(Difret)
Visto al festival di cinema africano (in concorso).
basato sulla storia vera di una ragazza minorenne accusata di omicidio nei confronti dell'uomo che la rapì e violentò per poter essere forzata al matrimonio. L'avventura giudiziaria sostenuta da un'associazione di donne avvocato che furono disposte a portare in giudizio anche il ministero della giustizia verso la fine degli anni '90.
L'opera prima di Mehari, autoprodotta (con l'appoggio di alcune ONG) e successivamente supportata dalla Jolie (che di fatto ha dato rilevanza internazionale a un film già realizzato), è un canonico film di riscatto sociale con un briciolo di legal drama. Niente di particolarmente originale e con una insolita mancanza di volontà nell'affrontare i momenti cruciali (risolvendoli con fade to black o con un personaggio che entra nella stanza ad avvertire che le cose si sono già risolte). In parte quest'ultima caratteristica si giustifica con la mancanza di mezzi, in parte questa pessima abitudine diventa talmente frequenta da fare il giro e diventare una (pessima) cifra sitlistica.
Al di là dell'evidente incapacità nel gestire i twist della trama il film è incredibilmente godibile e scorrevole, ben ritmato nonostante la quasi totale mancanza di enfasi nei punti che la meriterebbero. Il vero valore aggiunto è però la fotografia, scarna e leggermente spenta, ma magnificamente curata.
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martedì 12 gennaio 2016
martedì 17 novembre 2015
Ayanda and the mechanic - Sara Blecher (2015)
(Id.)
Visto al Festival di Cinema Africano (in concorso); in lingua originale, sottotitolato.
Una ragazza, orfana di padre, cerca di mandare avanti l'officina di famiglia per tutti i ricordi che essa contiene. Per tutti quegli anni sono stati aiutati (lei, suo fratello e sua madre) da un amico del padre morto, ma ora anche lui non riesce più a sostenerli. Dovrà reinventarsi restauratrice d'auto per cercare di tenere in piedi tutto, ma il passato ritorna, i sentimenti tenuti nascosti tornano a galla e i rapporti amorosi saranno vittime proprio di quel sogno di riscatto.
Film sudafricano dal piglio giovanile e dalla freschezza innegabile. Gioca con una fotografia colorata; mostra personaggi dai volti solari con tendenze artistiche; cita poesie di Achebe e sfoggia una regia molto calata sui dettagli stilistici (le scene che si muovono come serie di foto, gli intermezzi d'animazione), tutto viene realizzato per essere giovane, carino e totalmente non luogocomunista. Se tutti gli elementi presi singolarmente sono efficaci (e su tutti mi si permette di sottolineare la splendida arroganza degli intermezzi animati totalmente inutili ai fini della storia e realizzati con quel preteso artigianato alla Gondry), nell'insieme però non regge. I troppi elementi sfondano la struttura e affossano il ritmo. Troppe le agnizioni messe in campo per tenere in piedi la commedia, troppi i sentimenti romantici per mantenere la velocità del film di riscatto, troppi i colpi di scena per tollerare un finale che sembra continuamente sfuggire.
Funziona, è godibile, ma è troppo noioso rispetto a quello che avrebbe potuto essere, ma soprattutto è troppo insignificante, troppo dimenticabile. Un esempio al contrario di less is more.
Il film è stato anticipato dal corto "Lazy Susan" del sudafricano Stephen Abbott. Con la macchina da presa sempre appoggiata su un piatto girevole nel centro di un tavolo di un locale (in maniera tale da inquadrare perfettamente i clienti, mentre del personale mostra solo il busto senza testa né gambe), il regista mostra lo spaccato, in versione di commedia, di una giornata di una cameriera, fra clienti accomodanti, irritanti, irritati o stupidi; fino al finale dove, malvolentieri, sarà la cameriera a doversi sedere per essere inquadrata.
Non c'è una trama vera e proprio e neppure la creazione di vere gag; ma il corto p rapido e positivo, divertente senza mai esser davvero comico, non dice nulla, ma in questa descrizione di una giornata attraverso i clienti incontrati, ce n'è abbastanza per essere soddisfatti. Buona la chiusura.
Visto al Festival di Cinema Africano (in concorso); in lingua originale, sottotitolato.
