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mercoledì 16 dicembre 2020

L'ufficiale e la spia - Roman Polanski (2019)

 (J'accuse)

Visto su NowTv.


La storia del caso Dreyfuss trattata da Polanski. La sinossi è tutta qui. Il punto di vista è quella dell'ufficiale che fece parte della commissione giudicante, ma che in seconda battuta scoprì che le prove a carico di D. erano costruite e il colpevole di tradimento ancora a piede libero.

Per stessa ammissione del regista il punto di vista è lontanissimo da quello del condannato perchè era un personaggio... noioso. Pochi interessi, personalità normale, niente di cinematograficamente utile (beh e poi c'è un'esilio sull'isola del diavolo piuttosto lungo). 

Polanski quindi si concentra sui dettagli fisici dell'indagine successiva alla condanna, costruisce una sorta di giallo tutto fatto da pezzi di carta, documenti, faldoni e lacci da sciogliere (senza metafore, proprio i lacci che chiudono i porta documenti) in una pornografia della fisicità che non aiuta la suspense, ma la verosimiglianza di un film in costume che diventa totalmente reale, quasi sinestesico.

Il film funziona perfettamente per tutta la parte dell'indagine, si rimane attaccati allo schermo non per scoprire cosa succederà e quale svolta prenderà la vicenda (è un fatto abbastanza noto anche da noi, salvo i dettagli, l'esito si conosce già), ma per sapere come verrà provata l'innocenza, quali q quante prove o indizi saranno necessari. Nell'ultima parte con i nuovi processi si perde un po d'interesse (anche la sceneggiatura si fa più enfatica), ma la cura impeccabile per la fotografia riesce a mantenere alta la qualità.

Per la prima volta Polanski mette in piedi un films torico reale e realistico senza perdere quella sua attitudine sempre svolta nei suoi drammi da camera, con vicende chiuse fra quattro pareti dove personaggi su fronti opposti si si scontrano, si studiano o cercano di eliminarsi (anche fisicamente); e il risultato è il migliore fra i suoi film in costume.

Cast magnifico, tutti all'altezza con un Dujardin che gioca di sottrazione (ma in maniera più calda rispetto ai colleghi americani) e fa da mattatore, una Seigner messa lì perché Polanski la mette dappertutto e un Garrel rabbioso messo u po in disparte (ah c'è pure Barbareschi in una particina).

lunedì 28 settembre 2020

Silence - Martin Scorsese (2016)

(Id.)

Visto su Netflix.

Se lo Scorsese degli ultimi anni pè diventato sempre più ipertrofico nella durata dei suoi film, nelle sue due ultime opere si abbandona anche a un ritmo lento che può renderne più difficile la digestione (beh non per me, ma immagino che possa). Il livello per fortuna rimane altissimo.
In questo film (organizzato e pensato per quasi 30anni, non a a caso vicino a "L'ultima tentazione di Cristo") Scorsese torna con una potenza incredibile sul rapporto con la fede, azzera tutti gli altri suoi topos classici e si concentra su quello.
La lunga epopea di questi due preti nel temibile Giappone di fine '600 alla ricerca di un altro prete cattolico (religione messa al bando e pesantemente punita) è un apocalypse now della fede, un lento immergersi nei rischi supportati solo da una sicurezza che non può cedere o tutto è perduto.
E Scorsese gestisce benissimo la materia, utilizzando la natura (pervasiva almeno per la prima metà), gli alberi, l'acqua, come forze sferzanti, come prima ordalia da affrontare, ma che non nega la presenza di un dio; mostrando la paura attraverso il coraggio altrui. Si concede poi un lungo showdown incastrato negli edifici tradizionali giapponesi, il passaggio è netto, la perfezione geometrica dei palazzi, la pulizia estrema, sono una gabbia in cui rinchiudere i cristiani, ma in cui è anche impedito al loro dio di entrare. Nel lungo finale è tangibile l'assenza di dio, trattenuto dalla forza (morale) dei giapponesi (che sembrano i vincitori della vicenda) e l'ultima inquadratura è la crepa nell'edificio perfetto, la falla che permette il fluire della divinità in quel mondo asettico.

Il film è largamente imperfetto, eccessivo e lunghissimo; ma è formalmente impeccabile (come sempre), di un perfezione che definisce anche il contenuto.
L'eccessiva lunghezza e ripetitività non possono farlo considerare un ottimo film, ma se si trattasse di un fallimento (che non è) sarebbe un dei più belli e intensi di sempre.
Personalmente non credo che lo vorrò rivedere a breve, ma è uno Scorsese in grandissimo spolvero e, nel suo continuo interrogarsi sulla fede, probabilmente uno dei migliori.

PS: non ho riconosciuto Tsukamoto nella parte dle fedele del primo villaggio!!!!

giovedì 11 giugno 2020

La battaglia di Alamo - John Wayne (1960)

(The Alamo)

Visto su NowTv, in lingua originale sottotitolato.

