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lunedì 21 novembre 2011

Togetherness supreme - Nathan Collett (2010)

(Id.)

Vistoal Festival di Cinema Africano (in concorso); in lingua originale sottotitolato.
Il vincitore del festival di quest'anno è un brutto film.

La storia è quella che precede le elezioni del Kenya del 2007, quando più che uno scontro politico si assiste fra lo scontro di due tribù. Due amici che vivono nella baraccopoli di Kibera (possibile che tutti i film kenioti che ho visto siano ambientati sempre li?!) sono, ovviamente, delle due opposte tribù, ma combattono sullo stesso fronte, quello della tribù che subisce e che cerca il riscatto... più o meno tutto qui... ah già, sono innamorati della stessa donna.

Quello che sorprende in negativo non è la banalità della trama (mica possono essere tutti originali i film), nè l'incompetenza degli attori (che sono presi dalla strada e in quest'ottica non sono proprio malvagi...) e neppure la regia (che tutto sommato si difende e nella parte iniziale regala anche qualche momento veramente riuscito); il problema qui è la storia, la sceneggiatura. Le situazioni si susseguono caotiche, i personaggi si comportano in maniera stupida o esagerata in ogni momento e i fatti importanti sono spesso eclissati dalle banalità (qualora non siano proprio stati momentaneamente dimenticati dalla sceneggiatura). Il problema non è che in un film del genere si pretende un capolavoro in ogni ambito della realizzazione, ma il minimo sindacale si!

venerdì 18 novembre 2011

Les Barons - Nabil Ben Yadir (2009)

(Id.)

Visto al Festival di Cinema Africano (in concorso); in lingua originale sottotitolato.
Bruxelles, la seconda generazione di origine magrebina ha ormai 30anni, tra di loro ci sono tre amici, “i baroni” del quartiere, un trio di nullafacenti che tira a campare con i soldi altrui, macchine comprate in comune e dormendo nel negozio di verdure di un amico. Tra loro Hassan, ha il sogno di diventare cabarettista (ma il padre la considera una professione poco dignitosa) e ama la sorella di un amico che, come tale, è però intoccabile.

Commedia fantastica ricca di gag, ironia e autoironia, trovate sceniche e di regia favolose che avvicinano il film a “Il favoloso mondo di Amelie” al netto della componente fantastica.
Il film funziona perfettamente, mostrando un gruppo di figli di emigrati integrati in una società in di cui fanno parte senza esserne castrati, anzi guardandola con tutto il cinismo e l’ironia di cui sono capaci.
Ma come ho detto, la parte del leone la fa la regia, che gioca con i canoni del cinema (per introdurre un flashback, il protagonista cambia stanza seguendo una freccia su cui c’è scritto proprio “flashback”; o i ripetuti monologhi del protagonista mentre guarda in camera) e li adatta ad un ambiente cartoon esco, creando esattamente quel misto fra commedia e cartone animato che ha reso grandioso il film di Jeunet.

Bello e godibilissimo il film, bravo senza “se” e senza “ma” Nabil Ben Yadir (soprattutto perché riesce a non esagerare mai). Unico neo; le battute che fa il protagonista sul palco del cabaret non fanno ridere; ma proprio per niente.

Il film è stato preceduto dal corto d’animazione “The legend of Gong Hill” di Kwame Nyon’g. la storia è tratta da una leggenda Masai (Kenia) sulle origini delle colline del titolo ad opera di un orco ucciso grazie all’astuzia di una donna. L’animazione non è esattamente felice, ma i disegni hanno il tratto chiaro e semplificato dei più recenti cartoni della Disney; la storia non è memorabile, ma rimane impresso soprattutto perché è il primo film d’animazione decente africano.

giovedì 17 novembre 2011

Tamantashar yom - Registi vari (2011)

(Id.) aka "18 days".

Visto al Festival di Cinema Africano (in concorso); in lingua originale sottotitolato.




