domenica 3 gennaio 2021
Nel paese delle creature selvagge - Spike Jonze (2009)
domenica 8 novembre 2020
Il Jokey della morte - Alfred Lind (1915)
(Id.)
Visto su la Cineteca di Milano.
Un ricco nobile viene ucciso dal sovrintendente che si libera anche della figlia neonata dandola a dei circensi. Molti anni dopo un nipote del nobile torna e scopre la vicenda, cercherà la cugina perduta e per convincerla della realtà di tutta la vicenda... si farà assumere nel circo per fare una serie di funambolismi pericolosi. I due dovranno fuggire a lungo prima dell'inevitabile happy ending.
Film di riscatto e d'azione (si, ok, pure d'amore, ma rimane decisamente sullo sfondo) tutto indirizzato ad esaltare le scene dinamiche; la trama è tra il ridicolo e il cretino, ma è altrettanto evidente che l'intenzione era altro.
Tolto quindi il lungo preludio alla un pò meno lunga fuga (circa 20-25 minuti su quasi un'ora di film) quello a cui si assiste è una sorta di cortometraggio che fa sfoggio di abilità circensi in ogni contesto possibile: sui tetti, sui ponti, sulle navi, tra i treni, sulle biciclette, ecc... con picchi di fascinoso action d'antan (per me il passaggio dalla chiatta al ponte) e picchi di follia irreale che ad un action puro sono prontissimo a perdonare. Certo, qualche anno dopo Keaton farà molto di più, e poco più di un decennio dopo avremo il suo "The General" (bignami di stunt e sprezzo del pericolo tutt'ora valido), ma considerando la bontà del gesto (tutto figlio delle attrazioni classiche del circo), il luogo (l'Italia nn è terra di grandi film d'azione) e l'anticipo sui tempo, questo è decisamente un grande film.
Come si diceva la sceneggiatura invece è imbarazzante e lo è fin dai primi minuti, viene giustificata dal lungo finale, ma non si può perdonare tanta pigrizia.
Magnifico invece il costume del protagonista che dona una nota di dramma cinematograficamente vincente.
PS: questo è il primo film italiano del danese Lind, emigrante della regia (lavorò anche in Germania) che qui interpreta anche l'agile protagonista.
giovedì 15 ottobre 2020
Revenant. Redivivo - Alejandro González Iñárritu (2015)
Visto su Netflix.
Selvaggio west (solo più a nord della media dei film di genere), lo scout di una spedizione rimane ferito da un orso, il gruppo lo lascia indietro accudito dal figlio (mezzo indiano) da un ragazzo e dall'uomo che lo odia di più (bella idea). L'antagonista ucciderà il figlio e abbandonerà l'uomo lasciando che freddo e animali facciano il lavoro sporco... spoiler, non lo faranno, e lui tornerà redivivo solo per ucciderlo.
Gigantesco e lussureggiante film di vendetta che impiega quasi un'ora per perpetrare l'abbrivio e il resto si dilunga i una lotta contro la natura per rimanere vivi.
Inutile nascondere che il pensiero viaggia subito a "Corvo rosso non avrai il mio scalpo", ma li differenzia la trofia, ipertrofico il film di Iñárritu, asciutto e diretto quello di Pollack.
Se il difetto è proprio nell'eccesso e nell'accumulo costante senza troppi motivi che gonfia il minutaggio in maniera artificiale; il film vince per il tono cupissimo che riesce a creare (dando vita ad un ambiente permeato dalla morte che viene dagli uomini, dagli animali, dal clima e dagli elementi naturali inerti) aumentando il titanismo dello scontro fra l'uomo e il resto del creato.
La messa in scena poi è perfetta (e con un'interesse maniacale alla verosimiglianza tramite CGI) per dare la giusta voce a questo scontro; una serie di inquadrature incredibili degli sfondi naturali (con l'occhio clinico di chi sa inserire ogni elemento su più piano) fotografato con Malick in mente (e infatti in entrambi c'è Lubezki).
Sineddoche del film la scena dello scontro iniziale con gli indiani, morte ovunque, che si muove senza un ordine preciso, fango, acqua alberi e frecce che trasudano violenza e che si muovono con il disinteresse e la rapidità di una valanga.
Fosse stato più stringato e con mezz'oretta in meno, sarebbe un film di vendetta perfetto.
giovedì 11 giugno 2020
La battaglia di Alamo - John Wayne (1960)
Visto su NowTv, in lingua originale sottotitolato.
Il racconto (che molti ci tengono a sottolineare essere non accurato dal punto di vista storico... ma va?!) delle vicende che hanno portato i colonnello Bowie e il più noto Davy Crockett a combattere dentro a Fort Alamo per dare il tempo all'esercito texano (all'epoca parte del Messico) di organizzarsi per combattere quello messicano ufficiale. Il sacrificio di meno di 200 persone per dare il tempo ad altri di vincere.
Fortemente voluto da John Wayne per anni questo è il primo (di due) film da lui interpretato, diretto e prodotto. Fu un investimento gigantesco e un fiasco al botteghino che precluse a Wayne di bissare per quasi un decennio.
