giovedì 28 maggio 2020

Gimme danger - Jim jarmush (2016)

(Id.)

Visto su Mubi, in lingua originale sottotitolato.

Era quasi inevitabile che Jarmush, facesse un documentario sugli Stooges, dato il suo precedente su Neil Young e la sua amicizia, quasi venerazione, per Iggy Pop.
E non c'è che dire, Jarmush si conferma un grande utilizzatore d'immagini. Dovendo attingere a molte foto, qualche raro filmato, riesce a mantenere una qualità e un colpo d'occhio magnifici. Soprattutto con le fotografie d'epoca, sembra sempre avere quella giusta per la situazione (di solito al limite) raccontata, come se fosse stata presa proprio per essere utilizzata in questo documentario. Dove non arriva lo storico si ripiega su un'animazione bidimensionale molto semplice, veloce ed efficacie.
Le interviste attuali invee si limitano al normale lavoro con camera fissa e una scelta delle location che sembra casuale; è evidente che al regista interessa di più gestire il resto.

Il vero limite del documentario però è un altro e lo condivide con la maggior parte dei biopic: tutto viene mostrato come inevitabile, tutta la giovinezza è un prodromo fatale del futuro che rappresenta il gruppo. ma ancora di più pesa l'edulcorante Jarmush.
Il fattore urticante, non accomodante, repulsivo degli Stooges e Iggy Pop in particolare, il loro appetito per la (auto)distruzione, il loro gigiallinare sul palo ben prima dell'eponimo GG è toccato qua e la di sfuggita, per lo più in maniera veloce e secondaria, arrivando a relativizzare collari e nazismo, istrionismo lesionista e droga in favore una più rassicurante invenzione dello stage diving o della disintossicazione.
Togliere tutto questo agli Stooges è togliere la loro anima e la potenza del loro impatto, fare tutto questo facendo sentire in totale 3-4 canzoni per lo più di sottofondo è quasi criminale.

lunedì 25 maggio 2020

Voglio tornare a casa - Alain Resnais (1989)

(I want to go home)

Visto su Mubi, in lingua originale sottotitolato.

Un fumettista americano va a Parigi per una mostra sul fumetto dov'è stato invitato (come ripiego); nelle sue intenzioni c'è la possibilità di riallacciare i rapporti con la figlia trasferitasi proprio nella capitale francese. Sarà però catturato da un professore universitario, suo grande fan, che lo inviterà nella sua casa di campagna.

Resnais alla sua prima prova commedia totale (nessun dramma, se non in versione comica) riesce a fallire in maniera imbarazzante.
Il film è orribile. Una trama pretestuosa, che disegna i personaggi in maniera monodimensionale (sono solo maschere per muovere la storia), li fa agire sostanzialmente a caso senza una reale motivazione con scenette scollegate, dei dialoghi ripetitivi e completamente vuoti, l'idea di mettere i personaggi dei fumetti che dialogano con i protagonisti è pretestuosa e insignificante ai fini del film. E tutto questo senza che la commedia diverta mai.
Ovviamente il film è particolarmente insopportabile se si considera che lo stesso regista di "Hiroshima mon amour" o  "Cuori" non riesce in nessun momento ad azzeccare un tempo, dare un ritmo, mantenere l'attenzione; strascica, si muove con indolenza, conclude alla tarallucci e vino senz aun minimo di nerbo.
Cast intollerabile (Depardieu bravo anche se umiliato in una macchietta inutile).

giovedì 21 maggio 2020

Pelle - Eduardo Casanova (2017)

(Pieles)

Visto su Netflix.

3-4 storie in parallelo caratterizzate da freak (per lo più fisicamente, ma spesso anche moralmente) che tentano di sopravvivere e fare i conti con il proprio essere.

