venerdì 29 dicembre 2017

Spy game - Tony Scott (2001)

(Id.)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Un dipendente della CIA sta per andare in pensione, ma, come da manuale, il suo ultimo giorno di lavoro viene avvertito che un suo ex pupillo è stato arrestato in Cina nel corso di un'operazione non regolamentare. La CIA non vorrebbe entrarci in questa storia per evitare di mandare a monte degli importanti accordi commerciali; lui da solo, dall'interno del palazzo, dovrà lottare contro il palazzo stesso per salvare la spia detenuta sul campo.

Qui da queste parti si apprezza Tony Scott; alla peggio mette insieme la carcassa di un film confuso con uno stile opulento, ma impeccabile; alla meglio si mette al servizio di una sceneggiatura di ferro e la porta a casa con ritmo ed evitando di farla finire in caciara come rischierebbe in ogni secondo.
In questo caso si trova a dover pilotare un film con una doppia faccia. Ufficialmente è un thriller di palazzo con i suoi intrighi, i sotterfugi, gli alleati (pochi) e i nemici nascosti (molti); dall'altra parte è costellato di flashback che portano la storia sul campo, la vorrebbero sporcare di qualche azione in più e, complessivamente, lo vorrebbero portare verso un tipo di thriller più muscolare.
Inutile dire che usare il doppio binario non aiuta, anzi, fa zoppicare il film. Chi preferisce un genere rispetto all'altro apprezzerà di più una delle due parti.
Personalmente sono un amante degli intrighi di palazzo e dell'uomo solo contro il sistema (anche dove questo sa, spesso di già visto), pertanto mi sono goduto pienamente la parte all'interno della CIA, anche perché poggia interamente su un Redford ancora carismatico e che porta a casa il lavoro anche nella recitazione. La parte sul campo è condivisa con uno dei Brad Pitt più scialbi che ricordi e ricca di luoghi comuni e situazioni prevedibilissime che non ne aiutano la visione.

Anche la regia appare piuttosto confusa dal doppio passo e ingrana la marcia dell'adrenalina per la parte di Redford (scelta curiosa) con una serie di movimenti di macchina rapidi e una fotografia dai colori intensi; lasciando i ralenty, la calma, e la fotografia desaturata per i flashback.

Quello che ne viene fuori è un film claudicante che avrebbe potuto essere un ottimo prodotto del genere spionistico, ma che, dati i difetti, si accontenta di essere un thriller dignitoso con dei grossi nomi sulla locandina.

mercoledì 27 dicembre 2017

Tanin no kao - Hiroshi Teshigahara (1966)

(Id. AKA The face of another)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Un uomo dal volto sfigurato chiede aiuto a un amico psichiatra. L'amico sta sviluppando una sostanza nuova per creare una maschera in tutto e per tutto simile alla pelle umana; ma non lo sta facendo per ricostruire il volto di chi lo ha perso, ma come studio psichiatrico sugli effetti del cambio di identità. L'uomo dal volto sfigurato accetta di sottoporsi all'esperimento.

Almeno terza collaborazione tra il regista Teshigahara e lo scrittore surrealista Abe Kobo.
Come spesso accade in Kobo lo spunto assurdo è solo l'abbrivio per una più profonda speculazione sulla condizione umana o sulla situazione della società giapponese. Inutile voler nascondere l'evidente sottotesto di un popolo che ha perso la propria identità e cerca di riottenere un volto definito prendendo quello di un altro (con esito disastroso); tuttavia l'intento sembra piuttosto un'indagine sul contesto d'identità in generale e i disastri psichici legati al cambio.

Dal punto di vista estetico il film è un egregio figlio del suo tempo; con un gusto per l'estetica asettica, ma costante che raggiunge i suoi apici con i giochi di sovrapposizioni delle pareti trasparenti dello studio medico sui volti, dando vita ad alcuni effetti degni di un'installazione artistica contemporanea.

Dal punto di vista dello svolgimento però il film è affossato da una sceneggiatura troppo seriosa e parlata in cui Teshigahara non riesce a stare a galla garantendo un ritmo di minima e sfociando spesso nello sbadiglio.

lunedì 25 dicembre 2017

Angelo - Ernst Lubitsch (1937)

(Angel)

Visto in Dvx.