Una ragazza, orfana di padre, cerca di mandare avanti l'officina di famiglia per tutti i ricordi che essa contiene. Per tutti quegli anni sono stati aiutati (lei, suo fratello e sua madre) da un amico del padre morto, ma ora anche lui non riesce più a sostenerli. Dovrà reinventarsi restauratrice d'auto per cercare di tenere in piedi tutto, ma il passato ritorna, i sentimenti tenuti nascosti tornano a galla e i rapporti amorosi saranno vittime proprio di quel sogno di riscatto.
Film sudafricano dal piglio giovanile e dalla freschezza innegabile. Gioca con una fotografia colorata; mostra personaggi dai volti solari con tendenze artistiche; cita poesie di Achebe e sfoggia una regia molto calata sui dettagli stilistici (le scene che si muovono come serie di foto, gli intermezzi d'animazione), tutto viene realizzato per essere giovane, carino e totalmente non luogocomunista. Se tutti gli elementi presi singolarmente sono efficaci (e su tutti mi si permette di sottolineare la splendida arroganza degli intermezzi animati totalmente inutili ai fini della storia e realizzati con quel preteso artigianato alla Gondry), nell'insieme però non regge. I troppi elementi sfondano la struttura e affossano il ritmo. Troppe le agnizioni messe in campo per tenere in piedi la commedia, troppi i sentimenti romantici per mantenere la velocità del film di riscatto, troppi i colpi di scena per tollerare un finale che sembra continuamente sfuggire.
Funziona, è godibile, ma è troppo noioso rispetto a quello che avrebbe potuto essere, ma soprattutto è troppo insignificante, troppo dimenticabile. Un esempio al contrario di less is more.
Il film è stato anticipato dal corto "Lazy Susan" del sudafricano Stephen Abbott. Con la macchina da presa sempre appoggiata su un piatto girevole nel centro di un tavolo di un locale (in maniera tale da inquadrare perfettamente i clienti, mentre del personale mostra solo il busto senza testa né gambe), il regista mostra lo spaccato, in versione di commedia, di una giornata di una cameriera, fra clienti accomodanti, irritanti, irritati o stupidi; fino al finale dove, malvolentieri, sarà la cameriera a doversi sedere per essere inquadrata.
Non c'è una trama vera e proprio e neppure la creazione di vere gag; ma il corto p rapido e positivo, divertente senza mai esser davvero comico, non dice nulla, ma in questa descrizione di una giornata attraverso i clienti incontrati, ce n'è abbastanza per essere soddisfatti. Buona la chiusura.
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lunedì 16 novembre 2015
Madame courage - Merzak Allouache (2015)
(Id.)
Visto al Festival di Cinema Africano (in concorso); in lingua originale, sottotitolato.
Un ragazzo algerino vive fra piccoli furti di basso profilo, la dipendenza da una medicina euforizzante e una famiglia ai margini (la sorella di prostituisce e la madre bipolare e distante vive guardando programmi religiosi). Durante un furto il suo sguardo si incrocia con quello della vittima e se ne innamora. Inizierà a seguirla, ma il fratello di lei, un poliziotto, cercherà di proteggere la sorella.
Un film che più neorealista non si può; parlo del contorno in cui vivono i personaggi prima di parlare dei protagonisti utilizza una macchina a mano pervasiva e una fotografia realista; non crea eventi epocali, ma racconta una piccola storia priva di sbocchi...
eppure a questo film manca molto. Se il neorealismo ha avuto successo è stato perché parlava della realtà, of course, ma anche perché dietro alla macchina da presa con De Sica si mostrava una poesia degli ultimi invidiabile o perché con Visconti il paesaggio non divorava lo spazio alla storia narrata; più di recente la riproposizione del neorealismo ha avuto come sbocchi felici il cinema dei Dardenne, che però riesce a essere uno dei più sentimentali di sempre, o come quello di Panahi dove il neorealismo è solo un mezzo per tirare fuori contenuti forti descritti in maniera elegante e potente insieme. Insomma, il neorealismo non si è mai limitato a essere una sorta di documentario in forma di fiction, ma è sempre stato un mezzo per veicolare più efficacemente emozioni, sentimenti o opinioni.
Qui la parte tecnica è presente e la realtà descritta è estrema, c'è l'intento morale e sociale, ma manca completamente il cuore; Allouache descrive bene l'ambiente, ma ne mostra solo il volto e non le espressioni.