Il film è un polpettone sentimentale (in senso di sentimenti machisti, poco romanticismo) inserito nel genere western classicissimo che di li a pochi anni sarebbe stato buttato a gambe all'aria da Leone.
Enfatico nei toni e manierista nella recitazione (bisogna riconoscere a Wayne di essere quello più controllato, ma d'altra parte lui è stato uno dei più grandi caratteristi d sempre) è un inno al cinema più passatista e patriottico che sarebbe stato accettabile almeno dieci anni prima o più.
Posto tutto questo rimane un film molto godibile.
Accettando che la battaglia vera e propria sia solo negli ultimi 10 minuti (ma è solo il titolo italiano che è fuorviante) è un film classicheggiante che nelle sue due ore e mezza si concede solo un paio di momenti di stanchezza.
Togliendo infatti i due o tre monologhi più patetici (su tutti quello di Wayne al fiume con la donna che manderà via) il film si muove con un ritmo costante, rilassato, ma preciso, intrattiene con garbo, diverte il giusto e mette insieme i pezzi giusti per arrivare al climax finale.
In verità, in tutto questo marasma di già visto, è affascinante che il film su Alamo sia un gioco a tre fra i colonnelli, un film con intrighi di palazzo (poco elaborati) e diplomazia (sempre con piglio divertito), dopo circa un'ora si avvicina a una "La sfida del samurai" scanzonata.
PS: un encomio agli sceneggiatori che hanno dovuto inventarsi tre morti eroiche senza che ognuna facesse sfigurare quella degli altri.
lunedì 8 giugno 2020
Chi ha paura delle streghe? - Nicolas Roeg (1990)
Visto su Netflix.
Un ragazzo rimasto orfano viene allevato dalla nonna che gli racconta storie e aneddoti sulle streghe come si trattasse di un corso di sopravvivenza. In ferie sulla costa inglese finiranno nello stesso albergo di un gruppo di donne che si scopriranno essere (rullo di tamburi) delle streghe, con un piano, tanto diabolico quanto inutilmente complicato per sbarazzarsi dei bambini. Trasformato in topo inizierà l'avventura vera.
C'è stato un tempo in cui i film per regazzini non erano accomodanti sugli scopi dei villain e neppure sulla loro estetica, anzi erano apertamente repulsivi; e personalmente ancora rimpiango quel periodo.
Ovviamente il character design non è tutto e una trama tra il dozzinale e il ridicolo affoga fin dall'inizio un film che è si per bambini, ma non per questo dev'essere idiota. C'è poi una vera e proprio mancanza di competenza nella scrittura che si dilunga per oltre la metà con la preparazione degli eventi per lasciare alla parte dell'avventura un minutaggio limitato (serviva un convengo così lungo?).
L'ultima aprte, quella più dinamica rimane godibile e si concede un finalone che riecheggia (per uso degli effetti protesici, delle inquadrature sghembe e delle metamorfosi) "Splatters".
Quello che però più colpisce di un filmetto del genere è la qualità del cast artistico messo in mezzo.
la Zetterling era (ed è) ormai una semisconosciuta, ma la Huston era all'apice, ma soprattutto c'è alla regia un insospettabile Roeg. Irriconoscibile, pagato per mettere il pilota automatico e rimanere il pi possibile lontano dalla sua comfort zone.
lunedì 27 aprile 2020
Noah - Darren Aronfsky (2014)
Visto su Netflix.
Aronofsky prende la storia biblica di Noè, la gonfia a dismisura introducendo personaggi e relazioni nuove e (questa l'idea fondamentale) la gestisce come un fantasy. Ed ecco fatto un film.
A monte di ogni giudizio fa piuttosto specie vedere un regista viscerale e circonvenuto come Aronofsky alle prese con un colossal dal sapore supereroistico, avrei scommesso fosse un film su commissione della Paramount rimaneggiato dall'autore se non ne avessi letto della precisa volontà di Aronofsky che da anni tentava di portare sullo schermo questa storia.
Detto ciò il film è, come già detto, un'avventura fantasy; un'ottica che, per le storie bibliche soprattutto per un europeo, è sostanzialmente nuova e, diciamocelo, vincente. La storia trattata in questo modo riesce ad avere un ritmo, un passo e un titanismo che difficilmente avrebbe avuto in altro modo, ma no solo questo. Aronofsky prende una delle storie bibliche più fantasiose (meno realistiche) e la gestisce con i linguaggi delle storie inverosimili cinematografiche, anziché il tentativo di un'agiografia di un personaggio impossibile. Fatto il salto l'effetto finale è garantito.
A fronte di questa idea di trama il film fa perno sui rapporti familiari come base del racconto, attriti, rapporti di fiducia e di forza che si muovono, si sbilanciano e si ricreano mentre questo gruppo di persone equilibrato viene messo in mezzo a una delle situazioni più estreme in assoluto.
A condire e a gonfiare c'è (e ci deve essere) un antagonista esterno che banalizza un poco e degli alleati esterni (gli angeli di pietra realizzati e animati benissimo che sono, di fatto, l'unico elemento dichiaratamente fantastico inserito a forza).
Peccato che l'arco narrativo sia scontato per gli scontri esterni e sia invece claudicante per quelli interni.