Una donna è sposata con l'uomo che ama, ma viene trascurata (per ottimi motivi internazionali); lasciata da sola, annoiata, decide di andare a Parigi. Li incontrerà un uomo con cui flirterà duro, pur senza mai dire il proprio nome. Tornata a casa riprenderà la vita di sempre finché il marito non diventerà amico proprio dell'uomo di cui si era invaghita. Si imporrà un gioco di equilibrismo e una scelta.

Misconosciuto (almeno da me) film di Lubitsch con una Dietrich in una delle passerelle più eleganti e stilose di sempre (mai come in questo film la ricordo per classe e presenza).
Il film, nonostante la scarsa fama, non è soltanto una tipica opera di Lubitsch, ma è uno dei suoi capolavori del non detto e del suggerito con una serie di spunti inventivi che valgono da soli la visione. Gli esempi possono essere molti: la notte d'amore a Vienna suggerita dalla descrizione dell'albergo; il pranzo con tutti e tre i protagonisti della vicenda che viene raccontato dalla servitù nella stanza a fianco (forse la scena migliore del film); la discussione sugli argomenti per un litigio fra coniugi in cui lei confessa tutto; l'arrivo a casa di notte del marito che cambia completamente le carte in tavola e il genere del film (iniziato come un film romantico standard).

Quello che ne viene fuori è un film incredibilmente equilibrato; un melodrammo con spalle comiche ben usate (anche se il povero Horton qui è proprio messo in disparte) che lo rendono ancora oggi godibilissimo. Campione di scrittura anche per la realizzazione di uno dei triangoli amorosi più atipici di quegli anni (anche se estremamente reazionario).

PS: e comunque adoro le commedie upper class dove una signora nullafacente decide di andare a Parigi solo per comprarsi qualche vestito.

venerdì 22 dicembre 2017

Life's too short - Ricky Gervais, Stephen Merchant (2011)

(Id.)

Vista in Dvx, in lingua originale sottotitolata in inglese.

Serie televisiva britannica del solito Gervais incentrata sulla vita di Warwick Davis, attore ormai in declino, ma ancora tronfio e arrogante. La scusa è quella di un documentario sulla sua vita (che vorrebbe sfruttare per rilanciare la carriera), ma mentre viene seguito dalle telecamere deve subire il divorzio dalla moglie, enormi multe da parte del fisco, tentativi di lavoro che saranno sempre più disastrosi e un'umiliante questua di lavoro, prima, e di soldi, dopo.

Per chi conosce lo stile di regia e lo stile comico di Gervais qui si troverà a casa.
Con la scusa del documentario viene motivata la classica macchina da presa asettica, i frequenti montaggi o i passaggi rapidi da un volto all'altro; il tutto con i classici colori insipidi che sono ormai una firma.
La comicità poi è sempre quella (la serie è scritta assieme al fido Merchant), inglese, spesso fatta più di situazioni improbabili, spesso pesante, che prende di petto il politicamente scorretto.
Inutile dire che il telefilm funziona. Funziona perché la comicità già nota può concentrarsi sul distruggere il personaggio di una star morta da anni che si crede ancora famoso, e per di più questa star è un nano; questo dettaglio poi è usato benissimo, Davis si muove in un mondo in cui il suo nanismo non sembra destare alcuna reazione, ma in cui il concetto di nanismo è continuamente preso in giro, con solo un paio di scene in cui lo sfottò è rivolto all'inadeguatezza fisica più che a quella morale.
Come sempre in ogni puntata c'è una guest star, la presenza di Liam Neeson è il valore aggiunto e la svolta della prima puntata, le altre si limitano al loro compito senza infamia e senza lode.

