lunedì 30 novembre 2015

La tela animata - Jean-François Laguionie (2011)

(Le tableau)

Visto in Dvx.

In un quadro c'è differenza di casta in base al grado di completezza; ci sono i completi, gli incompleti e gli schizzi. Ovviamente c'è un amore impossibile fra un completo e un'incompleta. L'innamorato fuggirà dal quadro per cercare il pittore per fargli finire il lavoro; se ne andrà con uno schizzo finito con lui per caso e un'incompleta (che non è la sua amata).

Storiella canonica che potrebbe (e vorrebbe) essere poetica e fantasiosa. Per un breve momento riesce quasi ad esserlo, ma si incarta presto nella fuga da un quadro all'altro (anzi dentro un unico quadro di Venezia) e si perde nella banalità. Carina solo l'idea dell'autore deificato (di fatto è una storia d'amore con ricerca di Dio sotto mentite spoglie) e simpatiche le citazioni pittoriche (il pittore che sembra Monet, dipinge come Picasso e c'è almeno una scena francamente dechirichiana),

Realizzato con una tecnica d'animazione mista (molto computer) tutto sommato ben realizzata che sfrutta la bidimensionalità quando serve e realizza 3D molto buoni quando necessario (e poi si aggiunge anche una scena in live action).

In definitiva è una robetta, piacevole e ben realizzato, ma sempre una robetta.      

venerdì 27 novembre 2015

Anna Karenina - Joe Wright (2012)

(Id.)

Visto in Dvx.

la storia di Anna Karenina è più o meno nota... comunque; una brava madre di famiglia russa si innamora di un giovine militare, si fanno duro, poi il marito di lei lo scopre, solo che (per amor di figlia e perché è un santo e per evitare uno scandalo) lui ci passa sopra, lei è scossa per il senso di colpa e perché il nuovo amore finisce rapidamente... e pure lei finisce rapidamente.

Anche qui un film muscolare dal punto di vista della regia. Wright sa che tutti quello che guardano il film sanno come finisce, quindi anziché girarci intorno e fare finta che sia un colpo di scena, trasforma lo spoiler in un punto di forza; prende il treno e lo usa come un'immagine che perseguita la protagonista fin dall'inizio (visivamente e a livello uditivo).
L'altra idea (più folle e immotivata) è di ambientare quasi tutto dentro un teatro (tra cui il ballo! la pista di pattinaggio!! e la corsa dei cavalli con relativo incidente!!!) con fondali dipinti, scenografie mobili, comparse che interpretano più parti cambiandosi di vestito in scena, trucchi teatrali mostrati e sfruttati (come i camminamenti al piano superiore usati come fossero le stanze di una casa) e l'occhio di bue a sottolineare i personaggi. Il senso non è diretto, ma rende più rapide le scene, può dare libero sfogo ai suoi amati piani sequenza e per dare un risalto pazzesco alle scene in esterni (oltre al fatto che realizzato così è figo).
Il ritmo, come dicevo, è sostenutissimo e da il meglio di sé nelle danze (quelle vere, come il valzer rielaborato come un ballo di mani, o quelle improprie, come la vestizione dell’incipit o i burocrati che timbrano fogli), eppoi c’è il solito uso grandioso dei suoni come mezzo principe per veicolare concetti (il suono del treno) o per creare l’atmosfera (le musiche fatte con i suoni del lavoro).
Oltre a tutto ciò c'è una sequela di scelte estetiche enorme, dai colori all'immobilità delle comparse in certe scene, il gioco con i cubi con le lettere.

Probabilmente l'adattamento migliore di sempre del romanzo di Tolstoj.

PS: c'è un personaggio che è uguale a Nero.

PPS: l'ho già detto che ha immagini bellissime?

mercoledì 25 novembre 2015

Il segreto dei suoi occhi - Billy Ray (2015)

(Secret in their eyes)

Visto al cinema.

Un omicidio, un agente dell'antiterrorismo che, per motivi personali, si mette a indagare; a distanza di 13 anni sembra avere (finalmente) scoperto qualcosa, cerca di riaprire il caso grazie all'aiuto della sua ex fiamma (quasi mai dichiarata) riaprendo vecchie ferite.

Questo film è, ovviamente, il remake americano, dell'omonima opera argentina. Al netto delle differenze di trama (molto semplificata in questo caso, eliminando alcuni personaggi tra cui il bellissimo collega alcolista e riducendo la vicenda a un doppio inseguimento, uno nel passato e uno nel futuro) l'operazione è interessante, perché prende una vicenda blandamente legata alla storia della dittatura argentina e la attualizza sostituendo la dittatura con l'ossessione per il terrorismo post 11 settembre.

