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domenica 28 marzo 2021

La ragazza senza nome - Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne (2016)

 (La fille inconnue)

Visto su Mubi, in lingua originale sottotitolato.

Una dottoressa di base, dopo una giornata di lavoro decide di non aprire a uno squillo del citofono fuori orario. Il giorno dopo scoprirà che nei pressi dell'ambulatorio è stata uccisa una donna e che era lei ad averla chiamata per cercare di salvarsi. La dottoressa cercherà di scoprire cos'è successo e il nome della vittima sconosciuta come mezzo per zittire il senso di colpa.

I Dardenne hanno fatto un marchio di fabbrica del loro distacco verso i protagonisti e il girovagare con pervicace verso uno scopo difficile da ottenere è quasi sempre la trama principale. Questo film non si esime, ma aggiunge una nota di fatalismo e di colpa che sono una piccola novità... comunque poco sfruttata, buttata all'inizio e alla fine, ma senza un valore nello svolgimento della trama. Ma almeno il finale ne guadagna.

A questo si lega una freddezza generale (come detto nota stilistica) anche nella recitazione (anche qui, molte volte richiesta, ma qui troppo calcata) Che rende il tutto di un'anempatia incredibile.

Rimane la fluidità e la capacità di coinvolgere di un racconto ripetitivo e senza spunti d'interesse particolare, la capacità dei registi di aggrapparsi a un personaggio e di fartene partecipare che tu lo voglia o meno. Lontano dall'essere il migliore, riesce comunque ad essere un buon film.

mercoledì 17 febbraio 2021

Train to Busan - Yeon Sang-ho (2016)

 (Busanhaeng)

Visto qui.


Un'epidemia zombie irrompe in Corea (del sud). Un uomo e sua figlia (con problemi relazionali) si ritrovano in un treno mentre il morbo si diffonde. Dovranno vedersela con gli zombie dentro al mezzo e con l'incognita della destinazione sicura. Ma più di tutti dovranno vedersela con il più classico degli homo homini lupus.

Senza inventare nulla, le basi di questo film sono estremamente interessanti. Il morbo degli zombie come pretesto per realizzare un dramma horror in un ambiente chiuso con molte persone che devono riuscire a relazionarsi per sopravvivere , con l'aggiunta dell'incognita sul loro destino. Lo zombismo dunque è solo il perturbante che fa scatenarla guerra fra sani più che un espediente horror vero e proprio; fatta salva una o due buone scene thrilling (su tutte il superamento del vagone pieno di mostri durante la galleria) il resto è un (tentativo di) dramma dure e sanguigno.

Di tutta questa operazione non c'è proprio nulla da eccepire (l'horror viene sfruttato come arredamento più che come genere per idee decisamente meno interessanti, dunque ben venga), ma è lo sviluppo che latita. A fronte di un cinismo non indifferente nel mettere a morte tuti quelli che non ti spetteresti dovrebbero morire (si, esatto, come in "Game of thrones") il film si perde nella parte più raffinata di caratterizzazione dei personaggi. Gli uomini che popolano quel vagone sono macchiette bidimensionali costruite su un sentimentalismo melenso fastidiosissimo: c'è l'anziano uomo d'affari egoista e cattivissimo, il buon padre di famiglia simpatico e disposto al sacrificio, la coppia di vecchie (truccate da vecchia malissimo) che si vogliono tantissimo bene anche al di là dello zombismo, e poi c'è il protagonista un padre di famiglia distante e freddo che vorrebbe avere relazioni diverse con la figlia, ma non ci riesce (e poi lavora nella finanza, quindi per principio è distante e freddo). Ogni complessità è apparente, ogni gestione dei rapporti fra personaggi telefonata, ogni elemento emotivo descritto a parole più che con i fatti, a livello di sceneggiatura questa è una débâcle.

Il film poi non offre molto altro a cui aggrapparsi per farsi ricordare (un paio di scene buone, ma non memorabili) e proprio quando sembra pronto a premere sul nichilismo più spinto si lascia andare a un happy ending fuori luogo, ma molto in linea con la parabola di banalità intrapresa...

mercoledì 27 gennaio 2021

Aspettando il re - Tom Tykwer (2016)

 (A hologram for the king)

Visto su Netflix.


Uomo in crisi di mezza età viene mandato in Arabia Saudita (una arabia felix senza contraddizioni sociali o scontri di civiltà) per guadagnarsi l'appalto per forniture informatiche in una new town avveniristica.

Dopo il successo di "Cloud Atlas" Tykwer sembra diventare più appetibile e una coproduzione internazionale (compresi gli USA) gli mette in mano un soggetto di Eggers con Hanks come protagonista. Non si può parlare di grande occasione (il regista tedesco ha già portato in scena "Profumo" con uno sforzo produttivo europeo non da poco e lo stesso "Cloud Atlas" era si un film indipendente, ma delle Wachowski con standard elevatissimi), ma sicuramente l'ennesimo tentativo di rilancio internazionale; non si capisce altrimenti che cosa può aver visto in un progetto del genere un regista dinamico e dai personaggi difficoltosi come Tykwer.