L'opera prima di Eduardo Casanova è figlia diretta dei suoi cortometraggi, se "Eat my shit" (ben costruito, ma puerile limitandosi all'idea del tratto gastrointestinale invertito) è preso per intero in una delle storie (e rappresenta un involontario teaser del film), mentre "La hora del bano" ha già tutti gli elementi estetici che ritorneranno successivamente e una capacità di mettere in scena il suo mondo, zuccheroso e grottesco, che è quasi perfetta.
Purtroppo questo film non è come i cortometraggi.
le storie si intersecano fra di loro in maniera parziale e talvolta pretestuosa, evidenziando che il lungometraggio è stato fatto cucendo assieme una manciata di corti che avrebbero potuto avere un senso da soli; unendoli non ne viene amplificato il significato, ma ne viene smorzato l'effetto, dato che tutti vogliono insistere sul grottesco e sul ripugnante e dato che un corto con un finale sospeso è un conto, una serie mischiata insieme con finali parziali fa tutt'altro effetto (negativo).

La messa in scena è alla Tim Burton, ma esagerata, il rosa come colore dolce e zuccheroso utilizzato in maniera estrema per stridere contro le deformità e l'abiezione morale; interessante, ma utilizzato così è stucchevole e rende fino a un certo punto.
Per quanto esagerata la cosa migliore è sicuramente la scena d'apertura, lievemente sopra le righe (come sempre in Casanova) riesce però a introdurre in un mondo terribile, ma gestito in maniera professionale e pragmatica e con un colpo d'occhio da casa di barbie, ma è obiettivamente troppo poco. Meglio tornare ai corti.

lunedì 18 maggio 2020

Figli degli uomini - Alfonso Cuarón (2006)

(Children of men)

Visto su Netflix.

In un futuro distopico gli esseri umani sono diventati tutti, massivamente, infertili. Si vive in un mondo arido, senza speranza e violento, con gli stessi problemi attuali, ma drammatizzati ed estremi.
(Un uomo viene contattato dalla sua ex moglie (capo di un gruppo di resistenza) per una missione speciale, scortare una donna verso un luogo di mare dove dovrebbe esserci una nave di un fantomatico gruppo di salvataggio internazionale ad attenderla.

Grazie ai soldi e alla credibilità guadagnati dall'Harry Potter più oscuro, Cuaron può realizzare il più interessante film di fantascienza degli anni zero. Gran parte del fascino del film nasce non dallo spunto iniziale, ma dalla messa in scena e dalla regia.
la messa in scena è quella di un futuro prossimo, dove la tecnologia è avanzata, ma non in maniera eccessiva e risulta già usurata, infangata, sporca. Una messa in scena che esalta il tono crepuscolare della trama e che ne determina la credibilità.
La regia poi (il vero motivo di gloria del film) tenta il tutto e per tutto per essere immersiva, con macchina a mano e una serie di piani sequenza che servono a dare unità d'azione e ad aumentare la claustrofobia delle vicende riuscendo nello stesso tempo a far risultare il film un action anche se molto di quello che avviene è una lunghissima fuga a piedi. Se è giustamente famoso il piano sequenza finale (lunghissimo e complicato che termina con un'epifania incredibile) credo vadano encomiati anche la scena d'apertura (che con la sola voice over del tg spiega lo spunto fantascientifico alla base, presenta il protagonista e il mood dell'intero film), ma soprattutto la scena all'interno dell'auto, un capolavoro di complessità e colpi di scena.
Tutto questo sforzo enorme, da spessore alla vicenda, da capacità d'immedesimazione che altrimenti rimarrebbe parziale, ma soprattutto aumenta l'effetto angosciante e senza speranza (se non una luce alla fine assoluta, ma all'interno di un mare di disperazione) che è il cuore del film.
Un film che è fatto da una fuga di un'ora e mezza tra le più crudeli ed emozionanti di sempre.

PS: Owen al suo meglio, stropicciato e abbattuto è il protagonista perfetto.

giovedì 14 maggio 2020

Split - M. Night Shymalan (2016)

(Id.)

Visto su Netflix.