Più che la semplificazione della storia (che almeno nella seconda parte sembra modificarsi per poter ottenere l'effetto finale simile a quello del film originale anche per chi già conosce la storia) quello che qui fa scadere il film al rango di un mediocre thriller è tutta la sottigliezza di sceneggiatura e di regia (per le qual cose si può incolpare sempre Billy Ray).
Semplificando la vicenda vengono semplificati anche i rapporti tra i personaggi; l'attrazione corrisposta, ma ami dichiarata, fra i protagonisti è esplicitata innumerevoli volte senza riuscire a raggiungere le vette del precedente; viene ance cassata la scena madre del treno, ma a voce alta tutti dicono continuamente dell'amore tra i due. Cambiando il rapporto con la vittima, la magnifica ossessione del protagonista del film ispanico (ossessione legata alla vicinanza con l'innamorata e a fattori indiretti) non viene sfruttata (e sarebbe stato magnifico vedere un protagonista ossessivo in un ambiente paranoico come il post 11 settembre) e si riduce tutto a una sorta di vendetta quasi personale.
Infine la regia si adagia. Non si pretendono i forzati virtuosismi del primo film, ma qui proprio manca tensione quasi in ogni scena e manca completamente il ritmo, riuscendo con successo a costruire qualcosa giusto nel breve inseguimento al galoppatoio.

Il cast all star non rende assolutamente; la Roberts si salva solo per la consuzione che le si vede sul volto e per il dono fattole di interpretare tutte le scene madri, Ejiofor è bravo, ma naviga nella media, la Kidman toglie ogni sottigliezza al personaggio e non riesce minimamente a ricordarmi perché l'ammiravo così tanto.

Un film che perdendo tutto il fascino dell'originale non riesce comunque a competere dal punto di vista del thriller, diventando uno dei tanti prodotti che presto si dimenticheranno.

lunedì 23 novembre 2015

All'ovest niente di nuovo - Lewis Milestone (1930)

(All quiet on the western front)

Visto in Dvx.

Ovviamente tratto da Remarque, quindi la storia della prima guerra mondiale vista dagli occhi di un adolescente tedesco convinto ad arruolarsi volontario.

C’è stato un periodo a cavallo fra gli anni ’20 e 30, a cavallo fra muto e sonoro, che massacrò diversi registi, ma chi riuscì a sopravvivere creò alcune delle opere più interessanti di sempre. Anche qui vi sono scene da vero e proprio film muto (il ragazzo che si presenta alla madre in divisa o il passaggio degli stivali da un militare all’altro) e un uso emotivo del sonoro (il bombardamento durante l’attacco alla trincea); primi e primissimi piani bellissimi degni di un Dreyer (ok, non esageriamo, sono poco un poco più insipidi) e un uso del montaggio molto vivace.
Un film enorme, che con la regia riesce a rendere l'intero mood del libro originale anche più della sceneggiatura. Incipit bellissimo, con i soldati in marcia sempre sullo sfondo (ci sono grandissime scene/affresco con moltissimi piani) mentre in primo piano la gente comune in piena euforia sceglie di arruolarsi; dopo pochi minuti arriverà la guerra vera.

Bellissima, anche, la scena dell’attacco alla trincea, molto coinvolgente dove il sonoro (usato splendidamente) è fatto solo dalle esplosioni dei bombardamenti e vi sono lunghe carrellate sulla trincee (come in molti film di guerra… beh almeno delle guerre di trincea appunto). Unica scena poco risucita, poco empatica, è l’assassinio dentro la buca, dove il dramma non viene quasi per nulla trasmesso. Però poi si conclude con una scena bellissima, che in un altro film sarebbe stata stucchevole.
Detto ciò questa rimane una delle trasposizioni cinematografiche meglio riuscite e, ripeto, per lo più grazie all'uso intelligente dei movimenti di macchina da presa e del sonoro.

Inoltre un film del genere con i tedeschi buonini non lo avrebbero più potuto fare per qualche decennio...

PS: la versione che ho visto è quella ridotta con mezzora in meno.

venerdì 20 novembre 2015

Bronco Billy - Clint Eastwood (1980)

(Id.)

Visto in tv.

Il capo di un circo itinerante di tema western cerca una nuova partner che lo affianchi nel fare da bersaglio nei suoi giochi con le pistole; molte defezioni dopo incontrerà una ricca supponente stronza appena sposata per interesse reciproco che si trova momentaneamente abbandonata dal marito senza soldi. Ovvio che la convivenza inizialmente sarà molto difficile, ma poi conoscendosi si innamoreranno.

Che dire... questo film viene spesso considerato un secondario nella lunga filmografia di Eastwood... Beh è davvero un secondario, molto secondario.
Di fatto un film banale che si muove con il ritmo giusto nel delineare la solita commedia romantica all'amerigana. Non sbaglia niente Eastwood, un protagonista simpatico, un ritmo buono, buoni sentimenti a uso ridere...
Quello che manca è il mordente; è la presenza di uno spettacolo accettabile quando vengono mostrate le giocolerie del circo; è quel tocco alla Eastwood a cui ci si è abituati.
Unici (minimi) motivi d'interesse è il continuo sottolineare la morte del western tenuto in piedi artificialmente da uno spettacolo che ormai nessuno guarda più (si insomma, Eastwood che parla del genere a cui è tanto legato); eppoi c'è la (più) famosa idea del tendone fatto con delle bandiera americane cucite insieme dagli ospiti di un manicomio...
Evitabile.

mercoledì 18 novembre 2015

Spectre - Sam Mendes (2015)

(Id.)