Il racconto (che molti ci tengono a sottolineare essere non accurato dal punto di vista storico... ma va?!) delle vicende che hanno portato i colonnello Bowie e il più noto Davy Crockett a combattere dentro a Fort Alamo per dare il tempo all'esercito texano (all'epoca parte del Messico) di organizzarsi per combattere quello messicano ufficiale. Il sacrificio di meno di 200 persone per dare il tempo ad altri di vincere.

Fortemente voluto da John Wayne per anni questo è il primo (di due) film da lui interpretato, diretto e prodotto. Fu un investimento gigantesco e un fiasco al botteghino che precluse a Wayne di bissare per quasi un decennio.

Il film è un polpettone sentimentale (in senso di sentimenti machisti, poco romanticismo) inserito nel genere western classicissimo che di li a pochi anni sarebbe stato buttato a gambe all'aria da Leone.
Enfatico nei toni e manierista nella recitazione (bisogna riconoscere a Wayne di essere quello più controllato, ma d'altra parte lui è stato uno dei più grandi caratteristi d sempre) è un inno al cinema più passatista e patriottico che sarebbe stato accettabile almeno dieci anni prima o più.
Posto tutto questo rimane un film molto godibile.
Accettando che la battaglia vera e propria sia solo negli ultimi 10 minuti (ma è solo il titolo italiano che è fuorviante) è un film classicheggiante che nelle sue due ore e mezza si concede solo un paio di momenti di stanchezza.
Togliendo infatti i due o tre monologhi più patetici (su tutti quello di Wayne al fiume con la donna che manderà via) il film si muove con un ritmo costante, rilassato, ma preciso, intrattiene con garbo, diverte il giusto e mette insieme i pezzi giusti per arrivare al climax finale.

In verità, in tutto questo marasma di già visto, è affascinante che il film su Alamo sia un gioco a tre fra i colonnelli, un film con intrighi di palazzo (poco elaborati) e diplomazia (sempre con piglio divertito), dopo circa un'ora si avvicina a  una "La sfida del samurai" scanzonata.

PS: un encomio agli sceneggiatori che hanno dovuto inventarsi tre morti eroiche senza che ognuna facesse sfigurare quella degli altri.

giovedì 26 marzo 2020

Papusza - Joanna Kos-Krauze, Krzysztof Krauze (2013)

(Id.)

Visto su Mubi, in lingua originale sottotitolato.

La vita della prima poetessa rom in Polonia, dall'infanzia dove impara a leggere di nascosto dalla comunità, i rapporti con il gadjos (la versione rom dell'ebraico Gentile) e poeta che si affiliò alla sua comunità per sfuggire alla giustizia, che per primo capì il potenziale e ne favorì la pubblicazione. L'ostracismo della comunità per la scoperta che Papusza (nomignolo derivato dall'infanzia) ha rivelato ai gadjos i segrreti e le tradizioni rom la farà arrivare alla follia.

Il film è lento giocato sull'intersecarsi dei piani temporali senza che siano indicati preventivamente con cambi di struttura, un trattamento adulto che, all'inizio, può confondere.
L'effetto finale è quello di un biopic che ha il passo del film di fiction (e per me è un complimento), in cui la vita di un personaggio, seppure romanzata, non la fa apparire come un supereroe misconosciuto, ma come una donna avversata dalla sfortuna e perfettamente inserita nel tribolato dopoguerra polacco.
Se il film non soddisfa del tutto è per il ritmo fuori controllo e per una sceneggiatura non incisiva che tratta ogni momento con lo stesso piglio.
Il valore aggiunto però è una fotografia grandiosa che nelle ampie scene di campagna ricorda più l'opera di Salgado che il cinema classico.

giovedì 27 febbraio 2020

Il primo re - Matteo Rovere (2019)

(Id.)

Visto in DVD.

Il primo re (la storia riveduta e allargata di Romolo e Remo) si apre con i 20 minuti migliori del cinema italiano degli ultimi anni. Una serie di sequenze (l'inondazione, la salvezza, la cattura, la lotta e la liberazione) realizzate da dio, che parlano con la sola forza delle immagini (le parole sono pochisisme e quelle poche utile a creare l'ambiente più che a veicolare messaggi) e riescono a spiegare il contesto storico (un epoca pre romana, post neolitaca, una via di mezzo scarsamente raccontata), la relazione fra i personaggi, il tono generale del film (la lotta con la violenza esposta, la fotografia cupa e umida con la luce del fuoco enfatizzata), i rapporti di forza fra i gruppi e il contesto spirituale (determinante ai fini della trama). In quei primi 20 minuti c'è tutto ed è tutto quasi perfetto.
Il resto del film prosegue bene, ma perde in mordente; sviluppa benissimo i personaggi (la sacerdotessa che protegge il malato, la caccia per riguadagnare credibilità eccetera) senza perdere di vista l'ambiente, ma le scene saranno più ripetitive, meno potenti.
Se quell'inizio serve a mostrare i muscoli, il resto del film prosegue con due delle idee più interessanti viste ultimamente.  La prima è la mitopoiesi di un'epoca mai mostrata al cinema (per quanto ne so); l'altra è lo spirituale che pervade il mondo senza mai rendersi evidente.
nel parlare di Romolo e Remo si decide (giustamente) di lasciare da parte lo stile dei peplum (uno stile molto codificato, preciso e ormai usurato con un vago senso di stantio), si abbandona il già noto e si decide di creare qualcosa di nuovo, una via di mezzo fra "La guerra del fuoco" e il "MacBeth" di Polanski, con una natura incombente e traditrice, con un'ambientazione umida, fatta di fango e sudore e sangue.
La parte spirituale è poi perfetta incarnazione di questo ambiente. La divinità è concreta e sfuggente allo stesso tempo (il fuoco), ma il metafisico è incombente quanto gli alberi che li circondano e inquietante quanto il buio senza mai avere bisogno di ricorrere a effetti speciali o giochi di magia.