Su tutto però troneggia Warwick Davis. Da applausi l'autoironia che gli ha fatto accettare il personaggio di un sé stesso stupido e tronfio in un telefilm dove deve anche cadere da una macchina perché troppo alta o arrampicarsi si una libreria. Un applauso ulteriore perché dimostra anche una capacità attoriale che, sinceramente, non gli conoscevo, dimostrando di essere un attore capace, di classe e dotato di autoironia.

mercoledì 20 dicembre 2017

Corman's World: Exploits of a Hollywood Rebel - Alex Stapleton (2011)

(Id.)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Nel 2010 viene assegnato a Roger Corman un oscar alla carriera tanto doveroso quanto ambiguo. Doveroso per aver creato un modello di produzione simile in molte cose a quello delle major degli anni d'oro di Hollywood, solo con pochi soldi e con tuta la libertà e la fretta di fare tanto della nuova Hollywood (le liste con Corman tendono a diventare un testo a sé, comunque, citerei solo Scorsese, Coppola, Hopper e Demme tra i registi); doveroso per aver dato la possibilità a dei giovani di farsi le ossa e poter poi diventare gli autori più importanti del decennio successivo ed essere oggi considerati dei classici; doveroso per la sua continua dedizione alla distribuzione che affiancava ai drive-in movies anche opere europee intellettuali che, altrimenti, non sarebbero state proiettate nei cinema USA; doveroso, infine, per la continuità e la serietà del suo lavoro come regista e produttore, nel mettere in scena ciò che al pubblico poteva piacere, ma non era realizzato dalle major.
Dall'altra parte, l'Oscar, è stato un premio ambiguo, dato a un uomo di cinema che ha sempre lavorato in contrapposizione a Hollywood e che nello spreco di denaro per i film delle major vede un'oscenità morale.
L'Oscar ha dato un colpo di grancassa al nome ormai nel dimenticatoio di questo autore e produttore ancora attivo e a parte una cerimonia a lui dedicata con la presenza di tutti quelli che gli dovevano qualcosa, qualche intervista, una serie di uscite in DVD dei sui classici più famosi, l'anno successivo venne realizzato questo documentario.
Non è il primo documentario su Corman (sicuramente ne uscì uno nel 2006, ma immagino ce ne siano in giro altri), ma, in questo caso, la sommaria descrizione della carriera registica e produttiva del protagonista viene lasciata  alle parole di familiari (il fratello, produttore anch'esso), collaboratori ed epigoni (termine che vorrei senza l'accezione negativa).
Al di là del piacere di vedere Scorsese che ne sottolinea la qualità artistica, Nicholson prima lo sfotte e poi si commuove, Tarantino che introduce la consegna dell'Oscar, Platt che ne sottolinea la parte più umana; al di là, insomma, del puro piacere provinciale di vedere un proprio eroe osannato da personaggi importanti, al di là del fattore emotivo fine a sé stesso; qui si vede un'orazione eroistica di un modo di fare cinema fatto da chi quel cinema l'ha vissuto e goduto ed ora ha scelto di fare altro. Qui c'è la Hollywood ormai considerata classica che esalta l'uomo che negli ultimi 60 anni è stato ostinatamente un outsiders descrivendolo come l'uomo più importante dell'allora nuova Hollywood.

PS: Come aggiunta ci saranno importanti insegnamenti base, come il fatto che se una moto compare in una scena dovrà, per forza di cose, andarsi a sfracellare e poi esplodere, o come il climax ideale degli omicidi del mostro in un film di mostri.

lunedì 18 dicembre 2017

L'invasione degli astromostri - Ishirô Honda (1965)

(Kaijû daisensô)

Visto qui, doppiato in inglese.

Un nuovo pianeta viene scoperto nel sistema solare, era scioccamente nascosto dietro Giove, per quello non l'avevamo mai notato. Un gruppo di astronauti partono all'esplorazione e scoprono una razza aliena antropomorfa molto avanzata, ma con un problema difficilmente risolvibile: Ghidorah. La razza aliena superevoluta ha una soluzione facile, chiedere alla terra, in prestito, Godzilla e Rodan per battere il mostro a tre teste. Il piano verrà messo in azione, ma l'inganno sarà dietro l'angolo.

