Visualizzazione post con etichetta 1976. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta 1976. Mostra tutti i post

lunedì 21 ottobre 2019

Quella strana ragazza che abita in fondo al viale - Nicolas Gessner (1976)

(The little girl who lives down the lane)

Visto in Dvx.

Una tredicenne, rimasta orfana, vive da sola fingendo che il padre sia ancora vivo; dovrà vedersela con un uomo con la insidia, la madre di lui che è la proprietaria di casa, un poliziotto benintenzionato che vorrebbe parlare a suo padre e un ragazzo innamorato.

Thriller dall'andamento teatrale (quasi tutto in una stanza) e dalla trama particolare che si tiene in piede con grande capacità nonostante il numero limitato di personaggi.
Siamo davanti a thriller che, a dire ilv ero, ha poca tensione, ma interessa e si sa rendere accattivante; il vero difetto è l'ultima mezzora, quando da un film inverosimile, ma molto credibile cominciano a essere messe in mezzo dettagli implausibili (la mascherata...) e lo showdown finale, sicuramente ben gestito, ma piuttosto insipido che rende l'intera opera come un'operazione ruffiana basata su una buona idea, ma senza una direzione vera e propria.
Sicurmanete apprezzabile, ma il finale lascia un pò di diaspiacere per quello che avrebbe potutto essere.

Da sottolineare che l'intero film è realmente appoggiato sulla adolescenti spalle di una incredibile Jodie Foster; la recitaizone non è impeccabile, ma riesce assolutazione a tenere testa a tutti (anche al viscido Sheen) e porta a casa un risultato più che dignitoso.

venerdì 3 maggio 2019

Il giudice e l'assassino - Bertrand Tavernier (1976)

(Le juge et l'assassin)

Visto in aereo, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Francia 1800, un giudice si mette sulle tracce di un "serial killer", dopo lunghe ricerche riuscirà ad arrestare un sospettato, che però sarà palesemente pazzo. Riuscirà ad ottenere una condanna, nonostante l'infermità mentale, ricorrendo ad ogni mezzo possibile.

Una commedia grottesca (perché questo è il tono e questo stimola il folle personaggio dell'assassino), più per il piglio che per il risultato, che intende graffiare il potere corrotto di potere e di consenso con una carrellata di personaggi moralmente borghesi (nel senso dispregiativo di una quarantina di anni fa) che compiono il proprio dovere oltre i limiti consentiti.

Duole però che tanto sforzo verso un obiettivo, tutto sommato, così contenuto non riesca a essere seguito da un buon risultato.
La regia è, in questo caso, piuttosto secondaria e l'intero film è caricato sulle spalle dei suoi protagonisti (che in questo caso sono inattaccabili; sopra le righe e farsesco Galabru, contenuto e in parte Noiret) che vengono condotti in una sceneggiatura lunga e dispersiva che li mette a confronto con altri personaggi piuttosto ininfluenti (senza significato e pretenziosa la parte della Huppert) e li conduce a un finale posticcio.
Complessivamente un'idea semplice ed efficace, mal condotta e complessivamente svilita.

lunedì 4 febbraio 2019

Todo modo - Elio Petri (1976)

(Id.)

Visto in Dvx.

Agli esercizi spirituali di un prete carismatico, partecipano molti dell'intellighenzia dell'epoca (veri e propri protagonisti della politica o dell'economia italiana). Durante la settimana però cominciano a essere perpetrati degli omicidi, sconvolgendo il microcosmo (già piuttosto sconvolto). Ovviamente per le indagini nessuno potrà lasciare l'eremo.

Per capire com'è realizzato questo film direi che si può nominare "Il divo"; una regia dinamica ed estetizzante, un protagonista principale freak, isolato dalla società (qui isolata per il potere che rappresenta e per gli intrighi che vengono orditi); location estetizzanti quanto la regia (in questo caso moderniste ed essenziali, che fanno risaltare il grigiore) oltre a un costante senso di surrealtà.
Ovviamente l'esperimento è molto interessante, in quanto la via migliore per poter parlare della politica dell'epoca (il riferimento alla politica dell'epoca è dato da un Volonté che ricalca pedissequamente Aldo Moro) sembra essere quello della distopia. Non è fantascienza, ma l'ambientazione, il tono e il rapporto fisico e assurdo con la religione (l'uso insistito della fustigazione, il "Padre nostro" con i respiri profondi, oltre al rosario nell'episodio centrale del film) rendono il film alla stregua dei suoi contemporanei in cui il futuro era in mano a società para-religiose.
Come dicevo la regia punta molto sull'estetica. Una fotografia dai colori neutri (tutto è grigio, nero o color legno), le location dagli interni asettici e senza fronzoli (con alcune statue di intento religioso, ma dalla realizzazione inquietante); molta attenzione alle inquadrature e ai movimenti di macchina (molto bella la scena del rosario fatto camminando ad esempio).
Ottimi gli attori con un Volonté macchiettistico (come richiesto dalla parte) e un Mastroianni finalmente in una parte diversa dal solito (con un solfureo personaggio preso direttamente dagli imbonitori da fiera americani); purtroppo la Melato è utilizzata malissimo.