Film collettivo, a episodi, che racconta la rivolta di piazza Tahrir e la caduta di Mubarak. Il film raccoglie un po il meglio della manovalanza cinematografica egiziana tra cui gli unici due registi che conosco. Complessivamente il risultato è ottimo.
Solitamente in un film ad episodi il risultato è buono, nella migliore delle ipotesi, facendo al media fra le varie parti; in questo caso invece la qualità di realizzazione del film è mediamente eccezionale e a stabilire la superiorità di un episodio dagli altri è unicamente la trama.
Anche dal punto di vista delle storie raccontate è curioso come tutti i registi abbiano preferito parlare indirettamente di quanto è accaduto; solitamente i personaggi vivono ciò che avviene nella piazza dalla propria abitazione o dal negozio (o dal manicomio) e nessuno, se non la ragazza del secondo episodio è coinvolto direttamente fin dall’inizio. Una scelta curiosa che si fa estrema nel fantastico pezzo realizzato da Abdalla.
Altro fatto curioso, ma lodevole, pur essendo un film decisamente schierato contro Mubarak e quindi favorevole alla rivolta, non prende mai una posizione netta, mostrando in quasi tutti gli episodi i lati positivi di chi difendeva il presidente ed i lati negativi, le paura o le piccole vigliaccherie di chi protestava. Incredibilmente super partes nel dare torti e ragioni pur essendo schierato e pur essendo a pochissima distanza dai fatti raccontati.
Nel dettaglio:

RETENTION: di Sherif Arafa. Divertente descrizione della rivolta filtrata attraverso un gruppo di ospiti di un manicomio nei pressi di piazza Tahrir; ovviamente i personaggi sono un campione dell’intero popolo egiziano e si dividono in favorevoli a ciò che accade (per le più disparate ragioni) e contrari. Divertente, realizzato benissimo (soprattutto la presentazione dei personaggi), ma sostanzialmente inconcludente.

GOD’S CREATION: di Kamla Abu Zekry. Uno dei più tragici, una ragazza ortodossa mussulmana che si tinge i capelli, ma rimane comuqnue schiacciata dal senso di colpa per averlo fatto (Allah non vuole che si cambi il proprio aspetto) e che rimane coinvolta per sbaglio nella guerriglia in piazza Tahrir e mentre viene picchiata dai poliziotti si chiede se quello è un martirio ed in quel caso, se potrà andare in paradiso o se i capelli tinti la porteranno comunque all’inferno. Bello, uno dei più drammatici.

19-19: di Marwan Hamed. Un ragazzo si trova in una prigione del regime, è accusato di essere uno dei promotori della rivolta e torturato per avere informazioni che non sembra avere. Anche in questo caso, come nel primo episodio, la bella realizzazione non sopperisce alla mancanza di una conclusione vera e prorpio, o meglio, non sopperisce alla mancanza di un obbiettivo.

WEHN THE FLOOD HITS YOU…: di Mohamed Aly. L’unica vera e propria commedia del film; un gruppo di persone ragionano su come si possa sfruttare economicamente la situazione, vendendo bandiere ai rivoltosi o immagini del presidente ai difensori del regime; tutto indipendentemente dalle proprio opinioni politiche. Decisamente positivo il risultato che alleggerisce un po il clima generale.

CURFEW: di Sherif Bendary. Nonno e nipote di ritorno dall’ospedale sono bloccati fuori dal loro quartiere dal coprifuoco indetto dalla polizia, vagheranno tutta la notte in cerca di una via di accesso fino a desistere e dormire in macchina. Finale francamente immotivato (il bambino sul carro armato), ma l’episodio è simpatico e riesce bene.

REVOLUTION COOKIES: di Khaled Marei. Un sarto ha il negozio nei pressi di piazza Tahrir è appena uscita dall’ospedale dopo un coma diabetico, non sa nulla della rivolta scoppiata due giorni prima, andato al lavoro sarà vittima involontaria dei lacrimogeni della polizia e si barricherà nel proprio negozietto, con poche medicine, qualche biscotto e delle cassette su cui registrerà le sue impressioni su quanto sta accadendo (lui ipotizza una guerra contro l’Egitto). Deciderà di uscire poco prima della fine di tutto, ma verrà scambiato per un poliziotto… Amaro e in certa misura prevedibile, ma l’idea è buona e, anche se non sfruttata a dovere, rende piuttosto bene.

#TAHRIR 2/2: di Mariam Abou Ouf. Un uomo senza molti mezzi e con famiglia a carico viene ingaggiato da un amico per fare il figurante in una manifestazione in favore di Mubarak, rimarrà coinvolto negli scontri. Ben realizzato, anche se meno dei primi, non aggiunge nulla di nuovo, ma sottolinea ancora una volta come non sia importante la partecipazione diretta a ciò che è successo, ma conta il rapporto indiretto con le manifestazioni, gli affetti e le emozioni legate a quegli scontri e la tv (diciamo le immagini) come mezzo di informazioni di ciò che accadeva a poca distanza.