Sesto capitolo della saga godzilliana fa seguito diretto dal film precedente, replicando lo scontro a 3 (anche se la era a 4) con Ghidorah.
Il film abbandona il tono cartonesco della trama, ma solo perché sposta completamente il baricentro del film; i protagonisti assoluti non sono più i kaiju. Per la prima volta un plot fantascientifico prende il posto del fantasy (o dell'horror iniziale) e diventa il vero fulcro del film, lo scontro tra mostri è un MacGuffin.
La trama sarà ovviamente tortuosa e piuttosto risibile con una risoluzione finale scioccherella (arma stupida contro un nemico molto più potente) che sembrerà ritornare in auge negli anni '90 grazie a Tim Burton.

Nonostante la sterzata fantascientifica il film rimane godibilissimo e al netto della secondarietà dei kaiju e del basso minutaggio a loro dedicato si fa notare per una scena di lotta particolarmente dinamica (quella sul pianeta X), un Ghidorah particolarmente ben costruito e mobile e una scenetta patetica di Godzilla che festeggia saltando.

Da sottolineare la coproduzione americana con la presenza della UPA (casa di produzione di film di animazione) che portò ufficialmente un attore americano in un film della serie dopo le aggiunte apocrife al primo film rimaneggiato con l'aggiunta posticcia di Burr.

venerdì 15 dicembre 2017

Il matrimonio di Lorna - Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne (2008)

(Le silence de Lorna)

Visto in Dvx.

Una immigrata albanese si è sposata con un tossicodipendente belga per avere la cittadinanza. Alla fine dei mesi minimi di matrimonio divorzieranno, lei lo pagherà profumatamente e metterà in vendita la propria cittadinanza a altri immigrati, si sposerà a sua volta a pagamento. Il tutto diretto da un'organizzazione ben oliata. Quello che non ci si aspettava è che il tossicodipendente vede in questo matrimonio di convenienza una sorta di motivazione per cambiare la propria vita; quello che però non sa è che è stato scelto per essere ucciso alla fine del periodo facendola passare per overdose e non pagare né lui né per il divorzio. Le sue belle speranza faranno ricredere la dura Lorna che cercherà di aiutarlo.

I personaggi dei film dei fratelli Dardenne sono da sempre sfaccettati e scarsamente omologabili. Sono tutti stoici nelle scelte che vengono fatte, ma nei primi film erano decisamente dei buoni (certo, anche Rosetta tradisce il suo unico amico, ma è un atto di cattiveria dettato dalla necessità, che fa particolarmente impressione proprio perché lei è buona). Nel film precedente, viene per la prima volta presentato un personaggio negativo, ma solo per stupidità, non per volontà e, durante lo svolgimento della vicenda crescerà e diventerà il classico personaggio dei Dardenne. In questo, per la prima volta c'è per protagonista un personaggio apertamente negativo; dura, glaciale, sfrutta gli altri esseri umani per i suoi scopi. Per tornare sul tracciato dei film precedenti dovrà esserci una vera redenzione; diventerà solo a quel punto lo stoico e combattuto personaggio da Dardenne.

Anche stilisticamente le differenze (seppure non enormi) ci sono. La macchina a mano viene abbondantemente accantonata in favore di inquadrature più fisse e più pulite (con qualche maggior concessione all'emotività che nei precedenti veniva negata; si pensi alla scena dei due coniugi nudi uno di fronte all'altra), aumentano i dialoghi, ma con un mood generale e un ritmo che mantiene questo film perfettamente in linea con i precedenti. La cosa sorprendente è che in ogni film dei registi belgi c'è sempre qualche piccola evoluzione pur mantenendo uno dei più evidenti marchi di fabbrica di sempre.

PS: camei dei soliti noti.

mercoledì 13 dicembre 2017

Assassinio sull'Orient Express - Kenneth Branagh (2017)

(Murder on the Orient Express)

Visto al cinema.

Il film, tratto dal noto libro della Christie, si rifà in maniera diretta all'altrettanto noto film di Lumet del 1974. Identico è il cast stellare che eclissa il protagonista, identica la voglia macchiettistica di tratteggiare un Poirot caratterialmente indelebile, identica, infine, la certezza di dover creare un falso wodunit, un giallo in cui l'acume del protagonista potrà mettere insieme dei pezzi che lo spettatore non potrà mai fare allo stesso modo.

