venerdì 30 giugno 2017

I maestri del tempo - René Laloux (1982)

(Les maîtres du temps)

Visto in Dvx.

A causa di un incidente un bambino si ritrova da solo su un pianeta selvaggio (ah ah ah); in contatto radio con una astronave che cerca di raggiungerlo prima che succeda l'irreparabile.

Nove anni dopo la sua opera prima, Laloux torna con un lungometraggio d'animazione e torna alla fantascienza. Per tutto il resto i due film hanno poco o nulla in comune.
Se "Il pianeta selvaggio" era una distopia seria e drammatica (oltre che molto intelligenti), questo è un racconto d'avventura (con twist plot finale) con una vena più da commedia e alcuni personaggi apertamente buffi. La struttura del film è decisamente più canonica e il colpo di scena non da spessore a una sceneggiatura meno intelligenti della precedente (ma forse non è neanche una questione di intelligenza, quanto di idea di base, fulminante nell'altro film, normale in questo).

L'altra grande differenza è nel disegno. Nel precedente il tratto particolare di Topor (tratto che inizialmente può essere respingente), dava un valore aggiunto, o comunque un marchio di riconoscimento, mentre il disegno di Moebius (l'autore di questo film) è decisamente più semplicistico, più scontato (e io ho un'idiosincrasia per il suo stile).
In entrambi i film il livello dell'animazione è basso, qualitativamente non raggiungono mai dei movimenti accettabili.

Il vero valore positivo di questo film è tutto relegato al contorno. I paesaggi, le piante e gli animali, sono disegnati con maggior cura e particolarità e rendono giustizia al concetto di pianeta sconosciuto. Il colpo d'occhio (la creazione di immagini che siano belle di per sé) riesce magnificamente nella sequenza degli angeli senza volto, mentre la palma per i personaggi ben caratterizzati va data ai due "gnomi" telepatici (spalle comiche e grilli parlanti).

lunedì 26 giugno 2017

Le mort qui tue - Louis Feuillade (1913)

(Id.)

Visto in DVD.

Un pittore viene accusato della morte di una baronessa (nella casa della quale viene trovato incosciente) e arrestato; in prigione verrà ucciso da una delle guardie in combutta con Fantomas; si può immaginare quale sorpresa quando saranno trovate le impronte digitali del morto sulla scena di un altro delitto. Intanto il giornalista Fandorin, apparentemente l'unico sopravvissuto dell'incendio compiuto da Fantomas nel film precedente ricomincia a indagare.

Terzo capitolo della saga di Fantomas.
Se le caratteristiche di regia sono omrai consolidate, in questo film si fanno notare alcuni dettagli nuovi. Su tutti la scena del ritrovamento della baronessa e del pittore; una sequenza realizzata con un movimento di macchina da presa orizzontale seguito da uno stacco che mostra la stessa scena da un'inquadratura leggermente spostata in maniera estremamente funzionale (per poter mettere fuori dall'immagine la porta sulla destra e includere invece una porta sul fondo a sinistra).

Inoltre è encomiabile fin dal primo film la pulizia della fotografia; nitidissima nonostante la qualità della pellicola che doveva essere utilizzata, con contrasti ottimi e una cura dei dettagli incredibile.

Cura dei dettagli che si vede anche nella realizzazione dei set, ma soprattutto nelle differenze fra set. Al di là delle inquadrature in esterni naturalistici delle puntate precedenti (semplici, ma reali), la maggior parte degli interni sono case (o palazzi) borghesi, carichi di dettagli e opulenza, a questa fa da contrappunto la costruzione di interni comuni (le celle, i corridoi o gli ingressi di appartamenti comuni o condomini) o di esterni selezionati (il canale di scolo) costruiti in maniera geometrica, molto semplice e lineare; una sorta di contrappunto fra le vittime di Fantomas e tutto il resto del mondo realizzato anche visivamente.

venerdì 23 giugno 2017

Rinne - Takashi Shimizu (2005)

(Id. AKA Reincarnation)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

In Giappone piacciono i J-horror, quindi si decide di realizzare un film su una strage (con suicidio finale dell'assassino) avvenuta in un albergo; per la parte di una delle figlie dell'assassino viene scelta un'attrice che però ben presto viene colta da ogni sorta di visioni sempre inerenti a ciò che sarebbe avvenuto nel passato...

