mercoledì 22 maggio 2019
Gli insospettabili - Joseph Mankiewicz (1972)
Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.
Un anziano scrittore di gialli invita a casa sua il giovane mante della moglie. La giornata prende subito una piega curiosa, l'uomo infatti, chiede al giovane di aiutarlo a farli arricchire entrambi. MA presto il piano prende una piega inaspettata. Questo sarà solo il primo di vari colpi di scena e il primo di tre giochi sempre più estremi.
Tratto da un'opera teatrale questo film è tutto improntato alla recitazione; si appoggia integralmente sulle spalle di un Olivier che gigioneggia con classe infinita e un Caine di livello. Più di due ore di film con solo due personaggi è cosa difficile da sopportare, soprattutto in un film fatto di dialoghi; il loro piglio riesce a vincere su tutto.
Il film è suddiviso in almeno tre parti distinte ognuna implausibile in un climax ascendente di WTF che solo chi accetta di farsi trasportare dall'ottimo ritmo riuscirà a tollerare.
Inoltre questo è l'ultimo film realizzato da Mankiewicz che, con l'età, sembra aver acquisito un dinamismo sempre maggiore. Dato la dimora in cui si svolge la vicenda è estremamente articolata e parte integrante del racconto, il regista si muove spesso alternando primi piani a inquadrature ampie o su più livelli che permettono di incastrare i personaggi all'intenro del nugolo di giochi che popola la casa.
Film certamente superficiale e con meno thrilling di quanto vorrebbe; tuttavia divertente e sostenuto per tutto il suo minutaggio e da adito a un paio di interpretazioni eccellenti.
venerdì 16 novembre 2018
Il caso Mattei - Francesco Rosi (1972)
Visto in Dvx.
La vita (professionale) di Mattei, presidente dell'ENI, viene ripercorsa a ritroso, a partire dalla morte in un incidente aereo; da lì, con una linea temporale spezzettata da continui movimenti in avanti e indietro nel tempo e con una linea narrativa interrotta da inserti "di reprtorio" (che spesso di repertorio non sno) interviste, momenti apertamente metacinematografici, viene riassunto il personaggio. Il Mattei di Rosi è un uomo solido, sicuro e copmentetne fino allo sfinimento, il classico eroe buono che combatte contro tutti a rischio per la propria vita per il bene, in questo caso, dell'Italia.
Forse in questo c'è l'unica vera pecca del film, si tratta di un film a tesi che non vuole mostrare il dibatutto personaggio Mattei, ma ne crea uno a immagine e somiglianza di quelle idealizzato dal regista; dopo questo film non vi sono dubbi sulla positività del presidente dell'ENI, così come non vi sono dubbi che il suo incidente aereo non fu molto accidentale.
Tuttavia si tratta di un film a tema quasi dichiarato e la via per percorrerlo è la migliore, non la mera santificazione, ma la commistione di mezzi (il documentario, l'intervista, la fiction) per arrivare all'obiettivo rende il tutto più digeribile.
E qui si arriva invece alla grande idea del film, un'opera di fiction che è un film inchiesta basato su alcuni fatti e molte ricostruzioni; un film che utilizza gli stilemi propri del documentario (le interviste, il regista che interviene all'interno del suo film, immagini di repertorio, titoli dei giornali) legate insieme da lunghe sequenze di fiction utili a ricostruire pezzi di narrazione mancante, ma in molti casi, utili solo alla creazione del mood (si pensi alla moglie assalita dai fotografi all'inizio, così come l'intero incipit con il grattacielo che si sveglia o l'aereo che cade). La commistione di generi sembra funzionare perfettamente rendendo affascinante ogni passaggio, con giusto un lieve eccesso nell'intrvista doppiata al giornalista americano verso il finale.
Rosi non si tira indietro alla costruzione di immagini ad effetto (le inquadrature con le magnifiche fiammate che fanno scappare le donne in pianura padana o quella che colora i volti delle persone nel deserto) e affida la parte di fiction a un Volontè (scegliere questo attore è sempre stata una precisa decisione politica) al solito magnifico, ma sorprendente per misura (un altro merito del regista suppongo).
Un film magnifico, sorprendnete ed estremamente efficace, che avendo tutte le sue intenzioni nel contenuto non dimentica la forma, ma anzi la sfrutta in ogni modo per ottenere il massimo dalla sceneggiatura.
lunedì 11 giugno 2018
L'uomo dai setti capestri - John Huston (1972)
Visto in Dvx.
Un fuorilegge fugge al di là del confine degli USA nella terra di nessuno dove costruisce una città sotto la propria giurisprudenza. Giudice e tenutario del saloon, ma anche eminenza grigia dietro alle esistenze e ai gusti di tutti.
