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mercoledì 17 febbraio 2021

Train to Busan - Yeon Sang-ho (2016)

 (Busanhaeng)

Visto qui.


Un'epidemia zombie irrompe in Corea (del sud). Un uomo e sua figlia (con problemi relazionali) si ritrovano in un treno mentre il morbo si diffonde. Dovranno vedersela con gli zombie dentro al mezzo e con l'incognita della destinazione sicura. Ma più di tutti dovranno vedersela con il più classico degli homo homini lupus.

Senza inventare nulla, le basi di questo film sono estremamente interessanti. Il morbo degli zombie come pretesto per realizzare un dramma horror in un ambiente chiuso con molte persone che devono riuscire a relazionarsi per sopravvivere , con l'aggiunta dell'incognita sul loro destino. Lo zombismo dunque è solo il perturbante che fa scatenarla guerra fra sani più che un espediente horror vero e proprio; fatta salva una o due buone scene thrilling (su tutte il superamento del vagone pieno di mostri durante la galleria) il resto è un (tentativo di) dramma dure e sanguigno.

Di tutta questa operazione non c'è proprio nulla da eccepire (l'horror viene sfruttato come arredamento più che come genere per idee decisamente meno interessanti, dunque ben venga), ma è lo sviluppo che latita. A fronte di un cinismo non indifferente nel mettere a morte tuti quelli che non ti spetteresti dovrebbero morire (si, esatto, come in "Game of thrones") il film si perde nella parte più raffinata di caratterizzazione dei personaggi. Gli uomini che popolano quel vagone sono macchiette bidimensionali costruite su un sentimentalismo melenso fastidiosissimo: c'è l'anziano uomo d'affari egoista e cattivissimo, il buon padre di famiglia simpatico e disposto al sacrificio, la coppia di vecchie (truccate da vecchia malissimo) che si vogliono tantissimo bene anche al di là dello zombismo, e poi c'è il protagonista un padre di famiglia distante e freddo che vorrebbe avere relazioni diverse con la figlia, ma non ci riesce (e poi lavora nella finanza, quindi per principio è distante e freddo). Ogni complessità è apparente, ogni gestione dei rapporti fra personaggi telefonata, ogni elemento emotivo descritto a parole più che con i fatti, a livello di sceneggiatura questa è una débâcle.

Il film poi non offre molto altro a cui aggrapparsi per farsi ricordare (un paio di scene buone, ma non memorabili) e proprio quando sembra pronto a premere sul nichilismo più spinto si lascia andare a un happy ending fuori luogo, ma molto in linea con la parabola di banalità intrapresa...

domenica 14 febbraio 2021

Cimitero vivente 2 - Mary Lambert (1992)

 (Pet Sematary II)

Visto su Netflix.


Contro ogni pronostico (che avrei fatto io), il primo "Cimitero vivente" non fu un fiasco tale da fargli meritare l'oblio, ma venne premiato con un sequel.

La sceneggiatura venne affidata a tale Outten, medio mestierante che su imdb ha circa 5-6 credit, ma pare ne abbia diversi mai prodotti (un seguito de "I Goonies" che periodicamente viene riproposto) e alcuni non accreditati ("Gremlins 2"). Se si vede cosa ha realzizato e cosa avrebbe realizzato è ecvidente il cambio di rotta impostato, da un horror duro e puro (almeno nelle intenzionj) scritto da King, si preferisce il più vendibile prodotto d'orrore per regazzini (genere fiorito negli '80s).

Il cambio di marcia è evidentissimo; il protagonista è un teenager medio con i problemi connessi (bulli, difficoltà di inserimento, accettazione da parte di altri outsiders) Viene eliminata la parte più dura (il bambino assassino) e quella più macabra (il fantasma del morto che torna), rimane l'idea di fondo 8ci  mancherebbe), ma viene declinata con una vena ironica con punte demenziali (il redivivo patrigno dell'amico è caricaturale sia prima che post mortem).

Se personalmente ho sempre apprezzato l'idea di dedicare a bambini e ragazzi film di ogni genere, horror compreso (che sono, d'altra parte, spina dorsale dei racconti americani anche televisivi), bisogna anche accettare il fatto che farlo male è una colpa più grande che non farlo proprio.

Fastidioso nello svolgimento, con punte di idiozia, sorretto da un cast non all'altezza e gestito nella cabina di regia dalla stessa Lambert del primo film, se la gioca per decidere chi sia il peggiore. Forse, data la minor serietà, il target diminuito e i nomi in gioco meno altisonanti questo numero due potrebbe vincere ai punti contro il predecessore.

mercoledì 13 gennaio 2021

Devil - John Erick Dowdle (2010)

 (Id.)

Visto su Netflix.


Quattro persone si trovano intrappolate in un ascensore, ci sarebbe solo da aspettare i soccorsi se non ci fosse... il diavolo (lo spoiler alert erad aisnerire nel titolo).

Scritto da Shyamalan, ma diretto da un semi parvenu fattosi notare per il remake identico all'originale di REC. Ecco qui è subito partito il mio razzismo. Shyamalan è, a mio avviso, un ottimo regista, ma uno sceneggiatore mediocre a tratti insopportabile. La sua scrittura è stata parte fondamentale del suo oblio negli ultimi anni prima della quasi rinascita con la Blumhose.

Considerando il mio pregiudizio è un film che scorre bene, intrattiene bene e incuriosisce abbastanza da far arrivare alla fine pur rimanendo all'interno di un ascensore per almeno metà del minutaggio. Operazione comunque rischiosa.