La base del cinema horror americano classico è costituita da: gente che dalla città si sposta in una zona isolata e lì viene massacrata da un serial killer/una famiglia di redneck. Una soluzione di minima che rende un servigio enorme agli sceneggiatori; possono lavorare al minimo sindacale senza rischio di mandare tutto in vacca, le motivazioni non sono necessarie, i preamboli anche meno, le spiegazioni finali pure, il twist plot finale è tutto nel sapere se il protagonista principale morirà o no; non serve altro.
Per quanto riguarda i film di fantasmi giapponesi (ma tutti i film di fantasmi in generale così come quelli in cui rientra satana) il lavoro è più complesso. CI vogliono motivazioni, spiegazioni, dettagli; la trama deve lasciare spazio a momenti di ricerca e studio, a situazioni in cui si pensa di trovare una soluzione, e poi lasciare spazio pure a un eventuale twist plot (come in questo caso), nel mezzo però bisogna pure mettere momenti de paura. Un lavoro improbo, che però ai giapponesi tocca fare fin troppo spesso visto che i fantasmi sono il loro equivalente del serial killer redneck.

Questo film vive le stesse dinamiche dei film j-horror con però almeno due storie indipendenti che si intersecano, molti momenti "onirici" che dovrebbero avvicinare alla soluzione finale e anche il twist plot. Chiaro che in una situazione del genere la possibilità di perdersi è facilissima... e qui infatti, Shimizu si perde.
Se in "Ju-on" riusciva a mantenere insieme tutti i pezzi con alcune brillanti idee nel riutilizzo di alcuni elementi base dell'horror orientale (i capelli); se in "The grudge" riusciva ad adeguarsi agli stilemi più occidentali creando un j-horror a tutti gli effetti, ma più coeso, qui sembra invece che non sappia come gestire la cosa.
Mettere in piedi un racconto inutilmente sdoppiato in due storie con inserti di una terza storia del passato che viene mostrata a bocconi mangiando spazio dedicato ai momenti realmente perturbanti che ne vengono anche sviliti.
Inutile quindi lo sfoggio di capacità tecniche o la gustose scene di film nel film (che sono e rimangono la cosa migliore di quest'opera).

lunedì 19 giugno 2017

La battaglia di Algeri - Gillo Pontecorvo (1966)

(Id.)

Visto in Dvx.

Guerra d'Algeria, fine anni '50, un gruppo di rivoltosi combatte una guerriglia dentro Algeri, cercando di coinvolgere i cittadini. La Francia, per resistere, invierà l'esercito a cercare i partigiani ed eliminarli.

Film estremamente politico di Pontecorvo che lo realizza a poca distanza dagli eventi narrati. Lo stile è volutamente documentaristico, con un'attenzione per i personaggi principali che è secondario solo all'evento storico visto con gli occhi di un ricercatore. Per quanto possibile il film cerca di non dare giudizi morali (il generale francese riesce a essere tratteggiato senza partigianeria e ne viene fuori la figura di un uomo pragmatico, cavalleresco, ma che combatte per il lato sbagliato della barricata), anche se le motivazioni dei protagonisti rendono inevitabilmente sfavorevole l'obiettivo francese.

Fotografia nitidissima che esalta una costruzione del film sul modello neorealista (senza esser e vero neorealismo) rendendo ulteriormente il senso di un'opera vicina al reportage, ma con emotività.
Indovinato anche il tono (anzi i toni); inizialmente un film di guerriglia vero e proprio che deraglia verso un poliziesco standard con l'arrivo dei paracadutisti.
Quello che però rimane è un enorme monumento di scrittura, con una galleria di personaggi incredibilmente ampia che riescono comunque ad avere una psicologia mediamente accennata, ma che si percepisce come completa e verosimile.
Ah, dettaglio non secondario, il film appassiona abbastanza e con l'entrata in scena del colonello il passo cambia attraendo anche chi si stanca facilmente delle lezioni di storia.

venerdì 16 giugno 2017

Schiavo d''amore - John Cromwell (1934)

(Of human bondage)

Visto in Dvx.

Studente di medicina dal piede equino si innamora di una cameriera; l'angelica creatura si trasforma rapidamente in una stronza profittatrice che usa i soldi e il buon cuore di lui come riparo dopo ogni disavventura sentimentale (o economica) avuta con altri.

Una vicenda interessante, una storia ben costruita su una magnifica stronza, un personaggio splendido, affossato dal protagonista scialbo (decisamente non buono, ma cretino) e da una trama troppo diluita.
Il cast è comunque di livello, anche se il povero Howard è stritolato in una parte piuttosto esangue.

