venerdì 30 marzo 2018

Cenere e diamanti - Andrzej Wajda (1958)

(Popiól i diament)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Un giovane, ex partigiano anti-nazista, viene incaricato dal suo gruppo di nazionalisti di eliminare un anziano capo di partito (comunista), tornato dopo un esilio causato dalle sue idee politiche.

Terzo capitolo di un'ideale trilogia ad opera di Wajda, viene dopo il gigantesco "Kanal".
Questa volta la guerra è finita, ma il contesto storico è, forse, ancora più importante che nel precedente film; un contesto storico estremamente localizzato essendo stato vissuto da pochi paesi e di difficile comprensione per chi non ne è già a conoscenza.
Wajda però non si limita a descrivere una situazione, ma la spezza in settori distinti, ognuno perfettamente lineare, con ogni personaggio che presenta le sue ragioni, spesso condivisibili, ma ogni settore è pieno di incomunicabilità, di impossibilità al confronto anche quando sarebbe possibile o voluto. L'elemento vicente di questo film infatti è proprio la creazione di un mondo frammentato, unito dai festeggiamenti per una vittoria nominale, ma distrutto dall'alienazione.

A livello estetico Wajda fa un lavoro enorme simile a quello del precedente film. Una fotografia in bianco e nero che si conferma una delle migliori degli anni '50, pulita, espressiva, che trasforma ogni luce (poche) in un lama. Il resto del film, a livello di regia, si gioca tutto su una profondità di campo che permette un uso enorme del montaggio interno e che evita l'effetto statico di una fotografia magnifica senza nessun'altra idea.

Ecco, duole dirlo, ma di fronte a tutto questo enorme sforzo positivo, per me, il film muore sul piano del ritmo. A fronte di una vicenza storica complessa e mai spiegata allo spettatore digiuno, c'è anche l'aggravante di una storia lenta nel muoversi che si accascia spesso verso la noia. Il lungo finale è un insime di simbolismo e realismo che si tira le fila dell'intero film dando vita a scene madri e inquadrature spettacolari che non può non piacere (l'immagine del morto abbracciato al suo assassino sotto ai fuochi artificiali, la scena di danza a festa finita, ecc...) e non può non appagare, ma a che prezzo si riesce ad arrivare fino a li?

mercoledì 28 marzo 2018

La fattoria degli animali - Joy Batchelor, John Halas (1954)

(Animal farm)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Primo lungometraggio animato di caratura internazionale per l'Inghilterra e prima trasposizione cinematografica dell'opera di Orwell
Al netto della (comunque interessante) questione della guerra fredda culturale, questo è decisamente un grande film d'animazione; assieme agli esperimenti dei fratelli Pagot il miglior lavoro europeo fino a quel momento.
Il disegno è ottimo, chiaramente ispirato a quello disneyano classico (ma chi non ne è stato influenzato?), ma più rotondo e dai colori meno essenziali, più mischiati e, quando necessario, generalmente più cupi; a livello estetico, quindi, è un chiaro figlio dei suoi tempi, ma assolutamente irreprensibile.
Regia essenziale, ma in certi momenti interessante, se non addirittura intelligente (le scene di battaglia dall'alto, il morphing fra maiali ed esseri umani, ecc...
Riesce a mantenere l'arroganza dei cartoni animati nella sua quasi totale mancanza di dialoghi, ma nello stesso tempo si smarca dal solo pubblico infantile per un cupezza generale che non fa sconti a nessuno.
L'effetto finale è un compendio perfetto del libro, tradito in pochissimi punti non fondamentali, riesce pertanto a tirar fuori l'essenziale interessando lo spettatore alla vicenda. Questo, almeno, fino al finale fortemente modificato in maniera imbarazzante (Orwell stesso non avrebbe apprezzato).

lunedì 26 marzo 2018

Le streghe di Salem - Rob Zombie (2012)

(The lords of Salem)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Satana vuole tornare a Salem ai giorni nostri, per farlo si avvale di un gruppo di streghe che dovrebbero farlo partorire da una tizia che sia di stirpe nota. Per poterlo fare però... sembra debbano far uscire di senno un pò di donne random e come tramite utilizzano la musica (sempre detto che il rock n roll è la musica del diavolo), un pessimo pezzo ripetitivo è talmente brutto che viene continuamente passato alla radio dando il via a una serie di eventi piuttosto lisergici.

