Visualizzazione post con etichetta Thriller. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Thriller. Mostra tutti i post

domenica 10 gennaio 2021

El bar - Alex de la Iglesia (2017)

 (Id.)

Visto su Netflix.


Un gruppo di persona si trova ostaggio in un bar, fuori un cecchino sembra sparare a chiunque si muova. All'arrivo dell'esercito la situazione degenererà.

LA quasi ultima fatica di De la Iglesia è un ritorno in grande stile alla sua idea di commedia nera action (se ne era mai allontanato veramente?). Il film inizia con il passo del thriller (un nemico invisibile sconosciuto dalle intenzioni ignote) che diventa a tinte quasi horror quando la situazione interna al bar scadrà in un tutti contro tutti, nel lungo finale nella fogne l'atmosfera horror non verrà mai eliminata, ma si passerà all'azione vera e propria. E come sempre nei film del regista spagnolo il thriller e l'azione sono parte integrante della trama, portano avanti o sviluppano i personaggi e i rapporti fra di loro quanto i dialoghi, senza mai perdere l'afflato ironico che in questo film si fa fra i più neri e grotteschi di sempre.

Di fatto niente di nuovo, ma qui De la Iglesia da sfogo all'altra sua grande passione, il volto e i corpi. I cast è tutto i aficionados del regista, tute facce già viste per chi lo conosce, tutte da freak (borghesi o meno) fatto salvo per la coppia di giovani bellissimi; ma tutti verranno tormentati fisicamente, martoriati, portato allo stremo sul paino più epidermico possibile. Perché alla fine De la Iglesia è un regista che maltratta i suoi personaggi quanto Haneke (letteralmente in ogni suo film) e ne vive la fisicità (da plasmare e formare) quanto un Cronenberg (si veda la trasformazione dei protagonisti di "Balada triste"), solo che è più divertente. Ecco allora che la coppia bellissima dovrà gettarsi nei liquami, cospargersi di olio, strizzarsi per passare in pertugi minuscoli, lottare, prendere botte e sanguinare quanto tutti gli altri. Perché per De la Iglesias tutti sono orribili (e lo mostra nei dialoghi) e tutti meritano il martirio a cui li sottopone.

mercoledì 2 dicembre 2020

Good time - Benny Safdie, Josh Safdie (2017)

 (Id.)

Visto su Netflix.


Due fratelli fanno una rapina, quello con un lieve ritardo viene arrestato e pestato in carcere. Quello rimasto fuori cercherà di farlo uscire pagando la cauzione, ma una serie di eventi avversi lo costringeranno a scegliere un'altra strada: farlo fuggire dall'ospedale.

Un film con macchina da presa a mano che ha dimostrato di aver ormai digerito il nuovo stile urbano derivato da Refn e i suoi colori fluo, ma portato in un ambiente più sporco, più realistico, più malato.

Un film che prendendo un'estetica decisa, ma realista si immerge con godimento nel lato oscuro della vita. Nella storia di questi fratelli scapestrati (e sfortunati) c'è una sola regola, tutto quello che può andare male ci andrà. Una volta iniziata la rapina inizia un gioco a seviziare i protagonisti facendo succedere ogni possibile evento avverso in una sorta di lunghissima fuga dal destino che dura tutta una notte (a chi venissero in mente di Coen, direi di si, anche con ironia, ma con un nichilismo estremizzato). Non c'è quasi mai una scena action o crime vera e propria, ma la suspense è continua e l'abiezione (o la semplice sensazione di disagio per quanto sta succedendo) è continua. Un lavoro sul lato oscuro che è magnifico e ossessivo.

Pattinson, ormai rivalutato grazie a Nolan, ha il volto perfetto per il trasandato (possibile) tossicodipendente di quartiere, lo sguardo spaventando e i lineamenti tirati adatti per quella che è un'interpretazione impeccabile.

domenica 29 novembre 2020

The walker - Paul Schrader (2007)

 (Id.)

Visto su Mubi, in lingua originale sottotitolato.


Harrelson è accompagnatore per signore dell'alta borghesia (politica) di Washington; non vi è nulla di sessuale nelle sue mansioni data la sua omosessualità (e un rapporto complicato con un ex), è una sorta di personal friend. Nel tempo libero lavora in un ditta di rivendita case. Rimane però invischiato in un omicidio in cui l'amica dell'infanzia si da alla macchia e tutte le prove (o meglio la volontà delle indagini) sembrano condurre a lui, nel frattempo sarà vittima di avvenimenti e minacce.

Doveva essere il seguito ideale di "American Gigolò", ma dopo il rifiuto di Gere, Schrader preferì cambiare linea oltre che sponda. 

Il film si fa notare subito per una confezione impeccabile. Movimenti di macchina precisi e ortogonali, vestiti impeccabili, interni ben confezionati e geometrici, una fotografia che esalta il lavoro fatto sull'estetica. Si fa notare anche una tendenza al chiacchiericcio non insolita in Schrader, ma più affettata con frasi taglienti e puntuali che sembrano venire da una versione sboccata di Oscar Wilde (che verrà citato, e tenuto a distanza, nel film stesso).

Il film sguazza in un paio di generi senza prendere una decisione vera e propria. Un'opera che vorrebbe essere un thriller politico (che ravvierebbe nei giochi di palazzo politici fuori dai palazzi politici) con dramma psicologico determinante per lo svolgimento degli eventi (che dovrebbe essere il vero genere di riferimento). Manca però tensione nella parte del thriller che rimane solo un meccanismo utile a far succedere cose, ma non riesce a incuriosire; mentre il dramma è piuttosto patinato, gestito con freddezza e ripetitività.