Supportato da uno dei romanzi più atipici della scrittrice inglese, Branagh, mette in scena un film realizzato in uno spazio limitato, con cast enorme e ambientazioni di particolare eleganza dando, inoltre, sfogo a un esibizionismo senza precedenti. Perché prima ancora che accusare Branagh di aver fatto un film teatrale, bisognerebbe ammettere che ha fatto un film con mattatore assoluto sé stesso. Il film gira tutto intorno a Poirot come personaggio principale, meglio caratterizzato e l'unico con una parabola all'interno del minutaggio; l'unico, infine, adeguatamente caratterizzato da risultare realmente interessante; pure con degli eccessi moraleggianti o di background fastidiosamente suggerito (la foto dell'amata mostrata a più riprese). Sia chiaro, non è una colpa, solo una scelta stilistica che in tutti i suoi precedenti era, tutto sommato, meno marcata.
Il film è esteticamente bellissimo. La cura enorme messa nella realizzazione degli interni e dei vestiti si sposa perfettamente con la messa in scena del regista; per ogni personaggio interrogato cambia location, punti di inquadratura, se necessario messa a fuoco, dando libero sfogo a ogni più represso desiderio estetico più che di realismo (arrivando a condurre un interrogatorio in esterni in mezzo alla neve). Inoltre, Branagh, elimina la componente di potenziale noia (nella ripetitività delle sequenze e nella limitata unità di spazio) con la sua regia più dinamica, con giochi di montaggio ottimi e una macchina da presa mobilissima (splendidi piani sequenza che sembrano realizzati ad hoc per diventare il trailer, inquadrature dall'alto al limite dell'utilità, movimenti della mdp in esterni che sottolineano l'ambientazione, ecc..).

Quello che però non funzione è lo svolgimento della storia. Eliminati gli inciampi di ritmo, manca però al sostanza. Troppi gli strappi di sceneggiatura, i raccordi mancanti, l'opacità nei passaggi determinanti (difetti interni al racconto particolare, ma qui enfatizzati da una certa superficialità), ma soprattutto, un disinteresse quasi patologico per tutti gli altri personaggi. Il cast è sfruttato malissimo, con personaggi bidimensionali, quando non del tutto caricaturali, che non hanno spazio per esprimersi adeguatamente e che, di conseguenza, spingono la gran parte degli attori a una performance decisamente sottotono (salverei solo la Pfeiffer e la Cruz, ma unicamente in alcune sequenze centrali).
Nel complesso un film bellissimo che lascia l'amaro in bocca per più (troppe) ragioni.

lunedì 11 dicembre 2017

Uomini di domenica - Curt Siodmak, Robert Siodmak, Edgar G. Ulmer, Fred Zinnemann (1930)

(Menschen am Sonntag)

Visto in Dvx.

Una giornata di festa nella Berlino del 1930. Il film segue, soprattutto, una ragazza innamorata di un uomo che, però, le preferisce un'altra. Ma la storia è solo la scusa per mostrare una giornata di spensieratezza nella grande città.

Una storia impalpabile (una trama presente, ma delicatissima) di fatti normali, persone come tante e piccoli dettagli, dove i sentimenti in gioco sono fragili e banali come la gioia di una domenica mattina.

Un film incredibile sotto molti aspetti, il più scontato è il poker d'assi al lavoro in questa produzione, oltre ai registi (3 su 4 sono nomi di peso della regia USA dei due decenni successivi) alla sceneggiatura c'è pure un contributo di Billy Wilder, tutti alla loro prima esperienza (tranne Wilder alla seconda).
Questo film inoltre, è una sorta di neorealismo alla tedesca, con attori presi dalla strada e un uso della città (o del fuori città) molto debitore a "Berlino: sinfonia di una città" (più che a Vertov come ho letto in giro).

