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mercoledì 31 marzo 2021

Ride - Jacopo Rondinelli (2018)

 (Id.)

Visto su Netflix.


Due amici, youtuber "estremi" cominciano ad avere vite distinte, uno ha messo su famiglia, l'altro ha problemi di gioco. Uno dei due iscrive entrambi a un gara misteriosa dove, presto si scopre, si può morire davvero.

Diciamoci la verità; qualunque giudizio su questo film sarà influenzato dal fatto che sia italiano.

Un piccolo film a basso budget con un'idea (iniziale) molto facile e uno svolgimento ancora più semplice che però riesce ad essere efficace.

Inizia a metà strada tra il colpo di fucile e il fastidio. Sfrutta a piene mani l'estetica dei videogiochi (le tappe con le ricompense, l'intera schermata del "gioco", gli spiegoni iniziali e nel mezzo.... vabbè tutto, dalla struttura al comparto visivo) per portare avanti una trama minimale che guadagna tutto dal ritmo (anche se vorrebbe funzionare con le evoluzioni sulla bicletta... che però presto divengono ripetitive e perdono mordente) e sfrutta l'altro idea della soggettiva costante. Anche la soggettiva viene dal videogioco e viene integrata con videocamere esterne e droni; un'idea un pò patetica che risulta fastidiosa nel POV continuo, ma che a lungo andare viene messa da parte in favore di un montaggio più articolato e normalizzante.

Non starò qui a fare la morale alla trama di un film action, ma il vero tallone d'Achille è tutto lì; una serie di plot twist non completamente efficaci con un finale (che non ho capito del tutto) che prende a piene mani dall'horror inglese e americano egli ultimi anni, ma con meno cognizione di causa. Lo sviluppo tesso dei personaggi e della storia è irrisorio e con uno forzo minimale poteva essere la svolta per avere un pò già di carne al fuoco, perché quel poco che c'è è cotto molto bene.

mercoledì 24 marzo 2021

Don Jon - Joseph Gordon-Levitt (2013)

 (Id.)

Visto su Raiplay.


Un dipendente dal porno parla della sua vita, la famiglia, gli amici, i rapporti occasionali (frequenti) e il continuo rivolgersi alla pornografia in maniera ossessiva. Ne parla con pragmatismo, convinzione divertimento, nessun discorso morale. Quando consocerà la sua fidanzata, nonostante si tratti di Scarlett Johansson, le abitudini non cambieranno.

Opera prima di Gordon-Levitt alla regia è un film sorprendentemente buono venendo da un attore. Sarò razzista, ma gli attori prestati alla regia hanno al tendenza a fare un film in funzione di sé stessi, assecondando la recitazione e non tendendo la macchina da presa indipendente a narrare la storia mentre gli attori recitano. Qui Gordon-Levitt invece sorprende; decide il ritmo del racconto con la regia, mostra un sunto della vita del suo personaggio (e di riflesso la sua storia e la sua psicologia) giocando tutto sul montaggio frenetico e inquadrature che si rimandano a vicenda. 

Gestita da dio la vicenda riesce a coinvolgere e divertire per tutta la sua durata; senza pretese arriva al finale consolatorio (fino a un certo punto, e puritano solo in minima parte) con il giusto piglio e lo rende meno indigesto di quanto avrebbe rischiato d'essere.

Gli attori fanno il loro, curiosamente Gordon-Levitt ha forse la parte meno interessante dal punto di vista della recitazione; la Moore si tiene un paio di scene madri (secondarie... se esistono) per sé portando a casa il solito buon risultato; la Johansson si mangia la scena con la sua versione di working class bitch.

domenica 21 marzo 2021

The forty-years-old version - Radha Blank (2020)

 (Id.)

Visto su Netflix.


Una ex scrittrice prodigio (una delle migliori sotto i 30 anni) si trova alla vigilia dei 40 anni a insegnare in una scuola sgarruppata, in perenne procinto di scrivere l'opera teatrale politica definitiva, ma sempre alla ricerca di un produttore e pronta ad adattarsi ad ogni richiesta fatto poi salvo pentirsene. Troverà una via di fuga (e un sostegno) nel rap.

Detto così sembra un film cretino, in realtà è, nella prima metà, un film comico magnifico che a fronte di un divertimento continuo e un ritmo perfetto porta avanti un'istanza politica efficace. L'istanza politica non ha molto di nuovo, ma i tentativi di un ex enfant prodige che lotta per rimanere a galla e per tenere in equilibrio le leggi di mercato con l'integrità morale rovinando continuamente ogni passo avanti.

Fotografato in un bianco e nero da applausi e tenuto in piedi con il giusto tono (con un mestiere che è sorprendete in un esordiente) è godibilissimo e interessante per tutta la prima parte... nella seconda parte si spegne.