Il problema è che a parte una godibili superficiale non c'è nient'altro. Potrebbe essere un horror (vorrebbe esserlo), ma non inquieta mai, potrebbe essere un thriller (forse vorrebbe esserlo), ma non da mai suspense. Se entrambi questi difetti sono sicuramente da imputare (anche) alla regia insipida, la sceneggiatura non è una buona base; non graffia mai con la cattiveria che sbandiera (i cattivi tutti chiusi insieme non sono mai davvero cattivi), chiude con un finale buonista, ma soprattutto raggiunge vette di ridicolo che smorzerebbero qualunque film (lo spiegane fatto dal personaggio esotico che scopre e dimostra la presenza del maligno con il fatto che il pane cade sempre dalla parte imburrata!!!).

Come si diceva un film che incuriosisce e che si fa finire volentieri, ma niente di più.

mercoledì 18 novembre 2020

Long weekend - Colin Eggleston (1978)

 (Id.)

Visto su Mubi, in lingua originale.


Una coppia in crisi parte per un weekend lungo nel Bush australiano (in realtà vanno al mare, ma in una spiaggia desolata nel mezzo del niente). Durante la permanenza iniziano segni di squilibrio fra loro e fra gli animali e i due umani fino all'ultima notte con un terribile showdown.

Il classico horror/thriller in cui una coppia in crisi deve cementare il loro rapporto per poter sopravvivere... ma ha il vantaggio di non avere un finale scontato.

Meno efficace invece la base, predisposta come una sorta di vendetta della natura a una coppia menefreghista nei confronti di piante e animali (dettagli che vengono disseminati durante tutta la prima parte), un pò troppo dozzinale e semplicistica, anziché gettare il cuore oltre l'ostacolo della matoivaizone realizzare una sorta di "Gli uccelli" di serie B.

L'effetto finale è un poco claudicante, ma efficace. Non c'è mai tensione vera e propria (anche se quel lamantino un pò di inquietudine la dà), ma la costruzione di un ambiente sottilmente ostile che si unisce al disprezzo solo parzialmente nascosto da parte della coppia. I due personaggi, di fatto, si trovano isolati in un habitat che li respinge in compagnia del loro peggior nemico. Il finale è, in questo senso, adatto e perfetto.

Claudicante per quella mancanza di tensione che si diceva oltre che da una scrittura che ha molte idee, ma una certa ripetitività nel mostrarle. La tecnica è base, adeguata per ottenere la sufficienza, ma forse sarebbe stato necessario qualcosa di più.

Complessivamente una bella scoperta, senza eccessi. Ha giustamente meritato un remake piuttosto recente che spero non abbia svilito il tutto.

giovedì 1 ottobre 2020

Mom and dad - Brian Taylor (2017)

(Id.)

Visto su Amazon prime.

Come fossimo in un film di zombi anni '60, un'ondata di follia omicida contagia l'america, ma è una follia omicida molto circoscritta: i genitori vogliono uccidere i propri figli, di qualsiasi età.
Prendendo a piena mani da Romero (la fuga dalla scuola, le notizie tramite la tv, addirittura certe inquadrature all'ospedale) Taylor vuol mettere in scena la sua versione dell'apocalisse horror, ma senza intento politico o sociologico, solo con tanta voglia di divertire e prendere in giro.
la trovata della follia genitoriale da l'assist per una serie di scelte grottesche, potenzialmente fino allo stremo, che Taylor decide di sfruttare solo in parte per poi ripiegarsi in una sorta di home invasion.
se l'idea di fondo è potenzialmente esplosiva così non è il risultato finale. Il film ha un enorme problema di scrittura. Non c'è un collante unico vero e proprio, inizia con una serie di scene più o meno efficaci (bene, ma migliorabile la scuola, bene l'ospedale, unica sequenza di vera tensione) meno bene la casa dell'amica ecc...) che però risultano sempre claudicanti, gestite con troppa fretta come a voler passare all'idea successiva, ma soprattutto slegate. Quando poi si arriva al gioco del gatto col topo in casa ci si infila in un anticlimax che ammazza l'ultima parte e il finale che non conclude niente sa solo di pigrizia e non di finale aperto.
Il film è simpatico, porta a casa il risultato di minima... e poi diciamoci la verità, il film si salva e risulta godibilissimo grazie a Cage.
Non mi sono reso conto i quale momento Cage sia diventato attore apprezzato per il suo overactig (certo l'ha sempre avuto, ma non credo che fosse la prima scelta per le sue faccette all'epoca), qui però è chiaramente la scelta più azzeccata e viene chiaramente chiamato a salvare la baracca (e si mangia pure una Blair obiettivamente brava).

lunedì 7 settembre 2020

A quiet place. Un posto tranquillo - John Krasinski (2016)

(A quiet place)

Visto su Netflix.

Dei mostri ciechi sono arrivati sulla terra e stanno estinguendo l'uomo, sono ciechi come si diceva quindi l'unico modo che hanno per cacciare è l'udito, qualunque suono troppo alto li attira e, una volta arrivati, sono predatori efficaci e rapidissimi.