Il film però è sorprendente anche dal punto di vista tecnico.
Per essere un manipolo di parvenu la regia è grandiosa, con numerosissimi punti d'inquadratura che rendono succosa ogni sequenza e danno dinamismo e ritmo.
Onestamente trovo che questa sia una delle doti principali di un'opera prima, riuscire a non annoiare con la staticità, soprattutto in un progetto, come questo, fatto da numerosi primi e primissimi piani (densi e spesso bellissimi).
Come esempi bastino il dialogo al caffè o il riposo sul prato con l'uomo diviso fra le due donne e una delle due che si appoggia col volto sulla mano di lui.

Infine, è incredibile la capacità di questo film di trasmettere emozioni. C'è un'aria complessiva di ingenua gioia di vivere (ancora più caricabile di emotività se si considera che in un decennio tutto sarà spazzato via) che traspare da ogni scena, mentre i sentimenti dei protagonisti vengono perfettamente resi percepibili da un'espressione del viso, uno sguardo, un movimento o una posizione (l'inseguimento nel bosco o il riposo sul prato). Tutto riesce a essere espresso tramite dettagli impalpabili.

Un film incredibile di quasi assoluta perfezione.


venerdì 8 dicembre 2017

Lo specchio - Andrei Tarkovsky (1975)

(Zerkalo)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Un pezzo della vita del regista filtrata attraverso lo specchio appannato della memoria, sequenze dell'infanzia si uniscono senza stacchi ad episodi del protagonista da adulto, la stessa attrice interpreta sia la madre che la moglie.

Questo è, forse, il più famigerato fra i film di Tarkovsky; definito (non a torto...anzi) il suo "Otto e mezzo", di fatto è una rielaborazione poetica e surreale della vita privata e lavorativa dell'autore.
Considerato come capolavoro lirico o come spazzatura autoriale autoreferenziale il film, tutto sommato, è entrambe le cose.
Questo è un capolavoro di perfezione e semplicità. La regia ormai standardizzata nei due film precedenti (ampi carrelli, specie in esterni, o piccoli movimenti di macchina, specie negli interni) viene usata in maniera generale, la fotografia (non entusiasmante per i limiti di lavorazione) ragionata e in linea con i lavori pregressi; ma tutto questo fa parte dei dettagli secondari; quello che più traspare è un lieve poeticità presente in tutto, in una donna che siede su una staccionata, in un gatto che lecca il latte versato sulla tavola, in un labbro che sanguina per il freddo; tutto è messo in una galleria di dettagli che fanno da sfondo a una storia principale (volontariamente) meno interessante; tutto è un grande affresco di una vita a partire dalle piccole cose (a cui, ovviamente, vanno aggiunte alcune strepitose scene oniriche, come la donna che levita sul letto). Personalmente trovo che l'efficacia della poesia di questo film, superi di gran lunga, la pretesa filosofia della memoria di "Solaris".
D'altra parte questo è un film autoriale che parla a sé stesso, coi tempi soliti di Tarkovsky (che è normalmente lento come un ghiacciaio) che sembrano anche dilatati; la mancanza di una struttura narrativa peggiora la percezione e la poesia (si sà) è più complicata e più personale della prosa.
Un film a cui val la pena dare una possibilità, ma che sarà facile altrettanto facile amare od odiare.

mercoledì 6 dicembre 2017

Kamisama no iu tôri - Takashi Miike (2014)

(Id. AKA As the Gods will)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.

In una scuola superiore (in realtà più tardi si scoprirà che succede in tutte le scuole di tutto il mondo) un Daruma gioca a un due tre stella, e chi si muove esplode, uno dei ragazzi sopravviverà, ma solo per riunirsi con gli altri sopravvissuti per tenere testa a un gatto della fortuna (Maneki-neko) gigante per proseguire con delle marionette, un orso bianco e delle matrioske; tutti faranno giochi idioti, ma mortali.