Nella seconda parte il comico lascia il posto alla commedia scaldacuore, alla vittoria morale della vittima del sistema che riesce, nello stesso tempo, a mantenere in piedi tutti i rapporti umani che sarebbero stati a rischio con quella scelta. Insomma, parte come una commedia donchisciottesca con un personaggio obiettivamente perdente, finisce (all'americana) con il successo dell'arte con la A maiuscola contro un mondo conquista... terribile. Se si considera che tutto il divertimento è lasciato all'inizio la delusione è totale.

PS: le parti rap costringono a vederlo (almeno quelle parti) in lingua originale, la versione italiana è imbarazzante e farebbe spegnere dopo la prima mezzora. 

mercoledì 3 marzo 2021

Scalciando e strillando - Noah Baumbach (1995)

 (Kicking and screaming)

Visto su Netflix.


Un gruppo di amici si trova a riconsiderare le loro vite i loro rapporti e la loro idea di sé stessi arrivati al traguardo della laurea.

Un classico coming of age per neo adulti che non sanno che fare delle loro vite, al giro di boa fra adolescenza e doveri passano il tempo a frustrare le proprie aspettative e parlottare.

Essendo un'opera prima la sceneggiatura è pure troppo ben fatta, ma in maniera obiettiva è ben realizzata, ma fastidiosamente declamatoria; nessuno chiacchiera davvero tutti inveiscono contro il destino avverso che li fa uscire dalla comfort zone... 

Delicato, tranquillo, costruito bene... piuttosto insipido, inutile.

In Italia saremmo arrivati a qualcosa del genere qualche anno dopo con Muccino e un'altra età (ma si sa che da noi si diventa adulti dopo rispetto agli USA), ma negli Stati Uniti questo è un sottogeneri estremamente utilizzato (e rappresentante) del cinema indipendente anni '90; per fortuna abbandonato quasi del tutto. Anche quando realizzato bene, non è un genere che possa mancare.

mercoledì 3 febbraio 2021

The believer - Henry Bean (2001)

 (Id.)

Visto su Mubi, in lingua originale sottotitolato.

Un naziskin americano preso dalla strada (ma con il dono della retorica) diventa portavoce di una versione ripulita del neonazismo politico che cerca di trovare finanziatori. Il ragazzo nasconde però il fatto di essere ebreo...

Film che all'epoca dell'uscita mi aveva incuriosito per l'ossimoro di nazi skin ebreo, all'epoca non lo recuperai (era una curiosità più che vero interesse), lo ritrovo incidentalmente su MUBI e dopo averlo visto non posso che non rammaricarmi per averlo perso all'epoca... non è un buon film.

Alla regia per la prima volta Bean, di professione sceneggiatore e si vede. Il film ha la propria ossatura sui lunghi monologhi del protagonista, le sue dissertazioni su antisemitismo e suprematismo bianco sono l'epicentro della vicenda e sono effettivamente la cosa più riuscita. Curioso come al di là delle singole scene l'intera vicenda sia scontata (il giovane ebreo che per problemi di relaizone e istinti autodistruttivi diventa naziskin... davvero c'è ancora bisogno di psicanalisi all'acqua di rose?), caotica (se l'intento del protagonista è quasi chiaro, il modo per arrivarci, nonché tutte le sue scelte sul finale sono francamente poco ragionevoli), al di là di ogni logica (la conversione della Phoenix è una delle decisioni più pretestuose della storia del cinema) e con picchi che oggi noi giovani definiremmo cringe (il bacio dopo il vomito...). 

Curioso, dicevo, come al di là di alcuni acuti, il film sembri girare a vuoto riempiendo di azione la mancanza di idee chiare negli snodi chiave; la regia decisa da uno sceneggiatore poi non supporta nè scelte estetiche particolari, né un ritmo già azzoppato.

C'è però un Ryan Gosling giovanissimo e già bravo e una Summer Phoenix che si fa ricordare.



domenica 6 dicembre 2020

Atlantique - Mati Diop (2019)

 (Id. AKA Atlantics)

Visto su Netflix.


Una ragazza senegalese che sta per sposarsi flirt con un altro uomo. Il loro ultimo incontro finisce velocemente, lui non ha il tempo per dirle che sta per tentare di raggiungere l'Europa in barca. Avverrà un incendio inspiegabile e l'altro uomo sarà accusato, qualcuno l'ha visto in giro. Intanto delle donne minacciano un ricco imprenditore con informazioni ricevute dai mariti partiti in barca.