Dopo un inizio col botto, due remake importanti (che ancora non ho visto) e un filmetto fatto per togliersi uno sfizio... Rob Zombie torna a togliersi degli sfizi e fa un filmetto.
Se almeno "Superbeasto" ha l'onestà del direct to video e del prendersi per il culo da solo, questo film no, va in sala e si prende troppo sul serio.

A fronte di una fotografia carica e impeccabile, a fronte di un uso di neon che neanche su Beale street, a fronte di una serie di sequenze oniriche cariche di volontà dissacratoria.... a fronte di tutto ciò non c'è nulla. Sembra un horror girato da Refn in fase adolescenziale; sembra contenere tutto l'armamentario kitsch del metal con il 90% di neon in più; sembra essere la volontà cialtrona di un 15enne appassionato di Black Sabbath che vuol far vedere come si fa un film.
Sembra che, di nuovo, Zombie, sia più interessato a togliersi uno sfizio portato avanti da anni, più che realizzare un buon film.
Quello che ne viene fuori è un videoclip metal, kitsch e cretino di un'ora e mezza.

PS: applausi a scena aperta alla galleria di comprimari incredibili, che sprecano una serie di grandi caratterizzazioni per un film che non li merita.

venerdì 23 marzo 2018

La calunnia - William Wyler (1936)

(These three AKA Infamia)

Visto in Dvx, in lingua originale.

Una coppia di amiche, finito il college, decidono di aprire insieme una scuola per ragazze. Con loro si aggiunge l'appiccicosa zia di una delle due e un giovane medico che si innamora ricambiato dell'altra (ma che è in realtà amato da entrambe). Una ragazzina particolarmente stronza, una anziana facoltosa e molto influente e una notte in cui appare (per un misunderstandig) lo spettro dell'adulterio (o peggio, del triangolo consenziente).

Dramma da camera realizzato sulla base di un'opera teatrale che 30anni dopo lo stesso Wyler (in uno splendido auto-remake) realizzerà di nuovo in chiave più libero con "Quelle due". Perché nell'opera originale non è un triangolo eterosessuale a minare il lavoro delle due donne, ma la loro supposta relazione omosessuale.

Quello che comunque riesce a fare Wyler con il materiale messogli a disposizione è notevole. Un film drammatico modernissimo; una regia asciutta che tuttavia si mette a totale disposizione degli attori cercando di esaltarne le performance (con avvicinamenti, primi piani e piani medi utilizzati sempre in maniera funzionale) riuscendo ad aumentare l'effetto melodrammatico della vicenda senza andare ad aumentare l'enfasi in maniera fastidiosa.
Dal canto loro gli attori danno il meglio (sorprendenti in questo senso le bambine, su tutte la piccola antagonista che è da manuale); inutile dire che la parte del leone è delle due protagoniste (McCrea è indubbiamente bravo e in parte, ma qui non è lui a spiccare) con una Miriam Hopkins bravissima e struggente e una Merle Oberon bellissima e delicata. Una coppia di attrici notevole che riesce a non fare una prova viscerale come la notevole accoppiata di "Quelle due", ma che d'altra parte neppure sfocia mai in una recitazione sopra le righe.
Un film da riscoprire di un Wyler nel suo periodo migliore.

mercoledì 21 marzo 2018

Il ritorno di Godzilla - Jun Fukuda (1966)

(Gojira, Ebirâ, Mosura: Nankai no daiketto)

Visto qui, doppiato in inglese.

Un gruppo di uomini si ritrovano per fatalità (e per la cocciutaggine di uno di loro) al largo delle coste del Giappone con una barca a vela rubata, incapperanno in un mostro marino una tempesta e un'isola misteriosa. Sull'isola un gruppo di militare sta creando armi atomiche, nel mentre rapisce gli indigeni dell'isola di Mothra (un Mothra dall'aspetto migliorato) per produrre un liquido giallo che serve a tenere a bada Ebirah (il mostro marino dell'inizio, sostanzialmente un'aragosta gigante). Per colmo di fatalità sulla stessa isola starà riposando Godzilla. Uno scontro fra mostri, un'esplosione atomica e l'intervento di Mothra i zona Cesarini porteranno l'intera vicenda a un happy ending per i protagonisti e per gli indigeni, meno per i militari.