Le singole parti sembrano poter dare luogo a qualcosa di importante; purtroppo il risultato non è all'altezza delle aspettative. Il film è troppo surreale, troppo teso a voler essere metafora grottesca, senza avere il senso delle proporzioni o idee totalmente originali. Talmente estremo da risultare più farsesco che graffiante.

lunedì 5 giugno 2017

Ecco l'impero dei sensi - Nagisa Oshima (1976)

(Ai no korîda)

Visto in Dvx.

Il marito della tenutaria di un bordello si innamora di una delle lavoranti; ovviamente ricambiato, il loro rapporto sarà tutto improntato sulla soddisfazione sessuale (sempre reciproca, mai egoistica) fino ad arrivare all'autodistruzione.

Un film stilisticamente impeccabile (come spesso con Oshima), soprattutto nella costruzione delle scene (nonostante la potenziale ripetitività della trama, la costruzione delle inquadrature riesce a mantenere il ritmo attivo), nei costumi (davvero impeccabili) e nella scelta dei colori utilizzati (colori neutri o terrei per le location, colori sgargianti per i costumi). A detta di Oshima stesso l'impianto estetico fu preso dalle stampe erotiche giapponesi del 1700 (dettaglio che riporto, ma che mi sono premurato di non controllare), ma l'effetto del film è comunque quello di una versione estetizzata del Giappone visto da un occidentale; indubbiamente bello, ma estremamente artificioso.

Se l'estetica è comunque di valore, la trama è un'altra cosa. Indubbiamente il film esplica in maniera perfetta l'ossessione sessuale come obnubilante fino all'autodistruzione; la ricerca del piacere (e del dare piacere) che arriva all'annichilimento (se non fosse un film così scanzonato e solare nel porsi, sarebbe piaciuto a Mishima), una ricerca di amore e morte fatta con il sorriso sulle labbra.
Se anche l'argomento è forte e interessante, quello che lascia a desiderare è la realizzazione, un soft core (con molte scene apertamente hard) non è un problema, anzi mostra di non voler fare ipocrisie, ma imbastire un intero film di rapporti sessuali per avere gli ultimi 10 minuti di significato sa tanto di operazione commerciale che, a mio avviso, viene quasi dichiarata con il simpatico titolo originale traducibile con "Corrida d'amore" (operazione commerciale che, al pari di un porno senza possibilità d'essere fruito nei suoi termini, annoia parecchio). Va però dato atto a Oshima di aver permesso agli intellettuali europei di potersi eccitare guardando un film senza bisogno di sentirsi in colpa.

lunedì 16 maggio 2016

La casa dalle finestre che ridono - Pupi Avati (1976)

(Id.)

Visto in Dvx.

Un restauratore è chiamato a sistemare un (brutto) affresco di un pittore locale; un pazzo scomparso nel nulla sconosciuto ai più, ma che il paese vorrebbe sfruttare per provare ad aver un po' di pubblicità ("come è stato fatto con Ligabue"). Durante i restauri incontra un suo vecchio amico, sconvolto e paranoico che, immancabilmente, muore male poco prima di dirgli un terribile segrete. Usando gli appunti dell'amico il restauratore si mette a indagare e, più per fatalità che per capacità, scoprirà lo stesso terribile segreto.

Sulla scia dei thriller all'italiana resi fondamentali dal genio di Argento viene realizzato un film inquietante e paranoico (come i suoi personaggi). Come in Argento, la componente locale ha un peso enorme; se nelle celebri pellicole del Dario la tentacolare città storica italiana (spesso un Torino romanizzata) è il labirinto in cui si muovono i personaggi, in questo film è la bassa padana a fare da sfondo. Ecco qui credo stia l'idea principale; un territorio inesplorato dal punto di vista filmico, fatto di nebbia, acqua, fango, umidità e solitudine è la scenografia ideale in cui ambientare una vicenda di marcescenza morale nascosta. Sfruttando ambientazioni distanti (tra cui una Comacchio perfetta per la parte) viene fuori una geografia ideale per un thriller del genere (chiunque sia passato da queste parti nel tardo autunno si sarà accorto di quanto risuoni il concetto di provincia per come la intende Lynch).

Ecco ho detto tutto questo senza mai citare il regista: Pupi Avati. Avati è un mestierante che conosco solo per i suoi film degli ultimi 15 anni... e pertanto disprezzo ampiamente considerandolo solo un mediocre creatore di fiction pieno di encomi non meritati. Ma in questo film si rivela tutt'altro. Una storia imperfetta (buona, originale quanto basta, ma lontana dal 10 e lode) viene sostenuta magnificamente dalle giuste immagini dello sfacelo che circonda il protagonista; gioca benissimo con lo spettatore inducendolo a diffidare prima di uno, poi di un altro a suo piacimento; mantiene un ritmo rilassato, non lento, proprio con i suoi tempi, sempre presente e con picchi ben gestiti e riesce a inquietare quanto basta.
Infine il cast è fatto da protagonisti non all'altezza sorretti da comprimari ottimi per recitazione, tic e fisici (la scelta estetica degli attori è evidentemente molto curata).
Un cult meritevole della propria fama.

mercoledì 13 gennaio 2016

L'uomo che cadde sulla Terra - Nicolas Roeg (1976)

(The man who fell to Earth)

Visto in Dvx.