Film dall'idea di fondo potente, ma estremamente versatile nel bene e nel male, con una scrittura poco fantasiosa potrebbe venire fuori un compitino semplice, un film di serie b o un film noiosissimo.
Per fortuna questo è un film di scrittura, di idee e di una regia al servizio della storia (che non avendo parole deve vivere di immagini).
Un incipit lento che introduce nel mondo post apocalittico, alcune scene di raccordo e poi si entra nel vivo. Per entrare nel vivo intendo che, nel momento in cui le cose si mettono male è una lotta costante per la sopravvivenza con mostri che sembrano essere sempre dappertutto e non danno tregua a nessun personaggio fino allo scioglimento finale; un action casalingo che tiene attaccati allo schermo fino alla fine.
Le idee si moltiplicano e sono tutte giocate su come l'uomo (o meglio, questa famiglia in particolare) si siano organizzati e adattati per sopravvivere, con una serie infinita di trucchi, trappole e sistemi di difesa che saranno di volta in volta utilizzati; la gran parte della scrittura è stata dedicata a questo, al rinforzare le mura di Fort Alamo e a renderlo interessante al pubblico senza doverlo mai spiegare.
la regia si concentra invece sui fucili di Checov, una serie di oggetti o situazioni che sono potenziali bombe a orologeria che vengono mostrate (spesso in maniera chiara e non di sfuggita) e che lo spettatore sa che scoppieranno (il chiodo, la gravidanza); accettando il gioco si può ovviare al fatto che nel lungo periodo si tratta di telefonate dirette della regia e godersi la suspense che la nuova inquadratura può creare.
Se il cast è tutto all'altezza, la prova enorme da ricordare è quella della Blunt, perfetta.

Lontano dall'essere il capolavoro che ho letto in giro, è un horror action tutto giocato di rimessa, ma solidissimo, intelligente e originale.

giovedì 9 luglio 2020

La cura dal benessere - Gore Verbinski (2016)

(A cure for wellness)

Visto su Netflix.

Uno yuppie (si dive ancora così?) viene inviato in una spa svizzera per trovare e riportare a New York il capo dell'azienda (c'è un'importante fusione in ballo e i giorni sono contati, serve la sua firma). Lo yuppie riuscirà a entrare senza difficoltà, ma una volta dentro non riuscirà più a uscirne.

Un film gotico dove tutto (il mood, il perturbante, il mistero da risolvere) è costituito dalla sua ambientazione.
Questo film è tutto realizzato per inquietare e spaesare con l'edificio in cui è ambientato, prima ancora che per i fatto che vi avvengono o i personaggi che si muovono al suo interno.
E a dire la verità, finché rimane su questo punto il film funziona.
La messa in scena è realistica ed inutilmente enfatica, le inquadrature ricche di dettagli, di oggetti, di piastrelle e marchingegni medici e da questo accumulo continuo si crea il tono; a mano a mano che il film procede l'effetto rimane inalterato, ma il minutaggio che avanza sottolinea come Verbinski sia più interessato all'ambiente che alla trama, alle macchine mediche e alle piastrelle che non allo sviluppo dei personaggi e della storia... e come capita classicamente il punto di forza diventa il punto debole del film.
Se si ha poi la pazienza di arrivare in fondo ci si rende conto che, probabilmente aveva ragione Verbinski a focalizzarsi su altro, perché lo scioglimento del mistero risulta evidente già a metà, ma comunque vagamente stridente con tutti gli indizi raccolti e il finale diventa il punto più basso di un film comunque ben realizzato.

Verbinski (che può non piacere, ma sa fare il suo lavoro) dalla sua non si limita a fare da arredatore, ma a comunica con gli oggetti e con il montaggio interno, crea immagini in maniera costante e aggiunge qua e la qualche chicca da bravo mestierante (l'arrivo alla spa in auto, in cui la tensione è data tutta dal montaggio delle diverse inquadrature).

In poche parole, un film tanto interessante (e ben realizzato) quanto fallimentare, per il proprio peso e per un finale non all'altezza. Nota di merito per DeHaan, faccia tutta sua che riesce a essere particolare, ma credibile in ogni sequenza.

giovedì 25 giugno 2020

Cimitero vivente - Mary Lambert (1989)

(Pet sematary)

Visto su Netflix.

Ci saranno molti spoiler, anche se ormai il film è piuttosto noto.

Una famiglia appena trasferita perde il figlio in un incidente. Il padre, all'insaputa di tutti lo sotterrerà in un cimitero indiano che già gli ha riportato in vita il gatto. Ma chi torna in vita da quel terreno non è lo stesso che vi è stato sepolto.

Ad oggi l'unico film sceneggiato da Stephen King tratto da un suo libro... ed è incredibile quanto deludente sia.

"Cimitero vivente" è un film che potrebbe essere estremo (estremo è il tema trattato) e cattivissimo ( e tecnicamente lo è), ma è gestito così male da diluire tutto.
C'è la morte di un figlio piccolo per disattenzione, c'è la volontà di riportarlo in vita in ogni modo possibile anche se si sa che le conseguenze saranno negative e c'è la lotta con il figlio che nel frattempo ha fatto tutti i danni possibili. C'è un apice di sofferenza e agnizione che potrebbe toccare le tragedie greche; dal punto di vista horror c'è del gore nel finale che viene fatto malocchio, ma potrebbe essere reso molto se solo fosse gestito meglio e inserito nel suo contesto (l'idea che il figlio uccida la madre in maniera efferati può essere agghiacciante anche senza sangue, se poi lo metti in slasher l'effetto potrebbe essere estremo), la tensione invece si può dire non ci sia mai anche se, pure quella, nel finale viene apertamente tentata (fallendo del tutto).