Un uomo rapisce tre ragazze senza un evidente piano alle spalle (sembra le rapisca a caso, non ha intenti sessuali, né di richiedere il riscatto). Quest'uomo, si scopre presto e ormai lo sanno pure i sassi, è affetto da personalità multipla e per tale ragione seguito da una psichiatra che sembra avere dei sospetti su di lui.

Alla seconda prova con la Blumhouse, Shymalan fa il suo primo, vero, twist plot, un thriller (di serie B), puro. che gioca con la tensione accumulata, con l'incertezza data dal protagonista e con la situazione claustrofobica in cui ha inserito le vittime; niente di più e niente di meno.
C'è molto mestiere (seppure con pochi guizzi), un uso sapiente degli interni, qualche cliché horror utilizzato per mandare avanti il tutto e una doppia trama che, anziché complicare, snellisce molto il ritmo del film.
Complessivamente un film solido, un thriller interessante che si fa guardare bene, nessun brivido eccessivo e nessun colpo di genio che possa gareggiare con quelli di "The visit" (che con tutti i difetti d'ingenuità gli rimane notevolmente superiore); ma è la conferma che Shyamalan ci guadagna a lavorare in piccolo. Continuo, però, a credere che se lasciasse scrivere del tutto le sue sceneggiature a qualcun altro ogni suo film potrebbe essere una perla.

Sul cast niente da eccepire fatto salvo per McAvoy; è un bravo ragazzo, mi fa simpatia e si vede che si impegna (e la parte non è per nulla facile), ma rimane sempre sopra le righe, esagera in ognuno dei suoi personaggi sempre al limite della macchietta (soprattutto quando deve interpretare l'omosessuale o la donna).

PS: comparsata finale che ora, sapendo tutto quello che è stato realizzato acquista senso (strizzando l'occhio alla Marvel).

lunedì 11 maggio 2020

Snowpiercerer - Bong Joon Ho (2013)

(Id.)

Visto su Amzon prime.

In un futuro distopico il riscaldamento globale è stato battuto con una sostanza che ab batte le temperature... ovviamente la sostanza sfugge di mano e abbatte troppo rendendo impossibile la vita sulla terra. La popolazione si rifugia su un treno che gira in maniera perpetua sul pianeta. Non tutti sfruttano i vantaggi del treno essendo rigidamente diviso per classi, i ricchi in testa, i poveri ammassati in coda.

Film di fantascienza e metaforone dichiarato (letteralmente) è il primo film americano di Bong Joon Ho.
Partendo da una trama eccessiva viene costruito un film che (se proprio non inneggia quantomeno) disquisisce sulla divisione di classe come avverrà anche nel successivo "Parasite" (ma senza quella grazia) portando il tono fantascientifico alle estreme conseguenze.
Lì'impianto e chiaramente americano, ma con un tocco originale; la scena di battaglia al buio è una buona intuizione (anche se non gestita benissimo), il personaggio dell'immancabile Song Kang Ho, fuori dagli archetipi classici. Un mix interessante che svecchia la fantascienza d'azione a cui siamo abituati senza però perdere in spettacolarità. Anzi, il colpo d'occhio, la ricerca di immagini iconiche è continua e spesso fruttuosa.
Tutto molto bello, tutto molto buono, devo ammettere che non mi ha convinto del tutto; personaggi troppo caricaturali (ma senza un filo di commedia come succede di solito nei film di Joon Ho), situazioni paradossali al limite della sospensione dell'incredulità e un finale che si basa moltissimo su un twist plot molto americano (anche se poi quello definitivo sarà un altro), me l'hanno reso meno godibile di quanto avrebbe potuto. Rimane comunque un ottimo prodotto.

giovedì 7 maggio 2020

La bestia nera - Tod Browning (1919)

(The wicked darling)

Visto su youtube.

Una giovane donna, costretta a fare la borseggiatrice si innamora di un ex ricco da poco caduto in disgrazia e mollato dalla fidanzata a causa del crack finanziario.
la storia fra i due sarà costantemente minata dall'ex collega della donna e dal fatto che l'innamorato disprezzi chi sia costretto a rubare per vivere.

