore a quella del primo; invece…
Il film si lascia anche guardare (anche per via della cornice onestamente anni ‘80), ma una volta finito ci si rende conto di non aver visto nulla.
Forse vi ricorderete di me per scene come: l’unica scena minimamente originale è quella in cui Freddy esce dal corpo del ragazzo. Vedere la sua faccia che si spinge fuori dal petto è certamente un bel momento, ma l’inquadratura dell’occhio nella gola è quella che si imprime di più nella memoria.