Al capitolo 7 della saga Honda, il regista originale, verrà messo (momentaneamente da parte), era già successo con la brevissima parentesi di "Il re dei mostri".
Con il cambio di regia il film assume un piglio completamente nuovo. Una fotografia dai colori più accesi (probabilmente aiutata da una tecnica migliore), un ritmo da commedia per famiglie (pur nell'assurdità della trama siamo distanti dai tentativi di portare Godzilla al solo pubblico minorenne, qui siamo più dalle parti della commedia disneyana anni '60) che giova alla fruizione, ma soprattutto un dinamismo tutto nuovo. Quello che di maggior valore porta Fukuda (la trama assurda, ma più godibile del solito non è, chiaramente, merito suo) è il moltiplicarsi dei punti di vista, un gioco più rapido nel montaggio e una macchina da presa che, finalmente, non si accontenta di rimanere immobile, ma si muove a dare dinamismo quando serve e ad aumentarlo in alcune sequenze di lotta (la panoramica circolare attorno a Godzilla nel mare).
Nell'insieme, quindi, pur con lo stravolgimento del tono, questo episodio del franchise risulta di gran lunga il più appagante dai tempi del primo film; niente horror, ma un'onesto film d'avventura vecchio stampo col tono giovanile (dell'epoca).

PS: per la prima volta in questo film, il nome di Godzilla viene posto prima di quello degli altri kaiju, un avanzamento di posizione.

lunedì 19 marzo 2018

Mamma Roma - Pier Paolo Pasolini (1962)

(Id.)

Visto in Dvx.

Una prostituta romana di mezza età torna a riprendersi il figlio 16enne dalla campagna. Lo aveva lasciato anni indietro per permettersi di mettere via soldi per avere una casa dignitosa. Il figlio però si unirà a una cattiva compagnia, scoprirà il sesso e sarà perseguitato dalla voglia di non fare niente quanto la madre sarà perseguitata dal suo ex protettore.

Al suo secondo film Pasolini tira fuori un melodrammone famigliare (ovviamente molto inserito nel contesto urbano delle periferie, a livello geografico e sociale), ancora non del tutto maturo (il montaggio ha diversi momenti piuttosto grezzi). Ma la potenza emotiva è semplicemente perfetta.
Ricco di primi piani e campi medi che servono entrambi a descrivere il paesaggio (il volto umano è, a sentir Kinski, uno dei possibili paesaggi), Pasolini si muove con continui carrelli che seguono o lavorano di soggettiva o si avvicinano, tutto perfettamente dosato per trarre il massimo dal lavoro del cast.
La trama è sicuramente scontata, ma altrettanto efficace, muovendosi con maestria nel descrivere un rapporto d'amore assoluto incastrato in un ambiente che ne determinerà il destino.
Gli attori presi dalla strada per lo più non convincono per recitazione, ma il casting non può che essere definito perfetto; i volti sono quelli giusti in ogni situazione e l'amimia di certi momenti viene completamente compensata. Inoltre c'è una Magnani da album dei ricordi; ormai credo sia stucchevole che in ogni film in cui recita si sottolinei quanto brava è, ma qui è davvero incredibile e entra di diritto fra le sue migliori interpretazioni (almeno fino al prossimo film che vedrò con le protagonista).
Il risultato è pazzesco; sfiora la perfezione e regala alcune scene enormi (nonostante il poco mostrato), come la passeggiata della Magnani sotto i lampioni che, nella sua semplicità, è da antologia.

venerdì 16 marzo 2018

Lady Bird - Greta Gerwig (2017)

(Id.)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato.

La vita di un'adolescente a Sacramento tra una madre ingombrante, problemi economici, voglia di farsi accettare e il sogno di fare l'università a New York.