Nessun senso apparente, nessuna spiegazione, un finale aperto e un'arroganza come mancava da anni.
Il film è realizzato da dio, la CG che viene usata a piene mani è ottima in molte sequenze e accettabile in altre (il gatto della fortuna è l'unico che desta qualche imbarazzo, ma tutto sommato risulta accettabile), l'animazione è adattata al personaggio con un livello ottimale per il Doruma e un'animazione volutamente a scatti per l'orso bianco, adattando tutto in base alle necessità sceniche. Poi... beh, Miike è uno che ci tiene alla costruzione di immagini, e quello che cerca di fare è costruire delle location che permettano l'inquadratura ad effetto, riuscendo fin dalle prime immagini a farti capire che anche se fosse un film su commissione, lui ci sa fare lo stesso (la classe piena di corpi morti senza testa e perline rosse con il Daruma che spicca è fantastica)

I difetti di questo film sono essenzialmente due. Essendo strutturato a livelli come un videogioco in cui bisogna affrontare un boss, non tutte le prove sono egualmente interessanti e la struttura ripetitiva (con due personaggi principali che, si sa, arriveranno almeno contro il boss finale) aiutano a sotterrare il ritmo nelle sequenze scritte peggio.
Inoltre Miike stesso ci mette del suo; il lungo finale con le matrioske (che poi si rivelerà solo essere il primo di almeno altri due finali) è tirato per le lunghe, come se la lentezza fosse sinonimo di tensione; un difetto, questo che è tutto imputabile al regista.

Per chi conosce e apprezza Miike questa non sarà l'opera più anarchica e neppure la più strana; anche se qui, più che mai, ci si chiede dove sta il limite fra il genio che se ne fotte della logica per costruire macchinari (e inquadrature) perfetti e dove la presa per il culo. Per me il film funziona, lungaggini a parte è quasi perfetto e la sequenza iniziale del Daruma è da manuale, per ora non chiedo di più.

lunedì 4 dicembre 2017

Happy end - Michael Haneke (2017)

(Id.)

Visto al cinema.

A causa di un "incidente" con dei farmaci la madre di una ragazzina viene ricoverata. La ragazzina andrà a vivere col padre risposato. Lui però vive in un ampio caseggiato con l'anziano padre degli istinti suicidi, la sorella che deve affrontare una crisi aziendale, il nipote con problemi di accettazione e frequenti squilibri. Il padre stesso intrattiene una relazione telematica estremamente sguaiata.

Come spesso succede, Haneke, si occupa delle disfunzioni della borghesia, degli istinti segreti e del demone che sono le persone che bruciano per autocombustione. Qui, per la prima volta il suo punto di vista si amplia su una serie corale di co-protagonisti.
Haneke ci ha, da sempre, giocato in maniera pesantissima con i suoi protagonisti e con lo spettatore, accanendosi su entrambi, riuscendo genuinamente a creare film fastidiosi per chi li guarda e distruttivi per i suoi personaggi. Ecco, in questo caso, semplicemente, fallisce su entrambi i fronti.
A causa del cast troppo ampio la foga distruttiva viene troppo diluita e l'apparenza pulita che nasconde vite così torbide ne risulta edulcorata; non succedono apocalissi private come nei film precedenti, solo idiosincrasie, problemi, ansie. In un film in cui l'impatto sui personaggi è così superficiale anche lo spettatore si ritrova molto meno segnato; non c'è mai vero fastidio, mai vera ansia, non c'è mai il classico pugno nello stomaco hanekiano.
Per essere precisi, qui il problema non è la scrittura, anzi, la trama si muove con la consueta calma autoriale senza mai annoiare o scadere nel troppo lento. La sceneggiatura utilizza diversi sistemi di comunicazione (c'è molto digitale in questo film) e avverti di cambi improvvisi senza perdere tempo in spiegazioni; allo spettatore il compito di decifrare ciò che è successo o che potrebbe essere successo. Il problema, si diceva, non è la trama, ma il soggetto in sé.

In questo film, ben girato e magnificamente curato, non c'è la consueta malignità del regista austriaco, non c'è mai vero dolore e, addirittura, c'è un pelo di benignità eccessiva. Un film ben condotto, ma innocuo: l'antitesi di ogni altro film di Haneke.

domenica 3 dicembre 2017

Lamb - Yared Zeleke (2015)

(Id.)