Il protagonista è la perfetta espressione del film stesso, impeccabile, azzimato, arguto, elegantissimo; ma distaccato, freddo, scarsamente coinvolto anche quando lo dovrebbe apparire di più. Il film è tutto sommato qua. 

Ottimo il cast (e per dire questo mi baso sul fatto che c'è Lauren Bacall, il che rende sempre ottimo il cast qualunque cosa faccia) femminile; fa piacere vedere Harrelson in una parte pulita e pettinata e si vede il tentativo di non scadere nel cliché continuo, ma il lavoro fatto di caratterizzazione rimane piuttosto banale (pochi cliché si, ma quei pochi determinanti per fare il personaggio).

mercoledì 18 novembre 2020

Long weekend - Colin Eggleston (1978)

 (Id.)

Visto su Mubi, in lingua originale.


Una coppia in crisi parte per un weekend lungo nel Bush australiano (in realtà vanno al mare, ma in una spiaggia desolata nel mezzo del niente). Durante la permanenza iniziano segni di squilibrio fra loro e fra gli animali e i due umani fino all'ultima notte con un terribile showdown.

Il classico horror/thriller in cui una coppia in crisi deve cementare il loro rapporto per poter sopravvivere... ma ha il vantaggio di non avere un finale scontato.

Meno efficace invece la base, predisposta come una sorta di vendetta della natura a una coppia menefreghista nei confronti di piante e animali (dettagli che vengono disseminati durante tutta la prima parte), un pò troppo dozzinale e semplicistica, anziché gettare il cuore oltre l'ostacolo della matoivaizone realizzare una sorta di "Gli uccelli" di serie B.

L'effetto finale è un poco claudicante, ma efficace. Non c'è mai tensione vera e propria (anche se quel lamantino un pò di inquietudine la dà), ma la costruzione di un ambiente sottilmente ostile che si unisce al disprezzo solo parzialmente nascosto da parte della coppia. I due personaggi, di fatto, si trovano isolati in un habitat che li respinge in compagnia del loro peggior nemico. Il finale è, in questo senso, adatto e perfetto.

Claudicante per quella mancanza di tensione che si diceva oltre che da una scrittura che ha molte idee, ma una certa ripetitività nel mostrarle. La tecnica è base, adeguata per ottenere la sufficienza, ma forse sarebbe stato necessario qualcosa di più.

Complessivamente una bella scoperta, senza eccessi. Ha giustamente meritato un remake piuttosto recente che spero non abbia svilito il tutto.

lunedì 16 novembre 2020

The raid 2. Berandal - Gareth Evans (2014)

(Serbuan maut 2: Berandal)

Visto su Amazon prime.

Dopo il botto di "The raid" il gruppo di Gareth Evans pensa sia giusto sfruttare il nome per il film successivo e decide di riprendere in mano lo script su cui stava lavorando già prima del 2011 e lo manipola per farlo diventare il seguito diretto del suo capolavoro.
L'effetto di questa manipolazione è evidente. Questo nuovo film ha una trama che non può essere riassunta in una riga; il genere cambia e diventa un hard boiled con un occhio a quello asiatico anni '80-'90; ovviamente il potenziale di empatia non può che aumentare (a chi non apprezza l'hard boiled di Hong Kong non so proprio cosa dire)... però l'impatto devastante del primo tutto fatto di purissima azione, velocità e ritmo enorme dall'inizio alla fine viene perduto.
L'azione c'è e in molte situazioni la cura è altissima e porta a dei risultati da applausi (la mia scena preferita è sicuramente a lotta nel fango dell'inizio, piani sequenza, dettagli, idee di coreografia pazzesche e con picchi di violenza inaudita), ma si fa prendere la mano arrivando a un inseguimento in macchina perfetto e sfrutta a piene mani le location delle varie lotte con un uso drammatico che Hitchcock avrebbe apprezzato (le sedie, la piastre e addirittura la zuppa nel ristorante, la scena iniziale nel bagno, ecc..). La mano quindi c'è, non viene persa, ma è diluita.

La storia è sicuramente buona (infiltrato nella mala deve sgominare tutti, a rischio c'è la famiglia e c'è la polizia corrotta), ma si perde spessissimo, si ipertrofizza senza motivo con picchi di inutilità e i dialoghi non so proprio la punta di diamante del film.
Quello che ne viene fuori è un neo-noir ormai un poco datato (che talvolta  si perde nei suoi stessi meandri), con trovate visive prese e rimaneggiate da Refn (che si conferma il regista più seminale per l'action moderno) e con ottime scene d'azione. "The raid" rimane lassù, ad anni luce di distanza.

domenica 13 settembre 2020

Sto pensando di finirla qui - Charlie Kaufman (2020)

 (I'm thinking of ending things)

Visto su netflix.

parte con un lungo viaggio in macchina dove si parla tantissimo, si fa sfoggio di cultura e si assiste a una neocoppia con diverse idee sul loro futuro. Inizia come un film molto parlato, mai noioso, ma semplicemente non codificabile, con molti dettagli perturbanti. Si arriva alla casa dei genitori di lui (l'obiettivo del viaggio è una cena di presentazione) e il mood si codifica sulle coordinate dell'horror, parte con calma, introduce dettagli weird, marcescenza e morte per poi arrivare a dei glitch nel sistema; ma quando le linee temporali si confonderanno sembrerà di essere di fronte alla migliore rappresentazione di un sogno mai vista al cinema. Poi ci sarà il viaggio di ritorno con due pause e il tono cambierà di nuovo.