Film su un self made man estremo e folle scritto da John Milius (e nel plot si sente la sua presenza), ma virato verso la commedia dalla mano pesante di un Huston che si mette in secondo piano nella sua regia ottima, ma senza svolazzi. Il risultato finale disgustò Milius (lui voleva lacrime e sangue), ma non può che soddisfare lo spettatore.
L'effetto è quello di una farsa allucinata appena al di qua dal distruggere la sospensione dell'incredulità. Non è un western è un film su un uomo larger than life fuori posto in ogni società che si crea la propria società fuori posto anch'essa e che sopravviverà a tutto, ma non alla modernità che ingloberà tutto.
Il film permette a un Paul Newman perfetto per la parte di gigioneggiare come se non ci fosse un domani e, nonostante questo, di risultare perfetto per la parte.
La sceneggiatura, anche se enormemente cambiata presenta il suo punto di forza (oltre che nel personaggio principale) nei dialoghi, divertenti, rapidi e modernissimi.
Un film che è una sorpresa allucinata e non un western bello, ma canonico, come ci si aspetterebbe.
Finale al fulmicotone che è l'apocalisse di un mondo, più che l'ultimo fuoco dello stesso.
venerdì 12 gennaio 2018
La più bella serata della mia vita - Ettore Scola (1972)
Visto in Dvx.
Un industriale italiano che porta, illegalmente, fondi in Svizzera, rimane bloccato su una strada secondaria per un guasto alla macchina; verrà accolto nel castello di un anziano conte e invitato a cena. Durante il lauto pasto il conte assieme a tre suoi anziani amici, metteranno in scena un processo contro l'italiano; dal gioco di ruolo dell'inizio, il processo sembra diventare sempre più serio.
Tratto da un'opera teatrale dell'ottimo Dürrenmatt, Scola ne trae un'opera comica, grottesca che si chiude come una farsa. Trasferisce tutta l'attenzione sul protagonista, interpretato dal solito Sordi che fa Sordi (bravo, ma scontato) e si adegua al suo registro e ai suoi tempi... Scelta non ottimale che rende il film discontinuo e che lo port sul registro del macchiettistico nel giro di pochi minuti rendendo totalmente non sfruttabile il mood d'inquietudine che la storia potrebbe dare.
La trama riesce comunque a muoversi attirando l'interesse dello spettatore (ma è merito dell'opera originale), nonostante la regia sia stata impostata con il pilota automatico (appare quasi impossibile che questo film sia stato realizzato tra "Dramma della gelosia" e "C'eravamo tanto amati").
Grandioso il cast di vecchie (letteralmente) glorie del cinema francese.
In definitiva un film impersonale e insipido che intrattiene senza sforzi con una storiella interessante buttata in vacca.
mercoledì 15 novembre 2017
Non si sevizia un paperino - Lucio Fulci (1972)
Visto in Dvx.
In un paesino del sud Italia avvengono una serie di inquietanti omicidi di bambini, tutti in maniera identica. Oltre alla polizia inizierà a indagare un giornalista che, unendosi nelle ricerche a una delle indiziate, scoprirà cosa sta succedendo realmente.
Mi trovo a concordare con l'opinione generale; considerando i film di Fulci che ho visto finora, questa è la sua opera migliore. La sinossi estremamente semplicistica non rende merito di un mood che non ha niente a che vedere con il perturbante metafisico della "Trilogia della morte", ma riesce a dare un senso di impotenza di fronte a una perversione generalizzati e insondabile.
La regia fluida è sempre la stessa, con un amore particolare per i piani di ripresa complessi (dei finti panfocus o l'uso del fuori fuoco per suddividere un'inquadratura), una mano piuttosto pesante sugli zoom e soggettive, ma soprattutto i continui, piccoli, movimenti di macchina da presa che rendono più gustoso il montaggio interno.
Ma al di là della regia sempre efficace questo film vince per concretezza. La trama sarà ai limite della sospensione dell'incredulità, ma è gestita benissimo, con estrema concretezza; i personaggi che si susseguono sono solo abbozzati, ma lasciano intendere tutto un mondo tridimensionale dietro di loro (tutta la prima parte con le indagini dei Carabinieri è la descrizione di un microcosmo dalle miriadi di anfratti). Inoltre riesce a mantenere coesa una storia estremamente dispersiva con continui cambi di protagonisti (prima i carabinieri, poi il giornalista) così come di sospettati (magnifico il fatto che il Fulci ci induca ad avere sospetti anche prima che li abbia la polizia, per poi frustrarli sistematicamente).
venerdì 11 agosto 2017
San Michele aveva un gallo - Paolo Taviani, Vittorio Taviani (1972)
Visto in Dvx.