I problemi sono a tutti i livelli.
la regia dozzinale non sa sfruttare i due momenti buoni creati dalla sceneggiatura e questa è una colpa non giustificabile. A questo si aggiunga un ritmo dilatato che riesce a rendere noiosa anche... no sarebbe stato noiosa ogni scena in ogni caso, ma così è noiosa il doppio.
La sceneggiatura, però, è imbarazzante. Dialoghi che fanno arrossire; eventi eccessivi che dovrebbero creare il mood, ma in realtà lo urlano in faccia allo spettatore pretendendo che vi aderisca (il litigio al funerale con rappacificazione in aeroporto è ridicolo); personaggi pretestuosi e fuori contesto (il fantasma del ragazzo morto sul letto operatorio) che sono ridicoli nell'aspetto, poco utili ai fini della trama, stridenti nella storia e che butta all'aria una sospensione dell'incredulità già sul chi va là. Stupisce (almeno me) l'inettitudine di King, ma probabilmente non dovrebbe non essendo la sceneggiatura il suo campo d'azione, dove è riuscito a fare qualcosa di buono, ma partendo da storie più semplici.
Infine è agghiacciante il cast e la messa insieme cena totale. Tutto è dozzinale, la recitazione sopportabile, ma non adeguata agli eventi della seconda metà e il finale con quel povero bambino di massimo 2 anni che deve fare la faccia cattiva fa tanta tenerezza, ma non inquieterebbe neppure se messo ne "Il villaggio dei dannati".
Cucciolo lui, va come si impegna

giovedì 23 aprile 2020

Goksung. La presenza del diavolo - Na Hong Jin, (2016)

(Gok-seong AKA The wailing)

Visto su Amazon prime video.

In una cittadina coreana cominciano ad avvenire strani omicidi e c'è una malattia infettiva che si diffonde. La gente del posto accusa, velatamente o meno, un giapponese (Jun Kunimura!) da poco insediatosi nel paese, ritenendolo nientemeno che il Diavolo stesso.
Un poliziotto colpito direttamente comincerà a indagare, mettendo in mezzo lo sciamanesimo tradizionale e un prete cattolico.

Similmente a quanto fatto in "The chaser", Hong Jin, parte da una storia piuttosto banale e lineare, ma la mette in scena con un andamento ingarbugliato, vicoli ciechi, momenti di chiarezza improvvisa che vengono smentiti in un gioco di conferme e frustrazioni che durerà fino alle scene finali.
Similmente a quanto fatto in "The chaser" costruisce la vicenda con un tono leggero (da commedia) che si incupisce e si diluisce con il proseguire dell'azione fino alla sua completa scomparsa.
Similmente a "The chaser" è un filmone, anche più di "The chaser".

Questa storia su un'epidemia in un ambiente chiuso, il sospetto di soprannaturale (che verrà confermato o smentito solo verso la fine), l'indagine goffa di un uomo abituato a galleggiare che dovrà dare fondo a tutte le sue risorse, la spietatezza degli eventi e delle scelte da fare e il ritmo della narrazione sempre costante (con la tendenza coreana a non fissarsi sui tre tempi occidentali della sceneggiatura, ma con un movimento fluviale in cui non si sa mai quando avverrà il vero showdown finale) trasformano questo film in un esperienza immersiva enorme.
Non ha il ritmo o l'adrenalina di "The chaser", né l'attenzione al giallo a cui avrebbe potuto aggrapparsi; neppure si può definire un horror anche se la ricerca del maligno è parte centrale della vicenda. Il film cerca invece di mettere il suo protagonista in una situazione che deraglia sempre di più e immersa in un ambiente da cui non si può che venire soffocati; incastrandone all'interno anche lo spettatore.

Inoltre il film viene costellato di dettagli innumerevoli, prove o indizi, elementi metaforici, scene mai spiegate, che servono da indicazione o depistaggio in un gioco con chi guarda che dimostra un rispetto e una conoscenza delle dinamiche cinematografiche davvero notevole.

lunedì 20 aprile 2020

Midsommar. Il villaggio dei dannati - Ari Aster (2019)

(Midsommar)

Visto su NowTv.

Un gruppo di amici decide di passare il solstizio d'estate nel villaggio svedese d'origine di uno di loro dove ci sono celebrazioni folkloristiche caratteristiche.
Assieme a loro si associa la ragazza di uno del gruppo; lei ha appena subito un lutto pesantissimo ed è presa malissimo, lui la vorrebbe lasciare già da tempo, ma non ne ha il coraggio e la relazione si trascina avanti in maniera frustrante per entrambi (e per il gruppo di amici che chiaramente la sopporta poco).

Ovviamente le celebrazioni del solstizio non saranno quelle che ci si potrebbe aspettare.
Al secondo film Aster si tuffa nel folk horror, pur mantenendo tutte le caratteristiche del precedente "Hereditary" (dettaglio che nei prossimi anni dimostrerà se si tratta di firma d'autore o limite tematico).
Come colpo d'occhio in realtà Aster tenta il percorso opposto al suo film precedente. L'altro era un film sovrannaturale che viveva di buio, di penombra e di dettagli nascosti, ma mostrati. Qui invece è un horror in pieno sole (giusto un paio di scene importanti sono al chiuso o di notte) con il bianco come colore dominante ed esplosioni floreali (il finale in mezzo ai fiori con il volto in lacrime e gli altri in bianco è da incorniciare), la ricchezza di dettagli c'è anche qui, ma in molti casi sono apertamente esposti (il tessuto che mostra le tecniche magiche per far innamorare), ma, ovviamente, quelli evidenti sono solo la punta dell'iceberg (ed è un gioco ricchissimo il cercare di scovarli ad una seconda visione).
Però molto è condiviso. La "famiglia naturale" come problema, la famiglia allargata come rifugio (disfunzionale) in cui poter vivere pienamente; il gioco con lo spettatore a cui vengono dati quasi tutti gli elementi per capire, ma non il modo in cui incastrarli; ecc...
Ovviamente a tutto questo si abbina la solita cura nella messa in scena, con un'ambientazione ragionatissima e la fotografia splendidamente curata a cui ci ha già abituati.