Un film dalla doppia via, un romance sovrannaturale e un'indagine sempre nello stesso settore. L'idea di fonda è confusa, o meglio, chiara nell'intento, poco precisa nell'esecuzione. Il film deragli nella lentezza nella primissima parte, ma dopo l'incendio ha un incedere più deciso che permette di passarsi via le piccole incongruenze o le parti un po posticce (il discorso delle donne possedute è riscatto sociale all'acqua di rose che non aggiunga molto se non un paio di belle scene) con facilità.

Non siamo davanti a un'opera impeccabile, ma la mano sicura dietro la macchina da presa, l'occhio empatico nei confronti di tutti i suoi protagonisti, una fotografia dai colori tenui e freschi (una novità quasi assoluta per un film ambientato nel continente africano, si vede che non è stato realizzato in USA) e l'embricata fra storia normale (romance e attualità) e sovrannaturale lo rendono una visione interessante. Forse eccessivo il premio a Cannes, ma almeno ha dato il là alla distribuzione internazionale.

mercoledì 4 novembre 2020

La legge della tromba - Augusto Tretti (1962)

 (Id.)

Visto sul sito della Cineteca di Milano.

per la trama qui.

Collaboratore di Fellini, Tretti tentò la via indipendente con questa sua opera prima. Data la particolarità dell'intreccio e della realizzazione i finanziatori si tirarono indietro (come descritto nel prologo da Maria Boto), venne quindi finanziato personalmente dal regista (e dalla stessa Boto, motivo per cui venne realizzato la sequenza della Boto film che imita la MGM) in un progetto very low budget. Una volta realizzato in maniera piuttosto fortunosa non trovò mai un distributore e divenne irreperibile per anni (anche in tempi recenti post internet). Ora viene riproposto sia dalla Cineteca di Milano sia su Youtube.

Il film è una lunga satira sul potere che tromba i meno abbienti e di come tutti siano equamente invischiati in un allegro gioco al massacro reciproco (tutti compiono qualche infamia, dagli amici che pugnalano alle spalle, alla morosa che punta ai soldi); tematiche che saranno riprese anche nei due lavori successivi.

Il film è ingenuo e didascalico (e soffre tantissimo della mancanza di fondi in ogni settore), ma vince per una regia ottima e folle; folle della follia dei bambini con idee di messa in scena che sono giochi fumettistici (la Boto che fa 4 parti, uno dei coprotagonisti quasi mai inquadrato in volto perché troppo alto per stare nell'inquadratura, i numeri dei carcerati, ecc..). Ma come si diceva è una regia ottima, ma folle, ottima per la sicurezza nella composizione delle scene (con molti personaggi incastrati nella stessa inquadratura) che va dal dinamismo caotico della fuga alla perfezione ortogonale nelle precedenti scene della prigione.

Su tutto però l'effetto maggiormente straniante è il sonoro. Il film venne registrato muto e ridoppiato dagli attori con la sonorizzazione solo dei rumori che Tretti riteneva utili e spesso realizzati con effetti sonori cartooneschi e dozzinali.

Nell'insieme è un film semplice da guardare, stranissimo e non completamente soddisfacente, che darebbe voglia di vedere altro dell'autore per capire se c'è sostanza o solo ideette. Tretti realizzò solo altri 2 film ed entrambi azzoppati da problemi di budget e cast tecnico, il giudizio, pertanto, non può che essere parziale.

lunedì 2 novembre 2020

Viaggio all'inferno - Fax Bahr, George Hickenlooper, Eleanor Coppola (1991)

(Heart of darkness: a filmmaker's apocalypse)

Visto su Mubi, in lingua originale sottotitolato.

Durante le riprese di "Apocalypse now" la moglie di Coppola gira il back stage (su indicazione del marito) e registra alcune loro conversazioni su nastro. Da quel materiale origina questo documentario, unitamente a interviste ai diretti interessati e qualche immagine di repertorio. Quello che viene fuori è la descrizione (edulcorata) di uno dei più fortunati fallimenti della storia del cinema.
Viene quindi impresso su pellicola tutte le voci che circondarono il film; i set distrutti dal tifone, gli elicotteri offerti dallo stato filippino che venivano improvvisamente portati via (anche in mezzo alle riprese) per combattere i comunisti da qualche parte, l'attacco di cuore di Martin Sheen, la sceneggiatura improvvisata, il cambio in corsa del protagonista (Keitel verrà fatto fuori dopo un paio di settimane di riprese), parzialmente le sostanze d'abuso e le uccisioni rituali di galline, maiali, ma soprattutto del bufalo.
Personalmente mi ha colpito particolarmente le riprese dell'incipit con uno Sheen fatto come un cotechino, sanguinante e sproloquiante; così come le scene con Brando e Coppola che gira in torno non sapendo cosa fargli fare oltre ai dialoghi con Hopper che, fuori scena, è peggio di Sheen della scena ricordata poco fa.
Anche se forse i documenti migliori sono gli sfoghi, solo audio, di Coppola che preconizza il fallimento e che si chiede perché siano tutti così accomodanti, il film sarà orribile, lui fallirà personalmente, ma tutti i presenti sembrano possibilisti.