Encomio generalizzato al gruppo di attori (anche se non tutti perfetti, tutti con un corpo e una presenza utili alla vicenda) con l'ovvio encomio particolare ad Alessandro Borghi.

lunedì 30 dicembre 2019

The witch. Vuoi ascoltare una favola? - Robert Eggers (2015)

(The VVitch: A New-England Folktale)

Visto in DVD.

Una famiglia di pellegrino americano troppo estremisti religiosi anche per la loro comunità di pellegrini viene scacciata ed esiliata nella foresta vergine.
Dovrà fare i conti per prima cosa con l'ambiente ostile, umido e malaticcio, con la scarsità di cibo e con le loro stesse regole sociali che opprimono la donna. In secondo luogo dovranno vedersela con una strega che abita in quel bosco e con Satana (ammesso che entrambi non siano che una leggenda).

Film spettacolare, costruito con un'attenzione per i dettagli estrema degna delle psicopatologie di Kubrick: vestiti cuciti a mano, inglese arcaico dell'epoca, luce naturale (che fra tutte queste apparenti minchiate è la scelta più evidente che da all'ambiente un aspetto lattiginoso).
Non è il primo film a perdersi dietro a una messa in scena autoriale, né il primo a parlare di come l'ambiente modifichi le persone; ma è quello che recentemente riesce meglio in questo campo e si permette di costruirci attorno un horror senza jump scare, ma pieno di tensione continua che deriva tanto dalla presenza incombente del maligno (mai mostrato, ma veicolata attraverso gli alberi che murano laa casa in una radura e attraverso gli animali che, però, si comportano da animali normali), quanto dai rapporti familiari che si allentano e degradano verso la follia più totale.

La struttura della trama è un lento, dieci piccoli indiani, un centellinare le scomparse e le morti immotivate fino allo showdown finale.
Il film è efficacissimo, e si appoggia su un cast incredibilmente e credibile, tutti in parte e tutti con le facce giuste, ma vanno sottolineate le prestazioni di Anya Taylor-Joy che si porta gran parte del film sulle spalle (è la figlia adolescente che ha la grave colpa di essere donna e adolescente) e di Harvey Scrimshaw che dura meno, ma la scena dell'invocazione (Gesù o il diavolo?) pre morte è credibile, dolente e sensuale nello stesso momento (e all'epoca aveva solo 14 anni!!!).

PS: sottotitolo italiano totalmente fuori contesto, credo che parta da quello originale, ma che l'abbiano scelto senza aver visto il film.

lunedì 23 dicembre 2019

Highwaymen. L'ultima imboscata - John Lee hancock (2019)

(The highwaymen)

Visto in tv.

Nella storia americana si è creato il mito di Bonny e Clyde, due criminali della depressione che canalizzarono la frustrazione di quella generazione. Ma due criminali erano e la spettacolarizzazione delle loro imprese (che tralasciano spesso la scia di sangue) e la mitizzazione della loro fine sono topos scolpiti sulla pietra.
Ecco che lì'originalità di questo film è tutta nel cambio di punto di vista. Per la prima volta i protagonisti (che sono ovviamente i buoni) sono i poliziotti (integerrimi e scalcinati nello stesso tempo) che danno la caccia a due rapinatori e assassini. L'intento è creare il mito opposto a quello classico, il mito delle forze dell'ordine contro due fuorilegge (che infatti rimangono quasi sempre fuori inquadratura). A dirla così sembrerà banale, ma è il punto più originale del film. per farlo, ovviamente, si punta sulla mitopoiesi classica hollywoodiana; Costner come protagonista (il buono per eccellenza degli ultimi 30 anni cinematografici), una messa ins cena pulitissima fino a sfiorare il museale (vestiti sempre a posto, fotografia nitida, ambientazioni dei bassifondi che trasudano ricostruzione pulite in ogni inquadratura).
Ecco, l'idea di base vince in originalità, ma per realizzarla ci si impegna nello scontato. Operazione corretta dal punto di vista formale (il mito si crea con l'ordine come ci insegnò John Ford e non con la polvere di un Sergio Leone), ma che riesce comunque stantio e stridente.
Il film viaggia bene e riesce in maniera perfetta nel finale rendendo in maniera, finalmente, completa, l'agguato finale (trasformando in tensione e coraggio quanto era stato raccontato finora come viltà).
Film gradevole, ma vittima del suo stesso intento.

venerdì 13 dicembre 2019

I predatori dell'arca perduta - Steven Spielberg (1981)

(Raiders of the lost ark)

Visto in tv.