Un alieno viene sulla terra alla ricerca di energia, ovviamente va direttamente negli USA dove sa di trovare soldi e mezzi; però per non farsi riconoscere come extraterrestre si fa passare per inglese. Negli USA tirerà fuori 9 brevetti rivoluzionari che gli garantiranno i mezzi economici necessari. Mentre si troverà sulla Terra intreccerà rapporti di lavoro, avventure sentimentali finché non sarà scoperto; a quel punti diverrà il centro dell'interesse della scienza che gli causerà danni irreversibili (incollandogli addosso le lenti a contatto che nascondono i suoi occhi felini). Rimarrà bloccato sulla Terra per sempre impossibilitato nell'avere informazioni circa la sua famiglia e il suo pianeta.

Quarto film di Roeg dopo "Sadismo", "Walkabout" e "Don't look now"; quello che trovo più affascinante di questo regista è il cambio così radicale di genere fra i suoi film pur mantenendo un'impronta personale riconoscibilissima. Al solito infatti c'è una regia dinamica e fantasiosa, macchina da presa mobile con alcune brevi soggettive e, ancora una volta, un montaggio alternato usato in maniera significativa (ancora un rapporto sessuale come nel film precedente, ma qui sembra più una lotta e viene affiancato a uno spettacolo di spada giapponese; buono, ma non affascinante come l'altro) e un ottimo uso della musica (c'è anche David Bowie che ascolta una sua canzone).
la struttura del film inizia bene, saltando tutti i preamboli e arrivando direttamente nel centro della vicenda; purtroppo però sembra che il film apprezzi troppo l'idea di base del film e se la gode senza portarla mai avanti, senza dargli mordente o l'empatia necessaria, anzi si dilunga annacquandola e diventando decisamente noioso nella seconda parte. Curiosamente riesce molto efficacemente a costruire un ambiente americano affascinante, dai colori caldi e dalla tendenza straniante, fallendo invece in maniera completa nei flashback che mostrano un mondo alieno molto anni '70 e molto ridicolo.

Il film di per se diventa rapidamente fastidioso, ma ha due assi nella manica.
Il primo è la presenza di Farnsworth, il personaggio a cui i creatori di Futurama si sono palesemente ispirato per l'omonimo professore.
Ma il vero colpo di genio è aver scritturato David Bowie, ovvero aver scelto un alieno per interpretare la parte dell'alieno (ce ne sono stati pochi adatti a interpretare una parte del genere, giusto lui, Michael Jackson e Christopher Walken; gli unici alieni riconoscibili da chiunque), perfetto, inquietante e distante il giusto, dolente e spaesato in maniera impeccabile.
                             

mercoledì 2 dicembre 2015

La fuga di Logan - Michael Anderson (1976)

(Logan's run)

Visto in Dvx.

Un futuro postapocalittico, una città coperta dove tutto è organizzato dalle macchine (in definitiva un computer), tutti vivono comodamente, ma c'è un limite, raggiunti i trentanni devono consegnarsi al Carousel, una cerimonia dove vengono (buffamente) uccisi per esplosione nell'aria... Uno dei guardiani (si ci sono dei guardiani che ti uccidono se tenti di fuggire o se ti rifiuti di partecipare al Carousel) viene incaricato di sabotare l'unica organizzazione che finora è riuscita a far fuggire delle persone, dovrà fingere di essere uno di loro, scappare dai colleghi senza poterli avvertire e raggiungere il luogo dove vivono fuori dalla città. Ovviamente riuscirà a scappare, ma quello che troverà una volta fuori non sarà quanto era previsto dal computer centrale.

Un'action fantascientifico con la tipica estetica futuristica molto anni ’70, costumi molto brutti (rielaborazione colorfull dei peplum), ma scenografie molto buone (invecchiate è vero, abbastanza brutalista è vero, però buone) tutte tese a rendere sterile e perfetto l'interno artificiale. Gli effetti speciali risultano un pò datati quando vengono utilizzati a pieno regime, ma ancora sono ancora apprezzabili (quelli di bassa lega d’oggigiorno sono allo stesso livello, quindi per chi è anche solo minimamente avvezzo a syfy non può storcere il naso).
Come comparto estetico quindi direi che il film riesce ancora a essere all'altezza di un pubblico moderno... certo bisogna dimenticare uno dei più brutti robot della storia del cinema, ridicolo oltre ogni dire (e non voglio credere che fosse accettabile neanche all'epoca) e poi bisogna anche tollerare un Michael York come protagonista, ma accettati questi due nei, ci siamo. A stemperare c'è una comparsata di Ustinov nella parte del vecchio pazzo che è un piacere (la sua parte è da vedere in lingua originale se possibile).