Il film è una gradevole commedia leggera di un uomo in crisi che, messo in un contesto per lui alieno lo porta a ritrovarsi e ritrovare un senso nella vita... gradevole, ma piuttosto piatta, senza guizzi, con i soliti inserti di personaggi buffi (il tassita) situazioni paradossali e l'anima gemella che porta il protagonista sulla via della guarigione spirituale.

Tykwer ci prova a sfruttare gli ampi spazi, a costruire immagini sul tema buzzatiano di spaesamento, ma lo fa con poca convinzione e con colori pastello, si spinge a qualche buona costruzione di montaggi nella prima parte del film, ma presto si spegne tutto per diluirsi ulteriormente in un happy ending tanto perfetto e pulito, quanto posticcio. Film evitabile.

mercoledì 30 dicembre 2020

The founder - John Lee Hancock (2016)

 (Id)

Visto su Netflix.


la storia del fondatore di McDonalds, di come scopre il metodo degli omonimi fratelli, di come li convince ad esportarlo e di come riesce a sfruttarlo per creare un impero economico a scapito degli altri.

L'epopea capitalistica di un personaggio furbo, ma senza troppa empatia è ormai un genere quasi a sé standardizzato da quello che ne rimane l'apice, cioè "The social network".

"The founder" non ha l'innovazione, né le pretese di essere all'altezza del precedente, ma costruisce un lavoro ordinato fotografato bene e con il giusto ritmo (alla regia c'è il Lee Hancock che è maestro di compitiini ben confezionati che non possono deludere l'aspetto tecnico), crea un ambiente in cui muovere un personaggio non originalissimo, ma ben fatto e, il vero colpo di genio, fa le scelte di casting perfette.

Perché la presenza il vero punto di forza di questo film è Michael Keaton.  sono perfetti i corpi da punching ball di Carrol Lynch e Offerman; ma senza Keaton come protagonista ambiguo tutto il film si sgonfierebbe dopo un minuto. Keaton costruisce un personaggio che passa da sfigato a furbo imprenditore con una smorfia della bocca, che passa da simpatico intrallazzatore a stronzo figlio di puttana con un sopracciglio inarcato; ed è semplicemente perfetto e racchiude tutte le dicotomie in poche mosse senza andare (quasi mai) sopra le righe. Mette, invece, tristezza vedere Laura Dern relegata ad una parte che poteva anche essere eliminata.

mercoledì 9 dicembre 2020

The arrival- Desin Villeneuve (2016)

 (Id.)

Visto su Amazon prime.


Gli alieni arrivano sulla terra. Più che pacifici sono silenziosi, se ne stanno sulle loro (inquietanti) astronavi e aspettano. Gli esseri umani tentano di comunicare, ma manca un linguaggio comune che andrà trovato.

Un film di fantascienza con gli alieni che diventa una sorta di thriller linguistico per concludersi con un colpo di scena sul significato della vita che rimette in gioco tutte le immagini viste finora.

Preso da un racconto (fantastico) di Ted Chiang il film ne rielabora la parte concettualmente più impegnativa e meno quella filologica in senso stretto ed è un peccato, ma veniale (odio chi giudica un film per le differenze dal libro, ma con Chiang non sono riuscito a non pensarci tutto il tempo).

Trampolino di lancio per il Villeneuve fantascientifico a cui (sinceramente) non avrei dato due lire, invece il canadese ci sguazza da dio, costruisce tutto il mood sulle immagini ieratiche dai colori cerulei curiosamente degne delle copertine Urania (quelle più serie non quelle cazzare) con venature alla Magritte che dettano il tono di tutto il film e se lo portano sulle spalle anche più della brava e pacata Amy Adams.

Se l'intero film si poggia sul comparto visivo che sostiene il gelido thriller compreso fra linguistica e geopolitca il family drama così come il twist finale riescono a dare ulteriore profondità alla sceneggiatura dando qualcosa che ci si può portare dietro oltre la fine del film. Non ci sarà azione o alieni completamente visibili, ma più di così cosa si può volere?

lunedì 12 ottobre 2020

Mastermind. I geni della truffa - Jared Hess (2016)

(Masterminds)

Visto su NowTv.

Jared Hess è uno dei registi indipendenti più personali e interessanti in circolazione, ovviamente è anche il mio preferito. Caratterizzato da personaggi dai connotati chiarissimi, immersi in un mondo a sé e con un'estetica (che arriva fino alle scelte di regia) pesantissima e molto riconoscibile. Sforna pochi film tutti molto simili (le tematiche sono sempre quelle), ma come i registi migliori (si legga pure Allen) si ripete rimanendo sempre originale.
In passato preconizzavo che la sua forza sarebbe diventata il suo limite rimestando nel già visto e nel banale e morendo sotto il peso del suo armamentario visivo.
Il passaggio a un cinema più ricco invece mi ha smentito, la sua morte (per ora) è stato l'abbandono dei suoi cliché.