Per gli scontri esterni la scena di assalto all'arca è l'unica che si fa ricordare.
Gli scontri fra i membri della famiglia invece, una volta arrivato il diluvio diventano l'unica fonte di dinamismo ed essendo confinati in un luogo con pochi personaggi, diventano presto pretestuosi, ripetutitivi e con cambi improvvisi non giustificati.
Con tutto quanto ci si può chiedere se e dove Aronofsky si riconosca. Aronofsky c'è ed è riconoscibile. Splendido il time lapse per indicare il passare del tempo (la fonte d'acqua che diventa fiume), perfetto il continuo ritornare alla frutto della conoscenza e la morte di Abele con 3 immagini in sequenza riconoscibilissime (una sintesi rapida e perfetta fatta solo con immagini di comune riconoscibilità); idee ben congegnate, ma che, per me, sono pò poco.
venerdì 13 dicembre 2019
I predatori dell'arca perduta - Steven Spielberg (1981)
Visto in tv.
Poi Spielberg decise di mettere in piedi una baracconata d'avventura basata su fumetti dozzinali di quando era lui il regazzino, di ambientarla negli anni d'oro del fumetto (i '30s) così da avere la scusa pure per ammazzare qualche nazista; infarcire il tutto di pseudoarcheologia e misticismo ebraico. Un mix sostanzialmente mortale per chiunque, ma il nostro adorato regista realizza uno dei picchi di una carriera... ricca di picchi.
Al di là del lavoro muscolare di ricostruzione di un mondo (mai esistito) dettagliato e variegato, al di là dello sforzo di creare personaggi interessanti e a 360 gradi pur mantenendo i buoni buonissimi e i cattivi... beh sono nazisti. Al di là di tutto questo, quello che più mi impressiona ogni volta che vedo un filmd ella trilogia di Indiana Jones è quanto regga da dio gli anni e le età dello spettatore. Questo è un film che ho adorato da giovanissimo e continuo ad apprezzare.
Spielberg mette in piedi una sana storia d'avventura e per portarla avanti decide che l'azione dovrà essere determinante. Verrà fatto di tutto, scazzottate, fughe dalle fiamme, fughe dentro ceste, battaglie d'auto, ecc.. tutto senza perdere mai un colpo e riuscendo anche mandare avanti la trama mentre si fugge (il capolavoro in questo senso sarà però "Il sacro graal").
Il lavoro riesce talmente bene e l'adrenalina si mantiene a buoni livelli tanto da far accettare i dettagli mistici anche al pubblico più esigente.
Ovviamente dietro la amcchina da presa Spielberg lavora su più piani e costruisce un film in cui le due sequenze iniziali (quella nella foresta e quella all'università) che facendo molto, ma dicendo poco (le scene dell'idolo d'oro potrebbero anche essere mute e cambierebbe di un nulla) descrivono in maniera completa il personaggio appena introdotto.
Il resto del film è un gioco continuo di mostrare in maniera non banale, sfruttando spessissimo le ombre o i tagli di luce quasi noir per un film ttuto sommato molto soleggiato.
Un film che riesce a coniugare una storia a più livelli che può accontentare quasi ogni pubblico, uno sviluppo avventuroso che tiene attacati allos chermo e una tecnica enomre. Un mix che, per fortuna Spielberg ci riproporrà almeno un altor paio di volte...
venerdì 8 novembre 2019
Il libro della giungla - Jon Favreau (2016)
Visto in tv.
La versione live action del film classico Disney ha ben poco di live action.
Nell'anno dell'uscita de "Il re leone" questo "Libro della giungla" sembra essere stata la prova generale per valutare la realizzazione di animali verosimili con il la CG.
L'effetto è sbalorditivo con animali estremamente realistici anche senza il supporto di inquadrature distanti o di ombre e nebbie e rappresenta anche una delle prime (assieme a "Cenerentola") rielaborazioni di classici di animazione, facendo da apripista alla selva di film a cui stiamo assistendo in questi anni. Il tono qui sembra chiaro, tutto improntato alla verosimiglianza, alla credibilità, alla riattualizzazione dei temi e a una nuova taratura del target.
Le canzoni vengono relegate a qualche canticchio a mezza voce e non diventano più minutaggio importante; l'atmosfera è più adulta con momenti estatici (gli elefanti) e altri di maggior inquietudine (la stupenda sequenza con Re Luigi). Il tema di fondo, dell'accettazione delle differenze nel film originale diventava una presa di coscienza di appartenere a un altro mondo a cui tornare, qui invece diventa la consapevolezza di essere diversi, ma nello stesso contesto sociale e vira verso l'inno all'accettazione (scarto di prospettiva importante per la Disney che per decenni ha rappresentato la pubblicità dello status quo più reazionario).
La verosimiglianza è invece tutta nella scelta estetica degli ambienti dei personaggi in CGI e determina la qualità del film, fantastica e curatissima, limita l'espressività dei personaggi per ovvi motivi (gli orsi non sorridono), ma riesce lo stesso a veicolare i messaggi necessari.
lunedì 28 ottobre 2019
Coco - Lee Unkrich, Adrian Molina (2017)
Visto in tv.