Il nuovo film di Kaufman è, come sempre, un regalo che andrebbe scartato senza sapere nulla del contenuto, più se ne sente parlare più l'effetto sorpresa emotivo viene diminuito.

Il nuovo film di Kaufman è, come sempre, un rimestare nella testa di qualcuno, lo fa da sempre, ma è dall'epoca di "Synecdoche" che sembra essersi creato gli strumenti ultimi con cui parlare. Questo film infatti fa il paio con il precedente, ma riesce a cambiare luce anche su quello. Se "Synecdoche" mi era piaciuto, ma non mi aveva entusiasmato la regia e il ritmo, qui non posso contestare quasi nulla; la gestione delle inquadrature è perfetta con un uso claustrofobico degli interni (nella casa i personaggi sono sempre incastrati dentro a linee rette, in macchina sono le inquadrature, sfocate dalla neve, da fuori i finestrini ecc...), tanto quanto degli esterni (perturbati dalla tempesta e con un buio che denso come una parete), la fotografia incredibile (affidata a Zal) rende gustosa ogni scena. La regia insomma è perfetta per rendere il senso e il mood dello script.

Il nuovo film di Kaufman, come sempre, è un capolavoro. Si rimane spiazzati dalla mancanza di linearità della trama, dalla mancanza di senso o di un protagonista chiaro, dai riferimenti inintelligibili e dai continui cambi dei personaggi (d'abito, d'interprete o di carattere); ma anche non capendolo le sensazioni vengono rese perfettamente e la trama nonsense rimane godibile fino al finale (forse, la parte comunque più debole). Ovviamente riuscendo a collegare i puntini quello che viene fuori è poesia sulla mente umana i cui dettagli e easter eggs sparpagliati in giro possono essere trovati tranquillamente sull'internet.

In definitiva è un capolavoro di complessità (ma questo ce lo si poteva aspettare) e di realizzazione (meno ovvio) che sembra un poco claudicante (soprattutto nel finale) e pretenzioso, ma che ti cresce dentro (chiedo scusa per l'abusato cliché, ma è davvero calzante) nei giorni seguenti; subito dopo averlo visto non avrei usato toni troppo entusiastici, ma ora, a quasi una settimana dalla prima visione ho la necessità di una seconda visione.

lunedì 10 agosto 2020

Hanna - Joe Wright (2011)

(Id.)

Visto su Netflix.

Una ragazzina vive nel profondo nord con il padre. La vita è duramente scandita fra caccia grossa al cervo, esercizi di lotta libera, a lettura dell'enciclopedia. Tutto questo è necessario per una questione di spionaggio con americani cattivi che, prima o poi, verranno a riprendere tutti e due.

Il primo film action di Joe Wright è una creatura strana. Dopo l'incipit dove deve necessariamente spiegare molto in poche scene (e tutto sommato ce la fa né più né meno di qualunque altro regista... il che è un problema perché Wright vale di più), viaggia rapido senza stancare, si diletta di incastonare i suoi personaggi in scenari sempre diversi e si ferma a creare un film circolare ricco di riferimenti alle favole dei Grimm.
Un'operazione strana, perché le scene action sono molte, spesso anche buone che vanno da estremi estetizzanti videoclippari (se questo termine avesse ancora un senso) al limite dell'arte visuale (la prima fuga dalla base dei cattivi) alla citazione in piano sequenza di Pinkaew (quella con Bana in metropolitana). La necessità dell'immagina particolare si mischia alla voglia sempre più preponderante di infilare un simbolismo fiabesco che risulta digeribile solo quando è leggero, ma nel finale diventa insopportabile.
In tutto ciò però l'azione non riesce mai ad essere così spettacolare da sostenere il film da sola, mentre i personaggi sono gestiti molto peggio e non riescono neppure loro a sostenere una trama di fatto inesistente (sintomatico che le battute migliori le abbia un personaggio che scompare nella prima metà) che si ripiega sui cliché peggiori e sulle scorciatoie più becere (lo spiegone finale lasciato all'internet).

L'unica nota completamente positiva è (come sempre nei film di Wright) l'utilizzo del suono e delle musiche. In questo caso con la collaborazione perfetta dei The chemical brothers, le musiche vengono usate, in dissonanza o in risonanza, per fare da controcampo alle scene d'azione, mentre rumori disturbanti sottolineano uno o due passaggi d'ambientazione fondamentali e le poche musiche diegetiche sono lasciate a definire i momenti di calma iniziali.

lunedì 29 giugno 2020

Predestination - Michael Spierig, Peter Spierig (2014)

(Id.)

Visto su Netflix.

Classico film di cui meno si sa e meglio è (è quello che i giovani chiamano mind-fuck movie).
Le sinossi, di solito parlano di un agente di un'agenzia americana che si occupa di sventare reati utilizzando i viaggi nel tempo. Questo agente deve tentare di eliminare un attentato a New York negli anni '70 in cui perderanno la vita migliaia di persone.
La cosa buffa è che la sinossi è veritiera, ma per oltre metà film si parla di tutt'altro (non ci si lasci ingannare).