Visto al cinema.

Bond viene incaricato dalla defunta ex M di uccidere un uomo e andare al suo funerale. Ovviamente Bond esegue e viene messo sulle tracce di una organizzazione segreta capitanata da un uomo che lui sembra conoscere; nel mente in UK la sezione 00 viene chiusa.

Questo è un film di cui si dovrebbe parlare su due piani; quello del film a sé e quello del film collocato nella serie dei 4 film con Daniel Craig.

Il film in sé è un lussureggiante, fighetto e high budget thriller spionistico. Curato nei minimi dettagli con una carrellata di vestiti degni di una sfilata di moda e sempre perfetti per l'ambiente in cui devono essere indossati; location impeccabili (al solito) in giro per il mondo (meno titaniche che nei precedenti, ma pur sempre all'altezza); una costruzione degli interne che sta a metà strada fra l'interior design più chic e la mostra d'arte; infine una fotografia impeccabile che colora di toni diversi le varie location e le varie situazioni, senza mai una sbavatura. A questo si aggiunge un cast completamente in parte, non impeccabile, ma adatto, con il villain per eccellenza interpretato da quella faccia da cattivo hollywoodiano di Waltz (non entusiasmante nella recitazione, ma almeno ha smesso quasi del tutto di fare le faccette che faceva per Tarantino).
Poi beh diciamolo, ha diverse scene puramente action di cui una da ricordare, quella esageratamente lunga dell'incipit sull'elicottero in Messico, altre effettivamente poco sfruttate (l'inseguimento sulla neve o la lotta sul treno), con altre che stanno dignitosamente nella media come l'inseguimento a Roma (ottimo per ambientazioni, ma inutilmente protratto senza nessun twist).

Il film inteso come conclusione della serie di quattro film partita con "Casino royale" è invece una delle operazioni di rifondazione di un personaggio più complesse di sempre; nonché una delle meglio realizzate.
Se nei primi due film si era tutti intenti a frustrare le aspettative del pubblico presentando un James Bond completamente privo delle sue caratteristiche base, con "Skyfall" (che diciamolo subito, rimane il migliore dei quattro, ma in fondo era quello con meno debiti da pagare alla storia più ampia) iniziano a delinearsi i segni del mito di sempre, ma aggiornati e autoironici; con questo film si ricostruisce del tutto il James Bond che tutti conosciamo. La ricostruzione però non è una copia pedissequa del personaggio anni '60; si ricostruisce dando tutti i tratti salienti senza i quali non sarebbe Bond, ma lo si aggiorna, lo si rimette in gioco in un mondo contemporaneo; nello stesso momento lo si pulisce dagli eccessi kitsch o camp dei decenni precedenti (ancora una volta prendendosi in giro, come la macchina con le leve che servono ad accendere l'autoradio). Questa ricostruzione passa attraverso la riproposizione di idee di successo modernizzate; si pensi alla sala in cui si riunisce la Spectre, ancora un ampio salone con i villain seduti su un ampio tavolo e Blofeld dal volto invisibile, ma tutto questo senza più quella versione di modernità anni '60 ormai anacronistica; ma ancora di più si pensi al personaggio di Bautista, il classico scagnozzo forzuto della Spectre che sembra essere una fusione di due o tre personaggi dei primi film pur senza volerne ricalcare nessuno.
In tutto questo lavoro è anche encomiabile il tentativo di dare spessore al protagonista regalandogli un passato, non del tutto chiaro, ma ormai evidente; nonché la comprensibile idea di giustificare in qualche modo il perché capiti sempre tutto a lui. In questa opera meritoria si inserisce il personaggio di Blofeld che, a sua volta, viene ricostruito a partire dalla base; duole però ammettere che proprio questo personaggio è il tallone d'Achille della vicenda; il film sembra più intento a dargli un'origine che una personalità e viene relegato nella parte di un megalomane con molti agganci.

In tutto questo però quello che mi ha ulteriormente colpito è il discorso intrapreso già nel film precedente del passato; del dialogo fra vecchio e moderno. Per la prima volta James Bond ha un passato; ma per la prima volta i morti dei film precedenti hanno un peso(la morte viene introdotta con la prima scena e non se ne andrà per tutto il film), vengono ricordati, ma hanno anche un ruolo vero e proprio in questo ultimo capitolo.
L'operazione di modernizzazione sembra voler passare anche da qui, non solo fa dialogare un Bond comunque vecchio stampo con un mondo contemporaneo, ma sembra interessarsi anche a dare ai film un significato che vada oltre all'ennesima avventura di un fighetto a cui va sempre tutto bene.