La storia di un ragazzino che vuole inseguire la sua passione (fare il mariachi) in una famiglia in cui la musica è stata bandita per un trauma subito dalla trisavola. Per cercare di partecipare a un contest durante il giorno dei morti, il ragazzo, ruberà la chitarra al suo eroe (un mariachi e attore anni '40 ormai defunto)... ma rubare il giorno dei morti a un morto ti fa andare nell'aldilà e lì dovrà farsi aiutare dalla porzione defunta della famiglia che però osteggia in blocco il cantautorato.
Questo film Pixar è il più grande contributo (e omaggio) alla Disney classica, con un protagonista indipendente che si ribella alla famiglia castrante per inseguire i suoi sogni; niente di più lineare e antico.
La Pixar però non è posto per luoghi comuni e ci mette del suo. Il passaggio nell'oltretomba mette in mezzo un mondo timburtiano che introduce la morte in cartone animato per bambini e lo fa con gaiezza e colori lisergici per poi toccare la morte vera (anche qui, come in "Inside out" la morte vera è legata alla memoria e all'oblio) che può far "morire" i defunti (con un'idea che aumenta i passaggi, ma porta al medesimo risultato).
In questo mondo affascinante e perturbante si muovono le avventure del ragazzo che prendono spunto dai classici per arrivare al cinema orientale miyazakiano (come già diverse opere del passato della Pixar) dove non esiste un antagonista (ok, verso la fine ci sarà un villain, ma durerà poco).
Lo scioglimento e il raggiungimento dello scopo saranno un pco scontati e con alcune delle sequenze "d'azione" più tristi della casa di produzione di Lasseter (che ci ha abituati a molto di più), ma il vero terreno di gioco del film è tutto sulle emozioni, con alcuni momenti strappalacrime sbattuti in faccia con violenza.
Visivamente impeccabile e con una fotografia tra le migliori che ricordi.
venerdì 16 agosto 2019
Le donne della palude - Roger Corman (1956)
Visto in Dvx in lingua originale, ma visibile anche qui.
Da un carcere femminile una banda fugge con l'aiuto della compagna di cella di una di loro. LA fuga funziona grazie alle autorità conniventi che vogliono tornare in possesso di alcuni diamanti rubati dal gruppo e nascosti da qualche parte nella palude della Louisiana; la compagna di cella è, infatti, un'agente sotto copertura. Durante la fuga viene rubata una barca di un geologo e della fidanzata che morirà accidentalmente. La presenza dell'uomo causerà pulsioni e innamoramenti (ovviamente solo la buona si innamorerà davvero) che, uniti ai tradimenti interni del gruppo, porteranno alla distruzione del piano di fuga.
Interessantissimo film di exploitation ante litteram che rimane schiacciato solo dal suo essere stato realizzato troppo presto.
La trama prende rapidamente la strada dello scontro fra personalità borderline, il sospetto reciproco che cerca di smascherare l'altra con prove e malvagità, un gioco al massacro che viene a sua volta ammazzato dall'impossibilità di mostrare davvero alcunché o di dichiarare la volontà di fare cose eccessive (stupisce che la commissione Hays abbia approvato la morte dell'innocente e borghese ragazza del geologo, ma anche questa avviene a causa di un alligatore, per cause "naturali" e non per mano delle criminali).
L'arrivo dell'uomo, poi, apre un altro interessante tema, quello delle mai dichiarate pulsioni sessuali inappagate del gruppo di donne (forse una delle idee più innovative per quegli anni) che, anche in questo caso, rimane troppo nel non detto e in larga misura anche nel non fatto(viene accettata una o due seqenze vagamente allusive e la sublimazione dell'amore).
Il tutto coronato da una location formidabile (che sarebbe stato sfondo perfetto per il gioco al massacro e sponda magnifica per la parafrasi sessuale, ma che rimane, invece, solo una location) e dalla necessità di fare un film a modino con le attrici sempre con i capelli perfetti, trucco appena aggiustato e vestiti puliti.
Un film troppo avanti per la sua epoca che è stato ingiustamente maltrattato, anche, dalla condiscendenza del regista a rimanere nei percorsi imposti (perché Corman è titanico, ma pure paraculo)
mercoledì 29 maggio 2019
Mezhplanetnaya revolyutsiya - Nikolai Khodataev, Zenon Komissarenko, Youry Merkulov (1924)
Visto qui.
Se l'animazione sovietica raggiungerà la fama (e i vertici qualitativi) tra gli anni '60 e i '70, ma le sue origini sono decisamente più distanti.
Questo cortometraggio muto è un film di propaganda fantascientifico che utilizza il mezzo dell'animazione (probabilmente) per veicolari i propri contenuti esagerati (l'idea alla base è che i comunisti nel 1929, cioè 5 anni dopo, avrebbero raggiunto Marte per liberare i proletari marziani dal giogo capitalista per poi passare al resto della galassia) senza sprecare troppi soldi e per permettere una deviazione surrealista incredibile.
Questo infatti non è un cortometraggio per bambini: tra capitalisti dalle natiche enormi che mangiano i proletari a un cameo di Lenin (!) l'intento è veicolare una storia supereroistica a un pubblico analfabeta (sostanzialmente nessun cartello) con iperboli, invenzioni visive che rasentano l'incomprensibilità.