Il film è tortuoso e pretestuoso (l'assunto alla base del film che da adito a tutto quello che succederà dopo è francamente implausibile) gestito anche bene (sebbene con un certo pilota automatico), ma di per se limitante. Se si riesce ad accettare quell'assunto il film avrà una trama entusiasmante, altrimenti sarà terribile.

Al di là del twist plot continuo, il film è diretto con sicurezza un pò spenta, ma ha l'indubbio valore di creare un mondo senza dilungarsi in dettagli hard sci-fi.
La meccanica dei viaggi nel tempo rimane non spiegata, viene introdotta velocemente, ma in maniera adeguata e si basa su un'estetica semplicissima, efficace e classicheggiante (una valigetta).
Tutta la sovrastruttura dei viaggi nel tempo segue la stessa idea, poche spiegazioni, efficacia e colpo d'occhio. Su questa idea si inserisce il personaggio di Taylor che riesce ad essere senza tempo e si crea una serie di versione degli Stati Uniti nei vari decenni che, distanti dalla realtà, sono la versione attuale di quegli anni (su tutto si veda l'addestramento negli anni '60, una versione futuristica di quel decennio pensata oggi), un sistema che di per sé è world building (tutti sono inseriti nello stesso contesto avulso da quello reale) e che permette con poche immagini di chiarire una situazione complicatissima.
Un film che è di serie B nei modi, nelle limature e (credo) anche nel budget; ma è una serie B di lusso.

lunedì 22 giugno 2020

The invitation - Karyn Kusama (2015)

(Id.)

Visto su Amazon prime.

Una donna sparita per un paio d'anni invita a casa sua (e del suo nuovo compagno) tutti gli ex amici, compreso il suo ex marito (i rapporti fra i due sono tesi, ma per problemi indiretti che hanno causato la loro separazione). I motivi non sono chiari, ma noi che spettatori che abbiamo un sacco di sgurz capiamo subito che ci sono problemi, grossi.

Il primo film della Kusama che vedo ce l'ho sul comodino da almeno 3-4 anni, ma vengo motivato a vederlo solo per la facilità datami dalle piattaforme online.
Togliamo subito tutti i dubbi, siamo davanti al classico dramma da camera in cui un piano sottostante sta venendo costruito ai danni di una persona o un gruppo e che esploderà nel finale. I dubbi da togliere sono sul plot (necessario che il botto finale stia in piedi dopo i lunghi minuti di attesa e che la sospensione d'incredibilità non sia mai superata), l'idea di base è un poco eccessiva, ma sopportabile, il finale in linea con le aspettative, la sospensione d'incredulità deve sopportare diverse volte il fatto che i personaggi siano troppo stupidi per accorgersi di qualcosa di creepyi che sta avvenendo, ma per chi è abituato agli horror classici anni '70/'80 questo non può essere un problema.

Detto ciò il film si prende i tre quarti del tempo per allestire il campo d'azione e lascia solo agli ultimi minuti (20-30 minuti, non ero attento al minutaglie) lo scioglimento del caso. Questa che sembra un colpa è invece il grande pregio dell'opera della Kusama.
Il film imbastisce una trama in cui è evidente che qualcosa non va (fin dalla scena d'apertura tra il metaforico e il predittivo), ma continua a giocare al gatto col topo, saltuariamente smorzando la tensione, ma più spesso aggiungendo dettagli, evidenti, ma tutti minimali, nessuno sufficienti a far fuggire tutti urlando, ma ognuno a modo suo perturbante e che sommati diventano intollerabili.
L'effetto è potente. La tensione è in crescendo quasi costante per tutto il film mettendo a disagio in ogni situazione e rendendo fastidiosi i tentennamenti dei personaggi (ma questo va visto in ottica positiva).
L'efficacia nel corpo centrale del film è anche il motivo del mezzo fallimento del finale. Dopo un crescendo così efficace è difficile mettere in scena uno show-down realmente soddisfacente. Kusama si fa in quattro, non risparmia niente e nessuno nel finale che preso da solo è uno slasher piuttosto buono, nulla da ridire, ma è difficile recuperare dopo aver eliminato tutto quella tensione con la scoperta del piano.

giovedì 18 giugno 2020

L'occhio che uccide - Michael Powell (1960)

(Peeping Tom)

Visto su Mubi, in lingua originale sottotitolato.

Un uomo schivo e con problemi di relazione fa l'operatore cinematografico e arrotonda facendo foto sexy per un giornalaio intraprendente. Nel tempo libero ama fare foto o riprendere deformità ed eventualmente uccidere in favore di videocamera.
In questo mondo di perfetto voyerismo (lui spia le altre persone, guarda i suoi filmati fatti spiando, guarda i filmati fatti da suo padre mentre lo spiava) viene interrotto da una inquilina del suo stabile, lui se ne innamora   non vorrebbe facesse la fine di tutte le altre... si sacrificherà.

Mitico film del Powell post Pressburger e piccolo cult personale che non vedevo da almeno un decennio (o più).
Rivederlo ora è stata una botta incredibile. Questo è un film del 1960 che sembra essere stato realizzato almeno un decennio prima (o più).

Tutto in questo film risulta datato già per l'epoca a partire dalla fotografia dai colori saturi, ma esattamente uguale a quella che Powell utilizzò nei suoi film degli anni '40 e '50, la scelta degli attori e della recitazione sofferta, ma manierista riportano indietro di diversi anni.
Solo la vicenda è incredibilmente moderna e rappresenta (come sottolineato da persone più intelligenti di me) un curioso negativo di "Psycho" uscito lo stesso anno (protagonista psichiatrico, turbe sessuali, rapporto morboso con un genitore scomparso, ma presente, ecc...).