PS: pur capendone le intenzioni, la sigla di apertura del film si candida a essere la più ridicola di sempre e la canzone una delle più sbagliate.

PPS: il piano sequenza iniziale è un perfetto esempio di regia impeccabile che azzecca completamente il suo personaggio. Bond vestito da "Baron Samedi" va in una camera d'albergo con la bellisma donna di turno, che si stende sul letto in attesa... intanto lui si cambia d'abito in un blink (citazione perfetta di Moore, ma anche di Connery con lo smoking sotto la muta) e se ne esce sul cornicione come niente fosse con un'arma da fuoco in mano e intanto si sistema con stile i polsini della camicia. Perfetto. C'è tutto.

martedì 17 novembre 2015

Ayanda and the mechanic - Sara Blecher (2015)

(Id.)

Visto al Festival di Cinema Africano (in concorso); in lingua originale, sottotitolato.

Una ragazza, orfana di padre, cerca di mandare avanti l'officina di famiglia per tutti i ricordi che essa contiene. Per tutti quegli anni sono stati aiutati (lei, suo fratello e sua madre) da un amico del padre morto, ma ora anche lui non riesce più a sostenerli. Dovrà reinventarsi restauratrice d'auto per cercare di tenere in piedi tutto, ma il passato ritorna, i sentimenti tenuti nascosti tornano a galla e i rapporti amorosi saranno vittime proprio di quel sogno di riscatto.

Film sudafricano dal piglio giovanile e dalla freschezza innegabile. Gioca con una fotografia colorata; mostra personaggi dai volti solari con tendenze artistiche; cita poesie di Achebe e sfoggia una regia molto calata sui dettagli stilistici (le scene che si muovono come serie di foto, gli intermezzi d'animazione), tutto viene realizzato per essere giovane, carino e totalmente non luogocomunista. Se tutti gli elementi presi singolarmente sono efficaci (e su tutti mi si permette di sottolineare la splendida arroganza degli intermezzi animati totalmente inutili ai fini della storia e realizzati con quel preteso artigianato alla Gondry), nell'insieme però non regge. I troppi elementi sfondano la struttura e affossano il ritmo. Troppe le agnizioni messe in campo per tenere in piedi la commedia, troppi i sentimenti romantici per mantenere la velocità del film di riscatto, troppi i colpi di scena per tollerare un finale che sembra continuamente sfuggire.
Funziona, è godibile, ma è troppo noioso rispetto a quello che avrebbe potuto essere, ma soprattutto è troppo insignificante, troppo dimenticabile. Un esempio al contrario di less is more.

Il film è stato anticipato dal corto "Lazy Susan" del sudafricano Stephen Abbott. Con la macchina da presa sempre appoggiata su un piatto girevole nel centro di un tavolo di un locale (in maniera tale da inquadrare perfettamente i clienti, mentre del personale mostra solo il busto senza testa né gambe), il regista mostra lo spaccato, in versione di commedia, di una giornata di una cameriera, fra clienti accomodanti, irritanti, irritati o stupidi; fino al finale dove, malvolentieri, sarà la cameriera a doversi sedere per essere inquadrata.
Non c'è una trama vera e proprio e neppure la creazione di vere gag; ma il corto p rapido e positivo, divertente senza mai esser davvero comico, non dice nulla, ma in questa descrizione di una giornata attraverso i clienti incontrati, ce n'è abbastanza per essere soddisfatti. Buona la chiusura.

lunedì 16 novembre 2015

Madame courage - Merzak Allouache (2015)

(Id.)

Visto al Festival di Cinema Africano (in concorso); in lingua originale, sottotitolato.

Un ragazzo algerino vive fra piccoli furti di basso profilo, la dipendenza da una medicina euforizzante e una famiglia ai margini (la sorella di prostituisce e la madre bipolare e distante vive guardando programmi religiosi). Durante un furto il suo sguardo si incrocia con quello della vittima e se ne innamora. Inizierà a seguirla, ma il fratello di lei, un poliziotto, cercherà di proteggere la sorella.

Un film che più neorealista non si può; parlo del contorno in cui vivono i personaggi prima di parlare dei protagonisti utilizza una macchina a mano pervasiva e una fotografia realista; non crea eventi epocali, ma racconta una piccola storia priva di sbocchi...
eppure a questo film manca molto. Se il neorealismo ha avuto successo è stato perché parlava della realtà, of course, ma anche perché dietro alla macchina da presa con De Sica si mostrava una poesia degli ultimi invidiabile o perché con Visconti il paesaggio non divorava lo spazio alla storia narrata; più di recente la riproposizione del neorealismo ha avuto come sbocchi felici il cinema dei Dardenne, che però riesce a essere uno dei più sentimentali di sempre, o come quello di Panahi dove il neorealismo è solo un mezzo per tirare fuori contenuti forti descritti in maniera elegante e potente insieme. Insomma, il neorealismo non si è mai limitato a essere una sorta di documentario in forma di fiction, ma è sempre stato un mezzo per veicolare più efficacemente emozioni, sentimenti o opinioni.
Qui la parte tecnica è presente e la realtà descritta è estrema, c'è l'intento morale e sociale, ma manca completamente il cuore; Allouache descrive bene l'ambiente, ma ne mostra solo il volto e non le espressioni.