Io e il cinema indie americano abbiamo litigato ai tempi di "Me and you and everyone we know", da allora non ci siamo mai frequentati più di tanto. Tutto sommato niente di male, alla fin fine quei film hanno creato un archetipo rispettato quasi sempre in maniera pedissequa: protagonisti persone normali, ma con qualcosa in più rispetto alla media; punto di vista sempre in favore degli sfigati; rapporti sociali complicati; cittadine di provincia, per lo più d'estate, sempre fotografate con una profusione di colori, spesso pastello; accessorio un eventuale piglio ironico. Ah si, ovviamente, vincono i buoni sentimenti.
Di fatto dopo le prime prove il cinema indie americano dimostrò di essere solo la versione di provincia di quello mainstream da cui si discostava a livello estetico e solo superficialmente contenutistico.
Dopo ben più di un decennio mi ritrovo un film indie alla notte degli Oscar. Se da una parte la cosa è giusta (finalmente un "genere" cinematografico viene accettato dall'academy), dall'altra non mi pare ci sia un vero avanzamento visto che è un genere reazionario accettato da un'accademia reazionaria.
E poi c'è il politicamente corretto scaturito da Metoo che sembra averci messo lo zampino.

Il film, a sorpresa, è carino.
Niente di nuovo, ma l'ironia è costantemente presente e salva molte situazioni; la protagonista riesce molte volte e risultare come un adolescente medio (ansioso di indipendenza, ma anche arrogante e disposto a tutto per essere accettato), il ritmo è ben tenuto.
La sceneggiatura ci prova a essere originale, ha un'intenzione di blanda innovazione che si vede soprattutto nella prima parte come nella ottima la scena del litigio nella macchina concluso con l'uscito dal veicolo ancora in movimento o la scelta del vestito che si conclude con un "ma non è troppo rosa?". Purtroppo l'intento è disinnescato dal corollario di personaggi senza profondità e incredibilmente consueti oltre che dai buoni sentimenti che escono a fiotti a ritmo costante con un picco eccessivo nel finale.

Ottima la Ronan e la Metcalf, molto meno bravi gli amici della protagonista (dove c'è pure Chalamet, il che dimostra che non sono pessimi attori, ma che sono solo stati utilizzati male), nella media i restanti.

Di fatto un film carino che, in parte, mi riconcilia con la fastidiosa supponenza segaiola dei film indie di inizio anni zero... rimane però solo carino.

mercoledì 14 marzo 2018

Il mio vicino Totoro - Hayao Miyazaki (1988)

(Tonari no Totoro)

Visto in Dvx.

Film tra i più famosi di Miyazaki con una storia esilissima di due sorelle che si trasferiscono in una casa nuova in campagna vicina alla cittadina dove si trova ricoverata la madre. Nella nuova casa entreranno in contatto con un mondo parallelo fatto di creature magiche.

Al di là della qualità del disegno che, quando si parla dello studio Ghibli, è un pò il minimo che ci si possa aspettare, quello che sorprende è che questo è giustamente il film più importante della carriera del regista giapponese pur non essendo il più bello.
"La città incantata", a mio avviso, non perde nulla in delicatezza, ma aumenta molto in complessità risultando superiore (e la cito solo perché assieme a "Kiki" è il mio film preferito di Miyazaki, ma il discorso si può fare quasi con tutte le altre oepre del regista), eppure, nell'apparente leggerezza di questa commedia per bambini si dimostra una capacità estremamente muscolare di condurre il gioco.

L'arroganza di Miyazaki si espone al massimo del rischio in questo riuscitissimo film per bambini, con protagonisti dei bambini, realizzato con le tecniche e le suggestioni proprie dell'infanzia, ma adatto anche a un pubblico adulto. L'arroganza si dimostra nella costruzione di un mondo estremamente complesso, fatto di persone e creature innumerevoli che compaiono in maniera normalissima e di cui non viene data alcune spiegazione, semplicemente perché non c'è bisogno di spiegazioni per ottenere una risposta emotiva. Infine, l'arroganza, si vede nella realizzazione di un melodramma classico (con la malattia come evento magico senza possibilità di chiarimento) che, pur finendo con un happy ending non definitivo, riesce a soddisfare pienamente.
Oltre a ciò da vita ad alcune immagini iconiche come solo il maestro giapponese da fare.