Il clima morboso è però ben costruito anche se la storia di redenzione è trattata in maniera superficiale e fa cedere un pò la credibilità già claudicante. Da ricordare c'è almeno l'incipit tutto in soggettiva (motivata! questa è la vera innovazione) che riesce abilmente a introdurre al tono del film con la giusta dose di claustrofobia e inquietudine (se si arriva senza nessuno spoiler l'effetto è sicuramente ottimale).
Rimane un esperimento interessante e l'ultimo fuoco ragguardevole di un grande regista.

PS: bella anche la sequenza sul set dopo la chiusura del teatro, ben realizzata nell'ottica del thriller che si deve ancora sviluppare del tutto e permette una piccola scena di ballo alla Shearer presente anche qui con una comparsata.

lunedì 18 maggio 2020

Figli degli uomini - Alfonso Cuarón (2006)

(Children of men)

Visto su Netflix.

In un futuro distopico gli esseri umani sono diventati tutti, massivamente, infertili. Si vive in un mondo arido, senza speranza e violento, con gli stessi problemi attuali, ma drammatizzati ed estremi.
(Un uomo viene contattato dalla sua ex moglie (capo di un gruppo di resistenza) per una missione speciale, scortare una donna verso un luogo di mare dove dovrebbe esserci una nave di un fantomatico gruppo di salvataggio internazionale ad attenderla.

Grazie ai soldi e alla credibilità guadagnati dall'Harry Potter più oscuro, Cuaron può realizzare il più interessante film di fantascienza degli anni zero. Gran parte del fascino del film nasce non dallo spunto iniziale, ma dalla messa in scena e dalla regia.
la messa in scena è quella di un futuro prossimo, dove la tecnologia è avanzata, ma non in maniera eccessiva e risulta già usurata, infangata, sporca. Una messa in scena che esalta il tono crepuscolare della trama e che ne determina la credibilità.
La regia poi (il vero motivo di gloria del film) tenta il tutto e per tutto per essere immersiva, con macchina a mano e una serie di piani sequenza che servono a dare unità d'azione e ad aumentare la claustrofobia delle vicende riuscendo nello stesso tempo a far risultare il film un action anche se molto di quello che avviene è una lunghissima fuga a piedi. Se è giustamente famoso il piano sequenza finale (lunghissimo e complicato che termina con un'epifania incredibile) credo vadano encomiati anche la scena d'apertura (che con la sola voice over del tg spiega lo spunto fantascientifico alla base, presenta il protagonista e il mood dell'intero film), ma soprattutto la scena all'interno dell'auto, un capolavoro di complessità e colpi di scena.
Tutto questo sforzo enorme, da spessore alla vicenda, da capacità d'immedesimazione che altrimenti rimarrebbe parziale, ma soprattutto aumenta l'effetto angosciante e senza speranza (se non una luce alla fine assoluta, ma all'interno di un mare di disperazione) che è il cuore del film.
Un film che è fatto da una fuga di un'ora e mezza tra le più crudeli ed emozionanti di sempre.

PS: Owen al suo meglio, stropicciato e abbattuto è il protagonista perfetto.

giovedì 14 maggio 2020

Split - M. Night Shymalan (2016)

(Id.)

Visto su Netflix.

Un uomo rapisce tre ragazze senza un evidente piano alle spalle (sembra le rapisca a caso, non ha intenti sessuali, né di richiedere il riscatto). Quest'uomo, si scopre presto e ormai lo sanno pure i sassi, è affetto da personalità multipla e per tale ragione seguito da una psichiatra che sembra avere dei sospetti su di lui.

Alla seconda prova con la Blumhouse, Shymalan fa il suo primo, vero, twist plot, un thriller (di serie B), puro. che gioca con la tensione accumulata, con l'incertezza data dal protagonista e con la situazione claustrofobica in cui ha inserito le vittime; niente di più e niente di meno.
C'è molto mestiere (seppure con pochi guizzi), un uso sapiente degli interni, qualche cliché horror utilizzato per mandare avanti il tutto e una doppia trama che, anziché complicare, snellisce molto il ritmo del film.
Complessivamente un film solido, un thriller interessante che si fa guardare bene, nessun brivido eccessivo e nessun colpo di genio che possa gareggiare con quelli di "The visit" (che con tutti i difetti d'ingenuità gli rimane notevolmente superiore); ma è la conferma che Shyamalan ci guadagna a lavorare in piccolo. Continuo, però, a credere che se lasciasse scrivere del tutto le sue sceneggiature a qualcun altro ogni suo film potrebbe essere una perla.

Sul cast niente da eccepire fatto salvo per McAvoy; è un bravo ragazzo, mi fa simpatia e si vede che si impegna (e la parte non è per nulla facile), ma rimane sempre sopra le righe, esagera in ognuno dei suoi personaggi sempre al limite della macchietta (soprattutto quando deve interpretare l'omosessuale o la donna).

PS: comparsata finale che ora, sapendo tutto quello che è stato realizzato acquista senso (strizzando l'occhio alla Marvel).

giovedì 23 aprile 2020

Goksung. La presenza del diavolo - Na Hong Jin, (2016)

(Gok-seong AKA The wailing)

Visto su Amazon prime video.