Il film è stato anticipato dal cortometraggio "Discipline" dell'egiziano Christophe M. Saber; in un negozio di alimentari svizzero un padre (di origine nordafricana) esausto da uno schiaffo alla figlia, una donna svizzera interverrà inorridita e dopo di lei a uno a uno tutti i personaggi all'interno del negozio; ognuno in contrasto con gli altri, ognuno di origine diversa e ognuno con un suo pregiudizio nei confronti degli altri; da un gesto messo in atto per far rispettare la disciplina ne verrà fuori uno scontro di massa. Film dal soggetto buono e da una sceneggiatura spettacolare per come riesce a dare fuoco alle polveri e sostenere il caos che crea in maniera coerente per tutto il minutaggio; regia al servizio della trama, rapida e dal ritmo sempre presente. Un piccolo gioiello, divertente e dissacrante.

sabato 14 novembre 2015

Decor - Ahmad Abdalla (2014)

(Id.)

Visto al Festival di Cinema Africano (in concorso); in lingua originale, sottotitolato.

Una direttrice artistica cinematografica che lavora con il compagno, decide, con lui, di accettare un lavoro commerciale; i tempi di produzione stretti, il regista pilatesco e i diverbi con la star causeranno un tale stress che la donna sembrerà avere problemi mentali; si ritroverà spesso sbalzata nella vita di un'altra donna che rispecchia in parte quella fittizia creata per il film. Ovviamente i continui salti introdurranno il dubbio su quale sia la vita vera e quale l'allucinazione, ma durante lo svolgimento del film, la sicurezza e la voglia di vivere l'una o l'altra vita continueranno a modificarsi.

Prima di difetti. Il film latita in ritmo; non è mai noioso, ma fin dai primi (bellissimi) minuti si percepisce una mancanza di grip. Inoltre, e soprattutto, il film dura troppo, con una sceneggiatura che parte estremamente superficiale (ma si rivelerà esattamente all'opposto) con una ripetitività evitabile; può quindi risultare facilmente indigesto, specie nella prima metà.

Poi i pregi. Il film è esteticamente bellissimo. Una fotografia in bianco e nero senza la minima sbavatura; un costruzione delle scene che sembra creare delle fotografie da esposizione; alcuni tagli di luce che il 90% dei film autoriali europei invidierebbero se solo potessero immaginare cosa c'è dall'altra parte del Mediterraneo.

Infine la lettura. Beh questo è un film con così tanti strati plausibili che difficilmente se ne può venire del tutto capo. Al di là della trama pura e semplice, la prima lettura è il film metacinematografico. Il film cita apertamente altri film classici egiziani e continua a far tornare la figura di Faten Hamama (ma ci sono anche citazioni dai Lumière con il treno nelle prime scene che precorre a quello a metà film che a sua volta sembra una citazione di "Strade perdute" di Lynch), mentre le due storie che si svolgono sono, ognuna per conto suo, un melodramma classico, quasi stucchevole; la chiusura finale che ricalca quella di un film già mostrato e poi l'uscita dal cinema sono solo le evidenze che rimangono più impresse.
C'è anche la fiaba morale che mostra come tutto ciò che è accessorio alla vita sia fuggevole (sia un decoro), compresa la felicità, ma che il migliore dei mondi possibili non si limiti per forza nello scegliere fra il bianco o il nero, ma che a volte c'è una terza via possibile (che aumenta i colori della tavolozza, come nell'ultimissima inquadratura).
C'è il risvolto meramente onirico di una vicenda che parli solo della mente umana, di cui il cinema (come rappresentazione per immagini della fantasia del suo autore) diventa simbolo assoluto e, in quest'ottica, la scena finale con l'incidente che riporta i colori in scena rappresenta la sveglia che riporta in gioco la realtà.
Infine c'è il riferimento politico; i continui discorsi sul coprifuoco che vengono fatti solo in una delle due vite sembrano riferirsi ai giorni delle proteste di piazza Tahrir, il riferimento alla terza via già citato prima (proprio durante le elezioni del 2014 si fece presente il riferimento a questa terza possibilità che non fosse né con i Fratelli mussulmani, né con i militari).

Comunque lo si voglia vedere (e credo che le interpretazioni potrebbero essere ancora molte) quello che si ha davanti è un tracotante mastodonte, perfettamente realizzato che rende omaggio al mezzo che lo produce. Comunque sia, applausi.