L'animazione è qualitativamente non entusiasmante, primordiale nella realizzazione e nel tratto, quindi per me poco attraente, ma anche estremamente originale.
Il film ha un'idea talmente assurda che sembra ovvio sia stata ispirata da "Aelita" libro fantascientifico/bolscevico del 1922 da cui fu tratto un lungometraggio uscito pochi mesi dopo questo stesso film.
lunedì 25 marzo 2019
Barbarella - Roger Vadim (1968)
Visto in Dvx.
Incaricata dal ministro della terra di ritrovare uno scienziato, Barbarella si ritroverà a dover affrontare personaggi e mondi disperati, ma sensualissimi.
La trama è solo un pretesto per permettere allo spettatore di godere della bellezza della Fonda; tutto il resto del film è un surplus.
Non stupisce quindi la storia pretestuosa e sfilacciata e neppure la noia che afferra in molti momenti, né tanto meno la presenza di importanti WTF più o meno voluti.
Quello che invece stupisce è l'impegno incredibile nella creazione di un mondo tremendamente kitsch, ma il più possibile dettagliato; le idee estetiche sono ovunque, ardite o sceme, ma coerenti, creando un catalogo di splendido cattivo gusto che fa invidia e più il film prosegue, più sorprende la capacità inventiva attorno ad un tema comune.
Oltre alla protagonista, dunque, c'è bisogno di un encomio speciale alle maestranze che hanno lavorato nelle retrovia a cui si deve il merito (condiviso anche con la follia di De Laurentis) di aver creato un cult.
venerdì 15 marzo 2019
Batman - Leslie H. Martinson (1966)
Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.
Tra la prima e la seconda serie del noto telefilm anni '60 venne realizzato il primo lungometraggio dedicato a Batman. Figlio diretto della tv con tutti gli stilemi e i tratti distintivi della serie originale (oltre a gran parte del cast), il film mostra i 4 supercattivi più noti (Pinguino, Joker, Enigmista e Catwoman) unirsi per sconfiggere Batman e ridurre in polveri liofilizzati i capi di governi riuniti al consiglio di sicurezza delle nazioni unite con un piano tanto complicato quanto assurdo (ad un certo punto vogliono uccidere Batman attirandolo con l'inganno nel loro covo, farlo passare su una botola da cui uscirà una molla che lo getterà in mare dove una piovra esplosiva lo farà saltare in aria... io gli avrei sparato).
Onestamente non conosco il fumetto originale, essendo io figlio della svolta dark anni '80 ancora molto lontana; ma questa prima rappresentazione di un supereroe è estremamente superficiale (è Batman solo incidentalmente, non ha caratteristiche proprie, poteva essere chiunque da Dick Tracy a Deadpool) eppure è una perfetta filiazione dei tempi in cui è stata realizzata.
Colori accesi e una messa in scena artificiale (con la batcaverna piena di cartelli che designano ogni oggetto e ogni macchinario) che prende a piene mani dal mondo fumettistico da cui origina; sono diventate iconiche le scene di lotta in cui i pugni sono sottolineati da onomatopee scritte del colpo come sulla carta stampata. Questa idea degli eroi dei fumetti rappresentanti in film con le linee guida del fumetto stesso segnerà un'epoca ampissima arrivando fino a Tim Burton (solo molto più dark) che, a sua volta, farà da scuola a tutti i Batman successivi finché Nolan non deciderà di cambiare (finalmente) registro.
Ma come si diceva, la messa in scena e le vicende sono anche un segno del tempo. Fatto per un pubblico giovane, i buoni sono estremamente intelligenti e scientifici, i cattivi caricaturali e senza reale ferocia, mentre l'ironia è l'unico sentimento realmente rappresentato. ironia che viene costantemente rivolta verso sé stessi mettendo in scena una magnifica parodia di Batman stesso che diventa la cifra con cui questo lungometraggio, altrimenti mediocre, vince a mani basse. Tutta la vicenda è esagerata e slegata, ma anche così assurda da non riuscire a prendersi sul serio, arrivando a trasformare ogni idea, ogni sviluppo di trama, in una gag volontaria (dagli enigmi dell'Enegmista che sono semplicemente senza senso, allo squalo esplosivo che viene scacciato con un apposita repellente per squali, dalle imprecazioni di Robin alle pillole anti gas-pinguino fino all'epocale corsa sul molo di Batman con una gigantesca bomba in mano che sembra non poter finire mai data la presenza di bambini, suore e anatroccoli). Ecco questa decisione precisa e continua di sfottere sé stessi e non prendersi sul serio giustifica ogni scelta kitsch e una recitazione costantemente esagerata, oltre a rendere la visione gustosa oltre ogni aspettativa iniziale. Non giustifica invece una storia che si diletta in assurdità di trama arrivando a una lungaggine eccessiva.
Tra i supercattivi Joker è interpretato a Cesar Romero (che non volle farsi tagliare baffi per interpretare la parte e si possono notare sotto il cerone in ogni primissimo piano), ma soprattutto c'è un inaspettato Burgess Meredith (inaspettato almeno per me) nei panni del Pinguino.
venerdì 8 marzo 2019
The haunted world of El Superbeasto - Rob Zombie (2009)
Visto in vx, in lingua originale sottotitolato in inglese.
