(Rosmery's baby)
Visto in Dvx.
Film epocale dalla trama, purtroppo, troppo nota, che si può trovare qui, anche troppo dettagliata.
Pur essendo il film più famoso di Polanski rappresenta però la sua seconda prova di thriller allucinatorio dopo "Repulsion" e il perfezionamento del perturbante da appartamento che sarà il suo stile principale (drammi o thriller ambientati in spazi chiusi e spesso limitati a quello; per chi vuole esempi va da sé citare "L'inquilino del terzo piano", ma fatto salvo gli altri film degli anni '70 sono quasi tutti da camera).
Il film riesce a sbandierare il suo satanismo quasi subito in maniera sfacciata (i precedenti avvenuti nella casa nuova) immergendoli in un contesto borghese classicissimo e depotenziandoli del tutto. Questa sarà solo la premessa. Polanski giocherà tutto il tempo per accumulo di tensione partendo da livello volontariamente azzerato.
L'effetto sarà di lentezza iniziale, ma di costante incremento fino al parossistico finale (dove la tensione viene sciolta dall'eccesso di pericolo).
Se in "Repulsion" Polanski giocava a creare tensione con il sonoro, qui lavora molto di immagini; pur mostrando degli occhi satanici (dettaglio inutile) la vera ansia arriva con l'inquadratura sfocata di un uomo col soprabito di un certo colore o con il primo piano di un armadio, lavorando sul significato dei dettagli fin dall'inizio e seminando "cose" che verranno di volta in volta riviste sotto un'ottica nuova.
Il film riesce anche a creare uno scarto rispetto ai soliti thriller per la protagonista, non una scream queen che tenta una costante fuga inefficace, ma una madre che da metà film in poi si rivelerà volontariamente coinvolta per cercare di sapere che ne è stato del pargolo, un personaggio vittimizzato,ma autonomo, impaurito, ma cosciente della propria situazione (beh, da un certo punto in poi).
Film ancora efficace a distanza di anni per chi avrà la pazienza di farsi guidare con calma dal regista.
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lunedì 23 settembre 2019
lunedì 25 marzo 2019
Barbarella - Roger Vadim (1968)
(Id.)
Visto in Dvx.
Incaricata dal ministro della terra di ritrovare uno scienziato, Barbarella si ritroverà a dover affrontare personaggi e mondi disperati, ma sensualissimi.
La trama è solo un pretesto per permettere allo spettatore di godere della bellezza della Fonda; tutto il resto del film è un surplus.
Non stupisce quindi la storia pretestuosa e sfilacciata e neppure la noia che afferra in molti momenti, né tanto meno la presenza di importanti WTF più o meno voluti.
Quello che invece stupisce è l'impegno incredibile nella creazione di un mondo tremendamente kitsch, ma il più possibile dettagliato; le idee estetiche sono ovunque, ardite o sceme, ma coerenti, creando un catalogo di splendido cattivo gusto che fa invidia e più il film prosegue, più sorprende la capacità inventiva attorno ad un tema comune.
Oltre alla protagonista, dunque, c'è bisogno di un encomio speciale alle maestranze che hanno lavorato nelle retrovia a cui si deve il merito (condiviso anche con la follia di De Laurentis) di aver creato un cult.
Visto in Dvx.
Incaricata dal ministro della terra di ritrovare uno scienziato, Barbarella si ritroverà a dover affrontare personaggi e mondi disperati, ma sensualissimi.
La trama è solo un pretesto per permettere allo spettatore di godere della bellezza della Fonda; tutto il resto del film è un surplus.
Non stupisce quindi la storia pretestuosa e sfilacciata e neppure la noia che afferra in molti momenti, né tanto meno la presenza di importanti WTF più o meno voluti.
Quello che invece stupisce è l'impegno incredibile nella creazione di un mondo tremendamente kitsch, ma il più possibile dettagliato; le idee estetiche sono ovunque, ardite o sceme, ma coerenti, creando un catalogo di splendido cattivo gusto che fa invidia e più il film prosegue, più sorprende la capacità inventiva attorno ad un tema comune.
Oltre alla protagonista, dunque, c'è bisogno di un encomio speciale alle maestranze che hanno lavorato nelle retrovia a cui si deve il merito (condiviso anche con la follia di De Laurentis) di aver creato un cult.
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venerdì 3 agosto 2018
Gli eredi di King Kong - Ishirô Honda (1968)
(Kaijû sôshingeki)
Visto qui, doppiato in inglese.
Nel 1999 tutti i kauiju sono stati portati su un isola nel Pacifico e trattenuto dall'avanguardistica tecnologia raggiunta. Purtroppo gli alieni ci mettono (di nuovo) lo zampino; si impossessano dei tecnici che lavora sull'isola e, controllando le fiere, distruggono le capitali mondiali.
Film reunion di tutti (letteralmente tutti) i kaiju della Toho sin qui creati, dove quelli in primo piano saranno Godzilla, Angilas e Gorosaurus che si scontreranno con l'eterno cattivo Ghidorah.
Pensato come capitolo finale del franchise mostra, infatti, lo showdown definitivo con uno scontro non particolarmente dinamico, ma tra i più violenti di sempre (ricordandoci sempre che stiamo parlando di mostri di gommapiuma) con colpi efferati dati per fare del male e non per temporeggiare, la presenza (per la prima volta!) di sangue e con la conclusione sulla morte dell'antagonista.
Tutto questo viene realizzato rimasticando la vecchia idea degli alieni che controllano umani e mostri, senza inventare nulla, ma cercando di cavalcare l'avventura come nei due capitoli precedenti.
Già, perché il cambiamento più importante è il ritorno alla regia di Honda dopo la doppietta di Fukuda. Al cambio dietro la macchina da presa segue anche un maggior interesse sui mostri e i loro effetti distruttivi più che l'occhio agli esseri umani e le loro avventure (che comunque sono almeno il 50% del film), ma soprattutto fa seguito un cambio di ritmo importante.
A onor del vero devo ammettere di non aver seguito perfettamente il film a causa della noia; tolta l'esaltazione iniziale di vedere tutti i kaiju insieme il resto mi è sembrato un soporifero viaggio nel già visto; potrei eccedere in negatività dato che con il progredire del minutaggio mi sono ritrovato sempre più distratto.
Film pensato per essere la conclusione, fu invece un tale successo (!) da convincere la Toho a proseguire nella serie.
PS: il King Kong del titolo italiano è un MacGuffin per attirare spettatore, ovviamente non compare.
Visto qui, doppiato in inglese.
Nel 1999 tutti i kauiju sono stati portati su un isola nel Pacifico e trattenuto dall'avanguardistica tecnologia raggiunta. Purtroppo gli alieni ci mettono (di nuovo) lo zampino; si impossessano dei tecnici che lavora sull'isola e, controllando le fiere, distruggono le capitali mondiali.
Film reunion di tutti (letteralmente tutti) i kaiju della Toho sin qui creati, dove quelli in primo piano saranno Godzilla, Angilas e Gorosaurus che si scontreranno con l'eterno cattivo Ghidorah.
Pensato come capitolo finale del franchise mostra, infatti, lo showdown definitivo con uno scontro non particolarmente dinamico, ma tra i più violenti di sempre (ricordandoci sempre che stiamo parlando di mostri di gommapiuma) con colpi efferati dati per fare del male e non per temporeggiare, la presenza (per la prima volta!) di sangue e con la conclusione sulla morte dell'antagonista.
Tutto questo viene realizzato rimasticando la vecchia idea degli alieni che controllano umani e mostri, senza inventare nulla, ma cercando di cavalcare l'avventura come nei due capitoli precedenti.
Già, perché il cambiamento più importante è il ritorno alla regia di Honda dopo la doppietta di Fukuda. Al cambio dietro la macchina da presa segue anche un maggior interesse sui mostri e i loro effetti distruttivi più che l'occhio agli esseri umani e le loro avventure (che comunque sono almeno il 50% del film), ma soprattutto fa seguito un cambio di ritmo importante.
A onor del vero devo ammettere di non aver seguito perfettamente il film a causa della noia; tolta l'esaltazione iniziale di vedere tutti i kaiju insieme il resto mi è sembrato un soporifero viaggio nel già visto; potrei eccedere in negatività dato che con il progredire del minutaggio mi sono ritrovato sempre più distratto.