Il film è stato anticipato dal cortometraggio "Discipline" dell'egiziano Christophe M. Saber; in un negozio di alimentari svizzero un padre (di origine nordafricana) esausto da uno schiaffo alla figlia, una donna svizzera interverrà inorridita e dopo di lei a uno a uno tutti i personaggi all'interno del negozio; ognuno in contrasto con gli altri, ognuno di origine diversa e ognuno con un suo pregiudizio nei confronti degli altri; da un gesto messo in atto per far rispettare la disciplina ne verrà fuori uno scontro di massa. Film dal soggetto buono e da una sceneggiatura spettacolare per come riesce a dare fuoco alle polveri e sostenere il caos che crea in maniera coerente per tutto il minutaggio; regia al servizio della trama, rapida e dal ritmo sempre presente. Un piccolo gioiello, divertente e dissacrante.
Visto al Festival di Cinema Africano (in concorso); in lingua originale, sottotitolato.
Un ragazzo algerino vive fra piccoli furti di basso profilo, la dipendenza da una medicina euforizzante e una famiglia ai margini (la sorella di prostituisce e la madre bipolare e distante vive guardando programmi religiosi). Durante un furto il suo sguardo si incrocia con quello della vittima e se ne innamora. Inizierà a seguirla, ma il fratello di lei, un poliziotto, cercherà di proteggere la sorella.
Un film che più neorealista non si può; parlo del contorno in cui vivono i personaggi prima di parlare dei protagonisti utilizza una macchina a mano pervasiva e una fotografia realista; non crea eventi epocali, ma racconta una piccola storia priva di sbocchi...
eppure a questo film manca molto. Se il neorealismo ha avuto successo è stato perché parlava della realtà, of course, ma anche perché dietro alla macchina da presa con De Sica si mostrava una poesia degli ultimi invidiabile o perché con Visconti il paesaggio non divorava lo spazio alla storia narrata; più di recente la riproposizione del neorealismo ha avuto come sbocchi felici il cinema dei Dardenne, che però riesce a essere uno dei più sentimentali di sempre, o come quello di Panahi dove il neorealismo è solo un mezzo per tirare fuori contenuti forti descritti in maniera elegante e potente insieme. Insomma, il neorealismo non si è mai limitato a essere una sorta di documentario in forma di fiction, ma è sempre stato un mezzo per veicolare più efficacemente emozioni, sentimenti o opinioni.
Qui la parte tecnica è presente e la realtà descritta è estrema, c'è l'intento morale e sociale, ma manca completamente il cuore; Allouache descrive bene l'ambiente, ma ne mostra solo il volto e non le espressioni.
Il film è stato anticipato dal cortometraggio "Discipline" dell'egiziano Christophe M. Saber; in un negozio di alimentari svizzero un padre (di origine nordafricana) esausto da uno schiaffo alla figlia, una donna svizzera interverrà inorridita e dopo di lei a uno a uno tutti i personaggi all'interno del negozio; ognuno in contrasto con gli altri, ognuno di origine diversa e ognuno con un suo pregiudizio nei confronti degli altri; da un gesto messo in atto per far rispettare la disciplina ne verrà fuori uno scontro di massa. Film dal soggetto buono e da una sceneggiatura spettacolare per come riesce a dare fuoco alle polveri e sostenere il caos che crea in maniera coerente per tutto il minutaggio; regia al servizio della trama, rapida e dal ritmo sempre presente. Un piccolo gioiello, divertente e dissacrante.
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sabato 14 novembre 2015
Decor - Ahmad Abdalla (2014)
(Id.)
Visto al Festival di Cinema Africano (in concorso); in lingua originale, sottotitolato.
Una direttrice artistica cinematografica che lavora con il compagno, decide, con lui, di accettare un lavoro commerciale; i tempi di produzione stretti, il regista pilatesco e i diverbi con la star causeranno un tale stress che la donna sembrerà avere problemi mentali; si ritroverà spesso sbalzata nella vita di un'altra donna che rispecchia in parte quella fittizia creata per il film. Ovviamente i continui salti introdurranno il dubbio su quale sia la vita vera e quale l'allucinazione, ma durante lo svolgimento del film, la sicurezza e la voglia di vivere l'una o l'altra vita continueranno a modificarsi.