Il film è comico demenziale con attori più o meno di peso in quel settore e nient'altro che sia in grande spolvero. La trama si concentra a costruire un film adatto per gli orfani di "Una notte da leoni" riuscendoci in parte, ma perdendo tutto in originalità.
Hess dal canto suo conduce si una storia di outsider, ma che nella tradizione hollywoodiana sognano il sistema e ne entreranno a far parte; per il resto il regista si limita all'abbigliamento del protagonista, qualche Personaggio spalla (la moglie è l'unica completamente alla Hess, impassibile, comica per il modo di porsi e non per quello che dice) e per una certa atemporalità ( il film potrebbe essere ambientato negli anni '80 come l'altro ieri).
Sembra quasi che dopo l'incipit (la presentazione dei due protagonisti in maniera quasi statica e una comicità puramente fisica, fino allo shooting fotografico) il regista si sia messo da parte. Proprio quell'inizio ci illude di come sarebbe potuto essere un'opera di Hess con i soldi, ma è troppo poco.

lunedì 28 settembre 2020

Silence - Martin Scorsese (2016)

(Id.)

Visto su Netflix.

Se lo Scorsese degli ultimi anni pè diventato sempre più ipertrofico nella durata dei suoi film, nelle sue due ultime opere si abbandona anche a un ritmo lento che può renderne più difficile la digestione (beh non per me, ma immagino che possa). Il livello per fortuna rimane altissimo.
In questo film (organizzato e pensato per quasi 30anni, non a a caso vicino a "L'ultima tentazione di Cristo") Scorsese torna con una potenza incredibile sul rapporto con la fede, azzera tutti gli altri suoi topos classici e si concentra su quello.
La lunga epopea di questi due preti nel temibile Giappone di fine '600 alla ricerca di un altro prete cattolico (religione messa al bando e pesantemente punita) è un apocalypse now della fede, un lento immergersi nei rischi supportati solo da una sicurezza che non può cedere o tutto è perduto.
E Scorsese gestisce benissimo la materia, utilizzando la natura (pervasiva almeno per la prima metà), gli alberi, l'acqua, come forze sferzanti, come prima ordalia da affrontare, ma che non nega la presenza di un dio; mostrando la paura attraverso il coraggio altrui. Si concede poi un lungo showdown incastrato negli edifici tradizionali giapponesi, il passaggio è netto, la perfezione geometrica dei palazzi, la pulizia estrema, sono una gabbia in cui rinchiudere i cristiani, ma in cui è anche impedito al loro dio di entrare. Nel lungo finale è tangibile l'assenza di dio, trattenuto dalla forza (morale) dei giapponesi (che sembrano i vincitori della vicenda) e l'ultima inquadratura è la crepa nell'edificio perfetto, la falla che permette il fluire della divinità in quel mondo asettico.

Il film è largamente imperfetto, eccessivo e lunghissimo; ma è formalmente impeccabile (come sempre), di un perfezione che definisce anche il contenuto.
L'eccessiva lunghezza e ripetitività non possono farlo considerare un ottimo film, ma se si trattasse di un fallimento (che non è) sarebbe un dei più belli e intensi di sempre.
Personalmente non credo che lo vorrò rivedere a breve, ma è uno Scorsese in grandissimo spolvero e, nel suo continuo interrogarsi sulla fede, probabilmente uno dei migliori.

PS: non ho riconosciuto Tsukamoto nella parte dle fedele del primo villaggio!!!!

giovedì 10 settembre 2020

Julieta - Pedro Almodóvar (2016)

(Id.)

Visto su Netflix.

Una donna di mezza età sta per trasferirsi con il nuovo compagno all'estero (dalla Spagna si sposterà in Portogallo), tutto è pronto e lei è decisa, ma l'incontro con una vecchia amica della figlia (che le parla di lei) la riporterà indietro. Mollerà tutto quello che sta facendo, si trasferirà nel suo vecchio condominio e scriverà una lunga lettera in cui ripercorre la sua vita.

Sostenere che ci si trova di fronte a un film originale sarebbe mentire, ma siamo di fronte all'ultimo regista che sembra riuscire a sfornare melò efficacie e attuali senza alcuno sforzo.
Se il melò si basa su un amore contrastato dalla società o dal destino ed è un genere invecchiato tantissimo (per le regole sociali attuali più libere, così come per un generale disfacimento delle storie con sentimenti monolitici), Almodovar trova la via per inserirlo in un contesto nuovo (non ho idea di quale possa essere l'ultimo film con un uomo che muore in un mare in tempesta), che è un continuazione degli anni '30- '40, ma qui più che l'amore in una coppia è il rapporto madre-figlia.
Muovendosi sottotono rispetto al solito, non rinuncia però a tutto ciò che determina la qualità del suo cinema; un colpo d'occhio notevole (i colori sgargianti ci sono anche qui, anche se meno shocking, e sono utilizzati per identificare i personaggi anche nelle loro mutazioni nel tempo) con immagini costruite in maniera geometrica per inserire il personaggio nello sfondo; personaggi mossi dai loro sentimenti e da come questi li legano agli altri (che ne siano consapevoli o meno) e come l'apparenza anche eccessiva sia la superficie su cui si riflettono i mondi interiori.