Quello che manca è il mordente della storia. L'idea di base, seppure un pò abusata, avrebbe il tono e la cadenza giusta (una delle guardie, costretta dal sistema a fingersi ribelle, fugge, non trova ciò per cui era stato assoldato, non ha alternative e torna; potrebbe essere un dramma degno di Ken il guerriero). Invece si incanta nella descrizione di quel mondo, si incarta nella fuga senza fine, si concede troppo tempo nel mostrare i capisaldi dell'americanità (oltre all'americocentrismo questa parte difetta anche di ritmo) e infine conclude il tutto con un improbabile happy ending (mentre avrebbe potuto virare per un finale oscuro e orwelliano).

PS: no dai, il povero York mi sta anche simpatico, ma ha una faccia facciosa che spesso mi sospende la sospensione dell'incredulità... e poi lo confondo con Ryan O'Neal che invece non sa recitare, vabbé son tutti problemi miei.

venerdì 27 settembre 2013

Rocky - John G. Avildsen (1976)

(Id.)

Visto in DVD.

Rocky è uno sfigato, un emarginato che vive nei sobborghi; conosce tutti, ma ha un solo amico (che è un emarginato e un perdente anche lui e c’ha pure dei problemi nel controllare la rabbia); si innamora di una più sfigata di lui, abbastanza brutta, che cede solo perchè lui la tampina senza posa; vive in un buco senza speranza di miglior manto; lavora per un gangster di piccola taglia, pure lui uno sfigato; racconta bruttissime barzellette (?) che lo rendono ancora più patetico; unica valvola di sfogo è la boxe, sport dove dopo dieci anni è rimasto al palo…

La storia è un po tutta qui, ma più che una trama il film mostra un personaggio e (come spesso nei film di Avildsen) lo sport è solo un McGuffin per parlare del protagonista. Ceto siamo davanti al classico film di riscatto all’americana, niente di più banale, a cui si aggiunge una storia d’amore, un poco di questione sociale dei sobborghi e un minimo di riscatto di tutta una società grazie al singolo… però prima di tutto questo rimane un film su un personaggio; e questo personaggio ha il volto di Stallone (la cui inespressività imbronciata delinea perfettamente il suo protagonista e non sarà mai più così espressiva). Ecco forse il vero valore aggiunto è questo, Stallone è un attorucolo senza soldi che è riuscito ad inserirsi in parti secondarie in alcuni film (tra cui un softcore) senza mai riuscire a sfondare ed ora, per la prima volta, gli viene consegnata una parte da protagonista, la sua grande possibilità… il personaggio e l’attore che lo interpreta sono esattamente la stessa cosa.

Se Stallone è un punto in più, il film però non è scevro di difetti. La regia di Avildsen è troppo spesso ininfluente, ha diverse ingenuità, tutta la prima metà è piuttosto lesta, eppure…. Eppure questa ennesima riproposizione del sogno americano alla Frank Capra, sentimentale ed emotiva regge bene per tutto il tempo; descrive perfettamente un protagonista che è uno specchio per una società, te lo fa amare per quello che è (un vero perdente che non fa nulla per venirne fuori) e quando il film arriva alle scene finali non ci si può non commuovere.

mercoledì 27 marzo 2013

Telefoni bianchi - Dino Risi (1976)

(Id.)

Visto i Dvx.

Risi ripercorre il ventennio fascista nell'unico modo possibile, niente acrimonia o partigianeria di rito, niente amarcord nostalgico (non si sa mai di come la può pensare uno), di fatto mostra l’epoca nazista per quello che è stata, una farsa. Il fascismo, prima ancora di divenire un gioco al massacro, è stato un enorme baraccone che distribuisse circenses più che panem, ma che di fatto incarnava esattamente ciò che era l’Italia d’allora. Niente rimpianti quindi, niente rabbia postuma, una constatazione che quelli eravamo noi, ma mostrati con tutta l’ironia che merita un progetto del genere.

Il film soffre un poco del ritmo episodico della trama e, di per se simpatico, non dice molto di più ad uno spettatore, niente colpi di genio o messe in scena sensazionali. Il motivo per cui il film si salva (e può venir ricordato) è la carrellata di improbabili personaggi, tutte macchiette costruite su un luogo comune, tutte calzanti e infuse di vita propria; il Pozzetto fascista da operetta; l’inevitabile Gassman nell'inevitabile parte del famoso ed osannato viveur  tronfio e vanitoso quanto incapace e paraculo; ma su tutti merita un encomio Tognazzi nella parte dello stronzo più bieco finora mostrato al cinema, talmente orribile (tanto esteticamente, quanto interiormente, in un’idea quanto mai cartonistica nella costruzione del personaggio) da essere disprezzato persino dai nazisti che aiuta.