Un pò accomodante, taglia molto la parte sulle droghe, che pure vengono nominate, ma glissando (sembra essere noto ad esempio che l'arrivo di Hopper però rappresentò l'arrivo di droga fresca per tutti che portò nuovi disagi aggiuntivi alla produzione); rimane un documentario interessante sul fallimento più di successo di sempre, con dietro le quinte fantastici e che rende giustizia a Coppola che ne esce, più che come visionario, come un santo per aver dovuto sopportare tutto quello e tutte quelle persone (leggasi, come sempre, Hopper e Brando).

giovedì 22 ottobre 2020

Poor cow - Ken Loach (1967)

(Id.)

Visto su Mubi, in lingua originale sottotitolato.

Una neo mamma è sposata con un uomo che la maltratta e che vive di furti, finito in galera andrà a vivere con un amico del marito, stesso problema per portare a casa i soldi, ma è gentile e realmente innamorato... finirà pure lui in carcere.

Primo film per il cinema di Ken Loach (aveva già realizzato degli episodi la BBC) è un figlio del free cinema di quegli anni, con già presente lo sguardo sociale che il regista sfodererà negli anni, senza troppa politica e con grandissimo sentimento per i suoi personaggi.
Quello che viene fuori è un film sul lato b della società inglese, l'altra faccia della swinging london, ma senza che vi siano ricerche di giustizia o responsabilità politica, anzi, con un animo leggero lontanissimo dal dramma (che vi si accenna solo nel finale, ma è questione di una sequenza che si risolve per il meglio).

Regia al servizio degli attori che si lancia in giochi di montaggio che rompono la ripetitività (la preparazione della zia per la serata). Cast adatto, ma con qualche caduta, una protagonista che perfetta e la presenza di Stamp che è sempre magnetica anche quando non fa il pazzo.

Il film è godibilissimo e vive interamente sulle spalle della sua protagonista, una donna nel contempo succube della società da cui si lascia tiranneggiare senza accorgersene (il rapporto con il marito) , ma dallo spirito libero quando messo nelle condizioni di esserlo. Figlia del suo tempo, ma non puritana, vive con serenità la sua vita in costante ricerca d'amore.
Non è un film positivo, né negativo, è solo un ritratto di una donna ricco di sentimenti.

martedì 13 ottobre 2020

Peluca - Jared Hess (2003)

(Id.)

Visto qui, in lingua originale.

Per cercare di dimenticare (il comunque dimenticabilissimo) "Masterminds" ho cercato l'unico film di Hess che ancora mi manca, "Don Verdean".
Non trovandolo ho ripiegato su "Peluca", il primo corto da cui tutto è nato. Di fatto l'ispirazione per il primo lungoimetraggio "Napoleon Dynamite".
Opera a basso costo, girata in bianco e nero con una trama breve ed esilissima (la ricerca di una parrucca per uno dei coprotagonisti).

Il corto serve al regista a veicolare due cose il suo mondo di emarginati e il suo personaggio principale.
Il mondo è accennato, c'è una sorta di world building realizzato unicamente dai personaggi principali che lo popolano, le loro dinamiche, la loro presenza scenica; meno invece la regia, meno incisiva (siamo agli inizi, non ha ancora una voce propria) e assente la messa in scena che arriverà dopo.
I personaggi sono assolutamente in linea con i successivi; il protagonista è già identico a quello del lungometraggio (letteralmente identico anche per l'aspetto) e le due spalle delineano perfettamente l'outsider dolce e sfigato di Hess.

Se non fosse il prodromo di qualcosa di più sarebbe carino, ma poca roba; materiale insospettabile per un lungometraggio, coraggiosa MTV a finanziarlo all'epoca.

martedì 6 ottobre 2020

Il caso valdemar - Gianni Hoepli, Ubaldo Magnaghi (1936)

(Id.)

Visto su Cineteca di Milano.