Il film è stato anticipato dal cortometraggio "Kwaku" del regista ghanese Anthony Nti. Il corto mostra le avventure di un ragazzino per recuperare dei soldi. Il film, opera prima realizzata con pochissimi mezzi riesce ad avere molti motivi di interesse nonostante una trama semplice e un minutaggio contenuto. Il limite principale è quello di avere una macchina da presa non hollywoodiana, ma il giovane regista la sfrutta, utilizzando la difficoltà di messa a fuoco per costruire le scene e dare più dinamismo esagerando ogni tanto in una confusa macchina a mano alla europea. L'occhio del regista si concentra spesso sui dettagli costruendo sequenze complesse (usando anche in maniera ottima il montaggio), senza, quindi, limitarsi a piazzare gli attori davanti alla macchina da presa. Inoltre la semplicità della storia non limita il linguaggio, anzi, il regista riesce a introdurre elementi all'inizio del film che diverranno chiari solo con il proseguimento della vicenda (il pallone iniziale magistralmente bucato dopo la dissolvenza, o la gamba della nonna massaggiata dal ragazzino) senza che vi sia bisogno che vengano spiegati i collegamenti; inoltre riesce a dare al film un finale totalmente aperto, ma soddisfacente, non lasciando nessuno a bocca asciutta.

venerdì 13 novembre 2015

L'assassino - Elio Petri (1961)

(Id.)

Visto in Dvx.

Un antiquario, donnaiolo e arraffone (si insomma è il solito personaggio di Mastroianni), viene svegliato dalla polizia che lo porta in centrale per un interrogatorio. Per tutto il tempo della sua permanenza lì nessuno gli dirà neppure il motivo. Una volta venuto a sapere di essere un sospettato di omicidio verrà portato sul luogo del delitto e poi in prigione. Questo lungo interrogatorio è la scusa per permettere al personaggio di fare il punto sulla sua vita che gli appare sempre più vuota.

Opera prima di Elio Petri; film evidentemente imperfetto per produzione, ma già contiene in nuce molto di quello che verrà.
A livello estetico c'è una costruzione su più piani (le immagini attraverso le finestre e le porte; c'è una scena all'inizio con Mastroianni che recita con sullo sfondo Roma in un quadro bellissimo); la macchina da presa è dinamica con piccoli piani sequenza e inquadrature sempre gustose (e pure dei carrelli che proseguono alcune sequenze permettendo piccoli momenti di ottima recitazione); e poi continui passaggi con piccoli flashback che è una scusa per fare il punto e i suoi affetti.

A livello di contenuti c'è il rapporto tirannico con l'autorità onnipotente e la presenza di un protagonista solitario pur vivendo immerso nella società.
Da applausi il finale, semplice, ma grottesco che ribalta completamente il personaggio rendendolo non più una figura tragica, ma un ometto piccolo come tutti gli altri.

mercoledì 11 novembre 2015

A 30 secondi dalla fine - Andrey Konchalovskiy (1985)

(Runaway train)

Visto in Dvx.

Alaska, un prigioniero tenta la fuga portandosi dietro, non molto volentieri, un ragazzo che lo ha aiutato a raggiungere le fogne della prigione. Per andarsene dallo stato intendono nascondersi in un treno merci; per un gioco del destino il treno viaggia senza conducente. Si metteranno all'inseguimento del treno il direttore del carcere per acchiappare i fuggitivi e i responsabili delle ferrovie per evitare un disastro.

"Pelham" mi ha insegnato ad apprezzare gli inseguimenti coi treni, "Lone Ranger" (sottovalutatissimo blockbuster di pochi anni fa) mi ha confermato l'attualità di un'idea del genere (che ha come padre nobile Buster Keaton); quindi vedere adesso questo film è semplicemente perfetto.
I motivi d'interesse ci sarebbero comunque essendo la sceneggiatura di Kurosawa (creata per una produzione americana che non arrivò mai in porto) e ripresa da un Konchalovskiy anche lui in trasferta USA (infatti ambienta il film in un'Alaska che sa tantissimo di Siberia).
La trama infatti fa sfoggio di un rapporto a due maestro/allievo con un sensei burbero, ma estremamente vitale e un regazzino che si svilupperà in fretta; c'è tanto Kurosawa.