In una cittadina coreana cominciano ad avvenire strani omicidi e c'è una malattia infettiva che si diffonde. La gente del posto accusa, velatamente o meno, un giapponese (Jun Kunimura!) da poco insediatosi nel paese, ritenendolo nientemeno che il Diavolo stesso.
Un poliziotto colpito direttamente comincerà a indagare, mettendo in mezzo lo sciamanesimo tradizionale e un prete cattolico.

Similmente a quanto fatto in "The chaser", Hong Jin, parte da una storia piuttosto banale e lineare, ma la mette in scena con un andamento ingarbugliato, vicoli ciechi, momenti di chiarezza improvvisa che vengono smentiti in un gioco di conferme e frustrazioni che durerà fino alle scene finali.
Similmente a quanto fatto in "The chaser" costruisce la vicenda con un tono leggero (da commedia) che si incupisce e si diluisce con il proseguire dell'azione fino alla sua completa scomparsa.
Similmente a "The chaser" è un filmone, anche più di "The chaser".

Questa storia su un'epidemia in un ambiente chiuso, il sospetto di soprannaturale (che verrà confermato o smentito solo verso la fine), l'indagine goffa di un uomo abituato a galleggiare che dovrà dare fondo a tutte le sue risorse, la spietatezza degli eventi e delle scelte da fare e il ritmo della narrazione sempre costante (con la tendenza coreana a non fissarsi sui tre tempi occidentali della sceneggiatura, ma con un movimento fluviale in cui non si sa mai quando avverrà il vero showdown finale) trasformano questo film in un esperienza immersiva enorme.
Non ha il ritmo o l'adrenalina di "The chaser", né l'attenzione al giallo a cui avrebbe potuto aggrapparsi; neppure si può definire un horror anche se la ricerca del maligno è parte centrale della vicenda. Il film cerca invece di mettere il suo protagonista in una situazione che deraglia sempre di più e immersa in un ambiente da cui non si può che venire soffocati; incastrandone all'interno anche lo spettatore.

Inoltre il film viene costellato di dettagli innumerevoli, prove o indizi, elementi metaforici, scene mai spiegate, che servono da indicazione o depistaggio in un gioco con chi guarda che dimostra un rispetto e una conoscenza delle dinamiche cinematografiche davvero notevole.

giovedì 2 aprile 2020

The perfection - Richard Shepard (2018)

(Id.)

Visto su Netflix.

Una ex violoncellista (la più grande del suo "corso") incontra la nuova migliore nel settore durante una selezione in Cina. Le due si piacciono, pure molto, e decidono di prendersi due settimane nella Cina selvaggia (e curiosamente preda di un virus misterioso) da sole. ovviamente le cose andranno malissimo.

Un Thriller che vive tutto dei 3 o 4 colpi di scena che cambiano radicalmente il punto di vista e l'appartenenza ai buoni o ai cattivi dei personaggi.
Siamo onesti, un film thriller ben costruito con 4 twist plot può funzionare bene anche se non siamo davanti a Hitchcock... ma qua si esagera.
Posto che dopo i primi gli altri cambi improvvisi diventano telefonatissimi; ma quello che manca è il senso della misura (e una buona mano alla sceneggiatura specie nella seconda parte).
A partire dal secondo twist gli avvenimenti diventano iperbolici, sempre meno credibili mettendo a dura prova la nota sospensione. anche questo sarebbe probabilmente accettabile se la scrittura fosse decente... Invece i personaggi indugiano in spiegoni lunghissimi, in flashback in cui si capisce tutto dopo 30 secondi, ma la scena viene tenuta in una (fallimentare) suspense per 10 minuti, i personaggi diventano stereotipati in maniera idiota (il maestro di musica che deve sempre mimare la direzione d'orchestra con le mani quando ascolta la musica, pure mentre guida!).
Talmente è scritto male che non risulta brutto, ma fastidioso.

lunedì 30 marzo 2020

I ragazzi del retrobottega - Michael Powell, Emeric Pressburger (1949)

(The small back room)

Visto su Mubi, in lingua originale sottotitolato.

Durante la seconda guerra mondiale a Londra proliferano le ricerche sulle armi. Uno degli ingegneri più promettenti, amputato ad una gamba i cui dolori (e la cui depressione) lo trattengono ai limiti dell'alcolismo. Verrà contattato per scoprire la nuova arma lanciata dagli aerei tedeschi che sembra fare strage per lo più di bambini (curiosamente profetico circa le mine anti uomo).

Solido film romantico con dramma della coppia Powell e Pressburger. Curiosamente per la coppia il film è in un bianco e nero a cui non mi hanno mai abituato, ma che è gestito benissimo, con un uso noiresco delle ombre negli interni (per lo più in casa) e che arriva all'espressionismo tedesco nella scena dell'allucinazione (scena eccessiva per il film, ma da incorniciare per la costruzione) per poi andare all'opposto con una luce candida e pervasiva nella scena di tensione sulla spiaggia.
Pur non essendo il migliore film del duo siamo davanti a un'opera che attraversa diversi generi riuscendo con semplicità nei cambi improvvisi, parte come una commedia, attraversa il dramma romantico, il thriller per chiudersi di nuovo con il romanticismo.
la costruzione del protagonista è buona e sfaccettata riuscendo a creare un eroe romantico perfetto, gli altri vengono lasciati sullo sfondo e sono utili solo a muovere i vari generi.
La regia ottimale si fa ricordare soprattutto per due scene, la prima quella dell'allucinazione già citata (che, ripeto, ho trovato magnifica pur nella ridicolaggine della bottiglia gigante) e quella finale sulla spiaggia dove i registi tentanto (e riescono)  a creare tensione in piena luce con un'attività statica per lo più con il racconto e con l'accumulo di eventi precedenti.