La protagonista, di per se non entusiasmante, alla lunga si imprime nella memoria per la sua totale passività agli eventi; lei è stata educata all'avidità e si muove, con assoluta onestà intellettuale verso chi le offre di più, totalmente indifferente ai sentimenti degli altri tanto quanto dei proprio. Solo Virzì, molto dopo, avrà il coraggio di creare un personaggio così algido ed ingenuo.

Complessivamente un’opera simpatica, che avrebbe potuto essere migliore se oltre alla trama ci fosse stata qualche idea in più.

venerdì 8 marzo 2013

Ballata macabra - Dan Curtis (1976)

(Burnt offering)

Visto in Dvx.

Se una famiglia è composta da Oliver Reed come padre e da Bette Davis come zia, va da se che la casa delle vacanze che hanno affittato si trasformerà in un incubo kingiano. Si perché cominceranno a succedere cose, cose interne alle persone stesse, sentimenti mutevoli, scoppi di rabbia improvvisi, ossessioni mai avute, stanchezze croniche e la totale impossibilità ad andarsene.

Il film grida “SHINING” dalle prime immagini con la famiglia in macchina che va a vedere la casa che dovranno tenere in ordine per l’estate in cambio di un una affitto bassissimo e smette di gridarlo con l’ultima inquadratura sulla foto della famigliola. Poi uno si ferma un attimo e ci arriva subito che questo “Burnt offering” è di uno anni più vecchio di Shining e allora il film comincia a gridare “PLAGIO”. Devo anche dire che in diversi punti mi ha ricordato il pregevole “The skeleton key”, ma più che altro per il mood generale e non per un’evidente debito tra i due.

Comunque sia è un filmetto che di paura ne fa ben poca e di tensione altrettanta, se non possono essere escluse delle buone idee, soprattutto la vecchia madre che nessuno vede mai o la casa autonoma, nel complesso è un film che non avvince. Scontato dire che c’è Bette Davis e pertanto c’è un motivo d’interesse di per se (l’ho voluto vedere solo per questo motivo), ma nella parte della vecchia zitella NON acida è proprio sfruttata poco e non ha possibilità di esprimersi a dovere; di fatto si spreca una delle cose migliori del film in questo modo.

martedì 6 marzo 2012

Brutti, sporchi e cattivi - Ettore Scola (1976)

(Id.)

Visto in DVD. Qualche giorno nella vita di un gruppo famigliare allargato (Manfredi è il capostipite di una tribù di figli e nipoti e di una selva di “mogli”) che vive nelle baraccopoli fuori Roma. Ovviamente sono tutti personaggi grotteschi fatti di bassezze più che di umanità.

La commedia all’italiana degli anni ’70 è molto diversa da quella precedente; in questo decennio si è persa completamente la speranza (si veda quel Borghese piccolo piccolo che più nichilista di così è difficile), l’acceleratore del grottesco non va più di pari passo con i sentimenti, anzi li doppia superandoli a destra. Questo film non fa eccezione. L’ottimo Scola descrive qualche giorno senza una trama precisa con il solo intento di mostrare uno spaccato orribile, fatto di ogni bruttezza possibile, si concentra con enorme bramosia sulle deformità fisiche e morale dei suoi protagonisti, mostra o suggerisce incesti come se piovesse e sottolinea la cattiveria e l’egoismo del tutti contro tutti fino al didascalismo.

È un peccato perché affogare un film con una trama esile in una marea di ripetizioni non può portare a nulla di buono; certamente il tema colpisce ed è originale, ma è un po’ come nella screwball comedy anni ’30, non possono essere tutti picchiatelli ci vuole qualcuno di normale a far da parametro o il film non funziona. Inoltre la sceneggiatura non permette distrazioni e fa rimanere la storia sempre sullo stesso concetto; ma dopo un’ora e mezza di “quant’è brutta questa e gente e quant’è brutta la società” tutti i pregi passano in secondo piano (e di pregi ce ne sarebbero, dal Manfredi che riesce contemporaneamente ad essere macchiettistico e controllato; ad alcune sequenze d’atmosfera vera come quella della decisione famigliare di uccidere il padre mentre preparano la coratella).
È uno spaccato sociale cattivo e graffiante, ma inconcludente.

lunedì 5 settembre 2011

Nessuna festa per la morte del cane di Satana - Rainer Werner Fassbinder (1976)

(Satansbraten)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.Non conosco ancora molto bene Fassbinder, ma, a quanto pare, gli piaceva molto sorprendere il pubblico con repentini cambi di registro; e si vede, a soli due anni da Un anno con 13 lune si mette a girare questo film; una farsa urlata e ironica sull’arte e sul suo rapporto con la società (borghese).