Poi Spielberg decise di mettere in piedi una baracconata d'avventura basata su fumetti dozzinali di quando era lui il regazzino, di ambientarla negli anni d'oro del fumetto (i '30s) così da avere la scusa pure per ammazzare qualche nazista; infarcire il tutto di pseudoarcheologia e misticismo ebraico. Un mix sostanzialmente mortale per chiunque, ma il nostro adorato regista realizza uno dei picchi di una carriera... ricca di picchi.

Al di là del lavoro muscolare di ricostruzione di un mondo (mai esistito) dettagliato e variegato, al di là dello sforzo di creare personaggi interessanti e a 360 gradi pur mantenendo i buoni buonissimi e i cattivi... beh sono nazisti. Al di là di tutto questo, quello che più mi impressiona ogni volta che vedo un filmd ella trilogia di Indiana Jones è quanto regga da dio gli anni e le età dello spettatore. Questo è un film che ho adorato da giovanissimo e continuo ad apprezzare.
Spielberg mette in piedi una sana storia d'avventura e per portarla avanti decide che l'azione dovrà essere determinante. Verrà fatto di tutto, scazzottate, fughe dalle fiamme, fughe dentro ceste, battaglie d'auto, ecc.. tutto senza perdere mai un colpo e riuscendo anche mandare avanti la trama mentre si fugge (il capolavoro in questo senso sarà però "Il sacro graal").
Il lavoro riesce talmente bene e l'adrenalina si mantiene a buoni livelli tanto da far accettare i dettagli mistici anche al pubblico più esigente.

Ovviamente dietro la amcchina da presa Spielberg lavora su più piani e costruisce un film in cui le due sequenze iniziali (quella nella foresta e quella all'università) che facendo molto, ma dicendo poco (le scene dell'idolo d'oro potrebbero anche essere mute e cambierebbe di un nulla) descrivono in maniera completa il personaggio appena introdotto.
Il resto del film è un gioco continuo di mostrare in maniera non banale, sfruttando spessissimo le ombre o i tagli di luce quasi noir per un film ttuto sommato molto soleggiato.

Un film che riesce a coniugare una storia a più livelli che può accontentare quasi ogni pubblico, uno sviluppo avventuroso che tiene attacati allos chermo e una tecnica enomre. Un mix che, per fortuna Spielberg ci riproporrà almeno un altor paio di volte...

lunedì 25 novembre 2019

La favorita - Yorgo Lanthimos (2018)

(The favourite)

Visto in aereo.

Io e Lanthimos abbiamo un rapporto contrastato. Lui fa film shockanti che sulla carta non possono non piacermi, ma spesso si limita a espandere l'idea iniziale senza costruirci attorno un vero e proprio film, se tanto basta piace, se ciò non basta, lo si odia... io appartengo alla seconda categoria.
Da un paio di film a questa parte sembra essersi sforzato sempre di più di mettere in scena una trama oltre a un'idea forte (che rimane comunque la sua cifra) e se all'inizio sembrava un caso, si sono avute conferme piacevolissime.
Con "La favorita" si ha, finalmente, un cambio di paradigma. L'idea di fondo è un rapporto a tre, lì'idea di base è un mondo di sopraffazioni con intrighi di palazzo. L'idea di fondo è una trama prima che un singolo dettaglio shockante; non sarà originalissimo, ma il film ne guadagna.

Lanthimos costruisce una sfida fra due favorite della regina inglese (una regina adulta, ma mentalmente infantile) che si dimostra una lotta tra cani disposti a sbranarsi. L'idea vincente, però , è il trasformare il tutto in una sfida di sopraffazione che coinvolge chiunque. Lathimos prima crea un mondo di violenza trattenuta e volontà di prevaricare ad ogni costo e poi vi fa muovere due personaggi magnifici (anzi tre vista l'importanza della regina nell'economia del film).
Per costruire questo mondo in maniera credibile si concentra in maniera gustosissima nei dettagliatissimi interni e nei costumi eccessivi arrivando a vette quasi pornografiche di precisione per poi aggiungere elementi stranianti (idea a mio avviso senza utilità che diventa ridicola solo nel ballo) senza particolare motivo. Per dare vigore e fiato agli interni e aumentare il senso di weirdness riprende con grandangoli quasi ogni scena e frequenti movimenti di macchina.

Un encomio all'intero cast completamente in parte riuscendo a sostenere perfettamente il trio di coprotagoniste che non sbaglia un colpo.

venerdì 12 luglio 2019

Sam sei goon - Johnnie To (1992)

(Id. AKA Justice, my foot!)