Un lottatore di wrestling messicano (con maschera sempre addosso) è una star del cinema (porno) e un wannabe supereroe; a fare attività supereroistiche però ci pensa per conto suo la sorella, gnocca e con una benda su un occhio che, mentre lui gira un suo film e fa del clubbing pesante, lei sta cercando di rubare la testa di Hitler da un gruppo di nazisti zombi con l'aiuto di u cyborg che è innamorato di lei. La storia vera e propria verte sul tentativo di salvare una lapdancer dalle grinfie di un nerd satanico che, se la sposasse, riuscirebbe a diventare un demonio potentissimo (non ho ben colto in base a cosa).
Un cartone animato per adulti dall'animazione buona (anche se non eccezionale) in un'ambientazione horror anni '30 con personaggi presi dal cinema di genere che fanno capolino in ogni inquadratura (e che saranno una gioia per ogni nerdcinefilo), con situazioni da b-movie anni '70 e un disegno dal tratto americano anni zero. Il citazionismo è l'elemento fondamentale del film e viene spinto in ogni direzione possibile (personaggi, attrici, autocitazioni, scene apertamente copiate, cameo vocale di Tura Satana, ecc..).
Evidente la volontà di realizzare un enorme tributo al cinema di genere in generale senza basarsi su un modello o una annata specifica, ma alla regia c'è un metallaro dalla mano pesante e quello che viene fuori è un film volgare, eccessivo e talmente ipertrofico da essere ingestibile; quello che ne viene fuori è una lunga cavalcata nonsense nel politicamente scorretto e nell'inutile, fatta da uno che ama il materiale che sta trattando.
Il ritmo, per fortuna c'è o l'intera operazione sarebbe stata da gettare immediatamente in pattumiera. Di fatto questo non sarà il film per cui si ricorderà Rob Zombie, ma direi che è uno sfizio che si meritava di togliersi e, per chi lo guarda, è una godibile cazzata volgare senza pretese, ma tanto gusto.
lunedì 21 gennaio 2019
Capitani coraggiosi - Victor Fleming (1937)
Visto inDvx.
Lo spocchioso figlio di un miliardario americano è un ragazzino che crede di poter ottenere tutto con i soldi del padre e senza sforzo... ora, siamo ancora in una Hollywood ideale, quindi, dopo essere stato accusato di aver tentato di corrompere un professore il padre decide di passare più tempo con lui (suggerimento pedagogico del preside); purtroppo durante la traversata oceanica di riappacificazione padre e figlio, cade in mare, salvato da una nave di pescatori dovrà collaborare con loro perché portare ospiti porta fortuna, portare un regazzino stipendiato per l'aiuto che da no.
Personalmente sopporto male le storie di mare e non sopporto i film di formazione classici; tuttavia questo film è il perfetto esempio del perché la Hollywood classica fosse grandiosa. Ha tutte le caratteristiche per farsi odiare, sulla carta, ha uno svolgimento piuttosto banale (scaldacuore, anche se non totalmente consolatorio), ma il progetto iniziale, messo in mano a un serie di professionisti, riesce a diventare qualcosa di ottimo. Non c'è un intervento determinante che rende il film un capolavoro, ma una serie di lavoratori, ognuno esperto nel proprio ambito che danno vita a un film godibilissimo e dalla realizzazione quasi impeccabile. La sceneggiatura riesce a non edulcorare quello che può esserci di più forte e riesce a rendere godibile anche le parti che potevano essere più zuccherose, con un ritmo sempre presente e tempi perfetti; la fotografia è sempre di livello nella parte iniziale diventa bellissima con le ombre della nave; regia invisibile, ma sempre presente per essere funzionale alla vicenda più che protagonista della scene; in ultimo un cast ottimale con Barrymore (che adoro sempre, qui perfetto), un giustamente rinomato Tracy (vincitore dell'Oscar per questa perfomance), un Bartholomew a cui va dato atto di non essere stato troppo fastidioso, un Carradine in secondo piano e un Douglas che fa il suo. Unico vero neo, il montaggio che, incredibilmente, commetti sbagli e distrazioni immotivate.
mercoledì 9 gennaio 2019
Hunger Games: il canto della rivolta, Parte 2 - F. Lawrence (2015)
Visto in DVD.
Il film di chiusura della saga di Katniss conclude il discorso portato avanti negli ultimi due: l'uso delle immagini come fonte di propaganda, la manipolazione del potere e i dubbi morali sull'essere utilizzati o nel sostenere una parte.
Decisamente moderno nel mostrare la morte degli ideali e aggiornato nel mostrare la lotta per ottenere una giustizia personale (non giustizialismo, ma etica) è la derivazione più moderna del supereroe. Unito al fatto che la protagonista è una donna, non forte, non indipendente, ma decisa e autonoma (e la dama da salvare, sempre in pericolo, è un uomo) la cui storia d'amore è la meno convenzionale possibile (un amore hollywoodiano con l'uomo perfetto che viene sorpassato a destra da un amore di comodo che diventa volontà di salvare e vero affetto); l'effetto che ne viene fuori è che ci sit rova davanti al blockbuster più anticonvenzionale di sempre.