Seconda metà dell'800, un gruppo di anarchici ormai agli sgoccioli tentano l'ultima spedizione rivoluzionaria in un paesino. L'operazione finirà male, non in senso tragico, ma più sul versante del ridicolo. Il capo verrà condannato a dieci anni di detenzione (in realtà sarà una condanna a morte, commutata in ergastolo con un trasferimento a un altro carcere dopo 10 anni), uscendone troverà un mondo molto diverso da quello immaginato nella clausura della cella; nessuno si ricorda di lui, i suoi ideali sono stati raccolti da dei giovani che però li hanno modificati per adattarli alla nuova realtà e considerano il vecchio leader l'ultima vestigia di un passato anacronistico.
Un lento film dai risvolti politici evidenti, ma che non sono sicuro fossero l'intendimento principale dei suoi autori.
Diviso perfettamente in tre parti di circa 30 minuti l'una, mostra il tentativo fallito di rivoluzione, quindi la detenzione, infine il rapporti con il nuovo. Mostra quindi una parabola umana sul fallimento dell'ideologia (non di una nello specifico, ogni ideologia ha il difetto di essere autoreferenziale e, quindi, superata da altri), anzi, un fallimento umano, di un uomo patetico (la rivoluzione stroncata dalla mancata collaborazione dei paesani, la finta messa a morte, il ritorno tra gli scherzi dei compagni), divenuto tale dal tempo e dal progredire degli eventi.
domenica 11 giugno 2017
Corvo Rosso non avrai il mio scalpo - Sydney Pollack (1972)
Visto in Dvx.
Un ex militare si rifugia nel west inesplorato degli USA per ricostruirsi una vita in un ambiente selvaggio, ma indipendente. Dopo un laborioso apprendistato e la costruzione di una famiglia involontaria (una moglie "regalata" da un capo indiano e un figlio "adottato" dopo averlo trovato in casa con il cadavere del padre e in mano a una madre pazza) sembrerà aver trovato un suo posto nel mondo. La distruzione di tutto quello che si era costruito per mano di un gruppo di indiani lo scatenerà in una follia di vendetta estrema.
Tratto da una leggenda locale (in teoria una storia vera, ma data la distanza temporale e i contorni mitici direi che ormai è più nella leggenda che nei libri di storia) questo è un western che definire atipico è un eufemismo.
Sceneggiato da un Milius muscolare, ma stemperato da (ampi) stralci del plot originale e addolcito dalla regia serafica di Pollack, il risultato finale poteva essere facilmente un'oscenità; invece miracolosamente il film funziona.
La prima metà è un ironico road movie ambientato nel west; la seconda diventa un dramma di vendetta, poco sanguinario, ma molto emotivo. Entrambe le parti sono ampiamente descritte con totali o campi lunghi, con costruzioni sceniche pittoriche (inficiate solo dalla scarsa qualità della pellicola utilizzata in quegli anni).
Ma dove la manona pesante di Milius si riesce ancora a vedere (nonostante le ampie modifiche del testo originale) è dove il film rende di più. I rapporti nel west più selvaggio sono onesti e di virile affetto. La dignità viene equamente divisa fra tutti i conterranei, fra i nativi americani (attenzione però, non c'è una ragione attribuita a loro aprioristicamente e neppure una lacrimevole pietà) che vengono mostrati come popoli guerrieri con regole ed etica; fra gli esploratori solitari, che sono uomini veri che cercano una vita più autentica abbandonando la città; ma anche fra l'esercito degli
USA (la cavalleria che va ad aiutare la carovana bloccata e che per farlo deve passare in un cimitero indiano), un mondo ancora puro, non fatto di ordini, ma di doveri morali e rispetto.
Un film che riesce a essere divertente e profondamente etico, con un finale poetico e dalle pretese enormi che vengono immancabilmente centrate.
mercoledì 26 aprile 2017
Solaris - Andrei Tarkovsky (1972)
Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in italiano.
Uno psicologo vieen inviato a valutare un gruppo di scienziati preposto allo studio del pianeta Solaris dopo una serie di comportamenti quantomeno strani. La stazione risulta abbandonata, anche se due membri del gruppo sono ancora vivi. Presto si renderà conto che il pianeta è vivo e rende reali pensieri o ricordi; per lui, farà tornare in vita la moglie morta.