Visto al Festival di cinema africano, in lingua originale sottotitolato.

Un ragazzino, orfano di madre, deve separarsi anche dal padre che cercherà fortuna nella capitale. Verrà tenuto da un loro cugino. La convivenza sarà difficile, tra spinte reazionarie e innovatrici delle due figlie e il suo affetto traslato dalla madre alla pecora che le era appartenuta, sarà rapidamente inviso al nuovo capo famiglia.

Film di formazione piuttosto semplice che fa della propria linearità un vanto. La scrittura è sicuramente alle prime armi, eppure lascia pochissimo al caso (molti i dettagli e i riferimenti interni alla trama sparsi durante lo svolgimento) e riesce a ottenere un effetto finale di compattezza invidiabile. Purtroppo tutti questi pregi vengono appesantiti da una mancanza di ritmo che sembra una precisa scelta piuttosto che una leggerezza; qualunque ne sia l'origine e l'intento il film ne viene gravato e non acquista profondità.

Il vero punto di forza, però, è tutto nelle immagini. Una fotografia molto curata dai colori accesi che si dilunga in frequenti campi lunghissimi del verdeggiante altopiano etiope; immagini che sembrano dipinti a cui si aggiungono alcune sequenze in interni in cui, la prima scena, viene costruita con la stessa plasticità e l'uso degli spazi dei quadri.

Presentato a Cannes, opera prime di Zeleke, più che essere un film pienamente soddisfacente fa ben sperare per il futuro.

venerdì 1 dicembre 2017

The square - Ruben Östlund (2017)

(Id.)

Visto al cinema.

Il curatore del museo di arte moderna e contemporanea di Stoccolma viene derubato di portafoglio e cellulare. Per cercare di ritornarne in possesso manderà lettere minatorie in un intero palazzo riottenendo la refurtiva, ma scatenando le ire di un ragazzino; nel frattempo riuscirà a prestare meno attenzione alla famiglia (le figlie) e al lavoro (la disastrosa campagna pubblicitaria per la personale di un'artista argentina).

Non conosco il cinema di Östlund, quindi definire una linea generale al di là dell'opera appena uscita è impossibile; ma in questo film ho ritrovato diversi punti di contatto con il cinema del connazionale Andersson: la stessa cura maniacale dell'immagine con una fotografia nitidissima, lo stesso gusto per il paradosso, un umorismo fatto di situazioni (le cose che succedono nel modo in cui succedono sono divertenti, nonostante non ci siano battutte o gag slapstick) e una ricerca del corpo e del viso degli attori per trasmettere il mood del film (in Andersson è lil gusto per il freak, qui invece c'è una bellezza ostentata nell'upper class e una malagrazia diffusa fra gli abitanti di serie B di Stoccolma).
Le congiunture però si chiudono qui e iniziano i punto autonomi.
Östlund cerca la critica sociale attraverso il paradosso e l'ironia grottesca; un divertimento nel mettere in situazioni fastidiose (alcune che infastidiscono il pubblico stesso) i suoi personaggi (escludendo chi viene attaccato, anche accidentalmente, dai protagonisti) che cerchino di svelare l'assurdo e l'ipocrisia non tanto della singola persona, quanto del sistema di accettazione delle convenzioni (non a caso l'intero film viene ambientato nel mondo dell'arte contemporanea che, come detto nell'intervista iniziale, è di fatto una serie di convenzioni silenziosamente accettate).

Una costruzione perfetta, tirata a lucido con una classe incredibile (alcune soluzioni dinamiche della macchina da presa sono da applausi) e alcune sequenze che rasentano il genio (l'happening artistico in cui durante la cena raffinata un uomo si finge un gorilla con esplosioni di bestialità da ambo le parti) dovrebbero supportare una critica sociale ampissima (l'arte contemporanea, l'upper class, il marketing, l'osssessione dle politicamente corretto, la libertà d'espressione, ecc...); ovviamente l'intento non funziona completamente e il film sembra aver girato a vuoto in più di un momento. Con meno tracotanza e un minutaggio più contenuto avrebbe potuto essere un cult scintillante.