Konchalovskiy però costruisce un film d'azione duro e realistico, senza fronzoli né fighetterie, lento nello svolgimento, ma preciso al millimetro; mentre si sviluppa viene fuori un pò "Pelham" e un pò "L'imperatore del nord".
Altro punto di forza la costruzione dei personaggi, quello di Jon Voight è roccioso e preciso, folle nel finale, ma per una rivalsa che vale una vita, quasi eroico (ed è interpretato magistralmente da un Voight che nella recitazione assomiglia a Nicholson come non mai; per me la sua migliore interpretazione di sempre che abbia visto finora; è titanico, mangiandosi le scene madri a uso ridere); quello di Eric Roberts è la perfetta controparte, insicura, ma spavaldo, imberbe, ma pieno di aspettative (anche lui è bravissimo, perfetto per la parte, sublime nel rendere i dettagli della caterva di emozioni nascoste sotto quel sorrisetto da regazzino stupido); infine c'è un antagonista magnifico, un John Ryan che, pur essendo il rappresentante del bene, sguazza nella feccia con una gioia indicibile e ama l'azione più del risultato stesso, quando compare in scena gli occhi sono tutti per lui.

Che altro dire, c'è una delle prime particine di un Danny Trejo incredibilmente giovane e un finale in crescendo che ha l'imapatto di una sinfonia. Applausi.

lunedì 9 novembre 2015

La febbre dell'oro - Charles Chaplin (1925)

(The gold rush)

Visto in DVD.

Un omini di belle speranza va in Alaska alla ricerca dell'ora; dopo una serie di disavventure incontra invece l'amore, purtroppo non corrisposto. Grazie all'intervento di un amico con una amnesia gli procurerà il successo, il suo buon cuore gli procurerà l'amore.

Vedendo la scena slapstick con il beccheggio della nave de "L'emigrante" mi è venuta in mente la scena della casa in bilico di questo film... devo ammettere, rivedendolo che le due scene hanno molto poco in comune.

Il film è giustamente uno dei più famosi di Chaplin degli anni '20. Al di là della qualità delle gag che, senza far scoppiare a ridere, riescono comunque a essere divertenti ancora oggi; e al di là della presenza di due delle scene più famose di sempre (quella divertente di Chaplin che mangia la propria scarpa e quella dolce di Chaplin che fa la danza con i due panini). Al di là di tutto ciò, questo film riesce a essere ancora encomiabile per la migliore integrazione fra commedia e sentimentalismo.
Chaplin è un regista drammatico, sentimentale come pochi, semplicissimo nella messa in scena, ma creatore di alcune delle scene più commoventi di sempre; in questo film non ci sono scene enormemente struggenti, ma il valore aggiunto è che il divertimento scaturisce proprio dalle scene più tristi, la fame, la violenza della natura, la violenza, ma soprattutto la solitudine (vero argomento del film) sono i motori immobili attorno cui Chaplin costruisce le gag. Se in altri film ottiene risultati migliori nel far commuovere, mai p riuscito a farlo mentre divertiva il pubblico come in questo film.

Inoltre è ancora godibile nonostante l'età

PS: c'è una versione degli anni '40 con la voce di Chaplin fuori campo che sostituisce i cartelli; non da niente più di quello che davano i cartelli e in qualche occasione l'ho trovato irritante. Consiglio il film muto originale.

L'emigrante - Charles Chaplin (1917)

(The immigrant)

Visto qui.

Le disavventure di un emigrante che cerca di sopravvivere, prima sulla nave che conduce verso gli USA, poi alla miseria che incontrerà una volta giunto a terra. Il finale positivo gli porterà un matrimonio nonostante le difficoltà

Gradevolissimo cortometraggio di un Chaplin già molto abile nello slapstick, anche se non ancora perfetto nell'unire nelle medesime capacità di far empatizzare.
L'ho cercato dopo averlo visto nel film "Arrivederci, ragazzi" perché è evidente che, senza sollevare troppa polvere, Chaplin mostra le condizioni degli emigranti, il sollievo nel vedere la Statua della libertà e gli effetti della povertà (il pesante pestaggio dell'uomo che non può pagare al ristorante); Chaplin qui unisce, come farà nei suoi film migliori, la risata alla lacrima, diverte per le condizioni orribili sulla nave e per le persone trattate come animali così come per le difficoltà economiche successive. Il fatto che sia stato realizzato nel 1917, periodo in cui le migrazioni dall'Atlantico erano ancora presenti (e di cui probabilmente Chaplin aveva avuto esperienza diretta) lo rende una critica sociale in versione di commedia. Bravo.

venerdì 6 novembre 2015

Il mio corpo ti scalderà - Howard Hughes (1943)

(The outlaw)

Visto in Dvx.

La storia di Pat Garrett e Billy the Kid rivisitata per farli diventare due uomini che combattono per un'amicizia distrutta e che verranno a compromessi. Nel mezzo una donna che ama le scollature per tenere desta l'attenzione.

Hughes dirige un western basato su una storia mitica, ma in veste atipica, come una commedia delle parti con un sottotesto omosessuale (l'affetto di Garrett per Doc che scatena tutta la vicenda raggiunge picchi di parossismo che non sembra scaturire dalla semplice amicizia) e un vago disprezzo (o quanto meno fastidio) per la presenza, sessualmente ingombrante, delle donne (beh, della donna).
Da parte sua, alla seconda regia, Hughes muove bene la macchina da presa sui dettagli che gli interessano (l'incipit con la porta dello sceriffo, la partita di poker), usa le ombre per nascondere quello che non può mostrare (la colluttazione nella stalla... e quello che ne segue)... va detto che Hawks aiutò nella regia pur senza accreditamento finale; e direi che è credibilissimo.