Un film elegante e algido che cerca, intellettualmente, di parlare di memoria, di affetti e di rapporto con il proprio passato (cercando di dimostrare come il tentativi di fissare per sempre alcuni momenti della propria vita, o anche di cercare di ricrearli, sia impossibile e i tentativi sono destinati al fallimento). Gestito con uno stile incredibilmente pacato, con una regia dinamica, ma meno espressiva rispetto ai precedenti film del regista (ci sono diverse panoramiche circolari e uso dei colori ragionata, una fotografia gradevole inficiata solo dalla scarsa qualità della pellicola).
Il film gioca spesso sul simbolismo, sul suggerimento e mai sulla dichiarazione; tenuto tutto sui colori terrei (che richiamano le lunghe inquadrature autunalli della prima metà ambientata sulla terra) cerca di costruire immagini, mai esotiche, ma sempre ricercate (raggiungendo il punto più alto nel momento di assenza di gravità, che rappresenta anche il massimo degli effetti speciali del film). Interessante anche l'attenzione per la natura; se tutta la prima parte sulla terra vengono continuamente mostrate immagini naturalistiche, una volta giunti sulla stazione spaziale c'è un continuo tentativo di ricreare la natura (la piantina del finale, la carta sul condizionatore per imitare le foglie), come il pianeta fa con i ricordi.
Un film molto denso e molto cerebrale (come sempre in Tarkovsky) che sfrutta la fantascienza per ricreare un luogo dell'anima distante da tutto per interpretare il lavoro quotidiano nella mente delle persone. A mio avviso, più che capito, il film va goduto.
PS: edizione italiana tagliata di 40 minuti introduttivi e distrutta da una sceneggiatura realizzata dalla Maraini e scientemente peggiorata da Pasolini.
venerdì 6 gennaio 2017
Joshû sasori: Dai-41 zakkyo-bô - Shunya Itô (1972)
Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.
La nostra Sasori è sempre in isolamento, ma le altre carcerate organizzano una rivolta che viene sedata rapidamente con terribili conseguenze per tutte... soprattutto Sasori. Mentre vengono riportate in carcere riescono a fuggire, ma tra le detenute in fuga ci saranno ovvi malumori (odiano sempre tutti la povera Sasori); arriveranno a rapire un autobus di turisti.
Grazie al successo del primo capitolo di questa serie, venne realizzato immediatamente dopo il precedente. Innegabile che la storia sia quello che sia; già nell'altro non era proprio il punto di forza, qui la trama è ripetitiva e noiosetta... ma meno dell'altro, il ritmo, spesso, c'è e funziona... si insomma ancora una volta non spicca e non sarà il motivo principale di interesse. In meno rispetto al precedente c'è da sottolineare una gravissima mancanza di tette.
Quello che, per fortuna, viene riconfermata, è la coppia Kaji/Itô. L'attrice e cantante riesce a mantenere la presenza scenica di sempre. Mentre Itô ritorna a giocare con la regia come un bambino: inquadrature da prospettive estreme, giochi di luci, macchina a mano, panoramiche circolari e attori che ruotano sulla scena... e tutto già nella prima mezzora (anzi 15 minuti). in più ci sono degli inserti favolistici (come la vecchia pazza con il coltello, l'intermezzo con la canzone e la morte con le foglie autunnali) o la scena sull'autobus che fa il paio alla scena del flashback nel primo film.
Si insomma, ha più o meno gli stessi difetti e lo stesso stile del precedente, ma ancora ci si diverte.
mercoledì 23 novembre 2016
Joshû 701-gô: Sasori - Shunya Itô (1972)
Visto in Dvx in lingua originale sottotitolato in inglese.
Una donna viene sedotta da un poliziotta che la convince ad aiutarlo per incastrare dei criminali. Facendo da esca verrà picchiata e violentata e il poliziotto si dimostrerà totalmente disinteressato, lui puntava solo agli arresti e lei era solo un oggetto. Cercherà di vendicarsi, ma sarà arrestata; nel carcere diventerà la vittima preferita dei secondini e il target delle frustrazioni delle altre detenute.
Il film è di per se una risibile e grottesca galleria di violenze psicologiche e fisiche su una donna forte, dico risibile per il piglio cartoonesco che rende il tutto per nulla impressionabile e per l'insistenza voyeristica. Tutto ciò però può far perdere rapidamente interesse per un film che, per il resto, vive solo del numero (decisamente ragguardevole) di tette che vengono esposte. Per carità, queste sono le direttive per ogni buon film del genere donne in carcere... ma qui c'è di più.
