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domenica 24 gennaio 2021

Arirang - Kim Ki Duk (2011)

 (Id.)

Visto qui, in lingua originale sottotitolato in inglese (con sottotitoli spesso fuori sincro).


Durante le riprese di "Dream" un incidente fa rischiare la vita alla protagonista; Kim Ki Duk ne rimane sconvolto si isola dal mondo e (lui che scrive e dirige quasi un film all'anno) smette di produrre per 3 anni, nel 2011 se ne esce con questo documentario/mockumentary per poi ricominciare con la solita frenesia produttiva.

A un mese circa dalla morte ho voluto recuperare questo film perché è proprio qui che io e il regista coreano ci siamo lasciati. A fronte di opere enormi con il picco che pongo personalmente con il suo "Ferro 3", Ki Duk ha via via sbragato, andando a perdere prima il mordente, poi l'asciuttezza in favore di un sentimentalismo ai limiti del sopportabile. Personalmente ho visto tutti i suoi film dal 2000 al 2008 (tornando al cinema per l'arrivo improvviso de "Il prigioniero coreano") partendo come giannizzero del regista per arrivare in fondo a quel decennio stanco di un uomo con più idee che talento per realizzarle. 

Vedendo questo film l'idea non cambia, ma sarà il distacco o la recente scomparsa non mi sento di fustigarlo in eccesso.

Il documentario mostra la vita quotidiana di Kim Ki Duk nel suo eremo, la sua quotidianità fatta di cibi cotti nella stufa, notti passate in una tenda e l'assenza di un bagno, oltre che la costruzione di una macchina per farsi l'espresso. In mezzo a tutto questo Ki Duk si confessa realizzando un documentario in cui si mette a dialogare con sé stesso, con la sua ombra, sente un continuo bussare alla porta e nel finale aumenta l'irrealtà con una serie di gesti estremi. Siamo di fronte a una sorta di "Real fiction". Anche le confessioni fatte sono lunghe geremiadi a metà fra l'autocompiacimento e il tentativo di farsi del male da solo, un pò onestà e un pò vittimismo che danno l'impressione di essere messe lì apposta (Ki Duk stesso dice che piange per aumentare la drammaticità). 

L'effetto finale è piuttosto deludente per il ritmo assente, anche i dialoghi non lo sono mai davvero, ma sono lunghi soliloqui ripetitivi, ma l'idea di fondo è affascinante. Tanto più affascinante per l'impossibilità di capire dove sia il limite fra il reale e l'artificiale e, in questo unico senso, è uno dei suoi film più efficaci. Consigliato solo per completisti.

lunedì 18 novembre 2013

Le président - Jean-Pierre Bekolo (2013)

(Id.)

Visto al Festival di Cinema Africano (in concorso), in lingua originale sottotitolato.

Il dittatore del Camerun, al governo da 40 anni improvvisamene scompare, i media locali tentano di seguirne le tracce, ma le segnalazioni sono troppe e le motivazioni sconosciute; nello stesso momento il film segue il presidente stesso, il suo peregrinare in cerca di un successore, gli incontri con un rapper e con il capo dell'opposizione fino allo showdown con la sua ex moglie.

Prima parlo dei difetti perché dopo potrei sembrare troppo entusiasta. Prima di tutto è un film esteticamente dozzinale, evidentemente low budget, anzi lower. Poi è un film a tesi, dove la tesi è urlata in faccia ogni 15 minuti circa, non proprio una buona partenza insomma. Inoltre il film ha un po' il limite delle produzioni low budget soprattutto per la fotografia e la recitazione di parte dal cast (i giornalisti), anche se la critica maggiore va fatta sulla verosimiglianza delle scene di fiction e la totale non credibilità dei tg e degli inviati che si vede stanno recitando. Inoltre, pur essendo un fil di 60 minuti, riesce ad essere rallentato dalla forma (che è anche il punto vincente), soprattutto all'inizio quando ancora deve ingranare. Ultimo neo i dialoghi, se tutto sommato si salvano quasi sempre, i giornalisti appaiono particolarmente vacui (ok era l'intento, però potevano essere comunque scritti meglio) e, soprattutto, il discorso del rapper Valsero dovrebbe essere un punto di svolta importante mostrando come un uomo del popolo (un artista però) sia molto più lucido del presidente, tuttavia il discorso è fumoso, vacuo, è evidente la veemenza positiva, ma non è chiarissimo il concetto al di la del fatto che tutto quello fatto dal dittatore fosse uno sbaglio. Ah già chioso solo sulla paraculaggine del finale dove come nuovo presidente viene "eletta" una donna...

Un film particolarissimo nella costruzione, non è un mockumentary tout court, ma neppure è solo fiction; è più dalle parti di un "La seconda guerra civile americana", anche nel mostrare l'umanità dietro ai "grandi" personaggi e ovviamente nello sfottere l'idiozia dei media. Tuttavia non è solo quello.
Il presidente è una figura ironica che si trova però a metà strada fra i dittatori di Sokurov e "Il posto delle fragole" (nessuno me ne voglia per i paragoni iperbolici), un uomo solo vittima del suo sistema (le guardie del corpo che vorrebbero ucciderlo) che ripercorre un percorso fisico che è soprattutto un viaggio psicologico (la strada che continuano a ripercorrere, l'ex moglie nel finale); il tutto, come si diceva diluito in una ironia leggera. Oddio non ci si aspetti un film profondo come quelli citati, qui siamo ci sono solo 60 minuti, li nomino solo per cercare di inquadrare il mood del film.