Film pensato per essere la conclusione, fu invece un tale successo (!) da convincere la Toho a proseguire nella serie.
PS: il King Kong del titolo italiano è un MacGuffin per attirare spettatore, ovviamente non compare.
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venerdì 27 ottobre 2017
Se... - Lindsay Anderson (1968)
(If...)
Visto in Dvx.
La vita in un collegio inglese passa fra le lezioni, piccoli atti di bullismo, prevaricazioni dei superiori, piccoli atti di violenza fisica o psicologica, alcool, omosessualità più o meno latente. Sempre uguale a sé stesso, almeno fino a quando uno degli studenti non viene messo sotto pressione e decide di fare una strage (molto prima di "Elephant").
Nella lunghissima lista di film che ho sempre odiato pur senza averli mai visti, vanno annoverati di default tutti i film ambientati nei collegi e i film del '68 (come tipologia, non come anno d'uscita). Ovviamente, come per chiunque sia in qualche modo razzista, la mia vita è costellata di scoperte incredibili e ripensamenti insperati (come il magnifico "L'attimo fuggente"); ciononostante, non imparo mai e continuo con il mio disprezzo.
Tutto questo per dire che ho evitato attivamente di vedere "Se..." per anni, fino ad ora. E ora mi tocca ammettere che è un buon film.
Questo è un film figlio del suo tempo, con una critica oramai banalotta all'istituzione più borghese e rigida esistente in UK e il finale è uno dei scioglimenti più scontati per quel periodo (a livello di contenuti).
Al netto di tutto questo, rimane un film godibile, con attori estremamente in parte (tutti) e un'interessante commistione di parti totalmente realistiche con altre solo verosimili con punte surreali; oltre al noto uso non convenzionale (ma mi pare neppure troppo razionale) di una fotografia in bianco e nero che si inserisce in un film altrimenti a colori.
La regia morbida di Anderson è assolutamente adatta a sottolineare una vita quotidiana collegiale, così come non puntare troppa enfasi su un finale già di per sé enfatico.
Visto in Dvx.
La vita in un collegio inglese passa fra le lezioni, piccoli atti di bullismo, prevaricazioni dei superiori, piccoli atti di violenza fisica o psicologica, alcool, omosessualità più o meno latente. Sempre uguale a sé stesso, almeno fino a quando uno degli studenti non viene messo sotto pressione e decide di fare una strage (molto prima di "Elephant").
Nella lunghissima lista di film che ho sempre odiato pur senza averli mai visti, vanno annoverati di default tutti i film ambientati nei collegi e i film del '68 (come tipologia, non come anno d'uscita). Ovviamente, come per chiunque sia in qualche modo razzista, la mia vita è costellata di scoperte incredibili e ripensamenti insperati (come il magnifico "L'attimo fuggente"); ciononostante, non imparo mai e continuo con il mio disprezzo.
Tutto questo per dire che ho evitato attivamente di vedere "Se..." per anni, fino ad ora. E ora mi tocca ammettere che è un buon film.
Questo è un film figlio del suo tempo, con una critica oramai banalotta all'istituzione più borghese e rigida esistente in UK e il finale è uno dei scioglimenti più scontati per quel periodo (a livello di contenuti).
Al netto di tutto questo, rimane un film godibile, con attori estremamente in parte (tutti) e un'interessante commistione di parti totalmente realistiche con altre solo verosimili con punte surreali; oltre al noto uso non convenzionale (ma mi pare neppure troppo razionale) di una fotografia in bianco e nero che si inserisce in un film altrimenti a colori.
La regia morbida di Anderson è assolutamente adatta a sottolineare una vita quotidiana collegiale, così come non puntare troppa enfasi su un finale già di per sé enfatico.
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venerdì 18 agosto 2017
Teorema - Pier Paolo Pasolini (1968)
(Id.)
Visto in Dvx.
In una famiglia borghese ben strutturata entra un nuovo personaggio. Ospitato dal figlio, senza fare quasi nulla, sarà il catalizzatore di pulsioni represse e ansie di tutta la famiglia che, dopo la sua partenza, cercherà una via di fuga, un modo per nascondersi a sé stessi o una sorta di redenzione. Ovviamente senza riuscirci (solo la donna di servizio raggiungerà la santità, per gli altri, troppo altolocati, non ci sarà possibilità di salvezza).
I film a tesi non mi hanno mai entusiasmato e il 1968 in queste cose non aiuta. Un intero film sull'ipocrisia, la perdizione e l'impossibilità di salvezza della borghesia mi sembra veramente troppo (e nello specifico, anche invecchiato maluccio)... tuttavia Pasolini non si limita a essere impegnato, ma è anche un artista elegante e intelligente. Se il film nel contenuto è più enfatico (e urlato da un pulpito) che altro, a livello strutturale è ottimo; poco parlato, ma molto fluido, riesce a fare a meno dei dialoghi pur mantenendo un'espressività enorme (anzi, quando arrivano i soliloqui dei personaggi a metà film il mood crolla miseramente sotto la pesantezza di quegli intellettualismi inutili).
E se i film a tesi, per definizioni, pontificano dando ragione a sé stessi, Pasolini non fa eccezione, ma si concede un'attenzione all'allegoria che altri si sognano; la fine dei personaggi, al di là del significato, hanno qualcosa di affascinante, ma sopratutto la donna di servizio e il padre di famiglia hanno in sé qualcosa di epico, rispettivamente in positivo e in negativo.
Inoltre non si può far finta di non notare un'equilibrio nelle inquadrature che traspare da ogni fotogramma che venga estrapolato.
Visto in Dvx.
In una famiglia borghese ben strutturata entra un nuovo personaggio. Ospitato dal figlio, senza fare quasi nulla, sarà il catalizzatore di pulsioni represse e ansie di tutta la famiglia che, dopo la sua partenza, cercherà una via di fuga, un modo per nascondersi a sé stessi o una sorta di redenzione. Ovviamente senza riuscirci (solo la donna di servizio raggiungerà la santità, per gli altri, troppo altolocati, non ci sarà possibilità di salvezza).
I film a tesi non mi hanno mai entusiasmato e il 1968 in queste cose non aiuta. Un intero film sull'ipocrisia, la perdizione e l'impossibilità di salvezza della borghesia mi sembra veramente troppo (e nello specifico, anche invecchiato maluccio)... tuttavia Pasolini non si limita a essere impegnato, ma è anche un artista elegante e intelligente. Se il film nel contenuto è più enfatico (e urlato da un pulpito) che altro, a livello strutturale è ottimo; poco parlato, ma molto fluido, riesce a fare a meno dei dialoghi pur mantenendo un'espressività enorme (anzi, quando arrivano i soliloqui dei personaggi a metà film il mood crolla miseramente sotto la pesantezza di quegli intellettualismi inutili).
E se i film a tesi, per definizioni, pontificano dando ragione a sé stessi, Pasolini non fa eccezione, ma si concede un'attenzione all'allegoria che altri si sognano; la fine dei personaggi, al di là del significato, hanno qualcosa di affascinante, ma sopratutto la donna di servizio e il padre di famiglia hanno in sé qualcosa di epico, rispettivamente in positivo e in negativo.
Inoltre non si può far finta di non notare un'equilibrio nelle inquadrature che traspare da ogni fotogramma che venga estrapolato.
Pur senza citazioni dirette, questo film è il padre putativo della lunga serie di
opere in cui un personaggio nuovo si inserisce e fa esplodere una
famiglia (gli ultimi due che mi vengono in mente, tutti e due
giapponesi, sono ad esempio "Visitor Q" o "Cold fish", quest'ultimo con un personaggio
che lavora dall'esterno).
venerdì 2 giugno 2017
Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l'amico misteriosamente scomparso in Africa? - Ettore Scola (1968)
(Id.)
Visto in Dvx.
Un imprenditore italiano parte per l'Africa portoghese (!) alla ricerca del cognato apparentemente scomparso mesi prima; accompagnato dal fido ragioniere sarà costretto a un continuo peregrinare in un inseguimento a distanza delle tracce (e dei depistaggi) lasciati dal parente. Trovatolo sarà costretto a valutare se il ritorno a casa sia davvero la scelta da preferire.