WINDOW: di Ahmad Abdalla. Decisamente il più originale fra tutti gli episodi è diretto dal regista del bello, ma inutile, “Heliopolis”. La rivolta è raccontata attraverso la vita di un ragazzo che vede ciò che accade attraverso i movimenti della vicina di casa (attivista di piazza), le immagini di youtube e gli aggiornamenti di messenger, oltre che attraverso qualche titolo dei giornali. La rivolta è vista attraverso gli occhi del computer (o attraverso la cecità del computer nei giorni in cui internet fu oscurato), senza nessun dialogo. Originale, perfetto e decisamente la miglior descrizione di ciò che è stato quel periodo.

INTERIOR/EXTERIOR: di Yousry Nasrallah. Una ragazza vuole partecipare alle rivolte di piazza, ma il marito non glielo permette…Quando lei fuggirà, lui la seguirà e si uniranno alla folla… probabilmente il più inutile fra tutti gli episodi, qui i motivi di interesse sono praticamente nulli, peccato perché dietro la macchina da presa c’è il regista dello stupendo “Sheherazade”.

ASHRAI SEBERTO: di Ahmed Alaa. Un giovane barbiere ha il proprio negozio proprio a due passi dagli scontri tra manifestanti e polizia, suo malgrado diventerà il rifugio dei feriti e lui stesso sarà costretto a curare e cucire. Ultimo episodio della serie, decisamente buono, anche se inferiore a molti altri, credo sia stato messo qui per il messaggio positivo e di incoraggiamento che lancia.

Il film è stato preceduto dal corto “La priere” di Hyacinthe Nyong’o. È uno sketch di 3 minuti (il film credo fosse l’esame finale del regista), in cui ad un sontuoso pranzo d’affari in Cameroon, uno degli ospiti innalza una preghiera in lingua bamileke affinchè possa spiegare all’amico come utilizzare le posate in maniera corretta, senza che gli altri lo capiscano.

mercoledì 16 novembre 2011

Africa united - Debs Peterson (2010)

(Id.)

Visto al Festival di Cinema Africano (fuori concorso); in lingua originale sottotitolato.
Un ragazzino che vive in una baraccopoli in Ruanda è amico di un giovanissimo asso del calcio (di famiglia ricca) che viene notato e scelto per rappresentare lo stato all'apertura dei mondiali di calcio in Sud Africa. I due ragazzi si mettono in viaggio verso Kigali, ma un problema con l'autobus li porterà invece al di la del confine del Congo. Sfumata la possibilità di presentarsi per tempo alle selezioni decidono di andare direttamente in Sud Africa per cercare di trovare il talent scout e farsi dare una seconda possibilità. Durante il percorso attraverso 7 stati africani incontreranno altri ragazzi che si uniranno al gruppo.

Un film due volte di genere visto che si tratta di un film per ragazzi e in più un film di viaggio. Ma nonostante questo la giovane regista riesce a dribblare tutti i difetti base insiti nelle due nicchie.
I ragazzi che vengono presentanti non sono bambini che si comportano da adulti né sono ragazzotti incredibilmente più intelligenti degli adulti che riescono a battere ad ogni costo.
Inoltre il film, che è un film ad episodi disgiunti come tutti i film di viaggio, riesce comunque ad avere un aspetto unitario e a non sembrare spezzato.
Inoltre (altro rischio enorme) non risulta eccessivamente metaforico. In un film in cui i ragazzi che rappresentano diversi stati africani e che sono pure un ex bambino soldato, una prostituta minorile e un sieropositivo, riescono comunque a toccare l’argomento, trattarlo brevemente in maniere evidente, ma non rimanerci sopra per rendere i personaggi delle figure allegoriche senza personalità. Ecco forse questo è il più grande pregio del film, descrive degnamente i personaggi.

La sceneggiatura è davvero ottima, divertente, rapida e mai banale nel reiterare i meccanismi ridondanti di un film di viaggio (partenza, arrivo in un nuovo ambiente, contatto con gli autoctoni, ecc…) e crea personaggi completi, su tutti il giovane protagonista, vero mattatore del film. Dei difetti ovviamente li ha, quando deve a tutti i costi creare uno strappo tra i due amici nel momento del cambio di banconote o nella partita a calcio alla frontiera (immagine molto bella comunque) che sono situazioni veramente tirate fuori a forza. Però complessivamente il risultato è decisamente positivo.