L'opera unica, al cinema, di Hoepli (l'istrionico nipote del fondatore dell'omonima casa editrice) e una delle pochissime opere dell'ancor meno conosciuto Magnaghi è un cortometraggio muto (in pieni anni '30!) eccezionale.
tratto dal noto racconto di Poe che parla di ipnosi su un moribondo che ne allunga la premorte; questo cortometraggio sembra l'opera di un regista navigato che conosce alla perfezione gli stilemi dle muto, ma che li fonde con acxcortezze contemporanee.
La breve durata e la ricchezza di idee di regia rende difficile fare un esempio univoco, ma basta l'incipit a entusiasmare; i due registi fanno di tutto: la presentazione dei personaggi con primi piano arrivati dopo un movimento verticale (e un gioco di montaggio con la statua), inquadrature da dietro il pendolo, primissimi piani evocativi, cambi di luce nella stessa sequenza, inquadratura da sotto il tavolo. In quell'inizio viene fatto di tutto per rendere tollerabile e dinamica una seduta spiritica in cui non succede praticamente niente, ma si rimane subito conquistati.
Bello anche l'intermezzo che mostra il passare dei mesi, semplice, ma giocato benissimo con un montaggio rapido.
In pochi minuti viene costruito un film con cui non si può non empatizzare e in cui non ci si può non perdere. Duole solo sapere che questo è un unicum nel panorama italiano.

PS: notare che ho elogiato il film senza neppure commentare gli effetti speciali durante la marcescenza rapida del cadavere per il quale viene considerato (con qualche eccesso) il primo horror/gore italiano.

giovedì 24 settembre 2020

Michael - Markus Schleinzer, Kathrin Resetarits (2011)

(Id.)

Visto su Mubi, in lingua originale sottotitolato.

Un uomo piuttosto grigio vive da solo, isolato da tutti gli affetti; ma in compenso tiene prigioniero in uno scantinato un  bambino di 10 anni come schiavo sessuale.
Incredibile quanto siano evidenti le fonti di ispirazione di questo film, da una parte la cronaca austriaca del recente passato, dall'altra il cinema di Haneke.
Un giorno qualcuno dovrà denunciare il fatto che Haneke si sia fagocitato il cinema austriaco (almeno quello di genere che esce dai confini nazionali) appiattendolo sul suo linguaggio anche quando non si è in grado di gestirlo. Se Seidl tutto sommato si è affrancato con una certa personalità, è evidente la presenza hanekiana in "Lourdes" e, meno grezza, in "Goodnight mommy". Tra questo film ci si può infilare anche quest'opera di Schleinzer.
Fra tutti Schleinzer è quello che ha più diritti su Hankee avendo collaborato con lui per anni, ma qui non si fa mancare molto. Una situazione verosimile, ma estrema per contenuti, un ritmo rallentato, pochi dialoghi, una regia (e dei personaggi) gelidi, l'inizio della storia in media res, ecc..
Schleinzer costruisce il suo film sul distacco e l'accanimento sui personaggi, ma lo fa in maniera meccanica. Ha un'idea (quella della trama e della volontà di come mostrarla), ma poi si attacca a stilemi senza riuscire a gestirli del tutto. Se il gelo di Haneke funziona è grazie all'umanità dei suoi personaggi, per lo più tartassati da un'entità incombente (e spesso non chiara), ma sempre ricchi di emozioni.
Qui invece il gelo è ovunque e l'incombente non c'è; quindi l'empatia finisce subito e il film prosegue lento verso un finale aperto (ma indubbiamente positivo).

lunedì 24 agosto 2020

John Wick - Chad Stahelski, David Leitch (2014)

(Id.)

Visto su Amazon prime.

Credo sia ormai noto a tutti il film d'azione di Keanu Reeves, non dirò nient'altro sulla trama, mi pare già sufficiente.

Il film realizzato dagli stunt Sthelski e Leitch (prodotto da quest'ultimo e tenuto uncredited nella regia, ma vedendo quel capolavoro di "Atomica bionda" è evidente da dove vengono molte delle idee di regia) è tutto tranne un capolavoro, ma è un film enorme per l'idea di base di prendere l'azione del sud est asiatico (si, diciamo pure quella di "The raid") e portarla a Hollywood. Già solo per questo il film potrebbe diventare uno dei semi dell'action dei prossimi vent'anni. Si aggiunga che uscendo dal loro campo, prendono l'estetica di Refn, tutte luci fluo, personaggi impassibili, illuminazione in pieno volto e una perfezione formale estrema, la manipolano per renderla meno perturbante e il gioco è fatto. abbiamo la carta d'identità di quello che il cinema d'azione potrebbe diventare se venisse girato senza il pilota automatico.