Siamo di fronte a un Almodovar minore, sicuramente, e la lettera racconto è un espediente meno efficace del solito per raccontare la storia; ma l'intero film si muove sulle dinamiche umane e sui rapporti di forza sentimentali e su questo il regista non sbaglia un colpo e il loro riflesso sull'estetica del film ne da la cifra, anch'essa sottotono, ma sempre riconoscibile.

lunedì 7 settembre 2020

A quiet place. Un posto tranquillo - John Krasinski (2016)

(A quiet place)

Visto su Netflix.

Dei mostri ciechi sono arrivati sulla terra e stanno estinguendo l'uomo, sono ciechi come si diceva quindi l'unico modo che hanno per cacciare è l'udito, qualunque suono troppo alto li attira e, una volta arrivati, sono predatori efficaci e rapidissimi.

Film dall'idea di fondo potente, ma estremamente versatile nel bene e nel male, con una scrittura poco fantasiosa potrebbe venire fuori un compitino semplice, un film di serie b o un film noiosissimo.
Per fortuna questo è un film di scrittura, di idee e di una regia al servizio della storia (che non avendo parole deve vivere di immagini).
Un incipit lento che introduce nel mondo post apocalittico, alcune scene di raccordo e poi si entra nel vivo. Per entrare nel vivo intendo che, nel momento in cui le cose si mettono male è una lotta costante per la sopravvivenza con mostri che sembrano essere sempre dappertutto e non danno tregua a nessun personaggio fino allo scioglimento finale; un action casalingo che tiene attaccati allo schermo fino alla fine.
Le idee si moltiplicano e sono tutte giocate su come l'uomo (o meglio, questa famiglia in particolare) si siano organizzati e adattati per sopravvivere, con una serie infinita di trucchi, trappole e sistemi di difesa che saranno di volta in volta utilizzati; la gran parte della scrittura è stata dedicata a questo, al rinforzare le mura di Fort Alamo e a renderlo interessante al pubblico senza doverlo mai spiegare.
la regia si concentra invece sui fucili di Checov, una serie di oggetti o situazioni che sono potenziali bombe a orologeria che vengono mostrate (spesso in maniera chiara e non di sfuggita) e che lo spettatore sa che scoppieranno (il chiodo, la gravidanza); accettando il gioco si può ovviare al fatto che nel lungo periodo si tratta di telefonate dirette della regia e godersi la suspense che la nuova inquadratura può creare.
Se il cast è tutto all'altezza, la prova enorme da ricordare è quella della Blunt, perfetta.

Lontano dall'essere il capolavoro che ho letto in giro, è un horror action tutto giocato di rimessa, ma solidissimo, intelligente e originale.

giovedì 20 agosto 2020

Personal shopper - Olivier Assayas (2016)

(Id.)

Visto su Amzon prime.

La personal shopper di una modella ha appena perduto il fratello, essendo entrambi (la personal shopper e il fratello) due medium, cerca tracce del fratello nella vecchia casa abitata da lui; nel frattempo rimarrà invischiata in un problema di stalking e un omicidio.

Assayas costruisce un film sulla solitudine (forse più sull'isolamento) con gli stilemi di generi considerati meno nobili, l'horror (prima) e il thriller/giallo poi.
L'effetto finale è straniante e funzionale a momenti.
Il film è il lento mostrarsi della vita della protagonista, in contatto diretto solo con l'ex cognata (che a un certo punto del film la avvertirà di un suo inevitabile allontanarsi avendo conosciuto un altro uomo); con ogni altor essere umano il contatto è interposto (con la tecnologia per il fidanzato e la modella, o attraverso il soprannaturale).
L'dea di fondo (tutto fuorché originale) è interessante, la scelta della Stewart adatta (bella, ma sbattuta, algida, ma sofferente) e il lento muoversi fra i piccoli momenti di una vita normale, ma straordinaria insieme (in senso letterale, più che il metafisico è il tipo di lavoro a renderla strana) e la continua necessità di contatti con altre persone eternamente frustrati (il fratello morto, gli incontri all'hotel dove si ritrova da sola, il viaggio in Oman con il fidanzato eternamente rimandato, l'impossibilità d'incontrare la modella, ecc...) creano un insieme straniante, che avvince pur non facendo succedere molto e tiene legato lo spettatore fino al finale aperto(?) che riesce con pochissimo a dire moltissimo.
Il problema però è proprio l'uso dei generi per arrivare a tutto questo. L'horror e il giallo sono pretestuosi, utilizzati poco e male da parte di qualcuno a cui, evidentemente, non interessano davvero. Il giallo durerà circa 15-20 minuti i tutto senza riuscire mai ad avere un senso suo; l'horror invece è utilizzato (o suggerito) molto di più, ma nell'unica sequenza francamente di genere è gestito in maniera ridicola con effetti speciali (non necessari) bruttissimi e una totale mancanza di empatia.