Nonostante la ripetitività della trama (è un continuo allontanarsi e riavvicinarsi) e i continui mix di toni (dramma virile, storia d'amore, commedia, western) il film si muove bene e non annoia mai; ma non riesco a non considerarlo ingenuo e superficiale, una sorta di farsa sul genere.              

Titolo italiano che, pur parlando di una sequenza marginale, coglie perfettamente il senso del film che ebbe problemi di censura (da vedere "The aviator" per conoscere la versione scorsesiana della scollatura della Russell).

mercoledì 4 novembre 2015

Arrivederci ragazzi - Louis malle (1987)

(Au revoir les enfants)

Visto ad un cineforum.

Tratto da un episodio autobiografico si vede la vita di alcuni ragazzi dentro un collegio cristiano tenuto da frati durante l'occupazione nazista della Francia (beh, qui si vede bene anche il lavoro di collaborazione della Francia di Pétain). Il film si muove attorno all'arrivo di un nuovo ragazzo leggermente diverso dagli altri, SPOILER ALERT che si scoprirà essere un ebreo nascosto con la connivenza di tutti gli insegnanti.

Il cinema della Shoah è uno dei generi peggiore, sempre uguale a sé stesso, con una serie di luoghi comuni sempre, pedissequamente, disposti, sempre arroganti nel mostrare la bontà delle vittime e la cecità dei carnefici; per questo film come "Schindler's list" o "Adam resurrected" (ma anche, parzialmente, "The reader") sono molto più interessanti della media del genere, perché partono da altri punti di vista e perseguono altri obiettivi; ecco perché film come "La vita è bella" o "Train de vie" sono così godibili, perché parlano delle stesse cose con un tono, finalmente, diverso. Detto ciò il cinema della Shoah è il migliore per vincere premi e prendere soldi, quindi temo che avrà ancora una lunga vita senza modificazioni di sorta.

Detto ciò questo "Arrivederci ragazzi" è un film sulla Shoah che parla di ciò che succedeva in Germania cambiando prospettiva; mostra le persecuzioni nei confronti degli ebrei attraverso la lente deformante di un collegio cristiano, un microcosmo chiuso, separato dal mondo in cui il nazismo è qualcosa di distante e in cui l'ebraismo è un mondo sconosciuto. Muovendosi come un film di ragazzi (e in questo riesce benissimo, mostrando il rapporto fra i due protagonisti che, senza scene madri enfatiche, si modifica dalla diffidenza iniziale a qualcosa di molto simile all'amicizia) e come un mediocre film di collegio, mostra l'impatto della Storia sulle vite quotidiane di personaggi inconsapevoli.
Non un capolavoro, ma, finalmente, un punto di vista diverso dal solito.

PS: inutile dire che il finale, nella sua semplicità (e pur essendo una concessione all'enfasi) riesce a ottenere lo scopo di commuovere.

lunedì 2 novembre 2015

Il gatto con gli stivali - Chris Miller (2011)

(Puss in boots)

Visto in tv.

Il gatto con gli stivali viene ingaggiato da un suo ex amico con cui ha avuto un reciproco tradimento. Faranno un casino, ci sarà un twist plot, un disastro epocale, ma poi el cose saranno sistemato... quasi del tutto.

La storia è scontata, ma è pure superflua, un pò come lo era per il primo "Shrek", i punti d'interesse sono altrove...
E proprio su "Shrek"... Incredibile che per rivitalizzare una serie si sia dovuto attendere uno spin-off. Senza essere ingabbiato in una storia che ormai si avvia verso un vicolo cieco, Miller piglia un personaggio già noto e ci costruisce attorno una vicenda prendendo a prestito un paio di favole nuove. Il risultato è enorme. Non è un film comico come lo era "Shrek" (devo ammettere di non essere mai morto dalle risate), ma una commedia, sempre divertente e divertita, sempre a mischiare le carte, ma soprattutto (come sembra cominciare ad andare di moda) una voglia di buttarsi sulla follia anarchica che riesce a spiazzare e premiare (l'effetto Godzilla del mostro finale!). Inoltre Miller non si tira indietro nel sostenere il ritmo in ogni modo possibile costruendo alcune scene action perfette.
Inoltre i duemila elementi sparsi lungo il film servono solo a creare più riferimenti che possano essere ripresi in maniera spiazzante (il finale con l'ascesa in cielo fra ali bianche!!).
Bello, bravi tutti. L'animazione continua a dare grandi soddisfazioni. (siamo pronti per il franchise).

PS: e c'è un morto!!!