Un poeta rivoluzionario non riesce più a scrivere e si trova in una cronica mancanza di soldi, vive con la maltrattata (ma solida) moglie ed il fratello ritardato che colleziona mosche (è lo stesso Spengler che sarà il protagonista delle 13 lune), nel mentre intreccia rapporti amorosi/sadomasochisti con diverse donne e prostitute. I suoi insistenti tentativi di scrivere di nuovo lo porteranno involontariamente a copiare Stefan George e sarà in quel momento che penserà che fra loro due (il protagonista ed il defunto poeta tedesco George) ci sia una sorta di connessione e tenterà pertanto di copiarlo in ogni ambito della sua vita, nei versi, nell’aspetto, nei vestiti fino ai gusti sessuali (Stefan George, come dice la moglie del protagonista, ha inventato l’omosessualità).

Il film come detto è una farsa casinista e sopra le righe praticamente in ogni momento, ma nonostante questi ed altri difetti risulta decisamente ironica e a tratti divertente, veicolando il messaggio (il crollo dell’arte sottoposta al peso della condiscendenza e del gusto borghese tutta improntata al guadagno e non alla creazione di idee nuove ecc….) tutto sommato con leggerezza.

Fassbinder si fa riconoscere decisamente nell’incipit dove una serie di inquadrature che fanno capire chi comanda lasciano il segno, poi affoga in una regia perfetta formalmente, ma portata avanti con il pilota automatico.

Non un capolavoro, ma decisamente originale, utile per vedere un Fassbinder meno tetro del solito.

giovedì 21 luglio 2011

Vecchia America - Peter Bogdanovich (1976)

(Nikelodeon)

Visto in DVD. Negli anni ’10 un avvocato si ritrova suo malgrado trasformato in regista cinematografico di una troupe brancaleoniana. Verranno vessati dal monopolio (il cartello formato da chi deteneva i brevetti della macchina da presa che pretendevano di essere gli unici a poterla usare ed arrivavano spesso all’uso delle armi da fuoco; tra i capi del monopolio c’era Edison), fregati dal produttore, entreranno nelle fila della catena di montaggio di Hollywood, poi ci si metterà pure l’amore; ma alla prima di “La nascita di una nazione” di Griffith si renderanno conto che il gioco che avevano compiuto fino a quel momento può anche essere arte.

Film tratto dalla vita e dalle memorie di Allan Dwan (che Bogdanovich intervistò a lungo) che dal cinema di quegli anni prende le gag slapstick che circondano i protagonisti (soprattutto Ryan O’Neal), mentre l’intricato gioco delle parti è preso pari pari dalle commedie alla Hawks.
Complessivamente il film intrattiene ed è carino, ma la storia non si capisce mai dove voglia andare a parare ed appare quindi sconclusionato fin dall’inizio... comprensibile che sia stato un fiasco.

Comunque fa sempre piacere vedere Tatum O’Neal sullo schermo.

martedì 21 giugno 2011

Il texano dagli occhi di ghiaccio - Clint Eastwood (1976)

(The outlaw Josey Wales)

Visto in VHS.
Un texano a cui un gruppo di nordisti sterminano la famiglio, si arruola nei sudisti per vendicarsi. Non solo non ci riuscirà ma (spoiler) perderà la guerra, ma anziché arrendersi fuggirà per cercare di riguadagnare la vendetta fino a quel momento sfuggita. I nordisti gli daranno la caccia. Nella fuga raccoglierà con se una serie di personaggi che con lui formeranno dapprima una sorta di armata Brancaleone e poi una specie di kibbutz.

Il secondo film western di Eastwood è decisamente più classicheggiante, meno leoniano nello stile, tutto proteso a mettere i suoi personaggi all’interno di un ambiente (anzi a decine di ambienti). Eastwood però non rinuncia all’ironia e tira fuori una serie di sequenze al limite della comicità; e va detto che il film funziona decisamente bene grazie alla serie di comprimari, di spalle comiche, che danno spessore alla storia e danno il la alle battute (dall’indiano civilizzato, al venditore di elisir). Ciononostante il film riesce los tesso ad essere moraleggiante ed enfatico e ad andare avanti con il freno a mano tirato (per lo più all’inizio).

Meno fantasioso e surreale del predecessore è inferiore a quello anche per la fotografia (decisamente più contenuta) mentre inserisce alcune sequenze di regia molto anni ’70 qui e la (come il montaggio serrato in avvicinamento al volto di Eastwood quando si allena con la pistola all’inizio) che modernizzano un poco senza mai scadere nella zoommata da film hongkongese.

Come si diceva, decisamente più canonico de “Lo straniero senza nome”, ma decisamente gradevole.

sabato 11 giugno 2011

Il pistolero - Don Siegel (1976)

(The shootist)

Visto in VHS.Stupendo. Assieme a Mezzogiorno di fuoco, “Il buono, il brutto e il cattivo” e “Ombre rosse” uno dei migliori western di sempre.

Wayne è un vecchio pistolero malato e morente che ha visto cambiare il mondo dei cowboy fino a diventare un mondo a metà tra la modernità e le vecchie regole (non a caso il film inizia con la notizia della morte della regina Vittoria, la fine di un'era); torna per farsi giustizia del passato e chiudere i conti prima che sia troppo tardi.