Dal punto di vista tecnico il film è, giustamente, famoso per la ricchezza di primi piani e mezzi busti frontali, spesso con gli attori che guardano in macchina da presa (indimenticabile il campo/contro campo nel dialogo fra Howard e la Davis nel loro primo incontro al ristorante con le coppe di champagne). Ottimi anche i molti carrelli che anticipano gli attori mentre camminano o che li inseguono; c'è anche un'interessante panoramica circolare dentro una stanza che ne mostra il soffitto (costringendo, immagino, la produzione a ricostruire la stanza per intero come verrà fatto quasi un decennio dopo per "Quarto potere").

Certamente il problema del plot troppo confuso e mal sviluppato affossa un film altrimenti magnifico, ma almeno la prima parte e il finale si fanno ricordare positivamente.

Successo di pubblico fondamentale per la Davis, fino a quel momento non molto considerata in quanto non abbastanza bella; dato il rifiuto di altre attrici più quotate (nessuna voleva una parte così negativa) venne selezionata dando vita al suo primo personaggio di donna terribile che tornerà a partire dagli anni '40.

domenica 11 giugno 2017

Corvo Rosso non avrai il mio scalpo - Sydney Pollack (1972)

(Jeremiah Johnson)

Visto in Dvx.

Un ex militare si rifugia nel west inesplorato degli USA per ricostruirsi una vita in un ambiente selvaggio, ma indipendente. Dopo un laborioso apprendistato e la costruzione di una famiglia involontaria (una moglie "regalata" da un capo indiano e un figlio "adottato" dopo averlo trovato in casa con il cadavere del padre e in mano a una madre pazza) sembrerà aver trovato un suo posto nel mondo. La distruzione di tutto quello che si era costruito per mano di un gruppo di indiani lo scatenerà in una follia di vendetta estrema.

Tratto da una leggenda locale (in teoria una storia vera, ma data la distanza temporale e i contorni mitici direi che ormai è più nella leggenda che nei libri di storia) questo è un western che definire atipico è un eufemismo.
Sceneggiato da un Milius muscolare, ma stemperato da (ampi) stralci del plot originale e addolcito dalla regia serafica di Pollack, il risultato finale poteva essere facilmente un'oscenità; invece miracolosamente il film funziona.
La prima metà è un ironico road movie ambientato nel west; la seconda diventa un dramma di vendetta, poco sanguinario, ma molto emotivo. Entrambe le parti sono ampiamente descritte con totali o campi lunghi, con costruzioni sceniche pittoriche (inficiate solo dalla scarsa qualità della pellicola utilizzata in quegli anni).

Ma dove la manona pesante di Milius si riesce ancora a vedere (nonostante le ampie modifiche del testo originale) è dove il film rende di più. I rapporti nel west più selvaggio sono onesti e di virile affetto. La dignità viene equamente divisa fra tutti i conterranei, fra i nativi americani (attenzione però, non c'è una ragione attribuita a loro aprioristicamente e neppure una lacrimevole pietà) che vengono mostrati come popoli guerrieri con regole ed etica; fra gli esploratori solitari, che sono uomini veri che cercano una vita più autentica abbandonando la città; ma anche fra l'esercito degli
USA (la cavalleria che va ad aiutare la carovana bloccata e che per farlo deve passare in un cimitero indiano), un mondo ancora puro, non fatto di ordini, ma di doveri morali e rispetto.

Un film che riesce a essere divertente e profondamente etico, con un finale poetico e dalle pretese enormi che vengono immancabilmente centrate.

venerdì 9 giugno 2017

Moonrise kingdom. Una fuga d'amore - Wes Anderson (2012)

(Moonrise kingdom)

Visto in tv.

Un boy scout, accampato con tutta la compagnia su un'isola, fugge con la figlia di una coppia del posto. La loro sarà una breve fuga d'amore, inseguiti dai genitori, dai capi scout, dal poliziotto locale e dai servizi sociali.

Dopo "Il treno per il Darjeeling" Anderson sembra aver capito che ogni stile pesantemente riconoscibile può essere un pregio (e nel suo caso lo è), ma è anche un limite e può stancare rapidamente dato che vengono riprodotte sempre le stesse dinamiche; ecco dunque che sforna un film d'animazione, poi un cartone animato in live action; nel mezzo c'è questo "Moonrise kingdom".
Questo film si discosta dai precedenti scegliendo di avere due protagonisti, una galleria di personaggi secondari che rendono vivo l'ambiente, ma che non lasciano mai deragliare il film verso la solita trama corale; e poi ci aggiunge una storia d'amore. Ovviamente Anderson non è un deficiente e utilizzando una coppia di preadolescenti riesce a creare una storia d'amore sincera e tenerissima, ma a evitare i cliché del genere, mischiarla d'avventura e a darle un'aria di freschezza altrimenti impensabile.
Lo stile è sempre lo stesso. Colori vivaci per una fotografia patinata impeccabile; recitazione al minimo e spesso macchiettistica; macchina da presa che si muove spesso, ma sempre ortogonale. Un insieme di dettagli che sono la cifra stilistica base di Anderson, ma che qui riescono ad acquisire un significato indipendente, dando un senso di rigidità che fa da allegoria all'ambiente asfissiante dove vivono i due protagonisti con una patina superficiale di felicità di facciata alla Tim Burton.
Complessivamente non è il suo film migliore, ma riesce a ripetere sé stesso acquisendo nuovi significati; una prova di forza epica.