Visto in aereo, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Medioevo cinese. Un avvocato abile nell'uso della lingua, nel paradosso e nella manipolazione ottiene un grande successo economico a scapito della vita privata. Lui e la moglie (esperta di arti marziali), infatti, non riescono ad avere figli (in realtà ne hanno molti, ma muoiono tutti ) a causa del "karma" negativo. Per porvi rimedio l'avvocato fa un solenne giuramento, forzato dalla moglie, di ritirarsi dall'attività; sarà proprio la moglie a convincerlo ad accettare un altro caso.

Divertente film comico, parodia dei film in costume che tocca il genere wuxia solo superficialmente e solo per inserire qualche scena di wire-fu.
Le parti più puramente action sono pochissime, molto brevi e mal inquadrate, utili solo a dare caratterizzazione al personaggio femminile.

Dietro la macchina da presa Johnnie To, il Takashi Miike cinese (per numero di film all'anno e varietà di generi, non per stile), confeziona un film godibilissimo, rapido ed efficace, con molti momenti poco credibili e buchi di trama (o pretestuosità) che vengono assorbite dal fluire svelto della vicenda.
La cornice storica è fondamentalmente inutile, così come le arti marziali, messi per questioni di censura o di marketing (non so), a distanza di un quarto di secolo, fanno solo colore.

Nei panni del protagonista maschile un giovane Stephen Chow incredibilmente uguale al cinquantenne che tutti noi conosciamo.

lunedì 13 maggio 2019

In Zeiten des abnehmenden Lichts - Matti Geschonneck (2017)

(Id. AKA In times of fading light)

Visto in aereo, in lingua originale sottotitolato in inglese.

Per il 90esimo compleanno di un importante (ex) esponente del partito comunista (nella Germania est), si riunisce la famiglia con alcuni rappresentanti dei lavoratori, ex colleghi e dignitari; quello che l'anziano non sa è che il nipote è scappato all'ovest solo il giorno prima.

Un film elegante che parla di Segreti e Bugie di una famiglia dai capostipiti rigidissimi con una miccia che fa (lentamente) deflagrare tutti gli asti sopiti. Il tutto viene inserito in un quadro storico particolare, ancora piuttosto sentito in Germania, il declino della DDR riuscendo, in un colpo solo, a dare una botta emozionale per un'era e il senso di tempo che passa ambientandola durante il 1989; discorsi che si uniscono alle medesime dinamiche all'interno della famiglia.
Di fatto il film è un'opera teatrale scritta con grazie (il passo da tragedia è costante, ma delicato) che punta tutto sulla caratterizzazione carica dei personaggi (dando vita a dei piccoli capolavori con la coppia disfunzionale dei grandi anziani) dati in affido a un cast completamente in parte (il grande Ganz fa il paio con l'enorme e rabbiosa Schmahl).

Il film è gestito con estrema competenza e il packaging è inappuntabile, l'effetto finale è di soddisfazione, il tutto senza inventare quasi nulla e facendo leva sul contesto storico.

venerdì 23 novembre 2018

Anna Karenina - Clarence Brown (1935)

(Id.)

Visto in Dvx.


Seconda versione cinematografica del libro di Tolstoj e seconda versione interpretata dalla Garbo (la prima, degli anni '20, era muta).
Personalmente sono un amante dei melodrammi dagli anni '50 in poi, pieni di agnizioni, sentimenti trattenuti e scene madri; mentre sono piuttosto allergico a quelli degli anni '30, più stucchevoli, enfatici e banali e, solitamente, invecchiati male.
Per questa versione di Anna Karenina i presupposti erano dei peggiori; la Garbo veniva spesso usata per i film più reazionari possibili (ancora soffro nel nominare "Grand Hotel" che pure aveva degli spunti buoni). Ecco i difetti supposti sono esattamente quelli che il possiede, ma vengono tutti contenuti in due o tre scene; gli amoreggiamenti sentimentali o le sofferenze dei due amanti insieme vengono motlo contenute in favore della battaglia solitaria della protagonista, momento in cui il film regge molto meglio.

La Garbo è indubbiamente brava a giocare di negazione, ma più che dal treno, viene ammazzata dal doppiaggio italiano che appiatisce e rende la sua performance più banale.
La regia classicheggiante tenta però un dinamismo lodevole; cerca l'nquadratura inusuale per intrudurre alcune sequenze (la partita di croquet) o per rendere più chiaro l'avvenimento inquadrato (il matrimonio) e fa un uso contenuto, am entusiasmante, del dolly e dei carrelli (si veda l'inutile, ma bellissima seuqenza el banchetto inziale o la bellissma e utile camminata di Anna sulle scale mentre lascia la casa).
I personaggi sono macchiettistici e la storia non rimane fedele al libro (cosa non fondamentale), ma incredibilmente il film regge benissimo e la visione riesce a rimanere un'esperienza tra il paicevole e l'ottimale nonostante tutto il mio razzismo.

mercoledì 14 novembre 2018

Terra e libertà - Ken Loach (1995)

(Land and freedom)

Visto in DVD.

Anni '90, un anziano inglese muore, la nipote scopre, nelle sue vecchie lettere, la storia del suo viaggio in Spagna per combattere contro Franco durante la guerra civile. La guerra, la politica, l'amore e l amorte.