Visto in Dvx.
Un imprenditore italiano parte per l'Africa portoghese (!) alla ricerca del cognato apparentemente scomparso mesi prima; accompagnato dal fido ragioniere sarà costretto a un continuo peregrinare in un inseguimento a distanza delle tracce (e dei depistaggi) lasciati dal parente. Trovatolo sarà costretto a valutare se il ritorno a casa sia davvero la scelta da preferire.
Filmetto più simpatico che divertente di uno Scola (ma alla sceneggiatura ci sono pure Age&Scarpelli) che vorrebbe già essere fustigatore degli italici costumi, ma riesce appena a graffiarne la superficie e riempie il resto di luoghi comuni, idee abusate e un Sordi che gigioneggia senza freni (anzi, macchiettistico standard, deve aver impostato il pilota automatico e non aggiunge niente al film).
Quello che viene maggiormente fuori è un film sull'Africa (l'Africa ovviamente, non una nazione specifica) con lo sguardo esotista del provinciale italiano che riempie tutti di buoni selvaggi rinoceronti e struzzi, missioni cattoliche e pasta cucinata in mezzo alla savana (e quasi tutti che parlano un poco di italiano! E tutti i personaggi minimamente utili alla vicenda sono bianchi).
Di positivo si salva solo (ma è grandiosa) la figura del ragioniere; un Blier impeccabile che fa da spalla comica a Sordi permettendogli di strappare qualche sorriso, ma che anche da solo riesce a tenere il film verso il versante della commedia.
Quello che viene maggiormente fuori è un film sull'Africa (l'Africa ovviamente, non una nazione specifica) con lo sguardo esotista del provinciale italiano che riempie tutti di buoni selvaggi rinoceronti e struzzi, missioni cattoliche e pasta cucinata in mezzo alla savana (e quasi tutti che parlano un poco di italiano! E tutti i personaggi minimamente utili alla vicenda sono bianchi).
Di positivo si salva solo (ma è grandiosa) la figura del ragioniere; un Blier impeccabile che fa da spalla comica a Sordi permettendogli di strappare qualche sorriso, ma che anche da solo riesce a tenere il film verso il versante della commedia.
Per essere di Scola manca tutto, non
c'è cattiveria o cinismo, ma manca anche la poesia.
Direi che è per completisti di Sordi
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venerdì 12 maggio 2017
Un uomo a nudo - Frank Perry, Sydney Pollack (1968)
(The swimmer)
Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.
Un impresario teatrale (Lancaster) va da alcuni vicini (spieghiamo che stanno su una serie di colline, ognuno con la sua villa, ognuno con la sua piscina), fa un bagno in piscina e gli viene voglia di tornare a casa nuotando. Ovviamente non può farlo in maniera continuata, ma in un senso più da arte contemporanea, decide di recarsi di casa in casa, fare un tuffo in piscina fino a giungere alla propria magione. Lungo il percorso incontrerà persone che faranno affiorare ricordi o che smuoveranno sentimenti in maniera del tutto inaspettata.
Un film on the road... ma fatto di piscine, ma anche un bildungsroman in negativo, dove lo svolgersi degli eventi rende più chiaro lo squallore della vita attuale del protagonista, di fatto aumenta in consapevolezza, ma diviene una persona peggiore.
La trama mostra come a ogni step la vita del protagonista cambi di prospettiva: sul proprio passato (i fatti del passato i rapporti ormai finiti), la propria famiglia, i propri rapporti sociali e anche su sé stesso. Il tutto in un climax quasi perfetto di tensione fra Lancaster e i personaggi che incontra oltre a una rappresentazione allegorica del tempo atmosferico che si modifica con il cambiamento del personaggio. Climax intenso che cambia radicalmente il mood portando il film da un ambiente leggero, solare e spensierato a uno sempre più tragico e psicologicamente pesante.
La cosa ancora più interessante è che il film scandaglia il passato e i sentimente di una persona senza mai bisogno di rifugiarsi nel flashback o in scene madri (ok, a parte quella con l'ex amante, oggettivamente utile, sinceramente troppo lunga), realizzando proprio quello che il (brutto) titolo italiano esprime, l'anatomia della vita di una persona messa completamente a nudo.
La regia si muove bene, senza enfasi, nelle scene principali gioca un po’ con il dinamismo dell’epoca (diversi movimenti, specie circolari e qualche inquadratura costruita in maniera complessa), ma senza mai strafare. Mentre nelle scene di raccordo fra una piscina e l'altra si sbizzarrisce in idee sempre nuove di messa in scena, per evitare la noia della ripetitività.
Dopo essere stato girato venne messo in un angolo per due anni prima di uscire e, una volta portato in sala, fu un fiasco. DI fatto è un film molto interessante e ben realizzato, ma troppo intelligente per avere successo all'epoca con un protagonista di traino come Lancaster che poteva promettere tutto un altro genere.
PS: regia non accreditata anche di Sydney Pollack che conclude il lavoro iniziato da Perry, ma fatto fuori prima della fine delle riprese.
Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.
Un impresario teatrale (Lancaster) va da alcuni vicini (spieghiamo che stanno su una serie di colline, ognuno con la sua villa, ognuno con la sua piscina), fa un bagno in piscina e gli viene voglia di tornare a casa nuotando. Ovviamente non può farlo in maniera continuata, ma in un senso più da arte contemporanea, decide di recarsi di casa in casa, fare un tuffo in piscina fino a giungere alla propria magione. Lungo il percorso incontrerà persone che faranno affiorare ricordi o che smuoveranno sentimenti in maniera del tutto inaspettata.
Un film on the road... ma fatto di piscine, ma anche un bildungsroman in negativo, dove lo svolgersi degli eventi rende più chiaro lo squallore della vita attuale del protagonista, di fatto aumenta in consapevolezza, ma diviene una persona peggiore.
La trama mostra come a ogni step la vita del protagonista cambi di prospettiva: sul proprio passato (i fatti del passato i rapporti ormai finiti), la propria famiglia, i propri rapporti sociali e anche su sé stesso. Il tutto in un climax quasi perfetto di tensione fra Lancaster e i personaggi che incontra oltre a una rappresentazione allegorica del tempo atmosferico che si modifica con il cambiamento del personaggio. Climax intenso che cambia radicalmente il mood portando il film da un ambiente leggero, solare e spensierato a uno sempre più tragico e psicologicamente pesante.
La cosa ancora più interessante è che il film scandaglia il passato e i sentimente di una persona senza mai bisogno di rifugiarsi nel flashback o in scene madri (ok, a parte quella con l'ex amante, oggettivamente utile, sinceramente troppo lunga), realizzando proprio quello che il (brutto) titolo italiano esprime, l'anatomia della vita di una persona messa completamente a nudo.
La regia si muove bene, senza enfasi, nelle scene principali gioca un po’ con il dinamismo dell’epoca (diversi movimenti, specie circolari e qualche inquadratura costruita in maniera complessa), ma senza mai strafare. Mentre nelle scene di raccordo fra una piscina e l'altra si sbizzarrisce in idee sempre nuove di messa in scena, per evitare la noia della ripetitività.
Dopo essere stato girato venne messo in un angolo per due anni prima di uscire e, una volta portato in sala, fu un fiasco. DI fatto è un film molto interessante e ben realizzato, ma troppo intelligente per avere successo all'epoca con un protagonista di traino come Lancaster che poteva promettere tutto un altro genere.
PS: regia non accreditata anche di Sydney Pollack che conclude il lavoro iniziato da Perry, ma fatto fuori prima della fine delle riprese.
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lunedì 21 marzo 2016
Yabu no naka no kuroneko - Kaneto Shindo (1968)
(Id. AKA Kuroneko, AKA Black cat)
Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.
La madre e la moglie di un soldato vivono da sole in campagna; vengono assalite da un gruppo di samurai che le violenta, le uccide e ne brucia la casa. Le due donne per vendetta diventano fantasmi con il preciso scopo (ma è più un giuramento con una qualche entità soprannaturale) di uccidere e bere il sangue di ogni samurai che riescano ad adescare. Sfortunatamente per loro il figlio/marito delle due torna dalla battaglia da eroe e viene inviato a combattere il terribile mostro che sta mietendo le fila dei samurai.