Ovviamente i pregi non finiscono qui. L'estetica è molto e la regia è tutto, ma il world building dei sicari che vivono a fianco del genere umano normale come i vampiri è semplicissimo è pazzesco; l'eroe che incute timore ai villain con il solo rimanere al silenzia al telefono (in una sorta di versione ribaltata del T1000)  è un'idea semplice che era ora qualcuno portasse sul grande schermo e poi c'è Reeves che sembra nato pèer la parte.
I difetti, però, sono altrettanto notevoli: trama un poco raffazzonata con eventi troppo rapidi o decisioni buffe, Reeves che si dà anima e corpo, ma che ancora non ha il fisico adatto (nelle scene con degli stunt all'altezza si nota poca, ma lo showdown finale con l'altrettanto legnoso Nyqvist è patetico)... Quindi?
Quindi siamo davanti a un film di serie B con tutti i limiti del caso che offre alcune delle scene d'azione migliori del suo anno (verrà superato a destra dalla già citata "Atomica bionda") e che crea un immaginario visivo e concettuale che non potrà non influenzare i posteri.

giovedì 6 agosto 2020

Sitcom. la famiglia è simpatica - François Ozon (1998)

(Sitcom)

Visto su Mubi, in lingua originale sottotitolato.


L'arrivo di un topo (da compagnia) in una famiglia determina in chiunque vi entri in contatto un cambiamento, la forza di dare sfogo alle pulsioni più intime.

Buffa versione a commedia di "Teorema" con l'elemento estraneo che entra in un ambiente borghese per farlo esplodere.
L'idea di declinarla sul versante umoristico è sicuramente buona e la capacità di costruire le scene è già presente in questa opera prima di Ozon. Quello che manca è la capacità di andare oltre lo schema di base. La struttutra della vicenda è facile e chiara, ma oltre all'impalcatura si aggiungono molti dettagli, ma nessun costrutto.
Ci sono continue aggiunte di declinazioni personali scottanti per il periodo (ma anche al giorno d'oggi), dal sadomasochismo, all'omosessualità, dall'incesto all'omicidio e suicidio. Sembra quasi che si voglia mostrare tutto quello che può urtare la sensibilità "borghese", ma lo si fa per accumulo senza un piano chiaro, senza un'idea di empatia con i personaggi o senza un arco narrativo che vada oltre al dichiararsi gay o rimanere in sedia a rotelle dopo essersi gettati dalla finestra.
Siamo chiari, quello che ne  viene fuori non è un brutto film, ma un'opera simpatica e godibilissima che rimane estremamente superficiale (che è sempre il rischio di Ozon).

Il vero neo è il finale, anzi l'assenza di una decisione sul finale, non sapendo quale scegliere fra 2 o 3 Ozon li realizza tutti (ingannando all'inizio lo spettatore) dovendo ricorrere a soluzioni usurate come il risveglio da un sogno per giustificarsi.
Aggiungi didascalia

lunedì 3 agosto 2020

Entr'acte - René Clair (1924)

(Id.)

Visto su Cineteca Milano.

Diciamocelo, l'ho guardato perché dietro la macchina da presa c'è René Clair, anche se non si nota.
Questo è un film manifesto del cinema dadaista che, in realtà, fu pensato come parte di un balletto; la parte qui messa alla fine del cannone che spara doveva essere l'apertura del balletto, mentre il resto del filmato doveva essere l'intermezzo (l'entr'acte appunto).

Le sequenze centrali sono un florilegio di scene surreali (l'uovo sulla fontana, la barca in sovraimpressione sui tetti di Parigi, ecc...) alcune con un'apparente senso simbolico (il funerale con le persone che corrono al ralenty, la ballerina che danza ripresa da sotto un pavimento in vetro).

Il filmato dura poco e non può annoiare, la colonna sonora che è presente nella versione della Cineteca di Milano è chiaramente recente, ma estremamente efficace e pertinente, a mio avviso ne aumenta l'interesse e il ritmo anziché far uscire lo spettatore dal mondo del cortometraggio.
Bisogna però ammettere che ci si trova davanti a un'opera d'arte visuale e non a un film vero e proprio, opera d'arte che era parte di un'opera più ampia e che richiama in alcuni punti (il balletto appunto), la visione non può che essere parziale e ricco di fraintendimenti.
Quello che però ho trovato particolarmente interessante è quanto reggano bene le sequenze completamente oniriche o antinarrative, mentre mi sono sembrate eccessivamente lunghe e ridondanti quelle che, anche se in maniera limitata, raccontano qualcosa di verosimile (il cacciatore e l'uovo, ma soprattutto il funerale); nonostante tutte le sequenze puntino particolarmente al ritmo pi che al contenuto.

lunedì 27 luglio 2020

Abbigliamento francese - Ken Russell (1964)

(french dressing)

Visto su Mubi, in lingua originale sottotitolato.

Un dipendente del comune di una oscura città costiera inglese ha l'idea di ravvivare l'ambiente e l'estate organizzando un fantomatico festival cinematografico con il dichiarato intento di far venire dalla Francia la versione low cost di BB per presentare alcuni suoi film e inaugurare la prima spiaggia nudista made in UK.