Qui c'è una regia pazzesca, dinamicissima, fatti di montaggio rapido, inquadrature articolate e sghembe, rapidi movimenti di macchina da presa e zoom; il tutto con un occhio all'estetica generale (costruzione delle immagini e fotografia complessiva) senza farsi prendere troppo la mano sul colore. In poche parole, il meglio della regia tipica anni '70.
Ma ancora Itô non si accontenta e aggiunge alcune sequenze che rappresentato dei picchi di autorialità inaspettata (il flashback realizzato quasi in un'unica sequenza con scenografie mobili simile a quello che farà Coppola con "Un sogno lungo un giorno"), crossover di generi (la collutazione nella doccia con la donna trasformata in un demone da teatro kabuki) e spunti espressionisti (il cielo durante la rivolta delle carcerate con i badili).
Un film da vedere.
PS: protagonista la bellissima (e cinematograficamente violenta) Meiko Kaji (futura "Lady Snowblood") che canta la tarantiniana "Urami bushi".
PPS: il costume di Sasori (così come il nome) è citato in "Love exposure" di Sono... come un pò l'intera struttura del finale.
lunedì 3 novembre 2014
L'ultima casa a sinistra - Wes Craven (1972)
Visto in Dvx.
Due ragazze vengono rapite da un gruppo di balordi, quindi violentate e uccise; i rapitori cercano rifugio nella casa dei genitori di una delle due. Quando il cadavere verrà scoperto si scatenerà una folle vendetta.
Remake ufficioso de "La fontana della vergine" con un Wes Craven alle prime armi che decide di prendere di petto il problema dello splatter. Il problema è che a lui piace, ma evidentemente all'epoca era piuttosto contestato; quindi decide di prendere in giro la questione nella trama del film mentre nello svolgimento cerca di inserire tutte le sequenze che gli scarsi mezzi economici gli concedono. Di fatto la storia di Bergman diventa solo un pretesto per metterci qualche scena di abuso fisico e psicologico.
Il problema è che Craven vuole solo colpire, non ha un piano, né un obiettivo, né le capacità per fare altro. Passa più di metà film a mostrare il rapimento e lascia alla vendetta solo il breve finale; ma anche il lungo sequestro non offre idee entusiasmanti, si poteva mostrare gli abissi di crudeltà dei personaggi o le lotte interne al gruppo, invece entrambe le cose sono accennate, ma rimangono sullo sfondo. La vendetta finale è poi mal costruita, mal motivata e mal recitata.
Un progetto che poteva essere interessante, ma Craven vuole solo divertirsi a farne un manifesto dello splatter (tra l'altro piuttosto datato ormai) e non ci mette dentro nulla... ma questa in fondo è solo un'opera prima.
venerdì 20 giugno 2014
Fritz il gatto - Ralph Bakshi (1972)
Visto qui and here.
Un gatto (studente?) vive tra sesso occasionale (ma piuttosto consistente), fumo di marijuana, contestazioni, tentativi di rivoluzione, attentati neonazisti, prostitute e morti improvvise.
Non c'è una vera e proprio trama in questo film, più un lavoro di cucito di scene indipendenti fatte apposta per colpire duro sullo sguardo di uno spettatore dei '70s.
Il disegno è ruvido, ma personalmente lo trovo perfetto per il tono ed il tema del film, la regia cerca di dare spessore alle immagini con scelte oculate nei colori e con disegni accurati (per i personaggi principali) o più caricaturali quando viene ritenuto opportuno (vengono ancora usati i merli per gli afroamericani!).
Se il tratto è buono, la storia è latitante, si salva per l'originalità dell'opera, ma la sua insistente provocazione ha poco significato al giorno d'oggi. Di fatto è un film invecchiato molto; rimane un pezzo da museo da guardare con leggerezza. In fondo è il primo cartone animato vietato ai minori di 18 anni.
Pessimo il doppiaggio originale per qualità del suono.
Pessimo il doppiaggio italiano per il contenuto; ammazza il sonoro originale senza sostituirlo, uccide le canzoni anni 70 statunitensi con deboli canzoni anni 70 italiane, mette i dialetti di tutta Italia in bocca ai personaggi (ma in fondo questo è il meno per chi, come me, è venuto su a suon di Simpson) e sostituisce battute rapide con riferimenti sessuali (ma anche commenti sulla questione razziale) con idioti commenti sulle diete da seguire o sulle differenze fra Milano e Roma; sostituisce addirittura molti silenzi con commenti inutile. Non dico che faccia perdere ulteriormente il ritmo, ma quasi. Gli concedo l'attenuante generica per il fatto che questioni molto americane sono ora note a tutti per il bombardamento culturale degli ultimi 30 anni, ma nel decennio in cui uscì cose come la questione razziale non potevano essere comprese... quindi si sostituì il quartiere nero con little italy...
venerdì 28 febbraio 2014
Mimì metallurgico ferito nell'onore - Lina Wertmüller (1972)
Visto in tv.