Dopo "Onibaba" Shindo ritorna in quelle atmosfere. Un Giappone medievale dove la violenza sembra essere imperante; figure di samurai smitizzate in pochi minuti, una coppia di donne sanguinarie; storia d'orrore e di dolore nel contempo. Beh per chi come me sperava in un bis di quel piccolo gioiello meglio essere chiari subito; non siamo neanche vicini.
Qui la trama è, forse, potenzialmente più interessante che nel precedente, ma a perdere è il ritmo che, dopo i primi 20/30 minuti si fa latitante, le scene ripetitive e nel finale si deraglia verso l'incomprensibile (e abbisogna di spiegoni continui).
...Però, come già nel precedente, a vincere è la messa in scena.
La pria sequenza è una secca rappresentazione realista di una terribile violenza realizzata senza parole e senza nessun intento shockante, con una regia misurata e fredda. Ma da li in poi comincia un film che tende verso l'espressionismo.
Inoltre c'è un piccolo wire-fu in nuce con i fantasmi che si sbizzariscono in volteggi.
Anche dal punto div ista estetico questo "Kuroneko" perde la sfida con "Onibaba", ma rimane il principale punto di interesse.
Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato in inglese.
La madre e la moglie di un soldato vivono da sole in campagna; vengono assalite da un gruppo di samurai che le violenta, le uccide e ne brucia la casa. Le due donne per vendetta diventano fantasmi con il preciso scopo (ma è più un giuramento con una qualche entità soprannaturale) di uccidere e bere il sangue di ogni samurai che riescano ad adescare. Sfortunatamente per loro il figlio/marito delle due torna dalla battaglia da eroe e viene inviato a combattere il terribile mostro che sta mietendo le fila dei samurai.
Dopo "Onibaba" Shindo ritorna in quelle atmosfere. Un Giappone medievale dove la violenza sembra essere imperante; figure di samurai smitizzate in pochi minuti, una coppia di donne sanguinarie; storia d'orrore e di dolore nel contempo. Beh per chi come me sperava in un bis di quel piccolo gioiello meglio essere chiari subito; non siamo neanche vicini.
Qui la trama è, forse, potenzialmente più interessante che nel precedente, ma a perdere è il ritmo che, dopo i primi 20/30 minuti si fa latitante, le scene ripetitive e nel finale si deraglia verso l'incomprensibile (e abbisogna di spiegoni continui).
...Però, come già nel precedente, a vincere è la messa in scena.
La pria sequenza è una secca rappresentazione realista di una terribile violenza realizzata senza parole e senza nessun intento shockante, con una regia misurata e fredda. Ma da li in poi comincia un film che tende verso l'espressionismo.
Inoltre c'è un piccolo wire-fu in nuce con i fantasmi che si sbizzariscono in volteggi.
Anche dal punto div ista estetico questo "Kuroneko" perde la sfida con "Onibaba", ma rimane il principale punto di interesse.
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mercoledì 28 gennaio 2015
Il leone d'inverno - Anthony Harvey (1968)
(The lion in winter)
Visto in Dvx.
Re Enrico II deve decidere a quale dei suoi tre figli lasciare il regno dopo la sua morte, due li odio (e ne è odiato di rimando) il terzo è un idiota. Organizza quindi un Natale in famiglia, con i tre successori e la moglie (da anni reclusa in un castello in Inghilterra) per discutere (e litigare) sulla successione.
Opera teatrale magnifica, dall'andamento forsennato e dallo stampo sulfureo, un gioco di intrighi di palazzo continui, spesso poco chiari, ma sempre piuttosto aggressivi e dolorosi per una delle parti in gioco. Un film fatto di lunghi duelli verbali (non dialoghi; dire che quelli sono dialoghi è un eufemismo) e di prove di recitazione sopra le righe.
La coppia di attori protagonisti è da applausi a priori, un O'Toole e una Hepburn che litigano per stabilire chi dei due riesce ad essere più estremo senza scadere nel macchiettistico. Tra i figli c'è un giovane e oscuro Hopkins già bravo anche se, forse, un pò troppo carico.
Ovviamente la regia si appoggia tutta sugli attori (e non potrebbe fare altrimenti), indugiando sui volti e sui gesti più che sui luoghi.
Risulta evidente fin dall'inizio che il film può finire solo con una tragedia o con un nulla di fatto; ma la scena finale del saluto tra i due protagonisti mi sembra rivelatrice, alla fine si è trattato solo di un gioco, un lungo gioco distruttivo fatto da due giocatori troppo competitivi.
Visto in Dvx.
Re Enrico II deve decidere a quale dei suoi tre figli lasciare il regno dopo la sua morte, due li odio (e ne è odiato di rimando) il terzo è un idiota. Organizza quindi un Natale in famiglia, con i tre successori e la moglie (da anni reclusa in un castello in Inghilterra) per discutere (e litigare) sulla successione.
Opera teatrale magnifica, dall'andamento forsennato e dallo stampo sulfureo, un gioco di intrighi di palazzo continui, spesso poco chiari, ma sempre piuttosto aggressivi e dolorosi per una delle parti in gioco. Un film fatto di lunghi duelli verbali (non dialoghi; dire che quelli sono dialoghi è un eufemismo) e di prove di recitazione sopra le righe.
La coppia di attori protagonisti è da applausi a priori, un O'Toole e una Hepburn che litigano per stabilire chi dei due riesce ad essere più estremo senza scadere nel macchiettistico. Tra i figli c'è un giovane e oscuro Hopkins già bravo anche se, forse, un pò troppo carico.
Ovviamente la regia si appoggia tutta sugli attori (e non potrebbe fare altrimenti), indugiando sui volti e sui gesti più che sui luoghi.
Risulta evidente fin dall'inizio che il film può finire solo con una tragedia o con un nulla di fatto; ma la scena finale del saluto tra i due protagonisti mi sembra rivelatrice, alla fine si è trattato solo di un gioco, un lungo gioco distruttivo fatto da due giocatori troppo competitivi.
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Timothy Dalton
mercoledì 26 marzo 2014
Blackmail is my life - Kinji Fukasaku (1968)
(Kyôkatsu koso waga jinsei; AKA Blackmail is my business)
Visto in DVD.
Un ragazzo cerca di farsi strada nell'opprimente mondo del lavoro giapponese; per fatalità e per voglia di uscire dal ristorante dove serve come camerieri, si mette a ricattare le persone. Questa attività, organizzata in maniera professionale farà vivere a lui e al suo gruppo di "collaboratori" una serie di avventure fino allo scontro finale con un potente boss.
Fukasaku nel '68 venne assunto per fare velocemente un film di gangster che all'epoca ancora impazzavano; ma non si tratta più degli yakuza dei decenni prima, fatti di regole ed onore; neppure si tratta del crudo e adrenalinico resoconto dei bassifondi che lo stesso Fukasaku creerà nel decennio successivo; qui è qualcosa di diverso.
Da un punto di vista di contenuti, il tema è trattato con un'ironia che si stempererà nel dramma solo nella seconda parte (ma che nel finale tornerà in maniera ancora più aggressiva), il tema è trattato con salti continui nel passato con flashback ampi o brevissimi, che veicolano informazioni nuove o reiterano i pensieri dei personaggi o fatti già mostrati; i cattivi sono sostanzialmente tutti, ma risultano buoni i protagonisti solo per il ritmo scanzonato dei loro misfatti.
Dalla parte della regia Fukasaku semplicemente sperimenta a 360°. Al di là del ritmo sostenuto che sarà spesso una sua caratteristica, qui fa di tutto. In un film a colori vi sono inserti in bianco e nero all'inizio dei flashback per sottolineare il salto indietro, ma dissolve nel colore rapidamente per sfruttarne le possibilità. Usa i fermo immagine (pure a sproposito) per fare di tutto; concludono scene, messi in sequenza si sostituiscono a scene di violenza, talvolta riprendono fatti del passato o rappresentano un'intera vicenda. Il protagonista parla direttamente in macchina da presa fuori dalle vicende, durante lo svolgimento dei fatti alcuni personaggi guardano direttamente in maniera "involontaria" (cioè non mostrano di vedere la macchina da presa, ma si mettono in posa davanti ad essa). Utilizza (nel finale) immagini riprese con figuranti involontari.