Obiettivamente quindi, può non essere apprezzato come gli altri suoi film, ma rimane la più titanica presa di posizione della poetica miyazakiana che sia stata realizzata.

lunedì 12 marzo 2018

Sotto gli ulivi - Abbas Kiarostami (1994)

(Zire darakhatan zeyton)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Un regista torna sui luoghi di un terremoto nell'Iran del nord per girare un film; le riprese di una scena piuttosto semplice sono rallentate dall'infelice scelta degli attori locali, un ragazzo e una ragazza, il cui amore è osteggiato dalla famiglia di lei. Lei studia, lui è incolto, ma ben intenzionato; lui è insistente, lei rimane chiusa nel suo mutismo; entrambi hanno perso tutto nel terremoto.

Film che riprende il tema del metacinematografico tanto caro al regista e le connessioni con le sue opere precedenti.
Il film però non rimane bloccato sull'autoreferenzialità e mostra una storia d'amore appena nata sul nulla; sui rapporti appena accennati fra i due, sulla negazione della storia da aprte dell'unica parente della ragazza e sul nulla lasciato dalla tragedia del terremoto. Su questo nulla quello che rimane più forte del resto non è neppure l'amore, ma l'ostinazione; la testardaggine dell'insistenza del ragazzo e della mancanza di una risposta della ragazza.
Ovviamente, come sempre, non ci sarà una conclusione.

Più organico e indipendente di "E la vita continua", più vivo, questo film è però rallentato da lunghi monologhi zoppicanti, da reiterate situazioni che si ripetono senza tentativi di renderle più dinamiche e senza comunque riuscire a dare quel sentimentalismo di fondo che era la spina dorsale del lento, ma potente "Dov'è la casa del mio amico".

venerdì 9 marzo 2018

Acciaio - Walter Ruttmann (1933)

(Id.)

Visto in Dvx.

Film fortemente voluto da Mussolini per enfatizzare la potenza dell'industria siderurgica italiana. Per la realizzazione si impose anche nelle scelte tecniche, pertanto Pirandello fu mandato a Terni a studiare le ambientazioni e scrivere la sceneggiatura. Mussolini si impose anche nella scelta di Ruttmann come regista (che dovesse essere tedesco era logica diplomatica, ma i produttori gli avrebbero preferito Pabst, mentre Pirandello stesso scrisse a Eisenstein per cercare di coinvolgerlo).
La vicenda produttiva è piuttosto nota, con Ruttmann che, assieme a Mario Soldati che sventra il plot originario mettendo i personaggi in terza fila in favore dell'ambiente ammazzando la trama, ma arricchendo le riprese. Quello che ne viene fuori è un film risibile per la storia raccontata, assolutamente fuori dai canoni fascisti (non c'è ideologia o propaganda neanche a cercarla e l'epica della fabbrica viene lievemente minata da un'acciaieria che è sia elemento potente, sia macchina infernale) e, tecnicamente, una delle opere più interessanti di quel decennio.

Ruttmann infatti si trova per la prima volta ad affrontare un film a soggetto e per farlo elimina il soggetto (rimane solo un lui, lei l'altro banalotto) in favore di un documentarismo carico di enfasi e di significati che sfocia spesso nell'arte visuale. Rimane in definitiva quell'amore per le geometria e il dinamismo che accompagnano il regista tedesco dal suo "Opus".
Le intenzioni e le abilità di Ruttmann per tutto ciò che non è recitazione sono evidenti nelle sequenze dove gli attori devono dire le battute per far avanzare di un poco la vicenda; sequenze imbarazzanti e sostanzialmente risibili.

Il film risulta diviso in quattro tempi nonostante il minutaggio contenuto. Nella prima parte Ruttmann mostra la fabbrica come un'estensione di "Berlino: sinfonia di una grande città"; un Balletto meccanico notevole per giochi di montaggio e ritmo. Nella seconda parte la fabbrica diventa speculare alla fiera di paese facendo vivere la sequenza di continui accostamenti. Nella terza parte (certamente la più ripetitiva), la fabbrica è lo scenario e lo strumento di un duello. Nell'ultima parte la fabbrica è resa palpabile solo dai suoni, le immagini, che vivono di continui movimenti di macchina, si alternano fra gli operai che entrano a inizio giornata e i sogni di un futuro diverso del protagonista.
Vanno però ricordati anche, l'incipit dove i due fidanzati vengono letteralmente presentanti (con nome e cognome) in maniera intelligentemente indiretta (permettendo di realizzare la bellissima sequenza della prostituta che mostra solo le braccia); nonché l'uso dell'acqua del fiume che collega gli "innamorati" a distanza.

mercoledì 7 marzo 2018

Scappa: get out - Jordan Peele (2017)

(Get out)

Visto in streaming.