L'effetto finale è straniante e interessante. Lontano dalla perfezione prettamente horror di "Hereditary" qui siamo di fronte ad altro. Il genere horror si presta da sempre ad essere declinato verso altre tematiche (come quello sociale alla Romero); qui Aster utilizza il genere per mostrare un'elaborazione del lutto e la presa di coscienza di una donna nei confronti delle zavorre della sua vita. Di fatto un dramma psicologico giocato sul terreno dell'horror che ha il suo picco nel finale, congruo con l'andamento di tutto il film, ma nello stesso momento estremamente metaforico.
Indubbiamente più complesso, ma, di conseguenza, meno efficace del precedente.
Va però encomiata l'enorme capacità di creare immagini potenti, anche con elementi complessi arrivando a sfiorare il ridicolo senza mai cadervi apertmente.

giovedì 9 aprile 2020

Noi - Jordan Peele (2019)

(Us)

Visto su NowTv.

Una bambina si perde alla sagra del mare e finisce nel classico tunnel dell'orrore in disuso dove incontrerà... una bambina uguale al lei.
Dopo uno shock che le procurerà strascichi per anni decide di tornare su quella spiaggia con tutta la famiglia (marito e due figli a cavallo dell'adolescenza). ovviamente sarà una scelta sbagliatissima perché dovrà confrontarsi, di nuovo, con sé stessa.

Togliamo subito il dubbio. Come già "Get out" (e come sembra essere il cinema di genere autoriale di questi anni) siamo di fronte a un metaforone sociale; c'è un sopra e un sotto (il parallelismo con "Parasite" non è peregrino), una classe abbiente che neppure sospetta esistano degli "altri" sotto di loro che potrebbero venire a reclamare ciò che ritengono sia stato tolto loro.
ma come già in "Get out" Peele non affossa nella metafora, è solo lo spunto da cui partire per costruire un film horror venato di commedia (molto meno rispetto al precedente).

Peele poi sembra fare parte di una corrente (involontaria) sul nuovo horror anglofono caratterizzato da una cura estrema nella messa in scena (anche qui come nei film di Aster la fotografia è incredibile) e da un'intolleranza nei confronti delle spiegazioni eccessive. 
Quindi il film a cui ci si trova è visivamente potente, la trama ben svolta, raccontati i motivi fondamentali, ma non chiariti i dettagli. Con questa possibilità Peele, per la seconda volta, riesce a raccontare una storia ai limiti della sospensione dell'incredulità, senza sforare nell'inaccettabile.

Inoltre Peele è, al momento, uno dei migliori nelle scene horror puro. 
Il film parte con un home invasion semplice, ma perfetto, dove non si lesina in efferatezze. Ci si sposta con una fuga rocambolesca per finire... in un altro home invasion (anche questo gestito in maniera brillante) per poi ricominciare con una fuga che si muove sotto la luce del sole e terminare con uno showdown estetizzante completo di twist plot.
Peele fa tutto e lo fa benissimo, gestisce una trama articolata con il giusto ritmo, cuce insieme film diversi dosando la tensione e la commedia. Certo l'effetto finale è meno granitico di quello di "Get out", ma partendo da un presupposto affascinante, ma inverosimile il risultato è grandioso.

PS: non l'ho mai citata, ma è evidente che se in un horror metti una come Nyong'o (una delle attrici più credibili della sua generazione) l'effetto finale non solo sarà migliorato ma supererà a destra molti colleghi del settore che, di solito, per il cast hanno pretese molto inferiori.

lunedì 23 marzo 2020

The fall - Jonathan Glazer (2019)

(Id.)

Visto su Mubi.

A dimostrare la, potenziale, efficacia di Glazer dietro la macchina da presa, ma con un minutaggio inferiore arriva, nel 2019, questo cortometraggio.
Circa 5 minuti con una storia in media res, nessuna spiegazione, personaggi disumanizzati con maschere che ne nascondono il viso, ma mantengono un ghigno che è l'espressione perfetta e molta tecnica.
In 5 minuti Glazer si concentra sulla corda che è l'elemento centrale della vicenda, con movimenti di macchina e inquadrature magnifiche che sono tecnicamente encomiabili e che (non solo non affossano, ma anzi) esaltano l'ambientazione e il tono che infatti sono resi perfettamente pur senza nessuna spiegazione. Gigantesco l'uso della musica e dei suoni che fanno il paio con le immagini.

giovedì 20 febbraio 2020

XX, Donne da morire - Registe varie (2017)

(XX)

Visto su Netflix.

Film horror a episodi legati da sequenze in stop motion; raccoglie il lavoro di 5 registe donne (una per ognuno dei 4 episodi più una per le scene di raccordo).

Il lavoro risulta nel complesso molto altalenante (cosa sempre presente nei film a episodi, ma non ha la continuità né nell'estetica né nel mood dei film italiani anni '60 e '70) che va giudicato pezzo a pezzo.

The Box di Jovanka Vuckovic. Un segmento degno di "Twilight zone" per impianto narrativo (un bambino guarda nella scatola di uno sconosciuto in treno reagirà in maniera imprevedibile), presenza del perturbante basato in parte sul sovrannaturale, ma molto sulle reazioni delle persone, ma soprattutto per il sottile intento moraleggiante (in questo caso anti-capitalistico; che a onor del vero è molto strisciante e poco fastidioso). Il mood però è tutt'altro, più dalle parte di un film di Kelly.
Ben condotto, esteticamente inappuntabile, manca molto in grip. Alla fine dell'episodio si ha l'impressione che sia un vuoto esercizio di stile, un'idea interessante senza una trama attorno (il rischio insito nel lateral thinking di "Twilight zone"). Bene, ma attendiamo sulla prova lunga.