PS: titolo italiano fuorviante e immotivato (una traduzione quasi letterale di qualcuno che non vide mai il film?)

giovedì 19 marzo 2020

Green room - Jeremy Saulnier (2015)

(Id.)

Visto su Amazon prime.

Un gruppo punk raccatta all'ultimo una serata in un locale neonazi; sono lontani da casa, hanno speso molto, quei soldi fanno comodo. Andrà tutto abbastanza bene (nonostante aprano con "Nazi punks fuck off"), però al momento di uscire vedranno qualcosa che non avrebbero dovuto, si chiudono in una stanza interna e inizia un home invasion fuori dalla home ufficiale.

Il film è di fatto un assedio su terreno nemico, uno stillicidio di tentativi di stanarli (per lo più  a buon fine) che funziona bene con un crescendo di tensione, almeno finché il gioco del gatto col topo si rende evidente come idea centrale del film e non come fatto passeggero. Il finale, ovviamente deve smuovere le acque e riesce a ricominciare con la tensione perduta.
Al secondo film di Saulnier visto (ma è il terzo in carriera) si conferma un ottimo regista che conosce le regole dei film di genere e le sa utilizzare in maniera sapiente. Qui la storia, confrontata con quella di "Blue ruin", ha meno epica, meno carne al fuoco ed è molto più diretta; questo è forse il segreto per cui il film ingrana benissimo quasi subito, ma è anche il motivo per cui finito l'afflato iniziale si sgonfia un poco e per cui alla fine si fa ricordare meno.

Rimane comunque ottimo, godibile e assolutamente perfetto nella gestione dei personaggi (almeno quelli principali) con il valore aggiunto di Imogen Poots, irriconoscibile, ragazza nazi distrutta dalla vita, pragmatica, rocciosa, ma che accusa il colpo a mano a mano che il film si svolge, ripiegandosi su sé stessa (anche fisicamente) senza perdere un filo di capacità d'azione.

lunedì 24 febbraio 2020

L'amore bugiardo. Gone girl - David Fincher (2014)

(Gone girl)

Visto in tv.

Una donna che sparisce, l'indagine che si muove per capire cos'è successo, i media che arrivano a imporre il loro punto di vista e i segreti di una coppia che portano un uomo a essere prima ritenuto l'innamorato innocente poi il colpevole predestinato... e siamo solo a metà film, ma il resto non si può raccontare.

Fincher firma il suo film più complesso (anche se non sembra), perde qualcosa nel dinamismo, ma offre un thriller spiazzante ad ogni cambio di scena.
Tutta la prima parte è un interessante discorso sulla manipolazione, dei comportamenti e delle opinioni, da parte dei media che sono solo lo specchio della società (anche dentro ogni matrimonio, ci dirà Fincher, c'è sopraffazione e manipolazione quindi non ci si può aspettare altro dai giornalisti).
La seconda parte sfuma completamente la parte thriller per aggiungere un lavoro di disvelamento nuovo. I personaggi vengono esposti per quello che sono senza che vi siano spiegazioni o flashback, ma tramite le interazioni con altri personaggi.

Se la prima parte è un gioco di specchi per lo spettatore (anche lui manipolato quanto i personaggi a credere o meno a certe opinioni (ma anche lui parte del problema con l'interesse voyeruistico che fa il paio con quello dei fruitori di trasmissioni scandalistiche viste nel film), la seconda è un film di intrighi di palazzo che si occupano di mantenere uno steady state in un rapporto di coppia ormai esploso. Ognuno dei due pezzi cerca di dire qualcosa sulla natura dei rapporti umani e sul gioco di verità e menzogne che legano la società a partire dai nuclei familiari fino agli ambienti dei media. Un pò troppo per un thriller? Il film funziona in ogni senso, è godibile e fa rimanere alta l'attenzione, si prende i suoi tempi (con qualche caduta di ritmo), ma non delude.

PS: scena montata alla Fincher, quella del letto con Harris.

lunedì 3 febbraio 2020

The neon demon - Nicolas Winding Refn (2016)

(Id.)

Visto su Netflix.

Una ragazza arriva a Los Angeles per cercare di fare la modella. Lei è giovane, troppo, ma ha una bellezza che illumina e ammalia in maniera quasi soprannaturale, attira tutti, riuscendo ad arrivare rapidamente, ma allo stesso modo pagherà per l'attrazione che suscita.

Bislacco film di un Refn che ormai non contiene più la sua propensione all'estetica. In passato ci ha già abituato a opere (anche ottime) dove il comparto visivo conta più della trama, integrandosi, però, ad essa (qualche volta fallendo male); qui però fa il salto, butta il cuore oltre l'ostacolo e crea un'opera di videoart.
La trama è superficiale, diluita tantissimo e appare fin da subito una scusa per arrivare a certe inquadrature; nel finale impenna, avvengono delle cose (finalmente) e si tinge di horror, ma anche li è pretestuoso (e obiettivamente mal fatto).
Finché Refn rimane saldamente dalla parte del racconto film non narrativo vince. Vince perché si sfoga con sequenze che più che dal cinema sembrano affini all'arte visuale (la festa nella discoteca, la prima sessione fotografica) e vincono a piene mani riuscendo a conciliare la bellezza formale con emozioni e sensazioni.
Nella seconda parte però il film perde in qualità delle scene e nello stesso momento la trama diventa lievemente più importante e qui avviene la disfatta. Non potendo contare su una sceneggiatura di livello (il twist finale è talmente esagerato, rozzo e mal fatto, da risultare ridicolo) che compensare l'estetica mancate e avendo una prima parte che alzato troppo l'asticella il film declina in maniera insalvabile.
Peccato, ma almeno sembra segnare l'intenzione di Refn di andare nella direzione antri trama delle vecchie avanguardia a là Marienbad.