Primo lungometraggio di un Russell irriconoscibile ed estremamente solare che prende a piene mani dalla libertà del free cinema inglese di quegli anni senza prenderne la serietà.
Un divertissment superficiale e carino ai limiti dell'ingenuità con personaggi caricaturali (il sindaco) luoghi comuni nazionali e sequenze accelerate che (grazie al co-protagonista grassoccio) fanno sembrare il tutto un prodromo del Benny Hill Show.
Paradossalmente il lungo incipit (tenuto più a lungo dle normale) in cui i personaggi si muovono e si incrociano senza portare avanti alcuna vicenda (ma solo per presentare situazione e protagonisti) è forse la parte più ostica e la più interessante; getta all'interno di un intrico di relazioni senza spiegarle, ma facendo interagire le persone come se già dovessimo conoscere ogni retroscena.
Il resto è una commediola innocente e senza caratteristiche da ricordare. Per completisti.

lunedì 1 giugno 2020

Lola darling - Lola Darling (1986)

(She's gotta have it)

Visto su Netlfix, in lingua originale sottotitolato.

Il primo vero e proprio film Spike Lee è una commedia sentimentale su una giovane donna indipendente che intrattiene tre relazioni stabili alla luce del sole. Dato che tutti sanno tutto, la maggior parte del tempo è impiegato dai tre uomini per convincerla a mollare gli altri due.

Alla sua opera prima Lee vuole già dimostrare molto. Realizza un film chiacchieratissimo dove i personaggi parlano in camera consapevoli di far parte di un film (nella seconda metà un personaggio ne incontra un altro che sta parlando in camera e chiede se lo disturba a sedersi sulla sua stessa panchina); le loro confessioni sono parte integrante del film (che anzi, si apre e si chiude su Lola a letto che parla agli spettatori) delineano i rapporti e plasmano i personaggi.
la macchina da presa però non si limita ad essere un confessionale, ma si muove, cerca inquadrature particolari porta avanti la storia con immagini fisse (come fosse una Jetée qualsiasi) e si appoggia completamente a una fotografia curata con un bianco e nero molto contrastato che rende densissime le scene in notturna e inserisce una sequenza di ballo a colori (pretestuosa le scena di ballo, ma lo switch fra B/N e il colore è invece motivato e goliardicamente citazionista).
Il vero punto di forza, però, è la sua protagonista; un personaggio leggero e liberatorio, ma estremamente sfaccettato, non banale che sarebbe una mosca bianca anche nel cinema attuale, figuriamoci negli anni '80.

Il neo, invece è il ritmo. Essendo parlatissimo il ritmo parte già svantaggiato, ma la scrittura non esperta (con molte sequenze ripetitive o scene tenute troppo a lungo) rende difficoltosa e strascicata la visione di un film dal minutaggio contenuto.

giovedì 21 maggio 2020

Pelle - Eduardo Casanova (2017)

(Pieles)

Visto su Netflix.

3-4 storie in parallelo caratterizzate da freak (per lo più fisicamente, ma spesso anche moralmente) che tentano di sopravvivere e fare i conti con il proprio essere.

L'opera prima di Eduardo Casanova è figlia diretta dei suoi cortometraggi, se "Eat my shit" (ben costruito, ma puerile limitandosi all'idea del tratto gastrointestinale invertito) è preso per intero in una delle storie (e rappresenta un involontario teaser del film), mentre "La hora del bano" ha già tutti gli elementi estetici che ritorneranno successivamente e una capacità di mettere in scena il suo mondo, zuccheroso e grottesco, che è quasi perfetta.
Purtroppo questo film non è come i cortometraggi.
le storie si intersecano fra di loro in maniera parziale e talvolta pretestuosa, evidenziando che il lungometraggio è stato fatto cucendo assieme una manciata di corti che avrebbero potuto avere un senso da soli; unendoli non ne viene amplificato il significato, ma ne viene smorzato l'effetto, dato che tutti vogliono insistere sul grottesco e sul ripugnante e dato che un corto con un finale sospeso è un conto, una serie mischiata insieme con finali parziali fa tutt'altro effetto (negativo).

La messa in scena è alla Tim Burton, ma esagerata, il rosa come colore dolce e zuccheroso utilizzato in maniera estrema per stridere contro le deformità e l'abiezione morale; interessante, ma utilizzato così è stucchevole e rende fino a un certo punto.
Per quanto esagerata la cosa migliore è sicuramente la scena d'apertura, lievemente sopra le righe (come sempre in Casanova) riesce però a introdurre in un mondo terribile, ma gestito in maniera professionale e pragmatica e con un colpo d'occhio da casa di barbie, ma è obiettivamente troppo poco. Meglio tornare ai corti.

lunedì 4 maggio 2020

Divine Horsemen: the living Gods of Haiti - Maya Deren, Cherel Ito, Teiji Ito (1985)

(Id.)