nessuno ha obbligato Assayas utilizzare dei generi per dire qualcosa, il film poteva essere fatto senza fingere di sfruttare altri stilemi (e probabilmente avrebbe funzionato molto di più), ma se proprio vuoi utilizzarli, almeno studia l'argomento e usali bene.

giovedì 9 luglio 2020

La cura dal benessere - Gore Verbinski (2016)

(A cure for wellness)

Visto su Netflix.

Uno yuppie (si dive ancora così?) viene inviato in una spa svizzera per trovare e riportare a New York il capo dell'azienda (c'è un'importante fusione in ballo e i giorni sono contati, serve la sua firma). Lo yuppie riuscirà a entrare senza difficoltà, ma una volta dentro non riuscirà più a uscirne.

Un film gotico dove tutto (il mood, il perturbante, il mistero da risolvere) è costituito dalla sua ambientazione.
Questo film è tutto realizzato per inquietare e spaesare con l'edificio in cui è ambientato, prima ancora che per i fatto che vi avvengono o i personaggi che si muovono al suo interno.
E a dire la verità, finché rimane su questo punto il film funziona.
La messa in scena è realistica ed inutilmente enfatica, le inquadrature ricche di dettagli, di oggetti, di piastrelle e marchingegni medici e da questo accumulo continuo si crea il tono; a mano a mano che il film procede l'effetto rimane inalterato, ma il minutaggio che avanza sottolinea come Verbinski sia più interessato all'ambiente che alla trama, alle macchine mediche e alle piastrelle che non allo sviluppo dei personaggi e della storia... e come capita classicamente il punto di forza diventa il punto debole del film.
Se si ha poi la pazienza di arrivare in fondo ci si rende conto che, probabilmente aveva ragione Verbinski a focalizzarsi su altro, perché lo scioglimento del mistero risulta evidente già a metà, ma comunque vagamente stridente con tutti gli indizi raccolti e il finale diventa il punto più basso di un film comunque ben realizzato.

Verbinski (che può non piacere, ma sa fare il suo lavoro) dalla sua non si limita a fare da arredatore, ma a comunica con gli oggetti e con il montaggio interno, crea immagini in maniera costante e aggiunge qua e la qualche chicca da bravo mestierante (l'arrivo alla spa in auto, in cui la tensione è data tutta dal montaggio delle diverse inquadrature).

In poche parole, un film tanto interessante (e ben realizzato) quanto fallimentare, per il proprio peso e per un finale non all'altezza. Nota di merito per DeHaan, faccia tutta sua che riesce a essere particolare, ma credibile in ogni sequenza.

giovedì 28 maggio 2020

Gimme danger - Jim jarmush (2016)

(Id.)

Visto su Mubi, in lingua originale sottotitolato.

Era quasi inevitabile che Jarmush, facesse un documentario sugli Stooges, dato il suo precedente su Neil Young e la sua amicizia, quasi venerazione, per Iggy Pop.
E non c'è che dire, Jarmush si conferma un grande utilizzatore d'immagini. Dovendo attingere a molte foto, qualche raro filmato, riesce a mantenere una qualità e un colpo d'occhio magnifici. Soprattutto con le fotografie d'epoca, sembra sempre avere quella giusta per la situazione (di solito al limite) raccontata, come se fosse stata presa proprio per essere utilizzata in questo documentario. Dove non arriva lo storico si ripiega su un'animazione bidimensionale molto semplice, veloce ed efficacie.
Le interviste attuali invee si limitano al normale lavoro con camera fissa e una scelta delle location che sembra casuale; è evidente che al regista interessa di più gestire il resto.

Il vero limite del documentario però è un altro e lo condivide con la maggior parte dei biopic: tutto viene mostrato come inevitabile, tutta la giovinezza è un prodromo fatale del futuro che rappresenta il gruppo. ma ancora di più pesa l'edulcorante Jarmush.
Il fattore urticante, non accomodante, repulsivo degli Stooges e Iggy Pop in particolare, il loro appetito per la (auto)distruzione, il loro gigiallinare sul palo ben prima dell'eponimo GG è toccato qua e la di sfuggita, per lo più in maniera veloce e secondaria, arrivando a relativizzare collari e nazismo, istrionismo lesionista e droga in favore una più rassicurante invenzione dello stage diving o della disintossicazione.
Togliere tutto questo agli Stooges è togliere la loro anima e la potenza del loro impatto, fare tutto questo facendo sentire in totale 3-4 canzoni per lo più di sottofondo è quasi criminale.

giovedì 14 maggio 2020

Split - M. Night Shymalan (2016)

(Id.)