Al di là dell'ovvio paragone con la nouvelle vague, a me ha spesso ricordato lo Scorsese adrenalinico, estremo e divertito dei suoi migliori film di mafia o del recente "Wolf".
Un film complessivamente eccessivo per idee messe in campo in maniera incontrollata ed imperfetto per una trama che viaggia a episodi disgiunti, che saltano dall'uno all'altro senza molta continuità e per un certo rallentamento. Ma ciononostante un film estremamente valido per chi conosce Fukusaku, ma può essere motivo di interesse anche per chi non lo conosce.
Visto in DVD.
Un ragazzo cerca di farsi strada nell'opprimente mondo del lavoro giapponese; per fatalità e per voglia di uscire dal ristorante dove serve come camerieri, si mette a ricattare le persone. Questa attività, organizzata in maniera professionale farà vivere a lui e al suo gruppo di "collaboratori" una serie di avventure fino allo scontro finale con un potente boss.
Fukasaku nel '68 venne assunto per fare velocemente un film di gangster che all'epoca ancora impazzavano; ma non si tratta più degli yakuza dei decenni prima, fatti di regole ed onore; neppure si tratta del crudo e adrenalinico resoconto dei bassifondi che lo stesso Fukasaku creerà nel decennio successivo; qui è qualcosa di diverso.
Da un punto di vista di contenuti, il tema è trattato con un'ironia che si stempererà nel dramma solo nella seconda parte (ma che nel finale tornerà in maniera ancora più aggressiva), il tema è trattato con salti continui nel passato con flashback ampi o brevissimi, che veicolano informazioni nuove o reiterano i pensieri dei personaggi o fatti già mostrati; i cattivi sono sostanzialmente tutti, ma risultano buoni i protagonisti solo per il ritmo scanzonato dei loro misfatti.
Dalla parte della regia Fukasaku semplicemente sperimenta a 360°. Al di là del ritmo sostenuto che sarà spesso una sua caratteristica, qui fa di tutto. In un film a colori vi sono inserti in bianco e nero all'inizio dei flashback per sottolineare il salto indietro, ma dissolve nel colore rapidamente per sfruttarne le possibilità. Usa i fermo immagine (pure a sproposito) per fare di tutto; concludono scene, messi in sequenza si sostituiscono a scene di violenza, talvolta riprendono fatti del passato o rappresentano un'intera vicenda. Il protagonista parla direttamente in macchina da presa fuori dalle vicende, durante lo svolgimento dei fatti alcuni personaggi guardano direttamente in maniera "involontaria" (cioè non mostrano di vedere la macchina da presa, ma si mettono in posa davanti ad essa). Utilizza (nel finale) immagini riprese con figuranti involontari.
Al di là dell'ovvio paragone con la nouvelle vague, a me ha spesso ricordato lo Scorsese adrenalinico, estremo e divertito dei suoi migliori film di mafia o del recente "Wolf".
Un film complessivamente eccessivo per idee messe in campo in maniera incontrollata ed imperfetto per una trama che viaggia a episodi disgiunti, che saltano dall'uno all'altro senza molta continuità e per un certo rallentamento. Ma ciononostante un film estremamente valido per chi conosce Fukusaku, ma può essere motivo di interesse anche per chi non lo conosce.
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venerdì 15 novembre 2013
Il pianeta delle scimmie - Franklin J. Schaffner (1968)
(Planet of the apes)
Visto in DVD.
Visto in DVD.
Un gruppo di astronauti fa rotta verso
la terra dopo una missione durata qualche secolo (per il tempo della terra, sei
mesi per loro che viaggiano alla velocità della luce). Succede qualcosa, un
qualche incidente durante il sonno indotto per gli ultimi anni luce di viaggio
e si risvegliano lontani dalla terra, nel tempo e nello spazio che riescono a
calcolare. Se questo potrebbe turbare i più quel che è peggio è che si
ritrovano su un pianeta dove l’evoluzione sembra aver favorito le scimmie, che
hanno creato una civiltà dove gli umani (che esistono, ma allo stato
primitivo), sono animali piuttosto disprezzati.
Film iconico di un certo tipo di
fantascienza, che continua ancora oggi ad essere metro di misura e fonte di
ispirazione. L’incipit (così come l’eccezionale, anche se enfatico, finale)
deve tutto alla presenza di Rod Serling creatore di “Ai confini della realtà”
(ci si trova nel bel mezzo di qualcosa che non viene spiegato o giustificato,
se ne prende atto; ci si trova sperduti in un ambiente sconosciuto; le reazioni
emotive sono piuttosto anempatiche perché quel che conta è l’ambiente ed il
modo di rapportarsi con esso; infine c’è il finale a sorpresa tipico della
serie tv.
Detto ciò si è detto poco. Come dimostrò
anni dopo il film tratto da “Ai confini della realtà”, non bastano questi
quattro elementi per fare un lungometraggio sulla falsariga della serie tv. Questo
“Pianeta delle scimmie” vince e convince perché ci aggiunge quel poco d’azione
che serve, crea qualche bel personaggio; ma soprattutto crea un mondo completo,
una cosmogonia fatta di religione, scienza e strutture sociali parallele alle
nostre, che le imitano senza sovrapporcisi del tutto e la cui costituzione
risulta vitale sia per la trama del film, sia per una critica sociale sempre buona.
Il trucco ottimale vinse l’oscar,
mentre i costumi e le location non ebbero la stessa fortuna pur meritando gli
stessi encomi. La regia dinamica riesce a stare in bilico tra il caos tipico di
fine ’60 e uno stile più asciutto a cui il film deve parecchio.
Alla prova del tempo forse gli si può
imputare solo un po di lentezza, tutti gli altri difetti sono una
caratteristica che si può disprezzare, ma che ha il suo perché. In ogni caso, un must ancora godibilissimo.
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venerdì 16 dicembre 2011
Ciao America - Brian De Palma (1968)
(Greetings)
Visto in DVD.
La vita di 3 amici che cercano di evitare di essere mandati in Vietnam, nel frattempo di gingillano tra i vari topoi di quegli anni, la guerra, i complotti governativi, il sesso, i film amatoriali, ecc…
Secondo film di De Palma, è il classico film anni ’60. Completamente libero nella forma completamente caotico nell’assenza di trama. Un film che presenta i giovani che sopravvivono nonostante il governo.
Nella forma, come sempre in quegli anni nell’ambito indie, De Palma ci da dentro a fare ogni cosa che gli passi per la testa fregandosene del fatto che sia effettivamente utile o meno, dalle accelerazioni; a stacchi di montaggio che mostrano il punto di vista opposto della stessa scena, ma palesemente ripreso in un momento diverso; ai cartelli; agli attori che parlano in camera.
Certamente ha dei pregi, dalla storia parallela del ragazzo ossessionato dall’omicidio di JFK, all’appuntamento mostrato in chiave di film porno/muto.
In definitiva un film certamente rilevante all’epoca (e rilevante per creare il De Palma che oggi conosciamo), ma che è irrimediabilmente invecchiato e sena l’attenuante di creare immagini da urlo come invece riesce a fare“Chi sta bussando alla mia porta?”.
Visto in DVD.

Secondo film di De Palma, è il classico film anni ’60. Completamente libero nella forma completamente caotico nell’assenza di trama. Un film che presenta i giovani che sopravvivono nonostante il governo.
Nella forma, come sempre in quegli anni nell’ambito indie, De Palma ci da dentro a fare ogni cosa che gli passi per la testa fregandosene del fatto che sia effettivamente utile o meno, dalle accelerazioni; a stacchi di montaggio che mostrano il punto di vista opposto della stessa scena, ma palesemente ripreso in un momento diverso; ai cartelli; agli attori che parlano in camera.
Certamente ha dei pregi, dalla storia parallela del ragazzo ossessionato dall’omicidio di JFK, all’appuntamento mostrato in chiave di film porno/muto.
In definitiva un film certamente rilevante all’epoca (e rilevante per creare il De Palma che oggi conosciamo), ma che è irrimediabilmente invecchiato e sena l’attenuante di creare immagini da urlo come invece riesce a fare“Chi sta bussando alla mia porta?”.