The birthday party di St. Vincent, AKA Annie Clark. Opera prima di una musicista è una commedia nera (nerissima, ma senza splatter) sui preparativi di una festa di compleanno per bambini che finiscono male (per una morte improvvisa). Scelta coraggiosa (la commedia nera), godibile e scorrevole, ma obiettivamente poca cosa. Non c'è mai tensione né un divertimento scrosciante. Aiutata dal minutaggio breve la storia intrattiene senza annoiare, ma se fosse dovuta durare più a lungo avrebbe rischiato di far soffrire parecchio.

Don't fall! di Roxanne Benjamin. Qui si gioca sul sicuro, con i soliti quattro amici in mezzo al niente che verranno massacrati (in questo caso da un demone random). Niente di originale, ma un grande classico con regole ben codificate. Nello sviluppo vince qualche inquadratura dal basso del finale e riesce anche un momento di tensione. Il film però ha pochissimo tempo per svilupparsi e la tensione non può essere obbligata in pochi secondi, merita di più per potersi sviluppare. Carino.
la Benjamin è quella di maggior esperienza alla regia (dopo la Kusama), ma non posso negare di non conoscere ancora nient'altro di suo.

Her only living son di Karyn Kusama. Il migliore fra i corti. Un'idea di base interessante (si comincia con problemi di relazione fra una madre sola in un paese nuovo e il figlio quasi 18enne che vorrebbe fuggire/incontrare il padre; ma poi verrà fuori ben altro) che meriterebbe un nfilm suo, ma che sa essere adeguatamente sviluppata anche nel corto. Pochissime ingenuità (che purtroppo ci sono) e un'ottima capacità di conduzione del gioco fino a uno showdown finale che, per mancanz adi soldi, non può far succedere molto, ma riesce comunque efficacissimo come conclusione perfetta per il mood impostato fin dall'inizio.
Qui però devo fare le mie scuse. Kusama non la conosco ancora come regista per pigrizia, sono mesi (o più) che ho a disposizione, almeno "The invitation" e "Jennifer's body"... ma ancora non ho trovato l'abbrivio. Dovrò riparare.

Sofia Carrillo, si occupa delle scene di raccordo in slow motion in una casa fatiscente con oggetti animati. Un mood oscuro e torbido pur senza efferatezze sulla scia dei Fratelli Quay. Sono un giannizzero di questo tipo d'animazione, ma il materiale è troppo poco per poter giudicare.

lunedì 27 gennaio 2020

Verónica - Paco Plaza (2017)

(Id.)

Visto su Netflix.

Da metà degli autori dell'ottimo "REC" viene il nuovo horror spagnolo che ha fatto dire a  Wikipedia che si trattava de "L'horror più spaventoso di sempre". Ecco non è così, a amala pena è spaventoso.

Tratto dall'inevitabile storia vera è una ragazza che viene perseguitata dal maligno perché ha usato la tavola ouija durante un eclissi.
Niente di nuovo, la trama non aggiunge nulla e, anzi, si appoggia solo a quanto già visto decine di volte in passato. Poco male, finora.
Lo script soffre anche del solito problema dei film con il maligno, la necessità di dare un background delle possibilità di salvezza, dei riti, dei simboli, delle storie. Tutto questo in amni poco competenti si tramuta in un accozzaglia di luoghi comuni e buchi di trama che fanno spavento. Ecco qui si che "Veronica" sembra davvero il film horror più spaventoso di sempre.
Si può aggiungere una scelta della fotografia degna di una telenovela sudamericana anni '90 e un gruppo di bambino incapaci a recitare a cui vengono affidati primi piani e azioni importanti.
Su tutto però il vero dramma è la totale incapacità di sfruttare anche solo mezza idea (rubata ad altri) per creare tensione. I tentavi sono continui, per lo più fatti malissimo (ila ouja che cade, la suora cieca), ma in un paio di sequenza sembra essere sulla strada giusta (la sagoma che si muove dietro ai vetri del soggiorno), ma riesce a far finire in nulla lo sforzo.

Un film incredibilmente mal fatto che sembra opera di un esordiente incapace mentre invece è fatto da metà degli autori di "REC"... il che spiega a chi dare i meriti di quel film...

giovedì 23 gennaio 2020

madre! - Darren Aronofsky (2017)

(mother!)

Visto in tv.

Una coppia (con una buona differenza d'età) abita nella ristrutturata casa di lui (ma è stata lei ha rimetterla a nuovo dopo un incendio). Lui è uno scrittore e viene visitato da un uomo che si insedia a casa loro rivelandosi un fan, dopo di lui arriverà la moglie  i due figli fino a un'invasione di amici e parenti che si concluderà con uno scontro e del sesso riparatore. Lei rimane incinta.
Lui scriverà una nuova opera che porterà nuova fortuna e una nuova home invasion da parte di centinaia di fan proprio verso il nono mese di gravidanza.

Film allegorico di Aronofsky, così ricco di rimandi, situazioni paradossali, un finale estremo e riferimenti biblici da renderne la comprensione al di là delle umane capacità. Col senno di poi, leggendone, il significato appare lampante, ma durante la visione si viene catturati da altro.

La prima parte è un thriller surreale perfetto, un home invasion atipico e particolarissimo che, con una degna conclusione, potrebbe resistere come film a parte. forte di un gusto per il perturbante che è la vera dote del regista (mettere i personaggi in situazioni insopportabili e far provare lo stesso fastidio allo spettatore) e un cast ottimo che si avvale della migliore Pfeiffer che abbia visto da anni.