Un film di Ken Loach che, tecnicamente è molto poco alla Ken Loach. A livello tematico invece riesce ad essere in linea con l'intento politico del cinema del regista inglese, pur se con dei distinguo.
Si, perché, questo film riesce nella difficile operazione di dare un'aura di eroisma pur mostrando tutti i contrasti interni, gli omicidi intestini e quanto di più antieroico si possa (ok... senza esagerare); un'epica fatta anche di difetti e questo, forse, è la vera forza del film.

Per il resto si tratta di un film storico di guerra molto chiacchierato e poco combattuto; a livello storico è scarsamente significativo perchè, al di là di mostrare una guerra molto sottovalutata fuori dalla Spagna, non spiega nulla. Ma sui dissidi interni alle fronde anti-fasciste da dignità nonostante le gravi conseguenze.
Più che un film storico vero e proprio una grande parabola su quanto sarebbe potuto essere, ma non è stato.

Tutto questo condito con una tale enfasi e un ritmo rilassato che in qualunque momento questo film sarebbe potuto deragliare verso il fallimento; invece Loach (in uno dei suoi momenti migliori) riesce perfettamente a bilanciare gli elementi.

lunedì 12 novembre 2018

Il gobbo di Notre Dame - Jean Delannoy (1956)

(Notre-Dame de Paris)

Visto in Dvx.

La storia del libro di Victor Hugo è stata presa piuttosto pedissequamente con tanto rispetto per il testo scritto.
Il problema di questo film è tutto qui, ha più rispetto per il libro che per il cinema; fa un compitino preciso e pulito, ma non crea niente dal punto di vista visivo.
Se il film degli anni '30 basava tutto sulla componente visiva e sull sorpresa suddividendo l'hype sul trucco di Laughton come Quasimodo, sulle scenografie e sul gioco di luci; questo film invece smonta l'effetto gotico del campanaro trasformandolo in un comune mostrillo senza molto pathos o sofferenza (niente a che vedere con l'espressione sempre dolente del suo predecessore), smonta le scenografie esagerate e inverosimili in favore di uno sforzo notevole comunque (la cattedrale ricostruita) in favore di una normalità insignificante, infine le luci, così come le ombre o la fotografia sembrano essere state dimenticate, i colori differenti che definiscono i vari personaggi sono un espediente già vecchissimo negli anni '50.

L'effetto finale è quello che dicevo, un dramma onesto e pulito, perfetto per la domenica pomeriggio, ma senza alcun motivo di reale interesse che non riesce a trasmettere mai nulla, né l'amore, né il dramma.

PS: cast all star completamente buttato.

lunedì 2 luglio 2018

Scipione l'africano - Carmine Gallone (1937)

(Id.)

Visto in Dvx.

Kolossal fortemente voluto dal fascismo per dare spessore mitico alla, già mitica, storia romana in una guerra vittoriosa nelle terre del nord Africa... l'intento politico è così ingenuamente sfacciato che non ha bisogno di sottolineature.

L'intento politico evidente e l'ancora più evidente sostegno fascista si notano anche nei ripetuti saluti romani e alle inquadrature insistite dell'ascia dentro alla fascina di legno e all'aquila romana.
Al netto dei dettami del regime quello che ne viene fuori è un vero e proprio kolossal.
Un enorme dispiego di comparse, di costumi dettagliati, di scenografie massicce e... pure di elefanti. Ma ancora di più viene fuori l'enorme capacità di Gallone di gestire tutto questo dando il meglio di sé nelle messe in scene di massa e raggiungendo picchi insperati nelle sequenze di battaglia (quella finale con gli elefanti è una delle migliori scene action del cinema degli anni '30 assieme a quelle finali di "Capitan Blood"). Meno interessanti, ma ben gestite le lunghe chicchierate fra una battaglia e l'altra che alternano battibecchi al senato (gestiti come scontri personali), altisonanti dimostrazioni di romanità e relief scene con due personaggi comici messi lì giusto per rendere il tutto più digeribile.
A fronte della modernità delle scene d'azione, invece, risultano invecchiate malissimo le scelte di casting (oggigiorno mai sarebbero stati scelti protagonisti di mezza età dai fisici così strabordanti), ma soprattutto una recitazione teatrale che declama tutto senza quasi mai recitare davvero.

venerdì 27 aprile 2018

I pascoli dell'odio - Michael Curtiz (1940)

(Santa Fe trail)

Visto in Dvx.

Una coppia di amici appena usciti dall'accademia militare degli USA di metà '800 sono mandati nei selvaggi territori del Kentucky (...se non confondo lo stato) dove devono fermare le scorribande armate di John Brown. Dopo varie vicissitudini prenderanno parte al suo arresto.

Film d'avventura e sentimenti firmato da Curtiz che maneggia gli ottimi Flynn e de Havilland pur senza mischiarli mai quanto servirebbe per rendere la loro simpatica storia d'amore come un elemento interessante e non un'obbligo contrattuale. Quello che rimane, dunque, è l'avventura.
Sornione e slavato, il film inizia con le consuete dinamiche dell'eroe americano dell'antagonista ex amico ripudiato; non viene mai fatto un vero sforzo drammatico (seppure la figura di John Brown è quantomai serie e tragica), ma Curtiz sa, quantomeno, gestire bene le scene "action", i combattimenti e le cavalcate. Flynn si muove con la solita destrezza nei panni del solito eroe americano piacione.