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lunedì 3 ottobre 2011
Vixen! - Russ Meyer (1968)
(Id.)
Visto in Dvx.
Grazie Wikipedia per la trama.
Siamo in piena sexploitation e Meyer imbastisce un film fatto di alcune inquadrature lodevoli, poche pretese e molte tette; più un finale anticomunista.
Il primo film esplicito del regista che si mette a girare un softcore a tutti gli effetti, ma che gli garba giocare sporco mostrando rapporti saffici, incestuosi e interraziali (gosh! e siamo solo nel 68!)
Tecnicamente parlando Meyer è sempre lui e (specie nella parte iniziale) costruisce una raccolta di sequenze originali e ben fatte (su tutte magnifica l’inquadratura da sotto il letto attraverso il materasso); ma mette il tutto in mano a montatori abituati ad usare la scure.
Il film poi non è la solita storia drammatica/noir con tettone come protagoniste, ma un film erotico vero, che indispettisce chi si aspetta un film tout court (le commedie sexy senza commedia tendono ad essere ripetitive) e frustra le aspettative di chi si attende un film più spinto.
Visto in Dvx.

Siamo in piena sexploitation e Meyer imbastisce un film fatto di alcune inquadrature lodevoli, poche pretese e molte tette; più un finale anticomunista.
Il primo film esplicito del regista che si mette a girare un softcore a tutti gli effetti, ma che gli garba giocare sporco mostrando rapporti saffici, incestuosi e interraziali (gosh! e siamo solo nel 68!)
Tecnicamente parlando Meyer è sempre lui e (specie nella parte iniziale) costruisce una raccolta di sequenze originali e ben fatte (su tutte magnifica l’inquadratura da sotto il letto attraverso il materasso); ma mette il tutto in mano a montatori abituati ad usare la scure.
Il film poi non è la solita storia drammatica/noir con tettone come protagoniste, ma un film erotico vero, che indispettisce chi si aspetta un film tout court (le commedie sexy senza commedia tendono ad essere ripetitive) e frustra le aspettative di chi si attende un film più spinto.
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martedì 26 luglio 2011
Squadra omicidi, sparate a vista! - Don Siegel (1968)
(Madigan)
Visto in DVD.
Visto in DVD.

Un paio di poliziotti d’assalto (di cui Widmark) tentano di arrestare un sospettato che non è di loro competenza, ma a causa di una opportuna donna nuda, non solo si lasciano sfuggiere il sospettato, ma si fanno pure rubare le pistole. Non ci si immagina il casino in centrale; per forza che devono ritrovarlo entro la fine del weekend. Nello stesso tempo il capo della polizia (Fonda) è alle prese con moglie, amante e un dilemma morale, denunciare l’amico di sempre?!
Per carità, sarà anche privo dei cliché del genere poliziesco, però è un prevedibile film in cui due storie appena appena vicine scorrono in parallelo, l’una (quella di Widmark) più interessante dell’altra (che è salvata dalla sola presenza di Fonda). Poche idee, poca maestria, per lo più messa nel montaggio, una serie di musiche terribilmente anni ’70 (anche se siamo nel '68, quindi volendo è un precursore) e quello che si ottiene è un passabile film fatto di poliziotti che vanno contro le regole, ma sono onesti dentro e di amicizie salvate dalla menzogna…
Niente di che, solo un poliziesco anni ’70.
Per carità, sarà anche privo dei cliché del genere poliziesco, però è un prevedibile film in cui due storie appena appena vicine scorrono in parallelo, l’una (quella di Widmark) più interessante dell’altra (che è salvata dalla sola presenza di Fonda). Poche idee, poca maestria, per lo più messa nel montaggio, una serie di musiche terribilmente anni ’70 (anche se siamo nel '68, quindi volendo è un precursore) e quello che si ottiene è un passabile film fatto di poliziotti che vanno contro le regole, ma sono onesti dentro e di amicizie salvate dalla menzogna…
Niente di che, solo un poliziesco anni ’70.
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mercoledì 25 maggio 2011
Il caso Thomas Crown - Norman Jewison (1968)
(The Thomas Crown affair)
Visto in DVD.

Un ricco ragazzotto annoiato e dal fascino irresistibile fa rapine alle banche per passare il tempo. Nessuno riesce a beccarlo, quindi l’assicurazione della banca gli mette alle calcagna il mastino più diabolico che hanno, una donna giovane e dal fascino irresistibile. La caccia sarà dichiarata apertamente e condotta in modo tale da sedursi reciprocamente (strano)… beh a questo punto il film si scrive anche da solo.
Il film è registicamente schizofrenico, Jewson sembra voler fare di tutto, in ogni momento, tuttavia la “fantasia” nell’inquadrare e nel muovere la macchina da presa non è quasi mai funzionale, risulta fine a se stessa; sembra quasi che il regista si renda conto di avere in mano determinati strumenti e voglia usarli tutti, sempre (l’esempio più clamoroso è lo split screen, di cui questo film è stato uno dei primi a farne uso; ma viene utilizzato in maniera indiscriminata, talvolta rendendo meno chiara l’inquadratura invece di semplificarla). Alcune scene, come quella degli scacchi, giovano della serie di inquadrature sempre diverse, ma complessivamente è davvero un bambino che gioca coi colori (si veda anche soltanto il bacio che segue la suddetta partita a scacchi).
Un film dalla trama standardizzata e dalla regia esagerata che offre intrattenimento spicciolo, ma che oggi potrebbe essere visto solo da un fan dei due protagonisti
Visto in DVD.

Un ricco ragazzotto annoiato e dal fascino irresistibile fa rapine alle banche per passare il tempo. Nessuno riesce a beccarlo, quindi l’assicurazione della banca gli mette alle calcagna il mastino più diabolico che hanno, una donna giovane e dal fascino irresistibile. La caccia sarà dichiarata apertamente e condotta in modo tale da sedursi reciprocamente (strano)… beh a questo punto il film si scrive anche da solo.
Il film è registicamente schizofrenico, Jewson sembra voler fare di tutto, in ogni momento, tuttavia la “fantasia” nell’inquadrare e nel muovere la macchina da presa non è quasi mai funzionale, risulta fine a se stessa; sembra quasi che il regista si renda conto di avere in mano determinati strumenti e voglia usarli tutti, sempre (l’esempio più clamoroso è lo split screen, di cui questo film è stato uno dei primi a farne uso; ma viene utilizzato in maniera indiscriminata, talvolta rendendo meno chiara l’inquadratura invece di semplificarla). Alcune scene, come quella degli scacchi, giovano della serie di inquadrature sempre diverse, ma complessivamente è davvero un bambino che gioca coi colori (si veda anche soltanto il bacio che segue la suddetta partita a scacchi).
Un film dalla trama standardizzata e dalla regia esagerata che offre intrattenimento spicciolo, ma che oggi potrebbe essere visto solo da un fan dei due protagonisti
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lunedì 28 marzo 2011
Bersagli - Peter Bogdanovich (1968)
(Targets)
Visto in DVD.
Un vecchio attore horror, ormai in disuso, anzi peggio, ripiegato nelle stesse parti di sempre nonostante l’età decide di abbandonare la scena, ma prima si permette il lusso di una comparsata ad un drive in dove proiettano il suo ultimo film… peccato che anche un maniaco abbia deciso di andarci (in realtà ci finisce per sbaglio) e decida di continuare li la sua strage.
Diciamolo subito, l’attore che interpreta l’anziano attore horror è un Boris Karloff ormai anziano… già questo dovrebbe bastare; se poi ci si aggiunge che Karloff si prende la briga di recitare benissimo, senza togliere alcuni tocchi autoironici (si spaventa guardandosi allo specchio perché “come vuoi che reagisca svegliandomi e trovandomi di fianco Byron Orloc?”) o sequenze da antologia classica (il momento in cui racconta la storia di Samarcanda di Vecchioni, che in realtà è una storiella gotica), nel finale poi c’è questo momento meta-tutto impagabile con Karloff che si avvicina al maniaco da un alto, mentre dal alto opposto il Karloff del film fa la stessa cosa… ma bisogna vederlo per capire.