Un siciliano ostracizzato per una votazione decide di emigrare nella fredda Torino. Qui conoscerà una bella militante di sinistra... nonostante sia sposato inizierà una focosa storia d'amore e la stagione degli scioperi di Torino la seguirà da una camera da letto. Purtroppo otterrà un trasferimento per la Sicilia (mai richiesto) e dovrà tornare anche se, con l'amante avrà già avuto un figlio. Una volta tornato scoprirà del tradimento della moglie e la sua vendetta complicherà enormemente le cose.
Se la trama alla fin fine è esile (è un triangolo amoroso condito di politica) la strutturazione è così piena di colpi di scena e sterzate improvvise da rendere dignitoso ogni minuto di pellicola. La storia è comunque affascinante per il continuo muoversi a caso del protagonista, del suo fingersi un uomo diverso da quello che è (è un metallurgico, un uomo evoluto) ed il suo reagire d'istinto che lo porterà a non pochi problemi; il caso comunque è il vero filo conduttore, spesso impersonato dalla famiglia di mafiosi, ma in definitiva presente ovunque. La patetica fine del protagonista sarà per buona parte dovuta alla sfiga.
La descrizione dei personaggi e dei luoghi è terribilmente luogocomunista, ma a mio avviso questo è funzionalissimo alla pellicola, rende il protagonista un simpatico guitto ed il mondo in cui si muovo un assurdo teatro che tutti possono riconoscere.
Forse però non ho ancora detto la cosa più importante; sì c'è il duello uomo donna e la connotazione politica predominante che vanno direttamente a quello che sarà il consueto film della Wertmüller; ma questo è decisamente divertente. Bravissimo Giannini a creare una maschera buffa e la regista a porre ogni situazione sotto la luce del grottesco quando si sarebbe potuto molto facilmente cadere nel patetico (che c'è giusto un po nel finale).
Bravissima la Melato che rappresenta anche l'unica pecca del film; avrebbe potuto essere usata molto di più
Un film da vedere.
giovedì 2 febbraio 2012
Frenzy - Alfred Hitchcock (1972)
Visto in tv.

Diciamolo subito, non è un capolavoro. Anzi proprio non è granché. Un film minore perché alla fin fine non racconta molto più di quel che mostra; non inventa niente di originalissimo e non intrattiene con lo stesso ritmo e la stessa classe dei film precedenti del regista (fino agli anni ’60).
Detto ciò bisogna però riconoscere che il film rappresenta il grande ritorno al mix tra thriller e humor in un insieme grottesco tipico dei film anni ’50 del regista. Su tutte la scelta di mettere il cibo al centro di tutto il film, dalle cene francesi (o la colazione inglese) dell’ispettore, la parca colazione della prima vittima, il camion di patate della seconda vittima o la vendita di verdure al Covent garden. Scelta piuttosto curiosa che crea diverse situazioni ironiche (le già citate cene dell’ispettore con la moglie, che sono forse le scene più divertenti del film) o grottesche con suspense (tutta la sequenza del secondo cadavere nel camion è un piccolo capolavoro i questo senso).
Inoltre i tocchi di classe alla regia non mancano. La già citata scena del camion è un lungo lavoro di montaggio; ma ciò che vince su ogni altra scena sono i due omicidi, tra loro collegati per la dicotomia che rappresentano. Il primo è un frenetico omicidio mostrato come mai prima nel cinema di Hitchcock, in maniera cruda e crudele con una macchina da presa che avvolge i protagonisti (questo film è in assoluto il più esplicito del regista inglese); il secondo invece è tutto lasciato all’interpretazione del pubblico, con una macchina da presa pudica che esce lentamente dall’appartamento, scende le scale e finsice in strada in un silenzio irreale. Una coppia di scene stupende.
Il film poi è particolare per l’estetica tipicamente anni ‘70, peggiore di tutte le precedenti. Non so se Hitchcock se ne accorse, ma sembra averla sfruttata per realizzare un film che, pur avendo una componente comica come si è detto, mantiene un mood complessivamente più sgradevole, più sporco, più tetro, meno upper class e patinato dei film precedenti.
Infine il cast. Qui bisogna proprio precisare che quest’ultima fase di Hitchcock creò un bel problema al regista che si ritrovò improvvisamente senza gli attori feticcio, perché troppo vecchi o ritirati (come Stewart e Kelly) o rapiti da altri registi (come la Bergman). Hitchcock quindi sceglie una rottura totale, prende solo attori di teatro, esteticamente mediocri, ma capaci.