Visto su Netflix.

Un uomo rapisce tre ragazze senza un evidente piano alle spalle (sembra le rapisca a caso, non ha intenti sessuali, né di richiedere il riscatto). Quest'uomo, si scopre presto e ormai lo sanno pure i sassi, è affetto da personalità multipla e per tale ragione seguito da una psichiatra che sembra avere dei sospetti su di lui.

Alla seconda prova con la Blumhouse, Shymalan fa il suo primo, vero, twist plot, un thriller (di serie B), puro. che gioca con la tensione accumulata, con l'incertezza data dal protagonista e con la situazione claustrofobica in cui ha inserito le vittime; niente di più e niente di meno.
C'è molto mestiere (seppure con pochi guizzi), un uso sapiente degli interni, qualche cliché horror utilizzato per mandare avanti il tutto e una doppia trama che, anziché complicare, snellisce molto il ritmo del film.
Complessivamente un film solido, un thriller interessante che si fa guardare bene, nessun brivido eccessivo e nessun colpo di genio che possa gareggiare con quelli di "The visit" (che con tutti i difetti d'ingenuità gli rimane notevolmente superiore); ma è la conferma che Shyamalan ci guadagna a lavorare in piccolo. Continuo, però, a credere che se lasciasse scrivere del tutto le sue sceneggiature a qualcun altro ogni suo film potrebbe essere una perla.

Sul cast niente da eccepire fatto salvo per McAvoy; è un bravo ragazzo, mi fa simpatia e si vede che si impegna (e la parte non è per nulla facile), ma rimane sempre sopra le righe, esagera in ognuno dei suoi personaggi sempre al limite della macchietta (soprattutto quando deve interpretare l'omosessuale o la donna).

PS: comparsata finale che ora, sapendo tutto quello che è stato realizzato acquista senso (strizzando l'occhio alla Marvel).

giovedì 23 aprile 2020

Goksung. La presenza del diavolo - Na Hong Jin, (2016)

(Gok-seong AKA The wailing)

Visto su Amazon prime video.

In una cittadina coreana cominciano ad avvenire strani omicidi e c'è una malattia infettiva che si diffonde. La gente del posto accusa, velatamente o meno, un giapponese (Jun Kunimura!) da poco insediatosi nel paese, ritenendolo nientemeno che il Diavolo stesso.
Un poliziotto colpito direttamente comincerà a indagare, mettendo in mezzo lo sciamanesimo tradizionale e un prete cattolico.

Similmente a quanto fatto in "The chaser", Hong Jin, parte da una storia piuttosto banale e lineare, ma la mette in scena con un andamento ingarbugliato, vicoli ciechi, momenti di chiarezza improvvisa che vengono smentiti in un gioco di conferme e frustrazioni che durerà fino alle scene finali.
Similmente a quanto fatto in "The chaser" costruisce la vicenda con un tono leggero (da commedia) che si incupisce e si diluisce con il proseguire dell'azione fino alla sua completa scomparsa.
Similmente a "The chaser" è un filmone, anche più di "The chaser".

Questa storia su un'epidemia in un ambiente chiuso, il sospetto di soprannaturale (che verrà confermato o smentito solo verso la fine), l'indagine goffa di un uomo abituato a galleggiare che dovrà dare fondo a tutte le sue risorse, la spietatezza degli eventi e delle scelte da fare e il ritmo della narrazione sempre costante (con la tendenza coreana a non fissarsi sui tre tempi occidentali della sceneggiatura, ma con un movimento fluviale in cui non si sa mai quando avverrà il vero showdown finale) trasformano questo film in un esperienza immersiva enorme.
Non ha il ritmo o l'adrenalina di "The chaser", né l'attenzione al giallo a cui avrebbe potuto aggrapparsi; neppure si può definire un horror anche se la ricerca del maligno è parte centrale della vicenda. Il film cerca invece di mettere il suo protagonista in una situazione che deraglia sempre di più e immersa in un ambiente da cui non si può che venire soffocati; incastrandone all'interno anche lo spettatore.

Inoltre il film viene costellato di dettagli innumerevoli, prove o indizi, elementi metaforici, scene mai spiegate, che servono da indicazione o depistaggio in un gioco con chi guarda che dimostra un rispetto e una conoscenza delle dinamiche cinematografiche davvero notevole.

lunedì 3 febbraio 2020

The neon demon - Nicolas Winding Refn (2016)

(Id.)

Visto su Netflix.

Una ragazza arriva a Los Angeles per cercare di fare la modella. Lei è giovane, troppo, ma ha una bellezza che illumina e ammalia in maniera quasi soprannaturale, attira tutti, riuscendo ad arrivare rapidamente, ma allo stesso modo pagherà per l'attrazione che suscita.