Di fatto è un film che può intrattenere bene, anche se con qualche caduta nello sbadiglio, ma che come maggior innovazione porta un opinione terroristica dell'eroe abolizionista (comunque condivisa da parte degli storici) e una (a mio avviso) eccessiva comprensione per le ragioni degli schiavisti. Ah già, poi c'è Reagan che recita e non è neppure fastidioso.

lunedì 26 febbraio 2018

Il filo nascosto - Paul Thomas Anderson (2017)

(Phantom thread)

Visto al cinema.

Una trama esilissima di una ragazza del popolo che si innamora (ricambiata?) di un sarto d'atelier, sicuro, distaccato, volitivo, ma debole. Lui è il suo lavoro che lei venera senza vie di mezzo, lei lo adora lui si distacca sempre più, solo la sofferenza li unisce...

Anderson, al solito, consolida l'idea di un film (più o meno) mainstream realizzato nel miglior modo possibile. Come i capi di vestiario il film è perfetto, impeccabile, elegante e raffinatissimo.
Anderson realizza il miglior cinema possibile, ma come già in "The master" si distacca dai ritmi forsennati di molti suoi film per buttarsi sui personaggi. Ovviamente quando ciò accade il cast diventa vitale e la presenza di Day Lewis diventa vitale (perfetto e controllatissimo, gioca di dettagli più che di scene madri), mentre le comprimarie riescono a essere all'altezza.

Il giocattolo, dunque, appare ben realizzato, con uno sforzo estremo nel costruire scene e interni su cui la macchina da presa passa con sicurezza senza indugiare sugli innumerevoli dettagli, con nonchalance; tutto, dunque è ragionato con una calma intenzionale.
Il problema però è che il gioco intellettuale non cattura, si rimane in disparte, molto interessati per oltre metà, ma a mano a mano che le situazioni si ripetono ci si distacca ulteriormente e il finale (molto malato) non può più essere sufficiente.

venerdì 16 febbraio 2018

Morto Stalin, se ne fa un altro - Armando Iannucci (2017)

(The death of Stalin)

Visto al cinema.


Stalin muore improvvisamente, le massime cariche del partito si ritrovano per decidere come muoversi in maniera unita, mentre dietro le quinte gli stessi personaggi tramano per mettersi l'un l'altro fuori dai giochi.

Iannucci (autore scozzese) è l'ideatore e il realizzatore di alcune serie televisive (di cui ammetto di conoscere solo "Veep") e un solo altro film, tutti improntati sui retro scena della politica (inglese o americana), tutti caratterizzata da un'ironia pervasiva che verte sul paradosso e sul mettere i suoi personaggi in situazioni imbarazzanti e grottesche; il tutto sotto il cappello di una regia documentaristica.

Di fatto Iannucci riproduce i medesimi meccanismi (salvo lo stile di regia), ma li declina in maniera diversa.
L'abuso dei suoi personaggi, il farci ridere per l'imbarazzo o il disgusto che devono provare, per la loro goffaggine o sfiga nel gestire le situazioni più delicate rimane, così come rimane il fulcro sugli intrighi di palazzo; il tutto però è realizzato in un contesto nuovo, l'Unione Sovietica del 1953 (vista con gli occhi di un anglosassone). Certo si ride; si sfottono Chruščëv e Malenkov (meno il gelido Berija), ma l'argomento che si sta trattando è serio, anzi drammatico. Lo humor nero è la vera cifra del film e il sistema con cui si riesce a proseguire nell'ironia sulle epurazioni, ma il passo rimane diverso dai lavori precedenti del regista e il finale si impenna in maniera quasi naturale verso il dramma puro. Ecco, proprio il lento cambio di passo che da film comico passa alla tragedia senza soluzione di continuità è forse uno dei grandi pregi del film.

A fronte del divertimento e del finale efficace anche se di cifra opposta, la parte iniziale del film non riesce, invece, con la stessa capacità a dare il senso dell'incalzare degli eventi e a sfruttare l'enfasi che che sarebbe dovuta, così come nel finale i cambi gli eventi procedono con troppa rapidità senza dare il tempo ai personaggi di motivare completamente le loro azioni o condividere i loro cambi di opinione.

Rimane comunque un film realizzato magnificamente, divertente e con la giusta commistione di sentimenti che parla in maniera leggera di una pagina di storia poco trattata da noi... inoltre è il primo film censurato nella Russia post-sovietica.

Poster pubblicitario che ben riassume
l'intero film

mercoledì 14 febbraio 2018

L'ora più buia - Joe Wright (2017)

(Darkest hour)

Visto al cinema.