Prima di difetti. Il film latita in ritmo; non è mai noioso, ma fin dai primi (bellissimi) minuti si percepisce una mancanza di grip. Inoltre, e soprattutto, il film dura troppo, con una sceneggiatura che parte estremamente superficiale (ma si rivelerà esattamente all'opposto) con una ripetitività evitabile; può quindi risultare facilmente indigesto, specie nella prima metà.
Poi i pregi. Il film è esteticamente bellissimo. Una fotografia in bianco e nero senza la minima sbavatura; un costruzione delle scene che sembra creare delle fotografie da esposizione; alcuni tagli di luce che il 90% dei film autoriali europei invidierebbero se solo potessero immaginare cosa c'è dall'altra parte del Mediterraneo.
Infine la lettura. Beh questo è un film con così tanti strati plausibili che difficilmente se ne può venire del tutto capo. Al di là della trama pura e semplice, la prima lettura è il film metacinematografico. Il film cita apertamente altri film classici egiziani e continua a far tornare la figura di Faten Hamama (ma ci sono anche citazioni dai Lumière con il treno nelle prime scene che precorre a quello a metà film che a sua volta sembra una citazione di "Strade perdute" di Lynch), mentre le due storie che si svolgono sono, ognuna per conto suo, un melodramma classico, quasi stucchevole; la chiusura finale che ricalca quella di un film già mostrato e poi l'uscita dal cinema sono solo le evidenze che rimangono più impresse.
C'è anche la fiaba morale che mostra come tutto ciò che è accessorio alla vita sia fuggevole (sia un decoro), compresa la felicità, ma che il migliore dei mondi possibili non si limiti per forza nello scegliere fra il bianco o il nero, ma che a volte c'è una terza via possibile (che aumenta i colori della tavolozza, come nell'ultimissima inquadratura).
C'è il risvolto meramente onirico di una vicenda che parli solo della mente umana, di cui il cinema (come rappresentazione per immagini della fantasia del suo autore) diventa simbolo assoluto e, in quest'ottica, la scena finale con l'incidente che riporta i colori in scena rappresenta la sveglia che riporta in gioco la realtà.
Infine c'è il riferimento politico; i continui discorsi sul coprifuoco che vengono fatti solo in una delle due vite sembrano riferirsi ai giorni delle proteste di piazza Tahrir, il riferimento alla terza via già citato prima (proprio durante le elezioni del 2014 si fece presente il riferimento a questa terza possibilità che non fosse né con i Fratelli mussulmani, né con i militari).
Comunque lo si voglia vedere (e credo che le interpretazioni potrebbero essere ancora molte) quello che si ha davanti è un tracotante mastodonte, perfettamente realizzato che rende omaggio al mezzo che lo produce. Comunque sia, applausi.
Il film è stato anticipato dal cortometraggio "Kwaku" del regista ghanese Anthony Nti. Il corto mostra le avventure di un ragazzino per recuperare dei soldi. Il film, opera prima realizzata con pochissimi mezzi riesce ad avere molti motivi di interesse nonostante una trama semplice e un minutaggio contenuto. Il limite principale è quello di avere una macchina da presa non hollywoodiana, ma il giovane regista la sfrutta, utilizzando la difficoltà di messa a fuoco per costruire le scene e dare più dinamismo esagerando ogni tanto in una confusa macchina a mano alla europea. L'occhio del regista si concentra spesso sui dettagli costruendo sequenze complesse (usando anche in maniera ottima il montaggio), senza, quindi, limitarsi a piazzare gli attori davanti alla macchina da presa. Inoltre la semplicità della storia non limita il linguaggio, anzi, il regista riesce a introdurre elementi all'inizio del film che diverranno chiari solo con il proseguimento della vicenda (il pallone iniziale magistralmente bucato dopo la dissolvenza, o la gamba della nonna massaggiata dal ragazzino) senza che vi sia bisogno che vengano spiegati i collegamenti; inoltre riesce a dare al film un finale totalmente aperto, ma soddisfacente, non lasciando nessuno a bocca asciutta.
Visto al Festival di Cinema Africano (in concorso); in lingua originale, sottotitolato.
Una direttrice artistica cinematografica che lavora con il compagno, decide, con lui, di accettare un lavoro commerciale; i tempi di produzione stretti, il regista pilatesco e i diverbi con la star causeranno un tale stress che la donna sembrerà avere problemi mentali; si ritroverà spesso sbalzata nella vita di un'altra donna che rispecchia in parte quella fittizia creata per il film. Ovviamente i continui salti introdurranno il dubbio su quale sia la vita vera e quale l'allucinazione, ma durante lo svolgimento del film, la sicurezza e la voglia di vivere l'una o l'altra vita continueranno a modificarsi.