Con una messa in scena ormai ben codificata, ma sempre più sporca (salvo che nel finale), pecca in una generale mancanza di idee potenti; ottima la scena della trappola tra gli edifici, ma è poca cosa rispetto a un finale che poteva essere decisamente più maestoso.
Gioca comunque benissimo le sue carte trasformando il capitolo finale di una saga adolescenziale in una discesa all'inferno dove è più facile morire che amare (cit.), con punte da cinema horror vero e proprio nelle fogne. Non delude nel confronto finale fra Katniss e Snow riuscendo a renderlo estremamente breve e cordiale spostando completamente l'attenzione.
E per concludere realizza un finale antieroico come solo Nolan è riuscito a fare, con Batman, nel recente passato.
Complessivamente il più debole dei quattro, ma soffre della sfortuna di essere stato anticipato da ottimi film e, in ogni caso, rimane un buon film e tra i più originali nella sua nicchia.
venerdì 7 dicembre 2018
L'uomo che uccise Don Chisciotte - Terry Gilliam (2018)
Visto al cinema.
Un regista deve girare una pubblicità con protagonista Don Chisciotte; per farlo pretende di utilizzare come location la zona della Spagna dove realizzò un suo primo film indipendente 10 anni prima. L'occasione lo portarà a re-incontrare alcune del suo passato che lo porteranno in un viaggio lisergico fra fantasia e realtà.
Come spesso nel cinema di Gilliam l'intera vicenda è la descrizionedi un uomo sospeso fra due mondi, fra quello reale e quello allucinato causato dallo scollamento verso la realtà. Come (un pò meno) spesso nel cinema di Gilliam il film si muove con il passo del road movie, con sequenze slegate che fanno entrare sempre di più nel conflitto visionario fino ad un finale dove niente saarà chiaro prima dello scioglimento vero e proprio.
Come talvolta nel cinema di Gilliam la vicenda appare un patchwork di situazioni, un collage lungo (di minutaggio) e con continue accelerazioni e marce indietro che rendono la vicenda sempre meno appassionante, con in più l'aggravante (in questo caso) di non avere alla base un'idea mai raccontata (almeno con quella forza) come per "Paura e delirio a Las Vegas".
Si, insomma, tecnicamente un film ben realizzato, location fantastiche e un cast perfetto (la regia di Gilliam non discute neppur ein film meno riusciti di questo), eppure non mi è piaciuto...
ma improvvisamente un'epifania, tutto questo l'ho già vissuto la prima volta che vide proprio "Paura e delirio" e solo le visione successive riuscirono a darmi la visione d'insieme, una calvacata folle che nella struttura stessa cercava di ricreare il costante squilibrio dei protagonisti (oltre a un film divertente, profondo e realizzato come pochi altri). il mio dubbio, quindi, è se mi trovo di fronte a un film simile che apprezzerò e capirò a fondo dalle prossime visioni.
lunedì 22 ottobre 2018
Hunger games - Gary Ross (2012)
Visto in Dvx.
In un futuro distopico, ogni anno, il governo estrae a caso due coppie per ogni distretto per farle scontrare in gioco mortale dove solo uno uscirà vincitore. Attorno al massacro di giovani gira un mondo di marketing, media, moda e politica.
La versione edulcorata di "Battle Royale" fatta dagli americani non può, prima di vederla, che suscitare due reazioni; piacere che anche il cinema mainstream USA si avvici a temi differenti, gelido distacco per la consapevolezza che stanno per rovinare qualcosa di bello.
Una volta visto il film, invece, ci si rende conto che, stavolta, hanno vinto loro. Il tema (grazie alla serie di libri originale) è trattato sempre con il piglio per young adult che anche il manga utilizzava, ma con un intento decisamente più adulto.
Se in tutti e due ci si trova di fronte alla metaforona delle frustrazioni adolescenziali, masticate da un una società gerontocratiche che impone le proprie scelte tarpando le ali; nell'opera giapponese, il tutto si risolve in un ghiotto bagno di sangue, qui, invece, nella più classica volontà di sopravvivenza in un mondo in cui cane mangia cane (e più avanti nella serie nel più classico tentativo di rivolta giovanile).
Sembra una sciocchezza, ma il tema, anche se scontato, è decisamente più interessante e il film riesce a trattatarlo in maniera impeccabile.
C'è un lungo prologo dove viene spiegato tutto il meccanismo che sta alle spalle della sfida che è, forse, la più intelligente delle invettive da teenager contro un mondo corrotto fatto di apparenze; dopo l'inizio dei giochi, invece, si passa a una rilettura dei rapporti di forza tra regazzini, dove i bulli massacrano i perdenti e gli outsider provano a sopravvivere da soli sfruttando le loro capacità.
Certo, siamo davanti a un prodotto molto commerciale, ma trattato in maniera estremamente intelligenti.