Allora, se da una parte il film racconta questo progetto nostalgia dei bei tempi del cinema (mentre c’è Karloff in scena si omaggiano pure Price, con il regista che insiste nel proporre la sceneggiatura a Karloff che rifiuata e alla fine sbotta “finirò per proporre questa sceneggiatura a Vincet Price”; Hawks con una lunga sequenza di “Codice penale” con Karloff stesso; o Roger Corman con tutti i titoli di testa posti sulla sequenza finale di “La vergine di cera” che sarà poi proiettata al drive in; ma anche il nome stesso del personaggio interpretato da Karloff, che è Orloc, cita il Conte protagonista di “Nosferatu”), dall’altro mostra la storia di un ragazzo bloccato in una vita castrante e sottilmente violenta che esplode in un progetto di massacro casuale che dimostri le sue doti di tiratore. Ecco, se le sequenze con Karloff sono un progetto nostalgia riuscito, le parti dell’omicida sono un piccolo gioello di regia, con una macchina da presa fluida e originale con idee assolutamente nuove (come la luce della sigaretta nella camera da letto buia).
Nell’insieme però il film non funziona, è ben realizzato ed ironico, oltre che citazioni stico al massimo, ma non riesce mai a legare decentemente le due storie in paralle, quella di Karloff poi sembra più un pretesto che un racconto con un fine proprio e il finale, troppo rapido e francamente assurdo non convince proprio. Il film mette in risalto le doti di Bogdanovich come regista e come cinefilo e risulta una canto d’amore verso lo schermo argentato, ma tutto si ferma qui… con un minimo di sceneggiatura in più sarebbe stato grandioso.
Visto in DVD.

Diciamolo subito, l’attore che interpreta l’anziano attore horror è un Boris Karloff ormai anziano… già questo dovrebbe bastare; se poi ci si aggiunge che Karloff si prende la briga di recitare benissimo, senza togliere alcuni tocchi autoironici (si spaventa guardandosi allo specchio perché “come vuoi che reagisca svegliandomi e trovandomi di fianco Byron Orloc?”) o sequenze da antologia classica (il momento in cui racconta la storia di Samarcanda di Vecchioni, che in realtà è una storiella gotica), nel finale poi c’è questo momento meta-tutto impagabile con Karloff che si avvicina al maniaco da un alto, mentre dal alto opposto il Karloff del film fa la stessa cosa… ma bisogna vederlo per capire.
Allora, se da una parte il film racconta questo progetto nostalgia dei bei tempi del cinema (mentre c’è Karloff in scena si omaggiano pure Price, con il regista che insiste nel proporre la sceneggiatura a Karloff che rifiuata e alla fine sbotta “finirò per proporre questa sceneggiatura a Vincet Price”; Hawks con una lunga sequenza di “Codice penale” con Karloff stesso; o Roger Corman con tutti i titoli di testa posti sulla sequenza finale di “La vergine di cera” che sarà poi proiettata al drive in; ma anche il nome stesso del personaggio interpretato da Karloff, che è Orloc, cita il Conte protagonista di “Nosferatu”), dall’altro mostra la storia di un ragazzo bloccato in una vita castrante e sottilmente violenta che esplode in un progetto di massacro casuale che dimostri le sue doti di tiratore. Ecco, se le sequenze con Karloff sono un progetto nostalgia riuscito, le parti dell’omicida sono un piccolo gioello di regia, con una macchina da presa fluida e originale con idee assolutamente nuove (come la luce della sigaretta nella camera da letto buia).
Nell’insieme però il film non funziona, è ben realizzato ed ironico, oltre che citazioni stico al massimo, ma non riesce mai a legare decentemente le due storie in paralle, quella di Karloff poi sembra più un pretesto che un racconto con un fine proprio e il finale, troppo rapido e francamente assurdo non convince proprio. Il film mette in risalto le doti di Bogdanovich come regista e come cinefilo e risulta una canto d’amore verso lo schermo argentato, ma tutto si ferma qui… con un minimo di sceneggiatura in più sarebbe stato grandioso.
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mercoledì 27 ottobre 2010
La sposa in nero - François Truffaut (1968)
(La mariée était en noir)
Visto in DVD.
Quando uno dice che il cinema francese è noioso, o che la nouvelle vogue è per intellettuali che amano amarsi mentre guardano film noiosi, evidentemente non conosce il cinema francese, e men che meno conosce questo film.
Una donna diviene vedova non appena esce di chiesa con il novello sposo; e diviene vedova per una cazzata, un gioco fra conoscenti. Ovviemante si trasforma, non sarà più la donna di prima, ma diventerà un angelo del male assetato di vendetta. Cercherà i 5 colpevoli, li sedurrà e li ucciderà ad uno ad uno in modo più o meno atroce. Il finale, che suggerisce il fallimento del suo piano, ne mostra invece il successo su tutta la linea.
Al di la degli ovvi collegamenti con "Kill Bill" nella storia, per la libertà di regia, l'uso disinvolto dei flashbacks, la cripticità dei motivi e lo stile sempre nuovo e sempre stupefacente per inquadrare i vari momenti, ci si rende conto che questo film è realizzato da un Tarantino nato negli anni '30.
Tra le scene memorabili mi piace ricordare il flashback su come è avvenuto l'omicidio, con i cinque conoscenti che fanno gli idioti con un fucile; una sequenza senza dialoghi che ha la cadenza e le dinamiche di un poderoso film muto. Stupendo.
Visto in DVD.
Quando uno dice che il cinema francese è noioso, o che la nouvelle vogue è per intellettuali che amano amarsi mentre guardano film noiosi, evidentemente non conosce il cinema francese, e men che meno conosce questo film.
Una donna diviene vedova non appena esce di chiesa con il novello sposo; e diviene vedova per una cazzata, un gioco fra conoscenti. Ovviemante si trasforma, non sarà più la donna di prima, ma diventerà un angelo del male assetato di vendetta. Cercherà i 5 colpevoli, li sedurrà e li ucciderà ad uno ad uno in modo più o meno atroce. Il finale, che suggerisce il fallimento del suo piano, ne mostra invece il successo su tutta la linea.
Al di la degli ovvi collegamenti con "Kill Bill" nella storia, per la libertà di regia, l'uso disinvolto dei flashbacks, la cripticità dei motivi e lo stile sempre nuovo e sempre stupefacente per inquadrare i vari momenti, ci si rende conto che questo film è realizzato da un Tarantino nato negli anni '30.
Tra le scene memorabili mi piace ricordare il flashback su come è avvenuto l'omicidio, con i cinque conoscenti che fanno gli idioti con un fucile; una sequenza senza dialoghi che ha la cadenza e le dinamiche di un poderoso film muto. Stupendo.
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sabato 16 ottobre 2010
Oliver! - Carol Reed (1968)
(Id.)
Visto in DVD.
L'idea di fare un musical da Oliver Twist è un'idea di per se agghiacciante e merita un posto particolare all'inferno per chi l'ha avuta; ma se si considera il successo che ha avuto in teatro il posto all'inferno dovrebbe essere allargato a tutti i tizi che hanno pagato il biglietto... duole dire che in quel girone nuovo merita d'essere messo anche chi ha pensato di farci un film e chi l'ha realizzato (si pure Reed, spiace dirlo, ma poteva pensarci prima di farlo). Poi leggi che ha pure vinto un oscar e allora speri che anche tutta l'academy ci finsica all'inferno... Ma chi più di tutti merita l'odio incondizionato è chi ha avuto la brillante idea di tradurre le piatte canzoni del film. No dico, sono tutte becere traduzioni in italiano, insipide e banali come poche altre. Tutto il film si trascina noioso con canzoni che smebrano fatte da Orietta Berti, con scene di ballo in cui devono aver speso milioni di dollari (o sterline) per ottenere un effetto appena sufficiente, e tutto come se Minnelli o Powell non fossero mai esistiti. Terribile.
Ci vuol un bel coraggio poi a dire che le scenografia monumentali sno stupende o quel paio di inquadrature sghembe alla Reed meritano d'essere viste. Questo film è un buco nero che assorbe ogni velleità cinematografica, l'appiattisce e la nasconde all'occhio dello spettatore.