Infine la regia. Fantastica. Debs Peterson fa tutto quello che ne ha voglia, ritaglia un paio di momenti efficacissimi (l’incipit con il bambino che spiega come costruire un pallone da calcio con un preservativo e nel farlo spiega i pregi del sesso sicuro; o ancora la falsa entrata nello stadio di Kigali dei due amici creata con un montaggio parallelo ben utilizzato) e per il resto si comporta in maniera dignitosa azzeccando pure degli innesti di animazione con unione fra stop motion e disegni.

Incredibilmente il migliore dei film visti finora.

Il film è stato anticipato dal corto "Mwansa the great" di Rungano Nyoni che si sposa perfettamente con il film, raccontando la storia di un bambino della dello Zambia, orfano di padre che si perde nella propria fantasia modellando con essa il mondo che lo circonda; la fusione fra le immagini reali e quelle create dal bambino risulta perfetto ed il film funziona alla perfezione. Bello.

martedì 15 novembre 2011

Pegase - Mohamed Mouftakir (2010)

(Id.)

Visto al Festival di Cinema Africano (in concorso); in lingua originale sottotitolato.
Marocco. Una psichiatra è richiamata ad occuparsi di una ragazza trovata in stato confusionale di notte, con segni di collutazione. Deve capire chi è e che cosa è successo. La situazione che ne viene fuori è quella di una ragazza nata in una famiglia "complicata", con il padre che tenta di far credere a tutti che lei sia un maschio per nona vere il disonore di essere un capo tribù senza discendenti e ne ostacola l'amore nei confronti di un coetaneo e... beh farà di peggio... Ma questa che sembra essere una conclusione non è che l'inizio di un film che, del twisted plot finale, ne fa l'epicentro della vicenda.

Si c'è un colpone di scena finale che costringerà a riconsiderare quanto visto fino a quel momento.
L'idea in se non è esattamente originale (credo che nell'ultimo decennio sia stata usata a annualmente in almeno 2 o 3 pellicole), ma in realtà la tratta bene; dissemina indizi fin dalle prime scene, lambisce l'argomento in più di un momento quel tanto per tenere desta l'attenzione, ma senza mai lasciare intedere troppo... No perchè il colpo di scena è iper abusato, ma io mica c'ero arrivato prima che lo dicessero apertamente.
Pure la messa in scena merita un encomio, fotografia di prim'ordine, gelida per le scene in città e caldissima per quelle ambientate nel deserto; tutto girato in interni o quasi (e pure gli esterni non danno sfogo alle scene che risultano comuqneu claustrofobiche) con una conoscienza e una comprensione di quello che si fa invidiabile.
Tutto questo unito al fatto che viene ricostruito un ambiente ambiguo e straniante fin da subito, una sorta di città fantasma dove a muoversi sono solo gli ambigui protagonisti della vicenda; tutto questo dicevo dovrebbe far propendere per considerarlo un grand e film...
Purtroppo il regista sembra essersi preoccupato troppo della forma per ricordarsi del ritmo ed il film soffre di una lentezza eccessiva che in più punti sfocia nel tentativo di addormentare il pubblico... Peccato.

Il film è stato preceduto dal corto "Tinye so" film del malinese Daouda Coulibaly che parla in maniera tutta sua dell'ultimo avvertimento degli antenati (gli spiriti degli antenati che proteggono i viventi) ad una città del Mali per convincere la popolazione tornare al passato...
Il film è tutto improntato su colori pienissimi e guidato da una macchina da presa che per essere più mobile doveva solo essere allacciata dulla schiena di un canguro (fa davvero di tutto e sempre con competenza); esteticamente bello sotto ogni punto di vista, come spesso succede latita in comprensione...

lunedì 14 novembre 2011

La voyage à Alger - Abdelkrim Bahloul (2009)

(Id.)

Visto al Festival di Cinema Africano (in concorso); in lingua originale sottotitolato.
Algeria post rivoluzione anti-francese. Appena ottenuta l'indipendenza una vedova di guerra ed i suoi sei figli si vedono regalata una casa di un ex dignitario francese. Purtroppo la stessa casa è stata addocchiata da un ex collaborazionista riciclatosi tra le fila dei vincitori; l'uomo farà di tutto per cacciarli dall'edificio utilizzando metodi leciti, utilizzando le sue conoscienze e cercando di ostracizzare l'intera famiglia (compreso il fratello della donna). La donna si deciderà ad un'azione di forza interpellando direttamente il neo presidente dell'Algeria, Ben Bella; essendo lei analfabeta partirà per Algeri per incontrarlo con uno dei soui figli. Ovviamente non riuscirà a parlare con il presidente, ma la sua storia, la sua convinzione e la sua forza di volontà la porteranno fino al ministro della difesa che si preoccuperà di inviare qualcuno per risolvere il probelma.