PS: magnifico anche l'uso degli stilemi del genere thriller per costruire le scene nella prima parte, su tutte vince la magnifica introduzione di Reeves.

giovedì 23 gennaio 2020

madre! - Darren Aronofsky (2017)

(mother!)

Visto in tv.

Una coppia (con una buona differenza d'età) abita nella ristrutturata casa di lui (ma è stata lei ha rimetterla a nuovo dopo un incendio). Lui è uno scrittore e viene visitato da un uomo che si insedia a casa loro rivelandosi un fan, dopo di lui arriverà la moglie  i due figli fino a un'invasione di amici e parenti che si concluderà con uno scontro e del sesso riparatore. Lei rimane incinta.
Lui scriverà una nuova opera che porterà nuova fortuna e una nuova home invasion da parte di centinaia di fan proprio verso il nono mese di gravidanza.

Film allegorico di Aronofsky, così ricco di rimandi, situazioni paradossali, un finale estremo e riferimenti biblici da renderne la comprensione al di là delle umane capacità. Col senno di poi, leggendone, il significato appare lampante, ma durante la visione si viene catturati da altro.

La prima parte è un thriller surreale perfetto, un home invasion atipico e particolarissimo che, con una degna conclusione, potrebbe resistere come film a parte. forte di un gusto per il perturbante che è la vera dote del regista (mettere i personaggi in situazioni insopportabili e far provare lo stesso fastidio allo spettatore) e un cast ottimo che si avvale della migliore Pfeiffer che abbia visto da anni.

La seconda parte invece è una folle cavalcata nel caso. Partendo sempre da una situazione paradossale, ma quasi realistica diventa una carrellata di atrocità vagamente collegate fra loro, fino al picco del post partum. Ecco qui il film si perde maggiormente, volendo mostrare moltissimo in poco tempo il film non riesce a stare dietro alle sue stesse intenzioni e depotenzia scena dal possibile effetto esplosivo (nulla paragonabile a quella finale che riesce quasi alla perfezione... quasi); se lo si prende solo come il tentativo di rendere per immagine il caso il risultato è vincente.
Chiaro però che non è quello l'intento di Aronofsky.

Le due parti del film poi dialogano solo nell'idea allegorica complessiva che, se sfugge, rende il film un collage mal realizzato.
Il film non può dirsi completamente riuscito, troppo pretenzioso e arrogante (in senso quasi positivo), ma se fallisce (e direi di si), fallisce in maniera meravigliosa e disturbante.

giovedì 2 gennaio 2020

Death Note. Il quaderno della morte - Adam Wingard (2017)

(Death note)

Visto in tv.

Adattare un manga giapponese che prende spunto dalla mitologia locale declinata per la passione (sempre locale) dello scontro fra menti (anziché l'horror all'occidentale come avrebbe potuto essere) con personaggio dagli atteggiamenti o movenze fumettistiche è difficile. Pretendere di mettere tutte queste caratteristiche e condensare 12 fumetti in una storia e portare tutto negli USA è impresa titanica.
Alla regia viene scelto Adam Wingard, autore competente ed intelligenti che si è distinto nel genere horror puro... la scelta potrebbe non essere la migliore.

Il film si rivela irritante fin dalle prime immagini. Una galleria di personaggi che nel manga erano cartooneschi, ma ben caratterizzati, qui sono archetipi standard piuttosto stupidi e caratterizzati da dettagli patetici e senza fantasia che non torneranno più nel resto della storia (Light è un genio perché fa i compiti di matematica per gli altri?!!!).
Uno script che trasuda volontà di pubblico adolescenziale e semplificazione ad ogni passo. Ma la cosa più grave è la sostanziale eliminazione di ogni peculiarità dell'opera originale.
Mantenendo le caratteristiche estetiche base (il death note stesso, un Ryuk bello ma sempre in una fastidiosa penombra) la vicenda viene però svolta in maniera grossolana, eliminando lo scontro fra menti a una sorta di fiacco thriller canonico, dove le trappole intellettuali del manga vengono derubricate a colpi di culo o risoluzioni magiche (il "piano" finale viene risolto scrivendo sul diario anche quello che devono fare le pagine del diario stesso!) che tolgono completamente il senso e depotenziano la carica innovativa.

L'estetica fluorescente e giovanile non solo non può rimpiere il vuoto dato dal maltrattamento della storia o dalla banalità della trama, ma è anche una delle soluzione più banali del regista.
Aggiungiamoci che Light è interpretato da un attore assolutamente fastidioso e che la Mia è utilizzata in maniere diversa, ma che aumenta la banalizzazione e che l'unico personaggio quasi identico è L, l'unico che avrebbe meritato di essere smussato (perché le pose folli da manga si addicono a quel contesto , non a un film americano).