A questo si affianca una regia che nella prima parte cerca un realismo a colori spenti che ha dell'incredibile (incredibile per il format, i film ad alto budget tendono sempre a colpire per l'uso dei colori e la fotografia satura) che culmina in alcune scene con macchina da presa a mano che rasentano lo shoa movie (durante la scelta del tributo nel distretto 12). La messa in scena però non si accontenta del taglio gelido della provincia, ma realizza un mondo esteticamente differenziato e organico per la capitale che sembra una versione timburtiana tenuta a freno dalla consapevolezza che non deve sfociare in farsa.
A questo va aggiunto un cast enorme i nomi (con una capacità recitativa media tra le più alte di sempre nonostante ci sia pure uno degli Hemsworth tirare verso il basso) che culmina in una protagonista magnifica; la Lawrence riesce a mantenere uno sguardo rabbuiato per tutto il tempo trasmettendo tutta una serie di emozioni con il resto del viso e del corpo.
Quello che ne viene fuori è un film non perfetto, ma di intrattenimento intelligenti che si fa guardare senza stanchezza per tutte le sue due ore e mezza.
venerdì 3 agosto 2018
Gli eredi di King Kong - Ishirô Honda (1968)
Visto qui, doppiato in inglese.
Nel 1999 tutti i kauiju sono stati portati su un isola nel Pacifico e trattenuto dall'avanguardistica tecnologia raggiunta. Purtroppo gli alieni ci mettono (di nuovo) lo zampino; si impossessano dei tecnici che lavora sull'isola e, controllando le fiere, distruggono le capitali mondiali.
Film reunion di tutti (letteralmente tutti) i kaiju della Toho sin qui creati, dove quelli in primo piano saranno Godzilla, Angilas e Gorosaurus che si scontreranno con l'eterno cattivo Ghidorah.
Pensato come capitolo finale del franchise mostra, infatti, lo showdown definitivo con uno scontro non particolarmente dinamico, ma tra i più violenti di sempre (ricordandoci sempre che stiamo parlando di mostri di gommapiuma) con colpi efferati dati per fare del male e non per temporeggiare, la presenza (per la prima volta!) di sangue e con la conclusione sulla morte dell'antagonista.
Tutto questo viene realizzato rimasticando la vecchia idea degli alieni che controllano umani e mostri, senza inventare nulla, ma cercando di cavalcare l'avventura come nei due capitoli precedenti.
Già, perché il cambiamento più importante è il ritorno alla regia di Honda dopo la doppietta di Fukuda. Al cambio dietro la macchina da presa segue anche un maggior interesse sui mostri e i loro effetti distruttivi più che l'occhio agli esseri umani e le loro avventure (che comunque sono almeno il 50% del film), ma soprattutto fa seguito un cambio di ritmo importante.
A onor del vero devo ammettere di non aver seguito perfettamente il film a causa della noia; tolta l'esaltazione iniziale di vedere tutti i kaiju insieme il resto mi è sembrato un soporifero viaggio nel già visto; potrei eccedere in negatività dato che con il progredire del minutaggio mi sono ritrovato sempre più distratto.
Film pensato per essere la conclusione, fu invece un tale successo (!) da convincere la Toho a proseguire nella serie.
PS: il King Kong del titolo italiano è un MacGuffin per attirare spettatore, ovviamente non compare.
venerdì 6 luglio 2018
Il figlio di Godzilla - Jun Fukuda (1967)
Visto qui, doppiato in inglese.
Un gruppo di scienziati si trovano su un'isola del pacifico per alcuni esperimenti meteorologici; verranno raggiunti da un giornalista d'assalto, ma, sfortunatamente, anche da Godzilla, richiamato da una serie di onde prodotte da un uovo (spoiler: sarà il figlio di Godzilla). Più che con il lucertolone, gli umani, in questo caso, saranno messi a dura prova da una serie di mantidi religiose giganti e, nel finale da un altrettanto gigante ragno.
Per la seconda volta dietro la macchina da presa Fukuda riprende tutte le caratteristiche salienti del film precedente. Fotografia accesa, regia dinamica, un gusto spiccato per l'avventura e un tono leggero (che con le musichette pimpanti rischia talvolta di finire nella farsa).
L'effetto è piuttosto buono, ma, ci sono due ma. Il primo è l'ottima fattura degli altri kaiju, soprattutto le kamakuras, che rendono giustizia allo spirito disneyano che permea i film della serie diretti da Fukuda; il secondo però è il figlio di Godzilla (chiamato Minilla!)... e non ne ho un'opinione altrettanto positiva...
Minilla è l'idea più orribile dell'intera saga fino ad ora. Ridicolo e obiettivamente brutto, un pupazzo poco credibile dall'espressione cogliona che vorrebbe dare una componente più umana alla vicenda, ma riesce soltanto ad annacquarla. il suo contributo alla trama è il susseguirsi noioso della medesima dinamica ripetuto diverse volte: Minilla va in giro, viene molestato da un altro kaiju e chiama Godzilla in aiuto; ok voler motivare lo scontro fra kaiju, ma questa diluizione è deleteria.
Peccato per questa virata verso il ridicolo che affossa una coppia di film che avevano azzeccato finalmente il piglio scanzonato giusto per traghettare il franchise dall'horror puro al prodotto per famiglie.
PS: in realtà, all'epoca, fu u successo enorme (soprattutto fra i bambini) e il finale strappalacrime (che a me ha ricordato "Shining") commosse le platee.