Un ragazzo di colore sta per andare a conoscere la famiglia della nuova fidanzata, bianca. I suoceri non sanno dell'interrazialità e lui ne è preoccupato. Una volta arrivato la situazione sembrerà un poco tesa, ma tutto sommato positiva, finché il weekend in famiglia si trasformerà sempre di più in un incubo dai contorni incomprensibili.

Affascinante thriller appena screziato di horror che gioca in maniera impeccabile con tensione costruendo uno dei migliori climax visto di recente.
L'intero film gira attorno a un twist molto anni '50 che farebbe crollare un film meno solido di questo, ma "Get out" riesce a evitare il ridicolo o l'azzeramento della sospensione dell'incredulità concentrandosi sul mood generale più che sui dettagli (non è il twist a spaventare, ma il come si raggiunge e il come cercano di portarlo avanti), concentrandosi sulla sofferenza del singolo più che sul grottesco che ci sta alla base. Encomiabile inoltre il gioco di indizi disseminati costantemente durante la prima parte utili a creare il perturbamento, ma non sufficienti a far capire cosa succede; una caccia al tesoro che, dopo aver capito cosa succede, impone una seconda visione.

Il grande gioco d'equilibrismo di questo film però non è tra la verosimiglianza e il fantasy anni '50, quanto tra il registo thriller e quello comico. Dietro la macchina da presa, ma ancora più importante, dietro alla sceneggiatura c'è Peele, comico nato nelle fucine di Comedy central con all'attivo un'altra a sceneggiatura per il cinema, una commedia action.
Peele dimostra di sapersi destreggiare nel cinema di genere, ma lo sporca in maniera importante con la commedia, creando una spalla comica a tutti gli effetti (l'amico che lavora nella sicurezza aeroportuale) e incastrando i due registri uno dentro l'altro, amalgamati in maniera perfetta, facendo ridere pur conservando l'inquietudine. Direi che qui ci sono già motivi più che sufficiente per amare questo film.

"Get out" però non verrà ricordato per essere un thriller teso dalla trama un poco fatua o per la dicotomia nel tono. Il film verrà ricordato per l'impegno politico. La questione razziale è centrale, ricordata in più passaggi fin dall'inizio e resa intensa dalla mancanza di ipocrisia che fa parlare apertamente delle differenze fra gruppi sociali divisi dal colore della pelle (differenze che sono parte integrante della trama) e che mette dalla parte dei cattivi degli wasp liberal che "avrebbero votato Obama per un terzo mandato".
In USA dove la questione sociale è enorme il film è stato un successo incredibile (guadagnando troppe nomination agli Oscar rispetto ai suoi meriti effettivi e questo nonostante sia uscito quasi un anno prima, tempistica pessima per pensare di vincere un premio) non privo di polemiche. Per un pubblico italiano, anche se informato, credo che l'effetto sia evidente, ma diminuito; tuttavia quel finale in cui tutto sembra finito, ma arriva la polizia e ti rendi conto che per il ragazzo nero i problemi potrebbero essere solo cominciati la dice lunga sull'efficacia (e la mancanza di fronzoli) di questo film.

PS: meraviglioso Kaluuya, nonostante una faccia che ho odiato dal primo istante, riesce a portarsi sulle spalle una parte estremamente varia per sentimenti messi in evidenza, con credibilità ed efficacia.

lunedì 5 marzo 2018

La forma dell'acqua. The shape of water - Guillermo Del Toro (2017)

(The shape of water)

Visto al cinema.

Una donna delle pulizie muta che lavora per un'agenzia governativa americana scopre che l'ultima ricerca riguarda una creatura acquatica con cui entra in contatto. Il feeling è reciproco e dal rapporto nascerà l'amore e... la disobbedienza civile con il tentativo di fuga e la liberazione del mostro.