Curioso infine, come il protagonista innocente sia complessivamente più antipatico (o quantomeno poco interessante) dell’antagonista, decisamente più brillante.
mercoledì 21 settembre 2011
Cabaret - Bob Fosse (1972)
Visto in DVD.

Quanti musical coi nazisti hanno fatto?! Io ne conto almeno tre, più di quanti ne abbiano mai fatti sui gatti, o sul re del Siam.
Vabbe comunque, ho visto questo film sull’entusiasmo per l’ottimo All that jazz… beh mai sbaglio più grande. Per carità questo Cabaret è un film curatissimo, con costumi, scenografia e mood che sembra proprio quello degli anni ’30, non una ricostruzione, ma proprio quello originale; gli attori sono bravi e molte canzoni orecchiabili il giusto, le sequenze coreografiche (che riassumono tutto Fosse, con sesso esplicito, cappelli, bastoni, guanti e sedie) che sembrano adattissime ad un night berlinese d’epoza… tuttavia il film è inutile. È la solita storiella d’amore che non aggiunge nulla di nuovo, anzi sembra più inutile della media dato che nona sembra avere ne un capo ne una coda, si dipana per due ore senza suggerire nulla se non la personalità dei personaggi (anche questa molto ben curata). Si insomma è un film con tutte le finiture perfette, ma purtroppo manca della struttura centrale.
lunedì 25 aprile 2011
La notte della lunga paura - William F. Claxton (1972)
Visto in Dvx.

Ovviamente il film è un fiasco completo… il problema principale è che si prende troppo sul serio. Viene realizzato un film horror canonico, ma con una delle idee più idiote.
La storia senza inventiva non aiuta di certo e neppure il budget limitato. Quello che si ottiene è un film totalmente prevedibile, dove il “mostro” è semplicemente il muso tenerone di un coniglio inquadrato da vicino e dal basso mentre attori fuori scena gridano di paura; talvolta sporcano di rosso i baffi o fanno digrignare i dentoni al coniglio... ma non è che la cosa migliori molto. Le scene truculente sono mostrate molto rapidamente (anche perché è difficile convincere un coniglio a ficcare il muso su un pezzo di carne) e il picco lo si ottiene nei corpo a corpo (coniglio contro uomo o coniglio contro cavallo) in cui un pover’uomo viene obbligato a mettersi un costume da coniglione gigante. Peccato che anche queste poche scene (di involontaria, ma salutare, autoironia) sono mostrate il meno possibile.
Un film noioso e senza motivi di interesse.
giovedì 21 aprile 2011
Ma papà ti manda sola? - Peter Bogdanovich (1972)
Visto in VHS.

Qui si passa alla screwball comedy, con personaggi abbastanza macchiettistici, ma una trama niente affatto consueta. Anzi, è evidente che Bogdanovich ci gode a rendere complesso il meccanismo. Tuttavia la tram che si poggia integralmente sullo scambio di valige funziona integralmente e fa lavorare con dignità i personaggi.
Il film è evidentemente ispirato ai cartoni della Looney Tunes (come dice esplicitamente il titolo originale, che riprende la frase canonica di Bugs Bunny; il primo incontro fra i protagonisti con una Streisand che appare dappertutto mangiando una carota; o nel finale che si chiude proprio con la fine di un episodio di Bugs Bunny e Taddeo) e le dinamiche messe in atto sono le stesse, si spinge sul surreale fino agli eccessi dei cartoni mettendoci però in mezzo la classica storia d’amore anni ’30 tanto cara a Hawks, con due personaggi che si respingono per poi avvicinarsi.
Complessivamente un buon film, divertente e che intrattiene; con un cast all’altezza e un’ottima regia; ha qualche momento di stanca solo verso la fine con l’inseguimento in macchina, ma tutto sommato regge bene.
venerdì 14 gennaio 2011
Sussurri e grida - Ingmar Bergman (1972)
Questo film di Bergman è come un libro di Ford Madox Ford, o un’opera di Schönberg; si può non apprezzarlo, non arrivare neppure alla fine, eppure la profondità che c’è dentro è indubbia, e la perfezione formale è enorme.
La storia di tre sorelle (e una governante) che si prendono cure di una di loro, malata e morente e che rappresentano 4 archetipi umani, 4 modi di affrontare l’esistenza, o semplicemente 4 facce dello stesso animo (Bergman sosteneva che tutte e 4 fossero prese da sua madre, senza che il film fosse una biografia).