Il primo film della lunga collaborazione tra Browning e Chaney, nonché il secondo della collaborazione di almeno 9 film fra il regista e la Dean.
Inserito di forza nel novero dei film di redenzione (negli anni '10 vi era una forte discussione sulla recuperabilità sociale di chi delinquesse, il film è pertanto un manifesto politico figlio di quel romanticismo caro a Hollywood) è la "solita" oscura storia romantica a cui il regista e i suoi attori feticcio ci avrebbero abituati in seguito.

Il film è il solito dramma dei bassifondi con un giovane Chaney che fa al solito il villain (con il suo gigioneggiare sempre un passo indietro dall'essere eccessivo, risulta sempre espressiva, ma mai caricaturale). Il minutaggio breve lo concentra aumentandone l'efficacia e gli esterni girati di notte (non nell'allora versione di notte americana) danno una cupezza estrema con le tenebre a fare da fondale alle piccole scene illuminate; il tutto concorre a far risultare il film più granitico ed efficace del successivo (e più famoso) "Il fuorilegge" (con cui condivide gli attori principali e l'ambientazione). C'è pure spazio per qualche trovata carina (seppure non innovativa o geniale) come lo "split screen" per identificare un ricordo.
Lievemente eccessiva la Dean fa comunque il suo lavoro in maniera egregia, accettabile il resto del cast sebbene con momenti di  recitazione sopra le righe che stona un poco (il padrino di Mary).

PS: questo film è noto per essere uno dei film perduti di Browning, ritrovato in Olanda negli anni '90, con qualche danno alla pellicola (che meriterebbe un buon restauro), ma completo.

lunedì 4 maggio 2020

Divine Horsemen: the living Gods of Haiti - Maya Deren, Cherel Ito, Teiji Ito (1985)

(Id.)

Visto su Mubi, in lingua originale sottotitolato.

Maya Deren è una regista surrealista degli anni '40 (e già solo con questo credo che potrebbe riempire un libro di storie interessanti) che conosco solo in maniera indiretta per l'aura vagamente mitica e per una citazione sostanziosa nel Dizionario snob del cinema.
Sono rimasto quindi sorpreso dal sapere della sua passione per il voodoo che la portò (tra gli anni '40 e i '50) a passare un lungo periodo ad Haiti, a entrare in contatto con i sacerdoti locali che le permisero di riprendere numerosi riti oltre che di essere edotta sui significati di quanto stava avvenendo. Morta improvvisamente nel 1961 il materiale raccolto non fu mai montato. Ci pensò il marito, Teiji Ito, a metterlo insieme con la collaborazione della quarta moglie, Cherel, e a presentarlo nel 1985 (in realtà a i quell'anno pure Ito era già morto).

Operazioni del genere le guiardo sempre con sospetto non potendo sapere come doveva essere il film (pur se in presenza di appunti come i questo caso).
Per questo film però c'è una sequenza che risulta montata e doppiata (mi pare) dalla Deren stessa e che risulta essere la base per le scene precedenti e successive (doppiate invece da una voce maschile). Ciò non garantisce una totale aderenza all'idea originale, ma probabilmente è la cosa più vicina possibile.

Detto ciò il documentario è estremamente interessante perché mostra una pratica ipercaricata di strutture e idee che poco hanno a che fare (derivate sopratutto dal cinema) facendone piazza pulita. La scena iniziale già dice tutto, una festa in piena luce con persone che ballano in maniera sempre più convulsa e il soggetto che viene "cavalcato" che va in una sorta di trance con occhi rivolti al cielo; immagine che nello stesso tempo elimina anni di mistificazioni e rende comunque un senso di spiritualismo.
Come pecca c'è una certa ripetitività e un gusto per l'elenco e il name dropping delle divinità voodoo che può soddisfare un antropologo, ma che difficilmente farà portare a termine con facilità la visione (pur breve) a uno spettatore meno interessato alle abitudini culturali haitiane.