Intanto bisogna subito dire che il film è ben realizzato. Stavolta sia alla sceneggiatura, sia dietro la macchina da presa c'è qualcuno che come minimo conosce il proprio lavoro. La confezione è ben fatta.
La storia poi non spicca per originalità; è la solita storia del singolo contro un sistema, della giustizia personale portata avanti dalla sola forza di volontà che, ovviamente, si scopre essere vincente... però in questo film il finale tira fuori qualcosina di nuovo. Solitamente il politicamente corretto è sempre presente in questo genere, invece qui la giustizia finale viene ottenuta con la minaccia, la forza, il rischio di omicidio legalizzato e soprattutto una violenza mai realizzata, ma sempre sul punto di esplodere; in fondo siamo comunque in un dopo guerra. Per carità è solo un accenno che poi si stempera nel lieto fine classico... però è qualcosa in più rispetto alla norma.

Il film è stato anticipato dal corto "Garagouz" di Abdenour Zahzah. La storia è quella di un burattinaio e suo figlio in viaggio verso un villaggio dell'Algeria dove dovranno fare uno spettacolo per dei bambini. Durante il viaggio però, ad uno ad uno i burattini vengono regalati, usati come tangente o distrutti da dei fondamentalisti. Rimarranno senza spettacolo e dovranno inventarsi qualcosa... Per carità non è proprio malvagio, ma ha il difetto di molti cortometraggi, non ha un vero e proprio obbiettivo e si limita a mostrare una serie di eventi.

sabato 12 novembre 2011

Black gold - Jeta Amata (2011)

(Id.)

Visto al Festival di Cinema Africano (in concorso); in lingua originale sottotitolato.





Il film di presentazione del festival è un film con un budget direi cospicuo di Nollywood che racconta la vita di una sostenitrice dei diritti umani nata nel delta del Niger (Nigeria) in un ambiente corrotto dove una compagnia petrolifera dirige e distrugge tutto ciò che tocca.
Questo in buona sostanza può essere il riassunto della trama.

Lo voglio dire subito, il film è pessimo. A renderlo un brutto film non è la recitazione mediocre, le scene di massa con poche comparse, l'uso insistito del CG per fuoco e sangue (che tutto sommato mi sembra anche venuto bene), l'utilizzo di ex quasi-glorie del cinema USA come richiamo (che tra l'altro avere Eric Roberts, Tom Sizemore, Michale Madsen e un pelatissimo Billy Zane, è un motivo di vanto senza se e senza ma), la noia che aleggia leggera in tutta la parte centrale e direi che neppure è la veicolazione insistita del "messaggio" del film (la critica nei confronti dello stato del delta del Niger e della corruzione è urlato addosso allo spettatore nella prima scena! Poi viene urlato pure nella secona! Nella terza no. Ma nella quarta di nuovo! e così via... ma in fondo lo si potrebbe magari passare per ingenuità)... quello che davvero mi ha dato fastidio è la totale mancanza di competenza tecnica in ogni ambito, la totale mancanza di idee e comunque della capacità di mettere in scena il lungo elenco di idee abusate dal cinema di tutti i tempi. Quello che mi infastidisce è la completa incapacità di dirigere e di scrivere del regista-sceneggiatore, che non pago di non essere in grado di fare una cosa, pretende di non farne bene due!

Se i soldi (pochi immagino) che hanno dato a Eric Roberts (che comunque son sompre soldi ben spesi) li avessero usati per pagare uno sceneggiatore decente (o un correttore di bozze) e quelli per Billy Zane li avessoro usati per pagare un regista mediocre sarebbe anche potuto venir fuori un buon film.

Questo film è la più grande dimostrazione che i soldi non sono un elemento determinante la qualità di un'opera.


Edit: sarebbe bastato che mi informassi per 5 minuti in più e avrei trovato che il film è un low budget come pochi altri (e col senno di poi dico anche: è evidente, solo un idiota non riuscirebbe a notarlo), a quanto pare solo 300.000 (dollari? euro? non ricordo già più). Quindi onore al mertio ai vari Billy Zane e compagni che devono aver lavorato per la gloria. Il film rimane comunque un fallimento.