Bislacco film di un Refn che ormai non contiene più la sua propensione all'estetica. In passato ci ha già abituato a opere (anche ottime) dove il comparto visivo conta più della trama, integrandosi, però, ad essa (qualche volta fallendo male); qui però fa il salto, butta il cuore oltre l'ostacolo e crea un'opera di videoart.
La trama è superficiale, diluita tantissimo e appare fin da subito una scusa per arrivare a certe inquadrature; nel finale impenna, avvengono delle cose (finalmente) e si tinge di horror, ma anche li è pretestuoso (e obiettivamente mal fatto).
Finché Refn rimane saldamente dalla parte del racconto film non narrativo vince. Vince perché si sfoga con sequenze che più che dal cinema sembrano affini all'arte visuale (la festa nella discoteca, la prima sessione fotografica) e vincono a piene mani riuscendo a conciliare la bellezza formale con emozioni e sensazioni.
Nella seconda parte però il film perde in qualità delle scene e nello stesso momento la trama diventa lievemente più importante e qui avviene la disfatta. Non potendo contare su una sceneggiatura di livello (il twist finale è talmente esagerato, rozzo e mal fatto, da risultare ridicolo) che compensare l'estetica mancate e avendo una prima parte che alzato troppo l'asticella il film declina in maniera insalvabile.
Peccato, ma almeno sembra segnare l'intenzione di Refn di andare nella direzione antri trama delle vecchie avanguardia a là Marienbad.

PS: magnifico anche l'uso degli stilemi del genere thriller per costruire le scene nella prima parte, su tutte vince la magnifica introduzione di Reeves.

lunedì 13 gennaio 2020

Il terrore del silenzio - Mike Flanagan (2016)

(Hush)

Visto in tv.

Gli home invasion vivono di problemi degli assaliti (non hanno armi, minor numero, il trauma) e del capovolgimento nel corso della trama (gli assaliti si organizzano). Il gioco di Flanagan è tanto semplice quanto potenzialmente idiota: assalita e assalitore sono uno a uno, lui ha una balestra e qualche coltello... lei è sorda (e all'assalitore attizza l'idea di giocare con la vittima).

Potenzialmente un'idea che può ottima come una vaccata. Flanagan inventa pochissimo, preferendo prendere a piene mani dai capisaldi del genere (di fatto prende i topos di Bertino), ma li gestisce bene.
Utilizza la caratteristica della protagonista in maniera sensata e drammatica (amplificando o aannulando i suoni per aumentare la tensione), crea un personaggio articolato che non si limita alla fuga, ma ha un background e delle peculiarità, riesce a tenere la tensione e l'attenzione per tutto il tempo con solo un paio di momenti pretestuosi (come spesso succede in questo genere).
L'effetto finale è decisamente buono, senza picchi fulminanti, ma il prodotto è solido e ben costruito; c'è un (pallido) tentativo di sdoganarsi da Bertino con fughe, possibilità di intervento esterno, un finale alla "You're next" (ok, sto esagerando, diciamo che c'è dell'enpowerment, ma non a quei livelli) e addirittura l'antagonista che si toglie la maschera (ammazzando metà dell'effetto thrilling).

venerdì 8 novembre 2019

Il libro della giungla - Jon Favreau (2016)

(The jungle book)

Visto in tv.

La versione live action del film classico Disney ha ben poco di live action.
Nell'anno dell'uscita de "Il re leone" questo "Libro della giungla" sembra essere stata la prova generale per valutare la realizzazione di animali verosimili con il la CG.

L'effetto è sbalorditivo con animali estremamente realistici anche senza il supporto di inquadrature distanti o di ombre e nebbie e rappresenta anche una delle prime (assieme a "Cenerentola") rielaborazioni di classici di animazione, facendo da apripista alla selva di film a cui stiamo assistendo in questi anni. Il tono qui sembra chiaro, tutto improntato alla verosimiglianza, alla credibilità, alla riattualizzazione dei temi e a una nuova taratura del target.
Le canzoni vengono relegate a qualche canticchio a mezza voce e non diventano più minutaggio importante; l'atmosfera è più adulta con momenti estatici (gli elefanti) e altri di maggior inquietudine (la stupenda sequenza con Re Luigi). Il tema di fondo, dell'accettazione delle differenze nel film originale diventava una presa di coscienza di appartenere a un altro mondo a cui tornare, qui invece diventa la consapevolezza di essere diversi, ma nello stesso contesto sociale e vira verso l'inno all'accettazione (scarto di prospettiva importante per la Disney che per decenni ha rappresentato la pubblicità dello status quo più reazionario).
La verosimiglianza è invece tutta nella scelta estetica degli ambienti dei personaggi in CGI e determina la qualità del film, fantastica e curatissima, limita l'espressività dei personaggi per ovvi motivi (gli orsi non sorridono), ma riesce lo stesso a veicolare i messaggi necessari.

venerdì 11 gennaio 2019

Des nouvelles de la planète Mars - Dominik Moll (2016)

(Id. AKA News from planet Mars)

Visto in aereo, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Un uomo vive una vita passiva, vessato dalla ex moglie, sfruttata sul lavoro, disprezzato dai figli, non considerato dalla sorella. La situazione tenderà a sfuggire di mano quando un collega squilibrato si insedierà in casa sua.