Quasi contemporaneo a Nolan (l'uscita nei cinema è successiva, ma il progetto precedente) anche Wright parla della disfatta inglese di Dunkerque e del suo essere utilizzata come volàno per la (futura) ripresa d'orgoglio del Regno Unito.
Wright, però, per parlare della maggiore disfatta bellica inglese decide di spostare l'attenzione dal campo di battaglia alle aule del parlamento. Da film di guerra diventa un film di intrighi di palazzo, un political drama dove la lingua inglese viene mobilitata e spedita in battaglia.

L'effetto complessivo segue il ritorno di fiamma verso i film o serie tv che mostrano i retroscena del potere (politica, ma anche giornali o agenzie pubblicitarie) con tutta l'enfasi che la guerra europea riesce a concedere. Per farlo, però, la sceneggiatura fa l'importante scelta di creare un protagonista (positivissimo) caratterizzato ai limiti del caricaturale con tutta la forza di una mitopoiesi supereroistica (basti l'incipit dove Churchill viene introdotto da persone che parlano di lui, poi i suoi elementi caratteristici, bombetta e sigaro). La creazione di un eroe positivo obbliga alla scelta di distaccarsi dalla totale realtà storica (che nessuno ha richiesto in realtà) in favore di una versione personale (operazione simile, ma forse meno "aggressiva", a quella di "Il mio Godard").

Dietro la macchina da presa Wright continua un discorso in linea con i film precedenti, estetica pulitissima, fotografia carica, grandissimo utilizzo del sonoro (qui, forse, meno sfacciato che nei precedenti, ma non per questo meno importante) e svolazzi impossibili della macchina da presa. Come sempre il controllo dell'autore è totale e si può permettere l'utilizzo di tutta l'enfasi possibile (in fondo si parla della guerra contro Hitler) senza colpo ferire... o quasi. Perché, in effetti, il film sopporta molto le caratterizzazioni, i buoni che si coagulano attorno a un uomo forte, ma insicuro, i passi falsi, la rabbia per l'impotenza e i discorsi che dovrebbero smuovere lo spirito... però crolla orribilmente quando decide di gettare la maschera della verosimiglianza e decide di darci dentro con la demagogia facendo scendere Chruchill in metropolitana; lì avverrà la sequenza più reazionaria e banale del film e il salto dello squalo definitivo, per fortuna è a un passo dalla fine.

Ottima l'interpretazione di Oldman, per l'ennesima volta camaleontico, ma stavolta non solo grazie alla sua capacità di mimetismo con la sola recitazione, ma anche con un trucco pesantissimo (ma impeccabile).

venerdì 9 febbraio 2018

The post - Steven Spielberg (2017)

(Id.)

Visto al cinema.

I film d'inchiesta giornalistica sono un vero e proprio genere negli USA dove il tema della libertà di stampa è molto sentito (almeno in teoria) e le inchieste sono fatte veramente.
Spielberg però sembra cavalcare i cliché solo parzialmente. Partendo da una fuga di informazioni riservate, avvenuta negli anni '70, circa il coinvolgimento USA nell'affaire Vietnam fin dagli anni '50 si mostra la pubblicazione di parte di quei documenti sul New York Time (un giornale potente anche allora), il blocco da parte del presidente tramite un giudice e la volontà del redattore del Washington Post (un giornale di zona all'epoca dei fatti) di continuare la pubblicazione a staffetta nonostante l'ingiunzione. Ecco il film è tutto giocato sul dilemma di rischiare soldi, reputazione e carcere per far uscire quelle notizie; l'indagine giornalistica non c'è.
Si torna quindi nella ricostruzione storica e nel dilemma morale fra ciò che è giusto e il danno personale che tanto piace a quel sentimentalone di Spielberg.
Naturalmente non è tutto qua. Questo canovaccio è la tela su cui viene dipinto il vero argomento del film: la lotta di una donna contro un mondo maschilista. La situazione peculiare dell'editrice del giornale, unica donna in un mondo molto maschile e chiuso (quello dei proprietari di giornali, ma anche della politica, degli affari e delle banche), la sua situazione è esplicitata in 3 dialoghi (in realtà uno è il monologo della moglie del redattore), ma è continuamente sottolineata dalle immagini. Ecco dunque che il vero Spielberg viene fuori; con la gestione delle inquadrature, i dialoghi accavallati, la posizione della Streep rispetto agli altri attori (uomini) si mostra l'ambiente sociale reprimente; con le sale del potere tutte maschili con donne lasciate fuori dalle porte e un'unica gonna ammessa si allarga il contesto, infine con la camminata silenziosa di una donna tra le donne si suggerisce la vittoria del bene (come sempre).

Al di là del significato Spielberg lavora con la macchina da presa in maniera encomiabile rendendo la frenesia di una redazione con quella del dolly, ma soprattutto da vita a sequenze di altissima emotività creandole letteralmente dal nulla: riesce a rendere dinamica la costruzione di un articolo, addirittura fino alla correzione di bozze; riesce a dare la sensazione di vittoria con la vibrazione dei macchinari sulle scrivanie, riesce a emozionare (come già si diceva) con una camminata silenziosa o con il lavorio di una pressa. Non si poteva chiedere di più