Visto in DVD.
L'idea di fare un musical da Oliver Twist è un'idea di per se agghiacciante e merita un posto particolare all'inferno per chi l'ha avuta; ma se si considera il successo che ha avuto in teatro il posto all'inferno dovrebbe essere allargato a tutti i tizi che hanno pagato il biglietto... duole dire che in quel girone nuovo merita d'essere messo anche chi ha pensato di farci un film e chi l'ha realizzato (si pure Reed, spiace dirlo, ma poteva pensarci prima di farlo). Poi leggi che ha pure vinto un oscar e allora speri che anche tutta l'academy ci finsica all'inferno... Ma chi più di tutti merita l'odio incondizionato è chi ha avuto la brillante idea di tradurre le piatte canzoni del film. No dico, sono tutte becere traduzioni in italiano, insipide e banali come poche altre. Tutto il film si trascina noioso con canzoni che smebrano fatte da Orietta Berti, con scene di ballo in cui devono aver speso milioni di dollari (o sterline) per ottenere un effetto appena sufficiente, e tutto come se Minnelli o Powell non fossero mai esistiti. Terribile.
Ci vuol un bel coraggio poi a dire che le scenografia monumentali sno stupende o quel paio di inquadrature sghembe alla Reed meritano d'essere viste. Questo film è un buco nero che assorbe ogni velleità cinematografica, l'appiattisce e la nasconde all'occhio dello spettatore.
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sabato 25 settembre 2010
Il fango verde - Kinji Fukasaku (1968)
(Green slime)
Visto in Dvx, in lingua originale.
Per fare un film di fantascienza a basso costo, gli statunitensi presero un cast incapace di recitare, con enormi problemi di dizione (splendida la Paluzzi che parla esattamente come me, ma lei è in un film USA e io sto scrivendo da una biblioteca pubblica della pianura padana), portano tutto in Giappone dove si vede che lavoravano a basso costo e lasciano tutti gli effetti speciali in mano ai giappo... il che significia avere i soliti uomini che si travestano da alieni verdi, ma soprattutto usare dei magnifici modellini per tutte le scene coi razzi o le stazioni spaziali, cose degne di Ed Wood...
Ciò che mi ha convinto a guardare questo film era la regia; chi avrebbe mai detto che Fukasaku aveva un passato nella fantascienza? inutile dire che del grande regista non si vedono effetti nel film, e allora c'è da chiedersi se era un obbligo d'inizio carriera, semplice fame oppure se ha fatto da prestanome...
Nel film gli alieni si vedono, e tanto, le scene in esterni ce ne sono a bizzeffe, il vero problema è la noia, il film si trascina avanti con la stessa tiritera, con la stessa idea allungata e diluita in maniera imbarazzante per dio solo sa quanti inutili minuti, e ovviamente ammazza anche il pubblico più ben disposto... però c'è una chicca, la canzone originale scritta per il film, una delle migliori degli interi anni '60, se il film è solo per fans del genere o del regista, la canzone dovrebbe essere una must per tutti, la propongo qui con alcune delle scene più importanti, godetevela.
Will you believe it when you're dead? Greeeen Sliiiiiime.
Visto in Dvx, in lingua originale.
Per fare un film di fantascienza a basso costo, gli statunitensi presero un cast incapace di recitare, con enormi problemi di dizione (splendida la Paluzzi che parla esattamente come me, ma lei è in un film USA e io sto scrivendo da una biblioteca pubblica della pianura padana), portano tutto in Giappone dove si vede che lavoravano a basso costo e lasciano tutti gli effetti speciali in mano ai giappo... il che significia avere i soliti uomini che si travestano da alieni verdi, ma soprattutto usare dei magnifici modellini per tutte le scene coi razzi o le stazioni spaziali, cose degne di Ed Wood...
Ciò che mi ha convinto a guardare questo film era la regia; chi avrebbe mai detto che Fukasaku aveva un passato nella fantascienza? inutile dire che del grande regista non si vedono effetti nel film, e allora c'è da chiedersi se era un obbligo d'inizio carriera, semplice fame oppure se ha fatto da prestanome...
Nel film gli alieni si vedono, e tanto, le scene in esterni ce ne sono a bizzeffe, il vero problema è la noia, il film si trascina avanti con la stessa tiritera, con la stessa idea allungata e diluita in maniera imbarazzante per dio solo sa quanti inutili minuti, e ovviamente ammazza anche il pubblico più ben disposto... però c'è una chicca, la canzone originale scritta per il film, una delle migliori degli interi anni '60, se il film è solo per fans del genere o del regista, la canzone dovrebbe essere una must per tutti, la propongo qui con alcune delle scene più importanti, godetevela.
Will you believe it when you're dead? Greeeen Sliiiiiime.
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Kinji Fukasaku,
Luciana Paluzzi,
Richard Jaeckel,
Robert Horton,
Serie B
giovedì 11 marzo 2010
Crociera di lusso per un matto - Leonid Gaidai (1968)
(Brilliantovaya ruka)
Visto ad un cineforum, in lingua originale sottotitolato.
Filmetto comico sovietico di fine anni '60 (che fu un successone all'epoca); anni di relativa calma in quella parte di mondo.
La trama è quella di una commedia degli errori in cui un uomo qualunque, ma piuttosto scemo, rimane invischiato in una storia di contrabbando conteso tra polizia e criminali.
L'ironia è molto di grana grossa, tutta basata sulla stupidità dei personaggi (magnifico il criminale che si finge amico del protagonista), sui loro tic e sui loro vezzi. Molte le gag slapstick che molto condividono con il successivo Benny Hill (un minuto di silenzio per onorare il più grande degli inglesi dopo James Cook), molte le scene sopra le righe che vogliono far ridere per la sventatezza dei personaggi (i due ubriachi al ristorante, il protagonista nell'albergo con la donna).
Diversi i momenti di sincero divertimento, molti i momenti di stupore per l'assurdità di quanto sta accadento, altrettanti i momenti di imbarazzo per l'ingenuità del film.
Due le situazioni da sottolineare. Per primo l'inizio, con una lunga sequenza tutta in silenzio che per stile, rapidità ed espressività dei personaggi non avrebbe sfigurato in un film muto. Due, una bestemmia chiaramente pronunciata da un turco che evidentemente parla pure qualche parola di italiano, bestemmia evidentemente non tradotta al pubblico russo.
PS: il titolo originale è qualcosa come Un braccio di diamanti, in riferimento ai diamanti contrabbandati nel bendaggio del braccio fratturato del protagonista; il titolo italiano prende spunto dai pochi minuti iniziali della crociera.
Visto ad un cineforum, in lingua originale sottotitolato.
Filmetto comico sovietico di fine anni '60 (che fu un successone all'epoca); anni di relativa calma in quella parte di mondo.
La trama è quella di una commedia degli errori in cui un uomo qualunque, ma piuttosto scemo, rimane invischiato in una storia di contrabbando conteso tra polizia e criminali.
L'ironia è molto di grana grossa, tutta basata sulla stupidità dei personaggi (magnifico il criminale che si finge amico del protagonista), sui loro tic e sui loro vezzi. Molte le gag slapstick che molto condividono con il successivo Benny Hill (un minuto di silenzio per onorare il più grande degli inglesi dopo James Cook), molte le scene sopra le righe che vogliono far ridere per la sventatezza dei personaggi (i due ubriachi al ristorante, il protagonista nell'albergo con la donna).
Diversi i momenti di sincero divertimento, molti i momenti di stupore per l'assurdità di quanto sta accadento, altrettanti i momenti di imbarazzo per l'ingenuità del film.
Due le situazioni da sottolineare. Per primo l'inizio, con una lunga sequenza tutta in silenzio che per stile, rapidità ed espressività dei personaggi non avrebbe sfigurato in un film muto. Due, una bestemmia chiaramente pronunciata da un turco che evidentemente parla pure qualche parola di italiano, bestemmia evidentemente non tradotta al pubblico russo.
PS: il titolo originale è qualcosa come Un braccio di diamanti, in riferimento ai diamanti contrabbandati nel bendaggio del braccio fratturato del protagonista; il titolo italiano prende spunto dai pochi minuti iniziali della crociera.
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