Una favola dark come ci ha abituati Del Toro con una preponderante iniezione timburtiana con il concetto che i mostri non sono i freak, ma le persone normali (qui il vero mostro è "l'uomo del futuro" che guida cadillac e mangia gelatina verde) e in cui la galleria di outsider non è legata all'adolescenza o alla mostruosità, ma alla condizione sociale (sono gli anni '60), quindi il gruppo di fenomeni da baraccone non comprende veri e propri freak, ma i dimenticati dal racconto dell'america wasp, come gli omosessuali, i neri o i russi (quelli che non si allineano, pure loro, alle logiche della politica).
La fotografia affidata all'uomo che curò quella di "Amelié" (e qui ci si avvicina molto per intensità dei colri, ma si discosta per l'uso estremo del verde in ogni sua variazione) traccia un ulteriore parallelismo fra il mondo favoloso alla francese e quello americano, in quest'ultimo la fuga dalla realtà è data dal cinema, che permette agli amanti di ballare, ai muti di cantare e a chiunque di distrarsi dalle brutture del mondo o, almeno, comunicare.

La trama è semplice, ma non semplicistica. Il vero difetto di questo film è lo scarso coinvolgimento. Tutto è perfetto (il finale consolatorio, ma in maniera originale finalmente non delude) e ben curato, con una regia che fa i salti mortali pur senza dare troppo nell'occhio; tuttavia le emozioni autentiche e non pretese sono poche.
Il film si riassume nel personaggio della Spencer, coprotagonista effettivo assieme a quello di Jenkins, caratterizzata il più possibile, presente nei twist più importanti, ma totalmente insignificante (nella fuga si mette in mezzo per fermarla e poi non aggiunge nulla, viene interrogata su quanto successo, ma saranno altri a fare i delatori, porta la polizia, ma è chiaramente un deus ex machina che avrebbe potuto essere fatto in qualunque altro modo), un magnifico McGuffin, ma niente di piuù, uno splendido guscio vuoto.

venerdì 2 marzo 2018

Tre manifesti e Ebbing, Missouri - Martin McDonagh (2017)

(Three billboards outside of Ebbing, Missouri)

Visto al cinema.

Una donna ha perso la figlia (è stata violentata, uccisa e bruciata) 7 mesi prima e non ha ancora ricevuto nessuna parola dalla polizia; decide di affiggere 3 manifesti per chiedere al capo che cosa stanno facendo. la piccola comunità di Ebbing, dove tutti si conoscono e il disagio è normale moneta di scambio, si mettono in moto reazioni aggressive e o protettive

McDonagh mette in piedi un western contemporaneo dalla sensibilità europea (personaggi molto caratterizzati, i rapporti sociali al centro della vicenda, l'impossibilità di assegnare il ruolo di buoni o cattivi con facilità) e lo veste con i panni della commedia nera (almeno nella prima parte) cinica e dura portando in scena una galleria di personaggi cinici e duri che danno più l'impressione di freak ben tollerati piuttosto che di persone normali con dei tic o un passato complicato.
La base è ottimale e l'ironia iniziale stempera dei pugni nello stomaco (concettuali, ma anche emotivi) enormi e riesce a far tollerare senza alcun problema una tendenza al sentimentalismo spicciolo.
Il problema è che la carne al fuoco è troppa. La vicenda è tentacolare, i personaggi molti e i rapporti che intrecciano ancora di più. Durante lo svolgimenti, quindi, le idee (anche quelle ottime) si perdono o vengono gestite frettolosamente (il personaggi interpretato da Dinklage, o ancora di più [SPOILER ALERT] il suicidio di Harrelson, le cui conseguenze, potenzialmente devastanti, si risolvono in 10 minuti con lettere smielose e un dialogo [STOP SPOILER]). Questa deriva delle buone idee viaggia di pari passo con la perdita di cinismo; distribuito a piene mani all'inizio sembra dover soccombere a un'ondata di emotività spicciola (quante parole vengono lette o dette mentre una singola lacrima scorre sul volto di un personaggio) e una tendenza ad appianare verso il consolatorio anche le figure più estreme. Poco possono la violenza (fisica o verbale), gli insabbiamenti, il razzismo, tutto finirà nel calore di rapporti umani ritrovati (in maniera incredibilmente veloce).