Il poco prolifico regista Moll torna a parlare di uno squilibrio mentale che si inserisce in un nucleo famigliare indipendente per sovvertirne gli schemi... decide però di farlo in versione commedia... purtroppo decide di farlo nella maniera sbagliata.
Si perché il film parte bene con un tono sommesso e ironico e una voglia di grottesco che non riesce mai a venir fuori fino in fondo, ma comunque si lascia accarezzare. Per buona metà del minutaggio la trama sembra voler dare una versione apatica e divertita di un Giobbe moderno. Purtroppo il film rinuncia troppo presto a questa idea, semplice, ma efficace per tornare rapidamente dalle parti del convenzionale.
Si, perché il lungo finale è la classica rivalsa dello sconfitto che scuote la propria vita; ma la cosa peggiore non è la banalità, ma il modo in cui ci arriva. Il finale ha motivazioni nulle e la presa di coscienza collettiva viene seguita da azioni dal peso assente; in poche parole il finale si conclude con una dichiarazione d'intenti e i personaggi che si comportano di conseguenza.

Sì, insomma, un film carino, confezionato nella media (francese, che equivale a una sufficienza piena), ma completamente svuotato da tutti gli elementi interessanti e svolto malissimo.

mercoledì 2 gennaio 2019

The disappointments room - D. J. Caruso (2016)

(Id.)

Visto in aereo in lingua originale.

Trasferiti nella casa nuova dopo la morte di una figlia (rimane ancora un figlio da far fuori), la famigliola infelice comincia ad assistere a strani fenomeni collegati con una camera chiusa. Che non sia una disappointments room, una vecchia abitudine delle famiglie nobili della zona (quella di chiudere i figli deformi in una camera della casa... per sempre); e che quella disappointment room non contenga uno o due spiriti irrequieti.

Terribile film horror di Caruso; dove per terribile intendo proprio brutto. Trama trita che tenta la (falsa) originalità con l'idea di queste stanze prigione, ma senza un minimo di inventiva, senza riuscire a trovare un qualcosa che catalizzi davvero l'interesse o che riesca a distinguere il film rispetto alle centinaia di horroretti senza nerbo prodotti ogni anno.

Ma sinceramente non è la mancanza di originalità il problema (come il magnifico "", antitesi all'originalità); così come non è la regia piatta. Il vero problema è la mancanza di tensione; la trama farraginosa che impiega una vita a venir fuori e fatica a farsi capire ingloba, con il suo fastidio e la sua noia, anche i pretesi momenti di paura, realizzati con il pilota automatico e senza una vera comprensione di come gestire tempi e spazi.
In poche parole un fallimento laddove ogni film horror, per quanto scalcinato, deve riuscire.

PS: in tutto questo la Beckinsale affoga senza possibilità di salvezza, non spicca, non migliora, a mala pena ci si accorge chi lei sia.

venerdì 28 dicembre 2018

Il cittadino illustre - Gastón Duprat, Mariano Cohn (2016)

(El ciudadano ilustre)

Visto in aereo, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Il fresco vincitore del premio nobel per la letteratura si trova in un momento di crisi; riconosciuto il suo valore da parte dell'establishement si sente un autore "comodo" e finito. Comincia a rifiutare ogni impegno finché non gli arriva l'invito da parte del sindaco della sua cittadina natale; un paesino sperduto dell'Argentina. Tornerà e rivedrà le persone conosciute un tempo che si riveleranno sempre più cariche di intenzioni e sentimenti negativi.

Un film tecnicamente ben fatto, ma dalla messa in scena semplice che punta tutto sul tono per dare un significato maggiore a una storia di discesa nell'inferno (dove l'inferno sono gli altri).
Il ritorno nel paese natale è una cavalcata grottesca che inizia con un'auto in panne e uno dei libri del neo-nobel usato come carta igienica; da lì iniza una cavalcata che di comico ha veramente poco, ma di ironia graffiante nei confronti delle persone più (apparentemente) innocenti che sfocia continuamente nel grottesco (già detto, ma va ribadito). Il tono nefasto prosegue verso il dramma quasi inverosimile (il pre-finale mi ha ricordato "The wicker man" per significato) senza che lo strappo fra l'ironia e la tragedia si senta mai, il film scorre perfetto fino alla fine.
Il finale vero e proprio poi getta un'ombra di dubbio su ttuto quello che si è appena visto. Trovata intelligente per chiudere un film difficile da concludere, ma che, sinceramente, non ne aumenta il valore.
Bravo e fondamentale per la riuscita, Oscar Martínez, teso fra una effettiva superiorità e una supponenza fastidiosa, ottimo nel mostrare spaesamento rimanendo, quasi, impassibile.