La seconda parte invece è una folle cavalcata nel caso. Partendo sempre da una situazione paradossale, ma quasi realistica diventa una carrellata di atrocità vagamente collegate fra loro, fino al picco del post partum. Ecco qui il film si perde maggiormente, volendo mostrare moltissimo in poco tempo il film non riesce a stare dietro alle sue stesse intenzioni e depotenzia scena dal possibile effetto esplosivo (nulla paragonabile a quella finale che riesce quasi alla perfezione... quasi); se lo si prende solo come il tentativo di rendere per immagine il caso il risultato è vincente.
Chiaro però che non è quello l'intento di Aronofsky.

Le due parti del film poi dialogano solo nell'idea allegorica complessiva che, se sfugge, rende il film un collage mal realizzato.
Il film non può dirsi completamente riuscito, troppo pretenzioso e arrogante (in senso quasi positivo), ma se fallisce (e direi di si), fallisce in maniera meravigliosa e disturbante.

lunedì 20 gennaio 2020

Tusk - Kevin Smith (2014)

(Id.)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato.

Due tizi vagamente irritanti (un Justin Long che non vedevo da almeno un decennio e un Joel Osment che... beh non vedevo esattamente dal 1999) hanno un podcast dove commentano le cose stupide dell'interne t e poi vanno a trovare i protagonisti. Andando alla ricerca di un regazzino che si taglia la gamba con la katana Justin Long scopre che è morto (curiosamente non per le ferite riportate); incappa però in un vecchio che ha visto tutto, conosciuto tutti e fatto di tutto che ospita gratis se si è disposti ad ascoltare il suo costante chicchiericcio (un ottimo Parks che gioca a fare il solito Parks). E qui comincia la storia vera fatta di matti, ispettori di polizia buffi, chirurgia sperimentale e trichechi.

Che dire... la storia è una storia poco alla Kevin Smith (grazie a Dio), si ci sono giovani che chiacchierano da giovani in maniera sboccata e autoreferenziale, ma poco, per lo più all'inizio e poi vira verso il grottesco.
La storia però è incredibilmente alla Smith; se pensate che nasce dal podcast che Smith intrattiene realmente commentando le notizie che legge in giro... e se pensate che ha ricamato una storia sulla notizia di uno che ospita gratis se si è disposti a vestirsi da tricheco (era chiaramente una presa in giro) la trama assume connotati talmente autoreferenziali da essere fastidiosa anziché divertente con quel retrogusto di "storia inventata quando si è ubriachi che fa riderissimo però già il giorno dopo non fa più ridere nessuno".

Il risultato finale è un film che vorrebbe essere horror (genere che Smith non padroneggia, ma  titilla da "Red state" che non ho visto) cercando la tensione e il twist plot... almeno fino a metà film, poi saltano i pochi freni messi al grottesco (che pure c'era e tendeva più a portare fuori mood che ha caricarlo), mette in mezzo il tricheco vessato e l'ispettore macchiettistico (obiettivamente divertente e con un Johnny Depp libero di fare faccette che sembra finalmente in parte dopo molto tempo) e sbraga nella commedia demenziale.
Un film che intrattiene senza colpo ferire, ma segue due strade divergenti alternandole non riuscendo a ottenere nulla e rimanendo nell'insignificanza (o al massimo al piccolo cult da vedere con gli amici facendosi uno shot per ogni fuck che viene detto).
Postilla finale Smith, nei titoli di coda Smith commenta le scene più emotive prendendole per il culo... perché Smith?

giovedì 16 gennaio 2020

Non aprite quel cancello - Tibor Takács (1987)

(The gate)

Visto in Dvx, in lingua originale sottotitolato.

Vaghi ricordi dell'infanzia mi riportavano un film terrorizzante, fatto di una porta per l'inferno in giardino, un cane morto e un regazzino che si tagliava, tutte cose che accidentalmente portavano alla fuoriuscita di demoni. Nient'altro.
Un quarto di secolo dopo recupero questo "The gate" dalla triste rititotlazione italiana e, ancora una volta, si conferma che il ricordo migliora le cose.
Per un adulto di oggi è un filmetto senza pretese con protagonisti dei regazzini che aprono per sbaglio il cancello da non aprire e trovano tutte le indicazioni su come aprire o chiudere il tutto in un album metal (!) norvegese... Ecco un minuto per considerare i salti mortali che dovevano fare gli sceneggiatori in epoca pre-internet e un applauso per l'idea più fuori di testa, ma originale, che abbia mai trovato.

Il film però, si inserisce nel filone horror per giovanissimi di cui gli anni '80 ci hanno fatto dono (e che oggi ci sogniamo). Dal punto di vista di un minore (fatta salva la pochezza della costruzione tecnica del film e gli effetti speciali in stop motion che invece adoro) la trama potrebbe ancora rendere bene, spingendo su diversi punti (la cattura della sorella e dell'amico, la morte del cane, il ritorno della madre morta, ecc...) che nel 2019 nessuna casa di produzione si sognerebbe di accettare (far morire un cane in un film per giovanissimi?!) e che invece rappresentano l'arredamento horror che riesce ancora a reggere il colpo (molto più dei piccoli demonietti o dello zombie nel muro).

lunedì 13 gennaio 2020

Il terrore del silenzio - Mike Flanagan (2016)

(Hush)

Visto in tv.

Gli home invasion vivono di problemi degli assaliti (non hanno armi, minor numero, il trauma) e del capovolgimento nel corso della trama (gli assaliti si organizzano). Il gioco di Flanagan è tanto semplice quanto potenzialmente idiota: assalita e assalitore sono uno a uno, lui ha una balestra e qualche coltello... lei è sorda (e all'assalitore attizza l'idea di giocare con la vittima).