Prima i dettagli tecnici:
il cast è deicsamente all star con un Wayne stupendo, con il fisique du role adatto e con la sua miglioro interpretazione. La regia dinamica e violenta di Siegel poi è perfetta, non lesinando né sul sangue né sulle inquadrature curate.

Detto ciò… Wayne aveva realmente un cancro, ed questo film sarà l’ultimo della sua carriera e rappresenta anche l’ultimo del suo personaggio, oltre che di un genere (splendido in questo senso che cominci con spezzoni dei vecchi film di Wayne).

Un film che si incastra perfettamente nel suo anno; dopo dieci anni di Peckinpah e Leone il western classico è definitivamente morto (ultimo rigurgito proprio quel “Il Grinta” che darà a Wayne il suo Oscar) e Siegel lo sancisce, non senza rimpianto ed un buona dose di patinatura, con questo film. Wayne e Stewart, i due ultimi rappresentanti di quell’epoca del cinema, ormai finita, interpretano i due ultima rappresentanti di quel west ormai finito; anacronistici e ormai non compresi più da una città che non sa più cosa farsene dei pistoleri, che è attratta dal sangue, ma atterrita dall’idea di ingiustizia che esso comporta… Siegel poi mostra come il cambiamento non sia esattamente in positivo; Wayne ha le sue regole ed ha ucciso molto, ma solo “per giustizia”, mentre i nuovi abitanti di questo west rifuggono la violenza, ma cercano tutti di sfruttare un “dead man walking”.

Come dicevo è decisamente patinato, ma il dramma è palpabile e magnificamente orchestrato e ogni espediente melodrammatico si inserisce alla perfezione.

Alla fine poi Wayne non sarà battuto dagli uomini ne dalla natura, ma solo dalla vigliaccheria di questa nuova epoca; ed il suo sacrificio sarà da esempio, certo, ma solo idealmente perché la scena finale lo dice di nuovo; il vecchio west è morto, non c’è più spazio per i vecchi pistoleri. Fine.

venerdì 18 febbraio 2011

Invito a cena con delitto - Robert Moore (1976)

(Murder by death)

Visto in DVD, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Un misterioso individuo (Truman Capote, lo scrittore, che assomiglia curiosamente ad un Malgioglio senza ciuffo) invita per un weekend i 5 migliori investigatori del mondo, ben presto si riveleranno i veri intenti, metterli in gara per vedere chi di loro sia il migliore.

Film all star che prende in giro i gialli classici, i 5 protagonisti infatti sono le evidenti caricature di Poirot, Miss Marple, Nick e Nora Charles della serie “L’uomo ombra", Charlie Chan e un misto fra Sam Spade e Philip Marlow.

Come dicevo un film all star in cui risaltano in particolar modo David Niven, splendido Nick Charles invecchiato, e Peter Falk nei panni di un perfetto Marlowe dalla dubbia identità sessuale.

Il film si prende la libertà di citare i libri d’origine, quanto i film (stupenda la conclusione proprio di Falk che cita “Acque del sud”), ne sfotte i meccanismi e le dinamiche tipiche, e tutto per prendersi una rivincita su quel genere (come si vedrà nel finale).

Un film realmente avvinazzato, condotto senza decisione da Robert Moore (e chi è?), e dal meccanismo abbastanza farraginoso (lo sceneggiatore si costringe a far reagire a turno tutti e 5 ai medesimi fatti, e la cosa diventa sempre più forzata e surreale), ma d’altra parte si tratta solo di un divertissement e come tale va preso, e come tale, diverte.

PS: il film è zeppo di giochi di parole (alcuni cretini) che vengono o completamente persi o resi 2 volte più cretini nella versione italiana.

martedì 1 febbraio 2011

Distretto 13: Le brigate della morte - John Carpenter (1976)

(Assault on Precinct 13 )

Visto in VHS.


Nel quartiere più peggiore di Los Angeles un uomo assiste all’assassinio della figlia, immediatamente ammazza l’assassino… che però purtroppo faceva parte della più peggiore banda di fuori di testa del più peggiore quartiere di Los Angeles. Trova rifugio in una centrale di polizia smobilizzata e praticamente vuota, in cui rimangono ancora un neo eletto ispettore, una guardia, due segretarie e un paio di carcerati che stavano venendo trasportati in prigione, ma hanno dovuto fermarsi, proprio li, pensa un po.


Il padre di famiglia, sanguinante e sconvolto non riesce a spiegare agli altri l’accaduto, ma riesce benissimo a trascinarsi dietro tutta la più peggiore banda che mette sotto assedio la stazione della polizia. E qui comincia il film vero e proprio. Nel bel mezzo di una delle città più popolose degli Stati Uniti, una manciata di persone lottano per sopravvivere senza che nessuno se ne renda conto. In inferiorità numerica, senza vie di fuga e con pochissime armi.

Uno dei migliori film d’assedio, costruito con spirito certosino da un Carpenter in stato di grazia, certo, ci mette diversi luoghi comuni nei personaggi, ma ci mette anche abbastanza ironia da farli dimenticare, e costruisce una macchina perfetta in cui tutto è verosimile, anche se eccessivo oltre ogni dire.