La storia è scarnissima, i silenzi lunghi, gli eventi pochi come i personaggi e i gesti, o quotidiani o eccessivi… eppure tutto è impeccabile, se ci si lascia trascinare dentro la storia non ci si può annoiare, l’unico rischio è il terribile amaro in bocca che lascia questo film, quasi più d’ogni altro fra le opere di Bergman.
Tecnicamente poi è realmente qualcosa di speciale. La macchina da presa indugia sui dettagli e insiste sui primissimi piani, con continui avvicinamenti come mai nella carriera del regista; la storia già chiusa dentro una casa, viene ulteriormente resa intimistica dalle inquadrature. La fotografia tutta improntata sul rosso e sul rapporto tra questo colore e il bianco (e, dopo la morte, anche col nero), con la creazione di un ambiente irreale, senza tempo, a se stante. Lo stesso Bergman sosteneva che ogni suo film a colori avrebbe potuto realizzarlo anche in B/N, tranne questo, perché il film è un’anatomia dell’animo umano e il rosso è il colore dell’anima.
Non ci si aspetti un’opera facile, accogliente o conciliante; non ci si aspetti intrattenimento; questo film deve essere visto come un trattato di filosofia o di teologia, non ti fa passare un’ora e mezza gioiosa, ma ti da spunti, informazioni o punti di vista che non troverai mai su Panorama.
Impeccabile il cast, costretto a recitare come non mai.
PS: i film di Bergman sono una serie di preti, una sequenza di pastori tutti improntati verso la ricerca di una fede che non hanno loro per primo; quello in questo film è forse uno dei più struggenti, è presente in un’unica sequenza eppure lascia il segno. Pregando per la morta al suo capezzale, in realtà prega la morta di dargli un segno dell’esistenza di dio, e facendolo si lascia sfuggire una lacrima; alzandosi poi afferma che quella donna aveva più fede di lui. Stupendo.
sabato 13 novembre 2010
Roma - Federico Fellini (1972)
(Id.)
Visto in DVD.
Un altro film apertamente dedicato ai ricordi, secondo d’una trilogia ideale. E di nuovo un film meta cinematografico con Fellini di nuovo in gioco nella parte di se stesso. Non c’è una trama in realtà, ma un susseguirsi di episodi, di spezzoni che nel loro insieme costituiscono un affresco che rimanda alla città eterna. Ovviamente tutto filtrato dalla memoria e dall’onirismo di Fellini.
Nel complesso il film non torna, non convince, soprattutto perché non è un film, ma una serie di episodi, ognuno dei quali, preso da solo presenta un fascino particolare, da sogno o da incubo , davvero invidiabile; ma che non si legano quasi per nulla.
Ogni episodio inventa un modo di vedere le cose che verrà successivamente cannibalizzato (il primo episodio, l’arrivo sul raccordo anulare, ad esempio mi ha ricordato sia Jodorowsky, sia il video di Everybody hursts, una similitudine più per assonanze che per copie).
Ogni scena, come dicevo, merita d’essere ricordata per la poesia (l’arrivo in autostrada, i sotterranei di Roma) o per l’ironia (l’avanspettacolo, i due lupanari, la passerella degli abiti di chiesa)
Non un film memorabile o fondamentale, ma un divertisment di classe.
venerdì 29 ottobre 2010
Che cosa è successo tra mio padre e tua madre? - Billy Wilder (1972)
Visto in VHS.
Il figlio di un influente uomo d'affari americano va a recuperare il cadavere del padre in Italia; li scoprirà che il padre non faeva delle vacanze in solitudine come raccontava, ma aveva da ormai 10 anni una relazione con una donna inglese morta anche lei nello stesso incidente. Conoscerà la figlia e dopo le inevitabili schermaglie se ne innamorerà...
Commedia indegna di Wilder ed indegna di Diamond, lunga, prolissa, buonista, prevedibile fino al midollo, quasi mai divertente, e questa sarebbe la cosa più grave se il regista non ci provasse gusto a mostrare per ben 2 volte (no dico 2!) Jack Lemmon nudo.
L'Italia è mostrata come da cartoline senza particolari guizzi (giusto l'accenno al fascismo nel finale mi fa riconoscere gli stessi sceneggiatori di Uno, due, tre!).
L'unico momento passabile è quando entra in scena l'amico diplomatico, ma dure troppo poco per risollevare un tale fallimento.
Sembra impossibile, ma anche Wilder può fallire.
PS: incomprensibile comparsata di Pippo Franco che dovrebbe bullarsi di più d'aver recitato per Wilder, anche se in un film scadente.