lunedì 5 giugno 2017

Ecco l'impero dei sensi - Nagisa Oshima (1976)

(Ai no korîda)

Visto in Dvx.

Il marito della tenutaria di un bordello si innamora di una delle lavoranti; ovviamente ricambiato, il loro rapporto sarà tutto improntato sulla soddisfazione sessuale (sempre reciproca, mai egoistica) fino ad arrivare all'autodistruzione.

Un film stilisticamente impeccabile (come spesso con Oshima), soprattutto nella costruzione delle scene (nonostante la potenziale ripetitività della trama, la costruzione delle inquadrature riesce a mantenere il ritmo attivo), nei costumi (davvero impeccabili) e nella scelta dei colori utilizzati (colori neutri o terrei per le location, colori sgargianti per i costumi). A detta di Oshima stesso l'impianto estetico fu preso dalle stampe erotiche giapponesi del 1700 (dettaglio che riporto, ma che mi sono premurato di non controllare), ma l'effetto del film è comunque quello di una versione estetizzata del Giappone visto da un occidentale; indubbiamente bello, ma estremamente artificioso.

Se l'estetica è comunque di valore, la trama è un'altra cosa. Indubbiamente il film esplica in maniera perfetta l'ossessione sessuale come obnubilante fino all'autodistruzione; la ricerca del piacere (e del dare piacere) che arriva all'annichilimento (se non fosse un film così scanzonato e solare nel porsi, sarebbe piaciuto a Mishima), una ricerca di amore e morte fatta con il sorriso sulle labbra.
Se anche l'argomento è forte e interessante, quello che lascia a desiderare è la realizzazione, un soft core (con molte scene apertamente hard) non è un problema, anzi mostra di non voler fare ipocrisie, ma imbastire un intero film di rapporti sessuali per avere gli ultimi 10 minuti di significato sa tanto di operazione commerciale che, a mio avviso, viene quasi dichiarata con il simpatico titolo originale traducibile con "Corrida d'amore" (operazione commerciale che, al pari di un porno senza possibilità d'essere fruito nei suoi termini, annoia parecchio). Va però dato atto a Oshima di aver permesso agli intellettuali europei di potersi eccitare guardando un film senza bisogno di sentirsi in colpa.

venerdì 2 giugno 2017

Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l'amico misteriosamente scomparso in Africa? - Ettore Scola (1968)

(Id.)

Visto in Dvx.

Un imprenditore italiano parte per l'Africa portoghese (!) alla ricerca del cognato apparentemente scomparso mesi prima; accompagnato dal fido ragioniere sarà costretto a un continuo peregrinare in un inseguimento a distanza delle tracce (e dei depistaggi) lasciati dal parente. Trovatolo sarà costretto a valutare se il ritorno a casa sia davvero la scelta da preferire.

Filmetto più simpatico che divertente di uno Scola (ma alla sceneggiatura ci sono pure Age&Scarpelli) che vorrebbe già essere fustigatore degli italici costumi, ma riesce appena a graffiarne la superficie e riempie il resto di luoghi comuni, idee abusate e un Sordi che gigioneggia senza freni (anzi, macchiettistico standard, deve aver impostato il pilota automatico e non aggiunge niente al film).
Quello che viene maggiormente fuori è un film sull'Africa (l'Africa ovviamente, non una nazione specifica) con lo sguardo esotista del provinciale italiano che riempie tutti di buoni selvaggi rinoceronti e struzzi, missioni cattoliche e pasta cucinata in mezzo alla savana (e quasi tutti che parlano un poco di italiano! E tutti i personaggi minimamente utili alla vicenda sono bianchi).
Di positivo si salva solo (ma è grandiosa) la figura del ragioniere; un Blier impeccabile che fa da spalla comica a Sordi permettendogli di strappare qualche sorriso, ma che anche da solo riesce a tenere il film verso il versante della commedia.
Per essere di Scola manca tutto, non c'è cattiveria o cinismo, ma manca anche la poesia.
Direi che è per completisti di Sordi