Visto su Mubi, in lingua originale sottotitolato.

Maya Deren è una regista surrealista degli anni '40 (e già solo con questo credo che potrebbe riempire un libro di storie interessanti) che conosco solo in maniera indiretta per l'aura vagamente mitica e per una citazione sostanziosa nel Dizionario snob del cinema.
Sono rimasto quindi sorpreso dal sapere della sua passione per il voodoo che la portò (tra gli anni '40 e i '50) a passare un lungo periodo ad Haiti, a entrare in contatto con i sacerdoti locali che le permisero di riprendere numerosi riti oltre che di essere edotta sui significati di quanto stava avvenendo. Morta improvvisamente nel 1961 il materiale raccolto non fu mai montato. Ci pensò il marito, Teiji Ito, a metterlo insieme con la collaborazione della quarta moglie, Cherel, e a presentarlo nel 1985 (in realtà a i quell'anno pure Ito era già morto).

Operazioni del genere le guiardo sempre con sospetto non potendo sapere come doveva essere il film (pur se in presenza di appunti come i questo caso).
Per questo film però c'è una sequenza che risulta montata e doppiata (mi pare) dalla Deren stessa e che risulta essere la base per le scene precedenti e successive (doppiate invece da una voce maschile). Ciò non garantisce una totale aderenza all'idea originale, ma probabilmente è la cosa più vicina possibile.

Detto ciò il documentario è estremamente interessante perché mostra una pratica ipercaricata di strutture e idee che poco hanno a che fare (derivate sopratutto dal cinema) facendone piazza pulita. La scena iniziale già dice tutto, una festa in piena luce con persone che ballano in maniera sempre più convulsa e il soggetto che viene "cavalcato" che va in una sorta di trance con occhi rivolti al cielo; immagine che nello stesso tempo elimina anni di mistificazioni e rende comunque un senso di spiritualismo.
Come pecca c'è una certa ripetitività e un gusto per l'elenco e il name dropping delle divinità voodoo che può soddisfare un antropologo, ma che difficilmente farà portare a termine con facilità la visione (pur breve) a uno spettatore meno interessato alle abitudini culturali haitiane.

lunedì 30 dicembre 2019

The witch. Vuoi ascoltare una favola? - Robert Eggers (2015)

(The VVitch: A New-England Folktale)

Visto in DVD.

Una famiglia di pellegrino americano troppo estremisti religiosi anche per la loro comunità di pellegrini viene scacciata ed esiliata nella foresta vergine.
Dovrà fare i conti per prima cosa con l'ambiente ostile, umido e malaticcio, con la scarsità di cibo e con le loro stesse regole sociali che opprimono la donna. In secondo luogo dovranno vedersela con una strega che abita in quel bosco e con Satana (ammesso che entrambi non siano che una leggenda).

Film spettacolare, costruito con un'attenzione per i dettagli estrema degna delle psicopatologie di Kubrick: vestiti cuciti a mano, inglese arcaico dell'epoca, luce naturale (che fra tutte queste apparenti minchiate è la scelta più evidente che da all'ambiente un aspetto lattiginoso).
Non è il primo film a perdersi dietro a una messa in scena autoriale, né il primo a parlare di come l'ambiente modifichi le persone; ma è quello che recentemente riesce meglio in questo campo e si permette di costruirci attorno un horror senza jump scare, ma pieno di tensione continua che deriva tanto dalla presenza incombente del maligno (mai mostrato, ma veicolata attraverso gli alberi che murano laa casa in una radura e attraverso gli animali che, però, si comportano da animali normali), quanto dai rapporti familiari che si allentano e degradano verso la follia più totale.

La struttura della trama è un lento, dieci piccoli indiani, un centellinare le scomparse e le morti immotivate fino allo showdown finale.
Il film è efficacissimo, e si appoggia su un cast incredibilmente e credibile, tutti in parte e tutti con le facce giuste, ma vanno sottolineate le prestazioni di Anya Taylor-Joy che si porta gran parte del film sulle spalle (è la figlia adolescente che ha la grave colpa di essere donna e adolescente) e di Harvey Scrimshaw che dura meno, ma la scena dell'invocazione (Gesù o il diavolo?) pre morte è credibile, dolente e sensuale nello stesso momento (e all'epoca aveva solo 14 anni!!!).

PS: sottotitolo italiano totalmente fuori contesto, credo che parta da quello originale, ma che l'abbiano scelto senza aver visto il film.