Potenzialmente un'idea che può ottima come una vaccata. Flanagan inventa pochissimo, preferendo prendere a piene mani dai capisaldi del genere (di fatto prende i topos di Bertino), ma li gestisce bene.
Utilizza la caratteristica della protagonista in maniera sensata e drammatica (amplificando o aannulando i suoni per aumentare la tensione), crea un personaggio articolato che non si limita alla fuga, ma ha un background e delle peculiarità, riesce a tenere la tensione e l'attenzione per tutto il tempo con solo un paio di momenti pretestuosi (come spesso succede in questo genere).
L'effetto finale è decisamente buono, senza picchi fulminanti, ma il prodotto è solido e ben costruito; c'è un (pallido) tentativo di sdoganarsi da Bertino con fughe, possibilità di intervento esterno, un finale alla "You're next" (ok, sto esagerando, diciamo che c'è dell'enpowerment, ma non a quei livelli) e addirittura l'antagonista che si toglie la maschera (ammazzando metà dell'effetto thrilling).

lunedì 30 dicembre 2019

The witch. Vuoi ascoltare una favola? - Robert Eggers (2015)

(The VVitch: A New-England Folktale)

Visto in DVD.

Una famiglia di pellegrino americano troppo estremisti religiosi anche per la loro comunità di pellegrini viene scacciata ed esiliata nella foresta vergine.
Dovrà fare i conti per prima cosa con l'ambiente ostile, umido e malaticcio, con la scarsità di cibo e con le loro stesse regole sociali che opprimono la donna. In secondo luogo dovranno vedersela con una strega che abita in quel bosco e con Satana (ammesso che entrambi non siano che una leggenda).

Film spettacolare, costruito con un'attenzione per i dettagli estrema degna delle psicopatologie di Kubrick: vestiti cuciti a mano, inglese arcaico dell'epoca, luce naturale (che fra tutte queste apparenti minchiate è la scelta più evidente che da all'ambiente un aspetto lattiginoso).
Non è il primo film a perdersi dietro a una messa in scena autoriale, né il primo a parlare di come l'ambiente modifichi le persone; ma è quello che recentemente riesce meglio in questo campo e si permette di costruirci attorno un horror senza jump scare, ma pieno di tensione continua che deriva tanto dalla presenza incombente del maligno (mai mostrato, ma veicolata attraverso gli alberi che murano laa casa in una radura e attraverso gli animali che, però, si comportano da animali normali), quanto dai rapporti familiari che si allentano e degradano verso la follia più totale.

La struttura della trama è un lento, dieci piccoli indiani, un centellinare le scomparse e le morti immotivate fino allo showdown finale.
Il film è efficacissimo, e si appoggia su un cast incredibilmente e credibile, tutti in parte e tutti con le facce giuste, ma vanno sottolineate le prestazioni di Anya Taylor-Joy che si porta gran parte del film sulle spalle (è la figlia adolescente che ha la grave colpa di essere donna e adolescente) e di Harvey Scrimshaw che dura meno, ma la scena dell'invocazione (Gesù o il diavolo?) pre morte è credibile, dolente e sensuale nello stesso momento (e all'epoca aveva solo 14 anni!!!).

PS: sottotitolo italiano totalmente fuori contesto, credo che parta da quello originale, ma che l'abbiano scelto senza aver visto il film.

venerdì 1 novembre 2019

Non aprite quella porta - Tobe Hooper (1974)

(The Texas chain saw massacre)

Visto in Dvx.

Un gruppo di amici va a in gita nelle profonde campagne texane; il motivo che li spinge è poco attraente: una serie di profanazioni nel cimitero locale spingono due del gruppo a cercare la tomba e la casa del nonno per vedere se sono stati coinvolti. Finiranno tutti nelle mani della peggior famiglia di redneck dedita al cannibalismo.

La storia è nota e il dietro le quinte produttivo pure (un film amatoriale realizzato con studenti e colleghi del professor Hooper) per questo che non si può candidare come il primo slasher della storia per essere stato superato dalla mosca bianca Gordon Lewis, ma si propone come il primo horror extraurbano (quelli di gruppi di persone che si perdono e vengono massacrati da maniaci). Risulta anche essere il primo della new wave horrorifica degli anni '70 che portò uno svecchiamento incredibile nel genere (incancrenito sui film d'atmosfera iniziati negli anni '30 e codificati nei '50) e che fece da base per l'horror come lo conosciamo ancora oggi. Hooper però è lontano anni luce dalla patinata perfezione formale di "Halloween" o dal puritanesimo di fondo di "Venerdì 13"; si trova più vicino al gusto del primo Wes Craven, seppur in anticipo sul collega.

La visione horrorifica di Hooper è piuttosto chiara e semplice; l'orrore deve essere immediato e senza tanti fronzoli: atmosfera creata con immagini che lasciano poco all'immaginazione (cadaveri in decomposizione, ossa, sangue, ecc..), niente abbellimenti cinematografici (anche se la fotografia non modificata o l'assenza di musiche sono motivate pure dal progetto amatoriale) e la violenza che esplode improvvisa, rapida e feroce. il film si concede una fuga e un inseguimento solo con l'ultima vittima, nel resto del film faccia di cuoio salterà fuori ucciderà e tornerà dietro la porta senza attendere o permettere il minimo di suspense; è l'orrore puro, non un film di Hitchcock.

La regia è interessante e mostra che dietro la macchina da presa non c'è un semplice esordiente, ma a vincere è la visione d'insieme, il tocco quasi documentaristico (termine esagerato, me ne rendo conto), la verosimiglianza come unico metro.

Il film comunque mostra tutti i difetti dell'opera artigianale, sia dal punto di vista visivo, sia in quello del ritmo, con un dilungarsi della cena finale che annoia più che aumentarne l'effetto. Ci si trova comunque davanti a un film basilare che diverrà archetipico, un classico che farà scuola.