Prima di difetti. Il film latita in ritmo; non è mai noioso, ma fin dai primi (bellissimi) minuti si percepisce una mancanza di grip. Inoltre, e soprattutto, il film dura troppo, con una sceneggiatura che parte estremamente superficiale (ma si rivelerà esattamente all'opposto) con una ripetitività evitabile; può quindi risultare facilmente indigesto, specie nella prima metà.
Poi i pregi. Il film è esteticamente bellissimo. Una fotografia in bianco e nero senza la minima sbavatura; un costruzione delle scene che sembra creare delle fotografie da esposizione; alcuni tagli di luce che il 90% dei film autoriali europei invidierebbero se solo potessero immaginare cosa c'è dall'altra parte del Mediterraneo.
Infine la lettura. Beh questo è un film con così tanti strati plausibili che difficilmente se ne può venire del tutto capo. Al di là della trama pura e semplice, la prima lettura è il film metacinematografico. Il film cita apertamente altri film classici egiziani e continua a far tornare la figura di Faten Hamama (ma ci sono anche citazioni dai Lumière con il treno nelle prime scene che precorre a quello a metà film che a sua volta sembra una citazione di "Strade perdute" di Lynch), mentre le due storie che si svolgono sono, ognuna per conto suo, un melodramma classico, quasi stucchevole; la chiusura finale che ricalca quella di un film già mostrato e poi l'uscita dal cinema sono solo le evidenze che rimangono più impresse.
C'è anche la fiaba morale che mostra come tutto ciò che è accessorio alla vita sia fuggevole (sia un decoro), compresa la felicità, ma che il migliore dei mondi possibili non si limiti per forza nello scegliere fra il bianco o il nero, ma che a volte c'è una terza via possibile (che aumenta i colori della tavolozza, come nell'ultimissima inquadratura).
C'è il risvolto meramente onirico di una vicenda che parli solo della mente umana, di cui il cinema (come rappresentazione per immagini della fantasia del suo autore) diventa simbolo assoluto e, in quest'ottica, la scena finale con l'incidente che riporta i colori in scena rappresenta la sveglia che riporta in gioco la realtà.
Infine c'è il riferimento politico; i continui discorsi sul coprifuoco che vengono fatti solo in una delle due vite sembrano riferirsi ai giorni delle proteste di piazza Tahrir, il riferimento alla terza via già citato prima (proprio durante le elezioni del 2014 si fece presente il riferimento a questa terza possibilità che non fosse né con i Fratelli mussulmani, né con i militari).
Comunque lo si voglia vedere (e credo che le interpretazioni potrebbero essere ancora molte) quello che si ha davanti è un tracotante mastodonte, perfettamente realizzato che rende omaggio al mezzo che lo produce. Comunque sia, applausi.
Il film è stato anticipato dal cortometraggio "Kwaku" del regista ghanese Anthony Nti. Il corto mostra le avventure di un ragazzino per recuperare dei soldi. Il film, opera prima realizzata con pochissimi mezzi riesce ad avere molti motivi di interesse nonostante una trama semplice e un minutaggio contenuto. Il limite principale è quello di avere una macchina da presa non hollywoodiana, ma il giovane regista la sfrutta, utilizzando la difficoltà di messa a fuoco per costruire le scene e dare più dinamismo esagerando ogni tanto in una confusa macchina a mano alla europea. L'occhio del regista si concentra spesso sui dettagli costruendo sequenze complesse (usando anche in maniera ottima il montaggio), senza, quindi, limitarsi a piazzare gli attori davanti alla macchina da presa. Inoltre la semplicità della storia non limita il linguaggio, anzi, il regista riesce a introdurre elementi all'inizio del film che diverranno chiari solo con il proseguimento della vicenda (il pallone iniziale magistralmente bucato dopo la dissolvenza, o la gamba della nonna massaggiata dal ragazzino) senza che vi sia bisogno che vengano spiegati i collegamenti; inoltre riesce a dare al film un finale totalmente aperto, ma soddisfacente, non lasciando nessuno a bocca asciutta.
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