Inoltre è un film demagogico, ma girato in una dittatura, dunque il popolusmi diventa un atto di coraggio. Se a questo si somma il fatto che i discorsi spesso diretti sono realizzati in maniere sempre nuove (pensieri esposti con voci fuori campo, personaggi che parlano direttamente in camera durante false soggettive, tre momenti musicali dove il testo della canzone veicola concetti, dichiarazioni di comodo, il depistaggio involontario dei tg, ecc...), anche il logorante (e logorato) film di denuncia assume un fascino e delle possibilità nuove.

In poche parole, considerando la pesante opinione del regista che viene veicolata in ogni inquadratura, considerando che ne escono bene quei personaggi (il rapper) che non ci si aspetterebbe fossero più sul pezzo della classe politica, considerando la paraculaggine di certi momenti, la ricerca di linguaggi sempre diversi e il preciso intento di dire qualcosa al potere costituito mentre si cerca anche una sollevazione del popolo, questo è un po' un film alla Michael Moore, se Moore facesse mockumentary.

Interessante sottolineare l'ovvia censura avvenuta in Camerun; ma ancora più interessante il fatto che il Goethe Institut (che ha coprodotto) abbia poi rifiutato di distribuirlo in Germania e che ci siano stati problemi nel portarlo anche in Francia, tanto che il regista l'ha reso disponibile gratuitamente su una piattaforma on demand keniota.


Il film è stato anticipato da un corto "Accusé de reception" di Djibril Saliou Ndiaye. La storia è quella di un uomo in crisi economica che decide di scrivere a Dio, la lettera ovviamente si fermerà all'ufficio postale dove verrà aperta dal personale che deciderà di aiutare l'uomo; ma il protagonista troverà comunque il modo di lamentarsi ancora. Un filmetto senza qualità, girato in maniera minimamente dignitosa, co una lungaggine eccessiva per un corto del genere con una storia che al massimo si può definire carina. Il vero problema è che è un film senegalese; uno degli stati africani con più storia cinematografica alle spalle... ci si aspetterebbe di più...

mercoledì 30 ottobre 2013

Il mundial dimenticato - Lorenzo Garzella, Filippo Macelloni (2011)

(Id.)

Visto in Dvx.

In Patagonia viene ritrovato uno scheletro abbracciato ad una macchina da presa degli anni ’40. Quello risulta essere lo scheletro del cineoperatore che venne pagato per registrare il mondiale di calcio del 1942 proprio in Patagonia. Un mondiale non del tutto riconosciuto dalla FIFA, che in piena guerra fu fortemente voluto da un magnate locale. Questo mondiale dimenticato è al centro di questo documentario che ne ripercorre l’ideazione, a la pianificazione, al realizzazione, i ritratti dei personaggi principali e le interviste ai superstiti, inoltre viene mostrato il contenuto delle ultime riprese fatte, con la definitiva dimostrazione di chi vinse effettivamente quel mondiale.

Un mockumentary artigianale, lo si vede subito; non ha immagini di repertorio grandiose e le ricostruzioni sono eccessive (giustifica sempre l’enorme quantità delle riprese, ma per avere quelle immagini, soprattutto quelle non ufficiali, bisognerebbe avere come minimo le telecamere moderne); ma il punto non è li. Il punto è l’idea.

L’idea è grandiosa, la ricostruzione di une vento in un periodo di guerra, che semplicemente non può essere dimostrabile in alcun modo, con un’accuratezza nei dettagli enorme e con un tentativo di partecipazione emotiva, soprattutto nel finale, che dovrebbe aprire il cuore. Purtroppo un cast non ottimale ammazza un poco il trasporto emotivo e l’ironia che pervade il film dalla metà in poi ammazza molto la verosimiglianza del racconto. Rimane comunque un’idea bellissima che a metà smette di prendersi sul serio e diventa un’avvincente cialtronata. 

lunedì 1 ottobre 2012

This is Spinal Tap - Bob Reiner (1984)

(Id.)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Uno dei primi mockumentary musicali della storia del cinema; e tanto basterebbe. Se ci si aggiunge inoltre un gustosissimo intro in cui il film prende in giro se stesso il gioco è fatto.
Il film ripercorre il tour americano di una band heavy metal inglese che torna dopo anni a cercare una ribalta ormai perduta, tra interviste, ricordi del passato ed i costanti problemi del presente.

Il film funziona benissimo in primo luogo per la credibilità del documentario. Non voglio dire che il film risulta verosimile; fin dall’incipit è chiaro che è tutta un’invenzione, tuttavia la qualità delle immagini, il montaggio, l’audio e addirittura le frasi mozzate a metà e la sovrapposizioni di più persone contemporaneamente. Si insomma, è evidente che tutto è falso, ma lo si mostra con il contenuto e non con il mezzo.
Il film ovviamente se la prende direttamente con il mondo heavy metal anni ’80 che cita direttamente e lo fa in ogni dettaglio, fin dal nome del gruppo (scritto con l’umlaut dell’heavy metal messa sulla n!). ma mostrando spezzoni del passato si prende il tempo di sfottere anche gli anni ’60 e ’70.

Quello che però fa davvero la differenza tra la riuscita e l’insuccesso è la creazione di personaggi stupidi sul modello che Ben Stiller farà suo, incredibilmente egocentrici ed esagerati. Il film fa ridere ancora, e molto anche,  alcune trovate anarchiche ed assurde sono il piatto forte (la storia dei batteristi così com’è raccontata all’inizio, il gruppo che si perde dietro le quinte del palco, l’assolo di chitarra elettrica e violino, e la mia preferita, la scenografia di Stonehenge con i nani danzanti; tutte idee degne di un Mel Brooks in stato di grazia o di uno ZAZ meno sguaiato).

Un grande film… che tra l’altro anticipa, concettualmente, il Black album dei Metallica