Un ottimo film che pecca tantissimo solo nel finale, troppo sbrigativo e troppo happy ending (anche se il body count è decisamente alto) per essere in linea con il resto della storia, ma la strafottenza e l’arroganza del regista ci sono ancora per intero (ad esempio non viene spiegato neppure alla fine perché il carcerato, viene chiamato Napoleone).

martedì 6 luglio 2010

L'assasinio di un allibratore cinese - John Cassavetes (1976)

(The killing of a chinese bookie)

Visto in VHS registrato dalla tv, in lingua originale sottotitolato.

Per prima cosa i pregi, si vedono tante tette. Basta.
Il film, curiosamente non presenta omicidi, nè allibratori, tantomeno cinesi, per quasi tutta la sua durata. Per la maggior parte del tempo si hanno immagini praticamente amatoriali di un tizio che ha un strip club, immagini di lui che chiacchera come un'anziana signora con le donne del locale, immagini di lui che disserta sui massimi sistemi con le ragazze de locale, immagini delle ragazze del locale che parlano a caso, immagini dell'obeso intrattenintore del locale (gravemente senza tette) che canta come può, poi c'è il problema dei soldi l'omicidio eccetera.
Certo, la libertà della regia di questo film, così come le scene per lo più in notturna, il finale filosofeggiante e ricco di dolore celato, certo, dicevo, tutto qusto ha ispirato orde di nerd underground che col tempo si sono fregiati del titolo di autour più o meno a ragione... però sai la noia di sto film? una noia che tutte le sue tette non sanno giustificare! sai il senso di tempo che fugge che da sto film? il senso di ore (perchè tra l'altro non è che mi dura 90 minuti, me ne dura più di 120!) di vita perdute per sempre che da sto film?
No sul serio, sarà stato importante, anche fondamentale, ma ora che sono passati più di 3 decenni ce ne possiamo anche dimenticare.

PS: c'è da dire però che il protagonista di questo film ha uno dei nomi iù estremi della storia del cinema, si chiama Cosmo Vitelli, no dico COSMO VITELLI!!!

mercoledì 23 giugno 2010

Cuore di vetro - Werner Herzog (1976)

(Herz aus glas)

Visto in VHS.

Herzog ha un problema; non riesce mai a fare film normali. La cosa in se sarebbe pure un pregio... purchè la cosa rimanesse entro il confine della noia più estrema.
Herzog, lui dice, vuol cercare la verità, il che non significa riprendere la realtà, ma eliminare la superficie della realtà stessa per poterne riprendere l'essenza... si dai insomma, è new age, e in questo film ha la bella trovata di ipnotizzare tutti gli attori (tranne il protagonista sennò il film sarebbe stato un documentario sulla catatonia) perchè quello che ne esce dovrebbe essere la verità non filtrata dal super io.
L'idea è magnifica, non scherzo, davvero avanti, ma poi il risultato è quello che è... no perchè il tutto si risolve con attori imbambolati, frasi accazzo, noia su tutta la linea, e una storia che va avanti solo a calci in culo allo spettatore.
Perchè poi Herzog non si accontenta di fare film fatti strani, ma ci deve pure mettere una storia metafisica, filosofeggiante. Il che somma l'incomprensibilità alla noia.
Questo è un film glaciale che trasmette solo l'umidità degli ambienti dove è girato, con personaggi assurdi che conducono una trama sospesa tra l'inesistente e l'inutile. Solo i fan possono levare gli scudi in difesa.

giovedì 21 gennaio 2010

Schiava d'amore - Nikita Sergeevič Michalkov (1976)

(Raba lyubvi)

Visto ad un un cineforum, in lingua originale sottotitolato.

1917, Crimea (regione bianca, politicamente parlando), una scalcinata troupe sta cercando di realizzare un film, tra uno sceneggiatore incapace, un produttore spaventato, un regista con problemi d'alimentazione, un'attrice svampita e un direttore della fotografia politicamente sensibile (ma questo non traspare subito); l'attrice si innamorerà di quest'ultimo (ovviamente sarà una storia d'amore travagliata), ma ci penserà la rivoluzione a colpire tutti, dapprima dolorosamente, poi la presa di coscienza dell'attrice la porterà ad accettare il bolscevismo e a rischiare la vita per esso.
Il film rimane sospeso tra la commedia ironica (tutta la prima parte è una sorta di "Effetto notte" divertente), un film romantico con accenni di poesia, ed un impegno politico che esplode nel finale (la scena conclusiva del film è una metafora talmente schietta che la si capisce anche da bendati; e, mi è parsa, pure la scena meglio realizzata del film).
Sulla carta un buon film, purtroppo però non ha più i tempi e il ritmo giusti per essere visto oggigiorno, anche con le migliori intenzioni, non si può non essere sopraffatti dalla noia in più punti e si arriva alla fine stremati.